La letteratura cinese tra passato e globalizzazione
All’inizio del 21° sec. nell’ambito della produzione letteraria cinese sono giunte a maturazione alcune tendenze che si erano delineate a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. L’analisi del panorama narrativo fa emergere due grandi sfere d’interesse, due preoccupazioni, due tensioni all’interno delle quali è riconducibile tale produzione e che possono, generalizzando, essere individuate nell’attenzione al passato e nelle conseguenze della globalizzazione.
L’attenzione al passato
Il gran numero di opere orientate verso il passato lo individua come il luogo principe dell’immaginario per molti autori contemporanei. L’approccio alla sua riscrittura ha subito un’evoluzione e ha assunto oggi un valore e un significato diversi da quelli che aveva avuto negli anni Ottanta. Va sottolineato il fatto che lo ‘sguardo indietro’ non equivale a una sterile operazione nostalgica, di rimpianto o attaccamento a qualcosa di definitivamente perduto ma è, al contrario, una visione vitale che rivela l’interpretazione che gli scrittori hanno del presente, poiché si tratta di una sua rielaborazione alla luce delle ansie moderne.
L’attenzione al passato era già emersa negli anni Ottanta, dopo che era stata dichiarata conclusa la Rivoluzione culturale e il Paese si era avviato verso la politica delle riforme. La necessità di ricostituire un’identità culturale aprì una profonda riflessione sulla storia della Cina e sul carattere nazionale del suo popolo. La narrativa si avventurò alla ‘ricerca delle radici’ per recuperare la tradizione e l’essenza dell’ethos cinese. Gli scrittori s’interrogarono sull’esistenza di una struttura profonda della mentalità cinese, frutto delle stratificazioni di una cultura millenaria. Bisognava esplorarne gli aspetti negati, attaccati e rimossi che erano invece rimasti vivi e costituivano i tratti di base di un supposto carattere nazionale, e ricollegarsi a quelli riprendendo le fila del discorso interrotto dalla rivoluzione. C’era anche, fortissimo, il bisogno di raccontare di nuovo la storia ma dalla parte della gente che l’aveva vissuta e non degli eroi del realismo socialista, di riavvicinare gli eventi storici e la letteratura alla realtà, alla verità, in altre parole di denunciare i torti e le atrocità commesse e mettere in primo piano la memoria personale e familiare contro le versioni agiografiche sostenute dal partito.
Riflettere sul passato serviva a capire, a ricostruire una coscienza collettiva, a superare il trauma profondo che i movimenti politici avevano portato nella vita e negli affetti della gente.
Dopo il breve periodo di stagnazione seguito al massacro di Tian’anmen del 1989, la ripresa della politica delle riforme ha premuto l’acceleratore sullo sviluppo generando un autentico boom economico. Il Paese vive attualmente una situazione da ‘socialismo postmoderno’, dove un’economia di mercato sostanzialmente capitalista viene regolata da un partito unico che si dichiara marxista-leninista, mentre nella società in rapida evoluzione dominano il consumismo, l’arricchimento, i mezzi di comunicazione di massa e le nuove tecnologie. La letteratura si è trovata di fronte a una crisi profonda. Il divorzio tra Stato e società, reso definitivo dal massacro di Tian’anmen, è divenuto la premessa di un altro traumatico divorzio, quello tra scrittore e società. La condizione postmoderna ha segnato la crisi profonda dell’intellettuale, relegandolo ai margini; non potendo più farsi interprete di alcun credo, lo scrittore ha finito per ripiegarsi su sé stesso e per guardare con sospetto al mondo esterno, dominato dal materialismo, dal mercato, dal denaro. La fine di un discorso omogeneizzante (percepito come potenziale di creatività negli anni Ottanta, ancora sotto lo shock della Rivoluzione culturale) viene vissuta oggi avvertendo un forte senso di privazione, di vuoto e di marginalizzazione.
L’attenzione al passato ha cambiato valore e obiettivo: testimonia, infatti, una forma di resistenza al materialismo-consumismo dominante e che tutto corrompe; si è trasformata in una critica dell’‘economia di mercato socialista’. Il bisogno di raccontare in modo nuovo la storia si lega alla preoccupazione di vederla sparire, o quanto meno di vederne annacquati i contenuti; narrare il trauma forzatamente rimosso, evocarlo è anche un modo per dissentire dal diffuso credo che l’economia di mercato guarirà qualunque cosa. In un Paese che non ha ancora fatto i conti con le responsabilità della sua storia e che corre velocemente verso un futuro di benessere e ricchezza, è più facile lasciarsi andare alla tentazione dell’oblio suggerito dal governo. Le nuove generazioni ignorano tutto dei rivolgimenti del passato e se ne disinteressano completamente. La maggior parte degli scrittori impegnati a riscrivere il passato appartiene a generazioni che hanno vissuto la Rivoluzione culturale, possiedono un senso della storia, temono la perdita delle radici e dunque vedono in esso non tanto un rifugio, quanto un ancoraggio contro l’amnesia necessario per valutare e costruire il presente: in nome della memoria culturale e del senso sociale della provenienza.
Ovviamente non c’è un progetto comune e nessuno degli scrittori qui ricordati ammetterebbe di avere una preoccupazione diversa da quella di descrivere la vita dei suoi personaggi: è un processo altamente inconsapevole e per questo più rivelatore.
L’approccio alla storia di Mo Yan
Alcuni autori già molto affermati ripropongono nei primi anni del 21° sec. la narrazione della storia della Cina, sia attraverso grandi affreschi diacronici sia tramite la rilettura di eventi chiave. Il celebre scrittore Mo Yan (n. 1955) ha pubblicato nel 2001 Tangxiang xing (trad. it. Il supplizio del legno di sandalo, 2005) e nel 2006 Sheng si pilao (La fatica di vivere). Tangxiang xing racconta la Cina profonda e arcaica al suo primo vero impatto con la modernità, che si presenta nella duplice forma, straordinaria e distruttiva, rappresentata dalla ferrovia imposta dagli invasori stranieri. Siamo agli inizi del Novecento, le potenze coloniali strappano territori al dominio dell’Impero che, impotente, si avvia al disfacimento. Sono i tempi della rivolta dei Boxer, la società segreta di origine popolare e contadina che si diceva utilizzasse un tipo di pugilato magico. Combatteva gli invasori stranieri e, in un primo momento, aveva goduto del sostegno della corte ma poi, dopo il sacco di Pechino (1900) da parte degli eserciti occidentali, era stata messa fuori legge e sanguinosamente repressa da Yuan Shikai, signore della guerra ed emissario del potere imperiale. La provincia dello Shandong era sotto il controllo dei tedeschi che, per costruire la ferrovia Jiaozhou-Jinan, rimuovevano le tombe degli avi sconvolgendo i principi del fengshui (ossia la disciplina che mira all’equilibrio con l’ambiente) e provocando l’indignazione della popolazione locale. Nel romanzo il protagonista, Sun Bing, capo di una compagnia di ‘opera dei gatti’ (sorta di melodramma di antica tradizione) tipica della zona, guida una ribellione aiutato da due membri dei Boxer, che insegnano le arti magiche ai contadini. Sconfitto e catturato, Sun Bing viene condannato a un supplizio speciale, quello del legno di sandalo, una pena atroce che deve tenerlo in vita il tempo necessario per mostrarlo come trofeo durante la cerimonia per il completamento della ferrovia.
Mo Yan convoglia il grande magma della sua scrittura in una struttura narrativa antica, che ripropone il modello della letteratura popolare. L’autore stesso assimila il suo romanzo al corpo di un animale ibrido costituito da parti diverse: la testa è della fenice, il busto è del maiale e la coda della pantera. La testa del mitico uccello che risorge dalle sue ceneri, piccola e acuminata, rappresenta l’inizio, spedito e diretto, che introduce tema e personaggi e pone le basi dello sviluppo dell’intreccio e dunque della successiva metamorfosi. Il corpo del maiale, massiccio e prezioso, contiene gli episodi che elaborano la storia vera e propria, mentre la coda della pantera segna l’epilogo, sottile e guizzante, pieno di sorprese e colpi di scena. Come lo ha definito lui stesso: «Nel contesto attuale della letteratura cinese, caratterizzato dall’imitazione delle forme narrative straniere che hanno soffocato la tradizione della letteratura popolare, Tangxiang xing è probabilmente un’opera anacronistica. Va vista come una ripresa delle modalità narrative tradizionali, quasi un deliberato attimo di sospensione e di ritirata nella mia evoluzione di scrittore» (postfazione dell’autore a Tangxiang xing, 2001; trad. it. Il supplizio del legno di sandalo, 2005, p. 518).
Mentre questo romanzo si concentra su un episodio della storia cinese, il successivo Sheng si pilao affronta cinquant’anni di cambiamenti del Paese, dal 1950 al 2000, e s’ispira alla teoria buddhista della reincarnazione. Il titolo, infatti, si riferisce alla ‘Seconda nobile verità’ predicata nel Sutra dell’Illuminazione dal Buddha Gotama: la fatica di vivere è causata dall’avidità e diminuire il desiderio e praticare la ‘non azione’ servono a liberare l’anima e il corpo.
La storia si svolge a Ximentun, un villaggio situato nella zona a nord-est di Gaomi, terra d’origine e patria letteraria di Mo Yan, e narra le reincarnazioni del proprietario terriero Ximen Nao. Reincarnandosi gli uomini dovrebbero dimenticare il passato e liberarsi progressivamente dalle pulsioni, dal desiderio, dall’odio e dalla sete di vendetta. Contrariamente alle aspettative, Ximen Nao vive le sue successive esistenze come asino, toro, maiale, cane e scimmia trascinandosi dietro il peso del ricordo. L’impossibilità di dimenticare del protagonista, e dunque del popolo cinese, genera la fatica di vivere.
Mo Yan denuncia l’indebolimento della concezione tradizionale cinese che poneva la terra al centro della vita dell’uomo e del Paese. Nel romanzo si raccontano le varie tappe dell’organizzazione rurale sotto il sistema comunista: dalla riforma agraria alla fine della guerra civile, all’istituzione delle cooperative agricole, agli estremismi del Grande balzo, alla carestia degli inizi degli anni Sessanta, alla creazione delle comuni popolari fino allo smantellamento dell’economia collettiva con la politica delle riforme e il trionfo del ‘socialismo di mercato’. Il libro illustra i grandi cambiamenti della Cina collegati alla questione della terra che, una volta tanto ambita, oggi è stata abbandonata dai contadini pronti a rincorrere il miraggio della ricchezza nelle città. Alle mutazioni continue delle reincarnazioni e degli sviluppi storici della Cina si contrappongono l’ostinazione e l’immobilità del contadino Lan Lian che, fino alla morte, rifiuta di entrare nella comune e di separarsi dalla terra, sua ragione di vita e valore essenziale di ogni contadino.
I testimoni muti di queste trasformazioni epocali sono gli animali. Mo Yan ripropone così un tema a lui caro: la commistione fra mondo umano e mondo animale, la labilità dei loro confini, la facilità dell’uomo di mutarsi in bestia e viceversa, che aveva avuto in Tangxiang xing la sua massima espressione.
I due romanzi erano stati preceduti da Feng ru fei tun (1996; trad. it. Grande seno, fianchi larghi, 2002) che tratteggia un affresco della Cina a partire dagli inizi del Novecento fino ai giorni nostri, raccontato attraverso le vicende di una madre coraggiosa e dei suoi nove figli, otto femmine e un unico maschio, che ne è anche la voce narrante. Sposata a un uomo sterile, la madre mette al mondo i nove figli con sette uomini diversi nella speranza di avere l’agognato maschio, che nella morale tradizionale era il solo a poter continuare la stirpe. Il maschio che nasce, Jintong, letteralmente il «bambino d’oro», è il frutto dell’incontro con un missionario occidentale e se fisicamente è alto e bello, è tuttavia un debole che dipenderà dal seno femminile per tutta la vita: da piccolo viene allattato fino a otto anni e, divenuto adulto, aprirà un negozio di reggiseni. Il personaggio ha un valore simbolico, in quanto rappresenta una generazione di cinesi che in un certo periodo della storia ha perso la virilità, è diventata debole, non si è assunta le proprie responsabilità e si è invece completamente appoggiata alle donne cannibalizzandole. Mentre la madre rappresenta la terra, la Cina profonda, una stirpe eroica e leggendaria anche se selvaggia e immorale (non la Cina confuciana ma quella dei banditi-ribelli del celebre romanzo Shuihu zhuan, Storia della palude, della fine del 14° sec.), l’unico figlio maschio, per il quale la donna ha sacrificato l’intera vita, è l’immagine della Cina di oggi, priva di morale.
I ‘Fratelli’ di Yu Hua
A realizzare grandi affreschi della storia cinese si è dedicato anche Yu Hua (n. 1960) che, dopo un lungo periodo di silenzio, ha pubblicato Xiongdi (2005-06; trad. it. Brothers, 2008), un romanzo fiume di oltre settecento pagine (pubblicato in Cina in due volumi a distanza di qualche mese uno dall’altro) che ha riscosso un successo di pubblico straordinario diventando un best seller. La vicenda, che prende avvio dalla Rivoluzione culturale e arriva sino ai giorni nostri, racconta la storia di due fratellastri dai caratteri diametralmente opposti: Li Guangtou, rozzo, rissoso, furbo, abile, arrogante, spavaldo, e Song Gang, ligio al dovere, sincero, onesto, leale, timido, sensibile. Mentre il primo diventerà miliardario sfruttando le proprie capacità e la politica delle riforme, l’altro, licenziato dalla fabbrica in cui lavora, troverà unicamente occupazioni sempre più umili e faticose. Quando quest’ultimo, tornato a casa, intuirà che la moglie ha intrecciato una relazione con il fratellastro, si suiciderà. La solidarietà che aveva unito i due fratelli durante i tempi cupi e dolorosi della Rivoluzione culturale si dissolve quindi con l’avvento della nuova era. I loro destini si dividono e l’affetto si tramuta in risentimento proprio quando Song Gang sposa la bella del paese, Li Hong, che Li Guangtou ha inutilmente cercato di conquistare.
Li Guangtou si arricchisce inizialmente raccogliendo l’immondizia, poi amplia le sue attività fino a diventare costruttore: potrà abbattere le case della vecchia cittadina e ricostruirla diventando in breve il padrone della città. Nel raccontare l’ascesa del neocapitalista cinese, Yu Hua calca la mano sugli aspetti più volgari, collegando quest’ascesa alla mercificazione degli individui attraverso il sesso. Il sesso è presente nel libro fin dal momento in cui si narra della Rivoluzione culturale, quando Li Guangtou si reca nei bagni pubblici per spiare le donne, ma nell’era delle riforme diventa uno strumento di affermazione del potere e di spettacolarizzazione dell’esistenza.
Probabilmente questa insistita attenzione al sesso ha contribuito al successo del libro e, anche se Yu Hua ha sostenuto – in parte in sua difesa – che la volgarità, l’eccesso, il cattivo gusto che dipinge sono quelli che vede tutti i giorni e che giustificano l’identità tra forma e contenuto del libro, non vi è dubbio che gli aspetti grotteschi perdono mordente quando non li si controlla e l’effetto, invece che graffiante, rischia in tal modo di diventare compiacente.
Ciò che interessa sottolineare è la profonda critica nei confronti della realtà contemporanea cinese che emerge dal romanzo. I due fratellastri incarnano due realtà: quella capitalista e quella di chi non ce la fa e resta indietro. Eppure entrambe sembrano destinate a non avere un futuro: Li Guangtou si fa sterilizzare mentre Song Gang, pur sposato, non ha figli. L’autore vuole mostrare come la società cinese sia passata da un estremo all’altro, trasformandosi da Paese puritano e ideologicamente repressivo a Paese degradato, dove tutti sono in vendita.
Si tratta della stessa feroce critica espressa da Mo Yan quando in Jintong (personaggio di Feng ru fei tun) vede il rappresentante di una stirpe ormai debole, che ha perso la virilità e l’identità come risultato dall’incontro con l’Occidente.
L’avidità, la vanità, il narcisismo, la scomparsa dei valori rivoluzionari sostituiti dalla corsa all’oro, la fine della solidarietà e la lotta di tutti contro tutti sono fonte di un’ansia profonda che si riflette nelle opere letterarie. Gli scrittori sembrano avere bisogno di partire da lontano, dalla vecchia Cina o dalla Rivoluzione culturale, per affrontare la decadenza dell’ethos cinese e per mettere a fuoco l’oggi che appare ancora più folle delle follie dell’era maoista. Periodi storici perfettamente contraddittori eppure intimamente legati.
Wang Anyi e Changhenge
Uno dei primi romanzi a esprimere un sentimento di ambiguità e sospetto nei confronti della modernizzazione è stato Changhenge (La canzone dell’eterno rimpianto, 1996) di Wang Anyi (n. 1954), uno dei testi più importanti degli anni Novanta, insignito del prestigioso premio Mao Dun nel 2000. Il titolo è quello di una celeberrima poesia di Bai Juyi, poeta di epoca Tang, scritta per celebrare il dolore e il rimpianto dell’imperatore per la morte della sua concubina favorita, Yang Guifei, vera icona della bellezza femminile. Con questa scelta la scrittrice compie un’operazione di esplicito richiamo al passato, inserendo il libro in una ben individuata tradizione letteraria ed esplicitando la matrice dell’ispirazione poetica.
Il romanzo racconta la vita di Wang Qiyao a Shanghai scandita attraverso tre fasi della storia cinese: gli anni della Cina nazionalista, dal 1945 al 1948, quando la città era considerata la Parigi d’Oriente; gli anni dell’avvento del comunismo, dal 1957 fino all’imporsi della Rivoluzione culturale; l’epoca delle riforme, a partire dal 1976 fino al 1986.
Nella Shanghai cosmopolita e brillante del periodo precedente la Liberazione, Wang Qiyao tenterà la strada del cinema e sarà eletta terza miss a un concorso di bellezza. La giovane riesce a raggiungere la notorietà perché con la sua bellezza incarna un tipo di fascino ‘quotidiano’, quello che si può incontrare per strada tutti i giorni e che sintetizza lo spirito della città, elegante ma non vistoso. Scoperta da un fotografo che l’ama, e non sarà mai ricambiato, diventa la mantenuta di un uomo di potere, il Direttore Li, che la fa vivere nell’ovattata residenza Alice (dove sono raccolti questi ‘fiori della società’). Il momento storico è foriero per la Cina di grandi rivolgimenti che finiscono per sconvolgere l’esistenza di Wang Qiyao: il Direttore Li muore in un incidente aereo, lei è costretta a lasciare la residenza Alice portando via solo una scatola di legno scolpito alla spagnola che contiene lingotti d’oro, eredità di Li. Con la rivoluzione e l’instaurazione del regime comunista, Wang Qiyao si reinventa un’esistenza all’ombra dei grandi eventi. Riesce a mantenersi facendo iniezioni e raduna intorno a sé un piccolo circolo di amici con i quali passa il tempo cucinando, giocando a majiang e chiacchierando attorno a una stufa. Una vita fatta di dettagli, di piccoli piaceri cercati da persone alienate dal flusso dominante nella società. Con l’inaugurazione della politica delle riforme, a poco a poco torna a emergere la vecchia Shanghai: la moda, le vetrine, lo stile, le luci al neon, i ristoranti, le feste, i balli. Wang Qiyao, passata indenne attraverso la Rivoluzione culturale, appare un emblema della città e come tale viene invitata alle feste degli amici della figlia. Uno di questi, povero e intossicato dallo splendore di quella vita, cercherà di rubare alcuni lingotti d’oro che sono rimasti alla donna e, una volta scoperto, la ucciderà.
Oltre che nella complessità e ricchezza dei piani interpretativi, la grandezza del libro risiede soprattutto nella scrittura e nello spazio interiore che viene posto in primo piano. Nessun altro autore contemporaneo ha utilizzato la lingua con la ricchezza espressiva di Wang Anyi e questo romanzo rappresenta un caso unico anche nella produzione della scrittrice che per altre sue opere ha preferito utilizzare una scrittura molto più semplice e lineare. In questa invece la lingua sembra crescere su sé stessa, riuscendo a cogliere le diverse sfumature. Changhenge è un romanzo psicologico che approfondisce i sentimenti con maestria e delicatezza cogliendo la complessità delle dinamiche umane. Un romanzo in cui, oltre a Wang Qiyao e Shanghai, sono protagonisti il tempo che passa, ciò che resiste e ciò che soccombe al suo passaggio.
Wang Anyi si è fieramente opposta alle prevalenti interpretazioni della critica cinese che hanno definito Changhenge un libro nostalgico. In effetti, non si tratta del vagheggiamento di un’epoca passata evocata solo in funzione del successivo sviluppo della storia (il primo palcoscenico di Wang Qiyao) la cui parabola si conclude con la Cina delle riforme. Sopravvissuta indenne alle catastrofi e ai vari movimenti succedutisi nel Paese, Wang Qiyao soccombe nel periodo della ‘normalizzazione’; la sua tragica morte sembra essere il prezzo della nuova corsa allo sviluppo, della ricerca della ricchezza, più devastanti della rivoluzione nel loro impatto sulla società cinese.
Il passato postmoderno di Liu Sola
Liu Sola (n. 1955), musicista e scrittrice, ha pubblicato nel 2000 Da Ji jia de xiao gushi (trad. it. La piccola storia della grande famiglia Ji, 2008), romanzo nel quale, attraverso le vicende della famiglia Ji, ripercorre la storia della Cina e reinterpreta l’epopea del vittorioso Partito comunista. L’autrice utilizza una struttura narrativa che mescola leggende, racconti fantastici, diari, canovacci teatrali, sceneggiature, articoli di giornale, documenti, canzoni, tanto da poter esser definita postmoderna.
La storia è ambientata nel futuro. Nel 2100 d.C. un meteorite cade sulla Terra distruggendo la civiltà moderna. Nel 4000 d.C. il clan Jidehu intraprende una lunghissima marcia dall’Ovest all’Est del pianeta issando un vessillo sul quale è scritto ‘La strada di Dio’. Il loro cammino li porta alle pendici di un grande muro (la Grande Muraglia), dove incontrano i cinesi, gli Han, che danno loro nuovi nomi di famiglia e li accompagnano sulla misteriosa isola Dadao (la grande isola), sempre avvolta dalla nebbia, che diventa la loro dimora. Inizia così la saga della famiglia Ji che, narrata come la storia degli uomini del futuro, in realtà racconta le principali vicende della Cina, dall’antichità all’era moderna, passando attraverso la costituzione del potere dei mandarini, l’arrivo degli occidentali, la guerra di liberazione e, infine, l’instaurazione del potere comunista.
Il romanzo è un controcanto della storia ufficiale, che rivela come questa sia piena di salti, omissioni e menzogne, e come il partito, fin dai suoi esordi ai tempi della guerra di liberazione, abbia divorato i suoi stessi figli. Il nucleo del libro, che s’interroga sulla fede totale in un ideale fino alla negazione di sé e della verità, è la storia di un tradimento e del suo occultamento, complici le sue stesse vittime.
Un grande affresco alla Mo Yan, ma anche alla Gabriel García Márquez, nel quale il mondo dei vivi e quello dei morti appaiono in continua comunicazione attraverso i sogni, le reincarnazioni, ma anche la nascita di creature soprannaturali.
Su Tong e il mito
Su Tong (n. 1963) ha sempre ambientato le sue storie nel passato, spaziando in varie epoche e tra vari temi. Con Qi qie chengqun (1989; trad. it. Mogli e concubine, 1992), ambientato nella Cina degli anni Venti-Trenta, aveva raccontato la rivalità fra le mogli e le concubine per la conquista del primo posto nel cuore dello sposo e i suoi tragici esiti; mentre con Hongfen (1991; trad. it. Cipria, 1993) aveva affrontato il tema della ‘rieducazione’ di due prostitute dopo la presa del potere del comunismo. Con Wo de huangdi shengya (2004; trad. it. Quando ero imperatore, 2004) risale ancora più indietro nel tempo per narrare il caso di un imperatore che non sarebbe dovuto diventare imperatore e che alla fine si trasforma in un saltimbanco. Ispirato dai racconti ritmati dei cantastorie di Suzhou, sua città natale, Su Tong ha mescolato storie risalenti a epoche diverse per realizzare quello che viene da lui descritto come un ‘sogno a occhi aperti’ e non un romanzo storico. Tutte le sue opere nascono in effetti da simili suggestioni, in quanto non risultano frutto della memoria, né si basano su ampie e circostanziate ricerche d’archivio, poiché non è tanto l’operazione storica a interessarlo, quanto quella letteraria. In questo caso, risalendo indietro nel tempo, lo scrittore rivisita un mito, quello di Meng Jiangnü. L’occasione è nata dal progetto Myth series della casa editrice inglese Canongate, che ha invitato alcuni noti scrittori di tutto il mondo – tra i quali David Grossman, Margaret Atwood, Victor Pelevin, Michel Faber – a riscrivere gli antichi miti della propria cultura.
Nel 2006 Su Tong ha pubblicato Binu, dal nome della protagonista, in cui si narra la storia di una donna che parte alla ricerca dell’amato marito, portato via a forza dalle truppe dell’imperatore per lavorare alla costruzione di un altro grande mito della cultura cinese: la Grande Muraglia. Binu è cresciuta in un paese di montagna dove è proibito piangere, perché alla morte dello zio dell’imperatore, mandato lì in esilio, quest’ultimo aveva fatto uccidere trecento abitanti che lo avevano pianto. Da quel momento la gente aveva imparato a controllare il dolore e a far sgorgare le lacrime dai capelli o dalle orecchie, cercando di mimetizzarle. Afflitta dalla lontananza del marito, Binu decide di raggiungerlo per portargli degli abiti invernali. Il viaggio della donna si trasforma in una sorta di percorso iniziatico, costellato da mille difficoltà ed eventi fantastici. Sua unica compagna sarà una rana cieca, reincarnazione di una madre alla ricerca del figlio disperso. Grazie alla sua determinazione, Binu arriverà alla Grande Muraglia per scoprire che il marito è morto ed è stato seppellito sotto al muro. Il pianto dirotto di Binu farà crollare una parte della fortificazione portando alla luce i resti dell’uomo.
Ancora una volta Su Tong racconta una figura femminile, una donna semplice e determinata, animata dall’amore e dalla pietà. Difficile non leggere una metafora dietro al fatto che le lacrime proibite e represse si trasformano alla fine in una piena destinata a travolgere il simbolo per eccellenza della solidità: un’immagine potente volta a sottolineare la forza che si può celare nell’estrema debolezza.
Le conseguenze della globalizzazione
L’imporsi dell’economia nel ‘socialismo’ ha determinato un cambiamento epocale del ruolo sociale dello scrittore e del mondo editoriale. Le case editrici si sono andate privatizzando, così come la distribuzione (che un tempo avveniva attraverso le librerie di Stato Xinhua), e, non potendo più contare sui sussidi pubblici, gli editori hanno messo al primo posto la vendibilità di un libro. Gli scrittori hanno dovuto necessariamente confrontarsi con la constatazione che fattori diversi rispetto alla qualità possono influire sulla pubblicazione di un’opera. Gli scrittori sono stati messi in secondo piano dalla televisione e dalle pubblicazioni di massa, che hanno assorbito una grande fetta di lettori, e hanno perduto la loro funzione di educatori ma anche quella di intrattenitori. E mentre le vecchie generazioni faticano a tenere il passo, o meglio ‘resistono’ decise a portare avanti il loro discorso letterario a scapito del numero decrescente di lettori, si sono affacciate sulla scena nuove generazioni pronte ad approfittare dei nuovi spazi e delle nuove possibilità che si sono aperte. Una delle conseguenze più marcate di questo cambiamento è stata la nascita di una narrativa soggettiva e intimista. Gli autori cinesi contemporanei non sono più i portavoce di istanze ideali o storiche, di fasce sociali o di generazioni, non si arrogano più il compito di indirizzare la società e i lettori. Si è, infatti, definitivamente conclusa la loro funzione ‘illuminista’ e il mito dell’umanesimo. Sono invece rivolti verso sé stessi, verso la propria esistenza, la propria anima, che dilatano fino a farla diventare un mondo. La narrativa non interpreta più il presente, ne racconta frammenti, stati d’animo individuali, riporta memorie di avvenimenti personali, o elabora costruzioni metafisiche, astratte, oscure, seppure ben scritte. Il racconto sull’individuo non è centrato sull’analisi, sull’autoanalisi o l’introspezione: l’io appare più vuoto che pieno, senza punti di riferimento, errante e totalmente superficiale.
Mian Mian e Zhou Weihui: la ‘letteratura delle belle donne’
«Questa è un’epoca dove nessuno rappresenta nessuno, nella quale non ci sono idoli, ogni vita è diversa dalle altre, ognuno rappresenta solo sé stesso» sostiene Mian Mian (n. 1975), una delle autrici ‘scandalo’ che incarna molto bene questa nuova tendenza definita, in termini denigratori, letteratura delle belle donne. E continua: «La mia scrittura ha rapporto con la mia vita, ma questa non ha rapporto con i lettori» (intervista a Mian Mian di M.R. Masci). In La la la (1997; trad. it. Nove oggetti del desiderio, 2001) racconta la «giovinezza crudele» e il malessere di un sottobosco giovanile che mal si combina con il dominante ottimismo della Cina delle riforme. Un mondo caratterizzato dalla musica rock, da storie d’amore laceranti, da complicati incontri sessuali, dalla violenza, dalla realtà di una gioventù che viene gettata via e si consuma tra alcool, droga e suicidi. Un panorama urbano notturno che si snoda fra bar, discoteche, concerti rock, alberghi o strade affollate di Shanghai, Shenzhen e Pechino. Prodotto della cultura degli anni Novanta, consumista ed edonista, tale scenario vuole rappresentarne tuttavia il controcanto amaro, le frange marginali, il lato oscuro.
Colpisce nei suoi racconti la mancanza di riferimenti alla cultura cinese e le tante citazioni di quella occidentale, dalla musica alla letteratura. La scrittrice riporta i testi delle canzoni dei Pink Floyd e dei Doors (ma concede spazio anche alle canzoni dei gruppi grunge cinesi, come gli Eclissi di luna), cita i Nirvana, ma anche la cultura americana degli anni Sessanta e Allen Ginsberg. Siamo di fronte al primo fenomeno di narrativa globalizzata, prodotta non a caso a Shanghai, che cerca di incarnare il sentimento della modernità cosmopolita della Cina del 21° secolo.
Anche Zhou Weihui (n. 1973), diventata famosa per Shanghai baobei (2000; trad. it. Shanghai baby, 2001), è di Shanghai, scrive di sesso ed è filoccidentale. Il romanzo narra la storia di Coco, aspirante scrittrice, divisa fra l’amore per un sensibile ma impotente giovane cinese, Tian Tian, e la sua relazione fortemente erotica con un uomo d’affari tedesco sposato, Mark. Ogni capitolo è aperto dalla ricercata citazione di un artista rigorosamente occidentale, cantante, scrittore, attore o poeta: Joni Mitchell, Henry Miller, Marilyn Monroe, Dylan Thomas, Virginia Woolf, Van Morrison e tanti altri.
Fra Mian Mian e Zhou Weihui si è anche scatenata una furiosa polemica su quale delle due avesse copiato l’altra via Internet, polemica che ha occupato i siti letterari dei principali portali cinesi, Sohu e Netease, soprattutto perché ne sono state protagoniste due giovani donne disinibite, pronte a discutere con disinvoltura di letteratura, sesso e demi-monde shanghaiese.
Nonostante le apparenti somiglianze, le due scrittrici hanno un orientamento profondamente diverso: mentre Mian Mian incarna le frange marginali della nuova società, sbandate, pessimiste, senza alcuna direzione, Zhou Weihui è l’esponente di una letteratura destinata alla nuova classe yuppie urbana, audace, ottimista, proiettata verso il futuro.
Ciò appare confermato anche dall’ultimo romanzo di Zhou Weihui, Wo de Fo (2005; trad. it. Sposerò Buddha, 2005). Vi ritroviamo Coco, scrittrice ormai affermata, invitata da una prestigiosa università a soggiornare per alcuni mesi a New York e impegnata a promuovere il suo libro in Spagna e Argentina. A New York incontra un giapponese, Muju, con il quale intreccia un’appassionata storia che sembra essere vero amore, ma che la giovane ben presto metterà in discussione. Mentre «l’amore si allontana piano piano», finirà per cedere alla corte serrata di un magnetico playboy, Nick, un quarantacinquenne «più bello di George Clooney», che indossa sempre completi Armani. Alla fine della storia, Coco si ritroverà di nuovo sola e si scoprirà incinta senza sapere chi dei due uomini sia il padre.
Zhou Weihui appartiene al milieu urbano dei giovani di buona famiglia, i figli dei figli della Rivoluzione culturale, privi delle ipoteche ideologiche del recente passato cinese che alle nuove generazioni appare lontanissimo. E anche la politica è talmente lontana che pur se Coco arriva a New York pochi giorni dopo l’attentato alle Twin Towers, l’evento viene registrato con considerazioni del tutto superficiali. L’approccio al nuovo mondo è da soap opera: a guidare la protagonista nel corso della sua esperienza nella Grande mela è, infatti, la serie televisiva Sex and the City, molto popolare anche in Cina.
I tic e i cliché di Shanghai baobei vengono tutti riproposti in Wo de Fo. L’attenzione alla moda e ai beni di consumo che Weihui dimostra citando prodotti ed etichette come se si trattasse di un gigantesco cartellone pubblicitario – stivali Ferragamo, giacchina jeans Marc Jacobs, profumo Opium, automobile Mercedes-Benz, occhiali da sole Armani, scarpe Manolo Blahnik, sciarpa Burberry – è una prova del successo del consumismo e un emblema dell’‘economia di mercato socialista’.
Un celebre critico cinese inviso al regime, Liu Xiaobo, ha scritto di Weihui che la sua narrativa è un «lamento senza malattia confezionato per i nuovi colletti bianchi» (Xinling ai le biancheng routi huange [Le gioie e i dolori dello spirito si trasformano nel canto del corpo], «Kaifang/Open», 2000, 168, p. 38).
La squadra dei giovanissimi
Agli inizi del nuovo secolo si sono affacciati sulla scena letteraria scrittori giovanissimi, nati negli anni Ottanta, che catalizzano l’attenzione soprattutto delle fasce studentesche e cavalcano le possibilità offerte dal mercato e dalle nuove tecnologie. Il più celebre, vera e propria superstar del genere, è Guo Jingming (n. 1983) che con il suo Huan cheng (La città fantastica, 2003) ha venduto un milione e mezzo di copie. Il libro è la costruzione artificiale di un mondo astratto dove trionfano sentimenti semplici. In seguito tutti i suoi libri hanno venduto milioni di copie e, nel 2004, l’autore è stato classificato dalla rivista «Forbes» al 93° posto fra le cento celebrità cinesi. La carriera di Guo appare anche emblematica del ruolo sempre più importante assunto da Internet: è stato infatti scelto, attraverso una gara on-line, dal regista Chen Kaige per adattare a romanzo il suo film Wuji (2005; La promessa). Guo Jingming ha inoltre fondato due riviste, «Island» e «Zui xiaoshuo» (nota anche come «Top Novel»), che dovrebbero formare e lanciare nuovi autori oltre che pubblicare le sue opere e raccogliere quel che c’è di più alla moda nel mondo dell’audiovisivo. Fra gli aspetti del successo di Guo vi sono infatti lo stile di vita, l’eclettismo, l’ambiguità ricercata dell’aspetto, l’atteggiamento disinvolto (si pensi alle ripetute accuse di plagio nei suoi confronti), dissacrante e scanzonato verso la letteratura («uno dei miei hobby, come il badminton») che lo rendono un vero emblema della cultura pop giovanile.
A iniziare il filone è stato Han Han (n. 1982) con il romanzo San chong men (Le tre porte, 2000) che segue l’itinerario del giovane Lin Yuxiang attraverso i vari gradi scolastici. La freschezza dello sguardo e la totale irriverenza non disgiunte da un forte senso dell’ironia hanno fatto di questo scrittore allora appena diciottenne un vero prodigio. Han Han si divide oggi fra la scrittura e le corse automobilistiche, ha un blog frequentato da migliaia di ammiratori e ostenta un anticonformismo niente affatto pericoloso, che aggiunge sapore al personaggio. Egli, infatti, non è un ribelle, ma al contrario si destreggia con grande abilità tra le logiche che animano il mercato editoriale. In questo quadro si collocano i suoi interventi contro alcuni ‘mostri sacri’ della letteratura cinese, contro il sistema dell’istruzione e persino l’arresto per il possesso di una pistola all’aeroporto. Chun Shu (n. 1983) con Beijing wawa (2002; trad. it. Ragazza di Pechino, 2003) ha riproposto il cliché della ‘ragazza maledetta’ inaugurato da Mian Mian aggiornandolo alle ansie di una diciassettenne. Tra i nuovi giovani scrittori, da citare anche Zhang Yueran (n. 1982), studentessa universitaria, che ha esordito con Shi ai (Dieci amori, 2004), dieci storie d’amore surreali e fiabesche che disegnano un mondo di fantasia e forti emozioni.
La giovinezza è diventata un marchio di successo e di rapido consumo. Agli scrittori degli anni Ottanta stanno subentrando quelli nati negli anni Novanta, come il fenomeno Yang Yang (n. 1994) che a nove anni ha ricevuto un anticipo di 150.000 dollari per il suo romanzo Shiguang moqin (Il violino magico, 2003), del quale ha venduto 100.000 copie. Incentrato su un ragazzino che, dopo la scomparsa del padre, viaggia nel tempo grazie a un violino dai poteri magici, è stato definito una sorta di Harry Potter cinese. Oppure come Tang Chao (n. 1994), studente delle medie inferiori che in un mese ha venduto 50.000 copie del suo secondo romanzo, Ba meng huan wo (Restituitemi i sogni, 2008) che racconta amori precoci, esami, suicidi e problemi del sistema d’istruzione.
L’avvento del best seller internazionale: Il totem del lupo
Nel nuovo panorama dominato dalla ricerca del best seller si sono inseriti i grandi gruppi editoriali occidentali – Penguin, Bertelsmann – che hanno aperto uffici a Pechino principalmente per esportare i propri cataloghi, ma anche per investire nei libri cinesi di successo. Un caso che vale la pena di citare è quello rappresentato da Lang tuteng (2004; trad. it. Il totem del lupo, 2006) di Jiang Rong (pseud. di Lu Jiamin, n. 1946), al centro della prima operazione commerciale ‘globalizzata’. Asceso alla vetta delle classifiche in Cina nel 2004, ha scatenato un’accesa competizione tra case editrici straniere, finché la Penguin ne ha acquistato i diritti mondiali impegnandosi a pubblicarlo simultaneamente in tutti i Paesi di lingua inglese e rivendendolo anche in altri. La scommessa di puntare a livello internazionale su un libro rivelatosi un best seller in Cina sembra sia stata motivata dall’esotismo del tema (l’ethos delle steppe) e dal fatto che gli argomenti trattati, in primo luogo il rapporto uomo-natura, garantivano un respiro universale. Il tema di fondo della narrazione è in realtà quello dell’identità culturale della Cina, evidente nell’opposizione tra il popolo nomade e selvaggio dei mongoli (rappresentato dal lupo) e quello cinese, contadino, stanziale e sostanzialmente passivo.
Il romanzo, che utilizza molteplici registri – dal saggio antropologico alla monografia etologica, dal canto ecologico alla tesi didattica – racconta di Chen Zhen, alter ego dell’autore, un liceale figlio di esponenti di destra che, nel periodo della Rivoluzione culturale, da Pechino viene inviato, con altri studenti, sull’altopiano della Mongolia interna per farsi rieducare al lavoro dalle masse. A contatto con la popolazione locale, il ragazzo comincia a interrogarsi sulle ragioni per le quali, all’epoca di Gengis Khan, i mongoli, una popolazione sparuta e senza cultura, abbiano potuto sconfiggere i più potenti regni dell’Europa e dell’Asia creando un vastissimo impero. Nel corso del suo soggiorno, soprattutto grazie agli insegnamenti del vecchio cacciatore Bileg, il giovane imparerà a conoscere quella popolazione e il suo simbolo, il lupo, con le sue tecniche di caccia, il suo modo di gestire il branco, la sua ‘morale’ e il suo carattere.
Il vecchio Bileg spiega a Chen Zhen quanto gli Han (i cinesi veri e propri) abbiano paura dei lupi e non siano dotati di coraggio: «gli Han mangiano erba come le pecore, mentre noi mongoli mangiamo carne come i lupi» (prefazione a Lang tuteng, 2004; trad. it. 2006, pp. 1-2). Gli Han appartengono a un altro totem, quello del drago, e rappresentano una cultura agricola e stanziale, opposta a quella dei popoli nomadi e dediti alla pastorizia il cui spirito è incarnato dai lupi.
Il totem del lupo, insomma, ispira aggressività ed estrema organizzazione, si proietta verso l’esterno, mentre quello del drago è essenzialmente autoreferenziale e passivo: per questo la Cina è stata conquistata in passato dalle potenze straniere. Il libro, che ha riattualizzato il dibattito mai sopito sul rapporto tra carattere nazionale e modernizzazione, di cui numerosissimi sono stati gli esempi nel corso del tempo (dal movimento per le riforme del 1898 a quello iconoclasta del 4 maggio del 1919), è stato al centro di un’operazione di marketing condotta in grande stile, promossa da due abili manager editoriali.
Probabilmente l’autore, professore di economia politica all’Università di Pechino, non immaginava che il suo romanzo sarebbe diventato una lettura per gli amministratori delegati delle giovani e dinamiche imprese cinesi, avrebbe ispirato nuovi orientamenti di strategie aziendali e trovato simpatizzanti e sostenitori nell’esercito. Tutto ciò è la conseguenza del lancio effettuato in Cina, mentre in Occidente si è voluto sottolineare come il lupo costituisca un simbolo di libertà individuale, lasciando intendere, con un clamoroso e voluto equivoco, che per queste ragioni il romanzo è risultato inviso al potere.
Gay e critica sociale
Il mercato detta dunque nuove leggi creative e influenza la produzione letteraria, mentre i limiti precedentemente posti dalla censura sono oggi sostituiti dalla vendibilità, sia pure parzialmente perché comunque il rapporto con la censura è sempre in delicato equilibrio, soggetto a continui aggiustamenti e negoziazioni. Ciò ha favorito l’emergere di generi e tematiche un tempo inimmaginabili.
Si spiega così la pubblicazione, nel 2003, delle opere di Cui Zi’en (n. 1958), presentato apertamente in copertina come autore omosessuale. Il suo romanzo Taose zuichun (Labbra color pesca), uscito per la prima volta a Hong Kong nel 1997 quando l’amore gay costituiva un tabù assoluto nella Repubblica popolare, ha potuto così cominciare a circolare anche in Cina dove solo recentemente l’omosessualità non è più considerata una malattia. Il libro è costruito attraverso una serie di monologhi di personaggi maschili che si misurano con la diversità sessuale: chi la scopre, chi la rifiuta, chi ne fa un vanto. Si tratta di un romanzo sorprendente, sia per l’argomento sia per la struttura originale, il linguaggio poetico, la ricchezza delle immagini, la prospettiva cattolica, ma soprattutto la capacità di raccontare i sentimenti raggiungendo notevoli profondità e complessità e di toccare temi esistenziali come la morte, Dio, la sofferenza, le relazioni d’amore, la solitudine, con grande sensibilità. Il primo romanzo gay che ha visto la luce nella Cina postrivoluzionaria non si presenta come un pamphlet rivendicativo, né come un cahier de doléance o come un gesto provocatorio, bensì come un testo di grande maturità letteraria.
Fra la narrativa di genere, che comprende libri sulle arti marziali, il fantasy, l’horror, le storie d’amore e i gialli, spicca anche la satira sociale. Se negli anni passati non era mancata una narrativa di denuncia, circoscritta ad ambiti ufficialmente accettati, come per esempio la lotta alla corruzione, Yan Lianke (n. 1958) con Wei renmin fuwu (trad. it. Servire il popolo, 2006) abbatte un nuovo tabù, non senza conseguenze. Pubblicato su una rivista nel marzo 2005, il testo è stato immediatamente proibito ma è riapparso quasi subito in vari blog sulla rete. Wei renmin fuwu, titolo di un celebre discorso di Mao Zedong del 1944, diventò uno degli slogan fondanti del regime e ben presto, poiché il partito era il rappresentante del popolo, venne a significare che l’obbedienza al partito era il mezzo per mettersi al servizio del popolo. Nella novella erotica l’antico slogan viene ironicamente interpretato come la richiesta di prestazioni sessuali da parte della giovane e bella moglie di un alto comandante nei confronti dell’attendente del marito.
Agli inizi del 21° sec., la letteratura cinese presenta dunque un panorama inimmaginabile appena vent’anni fa. Gli scrittori, sia che risultino impegnati nella riscrittura del passato sia che affrontino le possibilità e le insidie del mercato, testimoniano la ricerca di una nuova voce per una società in rapidissima mutazione, volta a costruire una narrativa della modernità. Oscillanti fra soggettivismo e ricostituzione di una coscienza collettiva, s’interrogano sulla definizione di un’identità adeguata ai tempi e che, non perdendo di vista sé stessa, sia in dialogo con il mondo.
Bibliografia
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