La letteratura contemporanea
Narrazione a spirale o metanarrazione
C’è chi fa iniziare la letteratura contemporanea e postmodernista con le Ficciones (1944; trad. it. Finzioni, 1955) di Jorge Luis Borges (1899-1986), un libro i cui racconti risalgono alla fine degli anni Trenta e ai primi anni Quaranta del Novecento. Una qualche ragione c’è. Nessuno, prima, aveva così ossessivamente fatto letteratura della letteratura. Nessuno aveva scritto sempre a partire da un libro. La singolare combinazione di ragione, logica e simmetria con la mistica, la bizzarria e l’eresia non aveva precedenti. Il percorso per vie oblique, collaterali, nascoste, che conduce da un pensatore all’altro, da uno scrittore al suo predecessore, da una citazione vera a una falsa e viceversa superava di gran lunga persino le più selvagge fantasie di un Joyce. La teologia e l’indagine poliziesca si mescolano in Ficciones, come poi nelle opere successive di Borges, in un amalgama unico: e non è certo un caso se il monaco cieco che è all’origine degli omicidi indagati da Guglielmo di Baskerville nel Nome della rosa (1980) di Umberto Eco porta, trentacinque anni dopo, il nome di Jorge.
Prendiamo, per es., l’inizio de La Biblioteca de Babel, il pezzo centrale di Ficciones. Esso si apre con alcune frasi che tolgono il fiato al lettore e lo stordiscono: «L’universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, bordati di basse ringhiere. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente. La distribuzione degli oggetti nelle gallerie è invariabile. Venticinque vasti scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno uno; la loro altezza, che è quella stessa di ciascun piano, non supera molto quella d’una biblioteca normale» (trad. it. in Finzioni, 1955, p. 68).
La sorpresa dell’equazione iniziale (universo= Biblioteca) si amplia, subito dopo, in stupore al modo in cui una fantasia totalmente geometrico-cosmica distribuisce la normalità dello spazio: pozzi di ventilazione, basse ringhiere, scaffali di altezza appunto «normale». Poco dopo, veniamo a sapere che il narratore stesso, quasi cieco ormai e morituro, è uomo che abita la Biblioteca. Ne afferma la interminabilità, registra le opinioni di idealisti e mistici al riguardo, poi conclude, stravolgendo la celebre definizione di Dio nel Libro dei ventiquattro filosofi medievale: «Mi basti, per ora, ripetere la sentenza classica: ‘La Biblioteca è una sfera il cui centro esatto è qualsiasi esagono, e la cui circonferenza è inaccessibile’». Da questo momento la sua diviene un’indagine scientifico-bibliografica. A poco a poco, scopriamo che c’è un capo per ogni esagono, che i libri non sono mai identici l’uno all’altro pur constando di «elementi eguali», che la Biblioteca comprende tutti i libri, e via di seguito, con implacabile logica, inseguendo le scoperte e le deduzioni all’infinito, sino a due (almeno) inevitabili conclusioni: a) «L’uomo, questo imperfetto bibliotecario, può essere opera del caso o di demiurghi malevoli; l’universo, con la sua elegante dotazione di scaffali, di tomi enigmatici, di infaticabili scale per il viaggiatore e di latrine per il bibliotecario seduto, non può essere che l’opera di un dio»; b) «La Biblioteca è illimitata e periodica. Se un eterno viaggiatore la traversasse in una direzione qualsiasi, constaterebbe alla fine dei secoli che gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine (che, ripetuto, sarebbe un ordine: l’Ordine). Questa elegante speranza rallegra la mia solitudine».
La Biblioteca de Babel è un racconto (se si può chiamarlo tale) nel quale domina una ragione illusionistica, che inaugura almeno una delle tendenze della narrativa contemporanea: quella verso la narrazione che chiamerei ‘a spire’, illimitata e periodica appunto come la Biblioteca. Un romanzo breve e recente di Paul Auster (n. 1947), Travels in the scriptorium (2006; trad. it. Viaggi nello scriptorium, 2007), mostra quanto la ripetitività di Borges, combinata con invenzioni teatrali alla Pirandello e alla Beckett, sia capostipite di tutto un genere. Qui, un vecchio, subito rinominato Mr Blank («Vuoto», «Bianco», come una pagina) si ritrova la mattina seduto sul letto di una stanza chiusa che non conosce. Ogni pezzo di mobilio nella camera ha un’etichetta che ne fornisce il nome. Su una scrivania, giacciono due pile di fogli stampati e delle fotografie. Durante la giornata, le persone ritratte nelle foto telefonano a Blank o vengono a trovarlo. Né i loro volti né i loro nomi (che provengono tutti da precedenti romanzi di Auster) sono da lui riconosciuti, mentre le persone cui essi appartengono sembrano conoscere bene il vecchio, anzi lo rimproverano di averli in passato inviati a compiere missioni molto pericolose. Negli intervalli tra una telefonata e una visita, Blank si dà a leggere uno dei manoscritti ammucchiati sulla scrivania, opera di un non meglio identificato John Trause (ma il cognome è l’anagramma di Auster). In esso sono narrate le avventure di tale Sigmund Graf, prigioniero in una cella nella fortezza militare di Ultima e minacciato di morte perché avrebbe violato i confini della Confederazione e sarebbe penetrato nei Territori Alieni abitati dai Primitivi, alla ricerca di un rivoltoso (forse una spia). A poco a poco, le avventure di Graf sembrano intrecciarsi con quelle di Blank. A un certo punto, egli estrae, da sotto al manoscritto di Trause, un’altra risma di fogli: ne è autore N.R. Fanshawe (il nome di una delle donne in visita durante il giorno) e s’intitola Viaggi nello scriptorium. La prima pagina, che Blank legge subito, è esattamente la stessa di quella del romanzo di Auster che stiamo leggendo noi. Per nulla divertito, Blank «getta il manoscritto sopra la propria spalla con un violento scatto del polso, senza neanche girarsi a vedere dove cade», e si domanda ad alta voce: «Quando finirà questa cosa assurda?», «Non finirà mai», risponde al paragrafo successivo la voce del narratore, che è anche quella di uno dei personaggi comparsi davanti a Blank. Blank è infatti divenuto uno dei personaggi del romanzo: «Perché ora Mr Blank è uno di noi e, per quanto si consumi per capire la sua brutta situazione, sarà perduto per sempre. Credo di parlare a nome dei suoi subalterni se dico che sta avendo quello che si merita: né più, né meno. Non come forma di castigo, ma come atto di suprema giustizia e pietà. Senza di lui noi non siamo niente, ma il paradosso è che noi, le creature inventate dalla mente di un altro, vivremo più a lungo della mente che ci ha fatto, perché una volta gettate nel mondo continuiamo a esistere per sempre, e le nostre storie continuano a essere raccontate anche quando siamo morte» (trad. it. Viaggi nello scriptorium, 2007, p. 111).
Il narratore-personaggio pensa di lasciare Blank nella stanza, sul suo letto. Egli è «vecchio e debilitato, ma fino a quando resta nella stanza con la finestra oscurata e la porta chiusa a chiave non potrà mai morire, mai sparire, mai essere nient’altro che le parole che sto scrivendo su questa pagina». La circolarità metafisica che si percepisce nella vicenda diviene spirale narrativa, la casualità fatta di coincidenze si rivela causalità, la riduzione del mondo a letteratura e di questa a metaletteratura si fa sempre più evidente.
Mr Blank, la pagina vuota, bianca, si va riempiendo di meri segni. Sembra non vi sia altro modo di affrontare, ora, il mistero della vita: se non di riflesso, di seconda mano, per circulum e per speculum in aenigmate. La riduzione semiotica è una caratteristica della narrativa contemporanea. I veri e propri capostipiti di questa sono da ricercarsi nei romanzi di Raymond Queneau (1903-1976) e di Italo Calvino (1923-1985), che coprono il periodo dagli anni Sessanta sino alla soglia degli Ottanta del Novecento. Les fleurs bleues (1965; trad. it. I fiori blu, 1967) di Queneau (tradotto in italiano proprio da Calvino) narra le apparizioni, a centosettantacinque anni di distanza l’una dall’altra, del Duca d’Auge: 1264, 1439, 1614, 1789, 1964 (il procedimento sembra derivare da El inmortal, una delle storie di El aleph, 1949, trad. it. L’aleph, 1961, di Borges). Nella più recente, egli incontra un ex carcerato, Cidrolin, che aveva visto continuamente in sogno, sonnecchiante su un barcone ormeggiato sulla Senna. Anche qui, una serie di coincidenze pare unire i due personaggi quasi sino a farli combaciare, benché i loro caratteri siano opposti. Si vengono a creare due trame parallele che s’intersecano e che presentano, nella graduale scoperta dello sconosciuto, un elemento tipico del romanzo giallo. Il tutto viene presentato attraverso la parodia storica e il gioco di parole, talché riesce non facile distinguere il piano letterale da quello allegorico e la volgarità del dialogo da bistrot dalla ponderata sublimità di quello filosofico, mentre rimandi geometrico-aritmetici si sovrappongono alle allusioni letterarie. Ecco cosa vede il Duca d’Auge quando sale in cima al suo torrione il 25 settembre 1264 «per considerare un momentino la situazione storica», che trova «poco chiara»: «Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevan calvadòs.
Il Duca d’Auge sospirò pur senza interrompere l’attento esame di quei fenomeni consunti.
Gli Unni cucinavano bistecche alla tartara, i Gaulois fumavano gitanes, i Romani disegnavano greche, i Franchi suonavano lire, i Saracineschi chiudevano persiane. I Normanni bevevan calvadòs.
Tutta questa storia – disse il Duca d’Auge al Duca d’Auge – tutta questa storia per un po’ di giochi di parole, per un po’ d’anacronismi: una miseria. Non si troverà mai via d’uscita?» (trad. it. 1967, p. 7).
La Storia è così da una parte ridotta a beffardo pastiche letterario, dall’altra elevata a misteriosa sommatoria di settecento anni (175×4) che fa enigmaticamente coincidere il primo (1264) con l’ultimo (1964). Ma quando, alla fine, dopo interminabili giorni di pioggia, il Duca si affaccia di nuovo ai merli del suo castello «per considerare un momentino la situazione storica», uno strato di fango ricopre ancora la terra: e qua e là piccoli fiori blu stanno già sbocciando.
Il maestro assoluto di questo tipo di narrativa è però Calvino. Che raccoglie l’insegnamento di Borges e Queneau, per renderlo, in un impasto del tutto personale, forma si direbbe pura. La sequenza alla quale Calvino giunge negli anni Settanta – Le città invisibili (1972), Il castello dei destini incrociati (1973), Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) – è parte di un unico impulso metanarrativo. Protagonista del primo è Marco Polo il quale, alla corte di Kublai Khan, invia al sovrano, con i suoi dispacci, le descrizioni delle città che visita nei suoi viaggi attraverso l’impero. Marco parla degli uomini che le hanno edificate, della loro forma, di ciò che lega questa con i popoli che le abitano. Ma le città esistono solo nella sua mente: sono in realtà invisibili, separate le une dalle altre, chiuse in sé stesse, create dal viaggiatore veneziano mentre le descrive. In uno dei momenti più densi dell’opera Marco sfoglia l’atlante del Gran Khan, che contiene le mappe di tutte le città, del passato, del presente e del futuro, e trova Gerico, Ur, Cartagine e, naturalmente, Troia (Le città invisibili, 1972, p. 145). Ma il veneziano sovrappone a questa mappa di Troia la pianta di Costantinopoli e «prevede» lo stratagemma di Maometto il quale, «astuto come Ulisse avrebbe fatto trainare le navi nottetempo su per i torrenti, dal Bosforo al Corno d’oro, aggirando Pera e Galata». La mescolanza di Troia e Costantinopoli, con il suo Corno d’oro, produrrebbe poi la mappa di San Francisco con il suo Golden Gate, e così via. In un saggio dal titolo Il viandante nella mappa, pubblicato nel 1980 (otto anni dopo Le città invisibili), Calvino tornerà a questo immaginario e dirà che una mappa geografica, «anche se statica, presuppone un’idea narrativa, è concepita in funzione d’un itinerario, è Odissea», aggiungendo, naturalmente, che se esiste la mappa-Odissea, allora deve per forza esistere anche la mappa-Iliade: «difatti fin dai tempi più antichi le piante delle città suggeriscono l’idea dell’accerchiamento, dell’assedio» (Il viandante nella mappa, in Saggi, 1995, p. 428). Le città invisibili è un testo sospeso tra i due tipi di mappe.
Il tema costante del libro è dunque la scrittura stessa, il modo di creare narrativa. In Il castello dei destini incrociati il medesimo tema diviene quello della struttura narrativa. Come in una raccolta di novelle del Medioevo, una serie di personaggi si ritrova in un castello circondato da un bosco inestricabile. Esso appare proprio come una locanda di Chaucer, di Cervantes, di Fielding, e i castellani sembrano l’oste e l’ostessa della narrativa più antica. Sparecchiata la tavola dopo la cena, il castellano (l’oste) posa sul tavolo un mazzo di carte, di tarocchi «più grandi di quelli con cui si gioca una partita o con cui le zingare predicono l’avvenire». A mano a mano, i tarocchi che vengono gettati sul tavolo disegnano storie, mentre i personaggi intorno alla tavolata restano muti. Il primo commensale solleva il Cavaliere di Coppe, al quale assomiglia, e poi prosegue narrando la vicenda dell’ingrato punito per mezzo di altre carte. In questo modo si profilano le sette storie della prima parte, Il castello dei destini incrociati, di cui fanno parte anche due ri-scritture ariostesche, Storia dell’Orlando pazzo per amore e Storia di Astolfo sulla Luna. La seconda parte, dal titolo La taverna dei destini incrociati, è caratterizzata dallo stesso meccanismo narrativo e suddivisa in sette storie. Due volte sette: la combinazione delle carte essendo in sostanza infinita, le novelle sono potenzialmente infinite (e infatti l’ultima della prima parte, Tutte le altre storie, accenna alla moltiplicazione senza numero). Il principio che le organizza è quello della schidionata (cioè della sequenza sommatoria, come nel Decameron) teorizzato da Viktor B. Šklovskij, i motivi risalgono alla Morfologija skazki (1928; trad. it. Morfologia della fiaba, 1966) di Vladimir J. Propp. Ma la metaletterarietà domina anche qui. Anch’io cerco di dire la mia e Tre storie di follia e distruzione, in La taverna, contengono combinazioni di Romeo e Giulietta, della Justine del Marchese De Sade, di Edipo re ed Edipo a Colono, e di numerosi quadri di pittori celebri, la prima, di Amleto, Macbeth e Re Lear, la seconda. La meditazione sulla scrittura è costante. Così, mentre parla di Edipo, l’autore, rievocando subito dopo Stendhal, afferma: «Di tutto questo la scrittura avverte come l’oracolo e purifica come la tragedia [...] La scrittura insomma ha un sottosuolo che appartiene alla specie, o almeno alla civiltà, o almeno a certe categorie di reddito» (Il castello dei destini incrociati, 1973, p. 103). Più tardi, nell’indicare la sua preferenza, quando visita i musei, per «i sangirolami», eccolo puntare sul leone che accompagna sempre il santo nei dipinti e domandarsi: «Perché il leone? La parola ammansisce le passioni? O sottomette le forze della natura? O trova un’armonia con la disumanità dell’universo? O cova una violenza trattenuta ma sempre pronta ad avventarsi, a sbranare?» (p. 105). Insomma, Il castello dei destini incrociati è saggistica tanto quanto squisita narrativa, è ricerca di una poetica e di una posizione autoriale nello stesso momento in cui è ri-scrittura o in molti casi combinazione di ri-scritture.
Queste caratteristiche si precisano, divenendo identificazione accurata di una struttura a spirale, in Se una notte d’inverno un viaggiatore, dove il meccanismo narrativo è esibito all’aperto e basato sulla continua sospensione. Una cornice che inquadra tutta l’opera presenta la storia di un Lettore e una Lettrice (Ludmilla). Quando inizia a leggere Se una notte d’inverno un viaggiatore, il Lettore si accorge che la storia si interrompe per una difettosa impaginazione del volume. Recatosi in libreria per protestare, vi incontra la Lettrice, Ludmilla, che si è imbattuta nel medesimo problema. Insieme, iniziano a leggere il libro che sostituisce le copie difettose, ma anch’esso si rivela incompleto. Cercando disperatamente di trovare il finale dell’opera, rinvengono un terzo volume diverso dai primi due: e via di seguito, ritrovandosi sempre con libri incompleti in mano, passano per vari motivi di volume in volume e s’imbattono persino in una setta segreta che falsifica i libri d’autore. Nel corso di queste avventure letterarie che nascono l’una dall’altra i due s’innamorano e alla fine si sposano. L’ultima scena mostra il Lettore a letto con la novella sposa, intento finalmente a completare la lettura di Se una notte d’inverno un viaggiatore. La cornice occupa i capitoli numerati dell’opera, da 1 a 12. Al termine di ognuno dei primi dieci s’innesta una sezione narrativa che costituisce una storia a parte, l’inizio del nuovo romanzo che Lettore e Lettrice rinvengono sulla propria strada: dieci piccoli e incompleti ‘romanzi nel romanzo’ slegati fra loro i cui titoli vanno a comporre la frase: «Se una notte d’inverno un viaggiatore, fuori dall’abitato di Malbork, sporgendosi dalla costa scoscesa senza temere il vento e la vertigine, guarda in basso dove l’ombra s’addensa in una rete di linee che s’allacciano, in una rete di linee che s’intersecano sul tappeto di foglie illuminate dalla luna intorno a una fossa vuota, – Quale storia laggiù attende la fine? – chiede, ansioso d’ascoltare il racconto» (p. 260).
Ma all’inizio del capitolo nel quale questa frase compare (XI), troviamo un paragrafo che sembra uscito dalla straordinaria penna di Borges: «Lettore, è tempo che la tua sballottata navigazione trovi un approdo. Quale porto può accoglierti più sicuro d’una grande biblioteca? Certamente ve n’è una nella città da cui eri partito e cui hai fatto ritorno dopo il tuo giro del mondo da un libro all’altro. Ti resta ancora una speranza, che i dieci romanzi che si sono volatilizzati tra le tue mani appena ne hai intrapreso la lettura, si trovino in questa biblioteca» (p. 254).
È evidente che qui la metanarratività ha raggiunto un punto supremo ed estremo, in cui il romanzo tratta di romanzi e il libro di libri; dove l’opera discute la teoria del romanzo, e dove la storia d’amore che lo incornicia è, in sostanza, storia d’amore per la narrativa. Questo amore sempre frustrato e rimandato costruisce di per sé una suspense e un’ansia tremende, perché la vita è il libro e un libro inconcluso è una vita inconcludente e incompiuta.
Realismo magico: multiculturalismo, métissage, Weltliteratur
La narrativa contemporanea conosce però, a livello globale, almeno un’altra tendenza di rilievo, quella del cosiddetto realismo magico. Essa è legata all’emergere delle nuove letterature postcoloniali e riguarda in primo luogo le lingue nelle quali esse si esprimono, soprattutto lo spagnolo e l’inglese. Ma se è stato notato che chi, ancora una volta, anticipa per certi versi il genere è, in Argentina, Borges, un esempio isolato e miracoloso proviene dalla Russia, dove già negli anni Trenta Mikhail A. Bulgakov (1891-1940) aveva composto Master i Margarita, pubblicato poi e diffuso negli anni Sessanta (1966-67; trad. it. Il Maestro e Margherita, 1967). Questo capolavoro presenta due storie parallele e intrecciate fra loro, quella di Satana, che compare, accompagnato da una piccola corte sinistra e grottesca, nella Mosca stalinista degli anni Trenta nelle vesti del professore straniero Woland, e quella – raccontata nel libro del Maestro – del procuratore romano della Giudea, Ponzio Pilato, al momento della condanna di Yeshua Ha-Nozri (Gesù di Nazareth). Direttamente ispirato dal Faust di Goethe per la prima vicenda, Master i Margarita la tratta però come se fosse la cosa più normale del mondo (caratteristica, questa, del realismo magico), contemporaneamente satirizzando in maniera feroce la vita nell’Unione Sovietica dell’epoca.
Il romanzo si apre agli stagni Patriaršie di Mosca con l’incontro tra il presidente della Massolit (l’associazione sovietica degli scrittori) Michail Aleksandrovic Berlioz e un gentiluomo forestiero che dice di essere esperto di magia nera, Woland, presente il giovane poeta Ivan Nikolaevič Ponyrëv, detto Bezdomnyj. Dopo aver detto di sapere come e quando morirà Berlioz, Woland racconta ai suoi interlocutori che Gesù è esistito davvero e di essere stato presente al suo processo a Gerusalemme. Ritenendo di essersi imbattuto in un folle, Berlioz si allontana per chiedere aiuto. Il letterato esce dal parco ma, giunto al cancello, trova la morte esattamente come previsto da Woland. Sconvolto, Ivan tenta di far catturare la banda di Woland ma, considerato affetto da schizofrenia, viene internato in un manicomio. Qui, viene a contatto con un altro paziente, uno scrittore condotto alla disperazione dal rifiuto dimostrato dalla casta dei critici letterari sovietici nei confronti del suo romanzo su Ponzio Pilato. È, costui, un uomo il quale dichiara di non avere più un nome e di essere semplicemente un Maestro: avendo dato alle fiamme la sua opera e lasciato la sua amante, egli vive in ospedale completamente separato dalla realtà circostante. Ascoltata la storia di Ivan, e sorpreso al sentire il nome di Ponzio Pilato, svela al poeta che il professor Woland è proprio Satana. Woland e i suoi, nel frattempo, si impadroniscono dell’appartamento di Berlioz, cacciandone l’altro inquilino, Stepan Bogdanovič Likhodeev, il direttore del Teatro di Varietà di Mosca, e spedendolo a Yalta sul Mar Nero tramite un incantesimo di Azazello (uno dei demoni che accompagnano Woland). Il quale, già scritturato da Likhodeev, mette in scena al Teatro uno spettacolo di magia nera che sconvolge l’intera Mosca. Mentre la storia parallela di Ponzio Pilato prende corpo, prima dalle parole di Woland, poi dal romanzo del Maestro, entra in scena Margherita Nikolaevna, l’amante che il Maestro ha abbandonato dopo una relazione durata mesi. Il giorno dopo la rappresentazione al Teatro, Margherita assiste ai funerali di Berlioz e viene avvicinata da Azazello, il quale la invita a casa di Woland promettendole che lì potrà sapere qualcosa del Maestro. Quando la donna accetta, Azazello le consegna una crema che ella dovrà passare su tutto il corpo. Appena compie l’operazione, Margherita si trasforma in una bellissima giovane strega. A cavallo di una scopa, vola: finalmente libera, invisibile, nuda e leggera, percorre le vie di Mosca a mezz’aria, mette a soqquadro gli appartamenti degli scrittori professionisti, i critici, nel Dramlit – la Casa del drammaturgo e del letterato –, ne infrange i vetri, li allaga; poi sale in alto, si allontana velocemente dalla città verso i boschi, i laghi, i fiumi della sterminata terra russa; incontra, anch’essa in volo (in groppa allo scrittore Nikolaj Ivanovič trasformato in verro), Nataša Prokof´evna; si getta, sotto la luce della luna, nell’acqua argentata. Le streghe e gli esseri dal piede caprino riuniti attorno al falò le rendono onore: è la sua festa. Subito dopo, un’auto scoperta, volante, guidata da un gracchio nero, la riporta a Mosca, in via Sadovaja 302 bis: dove abita Woland con la sua piccola corte di demoni, e dove fra poco si svolgerà il gran ballo diabolico che consacra Margherita regina. Il volo di Margherita distrugge la critica letteraria ufficiale, e soprattutto si dirige verso il Sabba infernale, esso stesso parte di quel Giudizio Universale che inizia con l’apparizione di Woland a Mosca e che coinvolge tutta la realtà e l’orrore dell’Unione Sovietica sotto lo stalinismo. Esso conduce al nulla e alla dannazione. Tuttavia, giusta l’epigrafe dal Faust goethiano che Bulgakov appone al proprio libro, il Diavolo è «una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene». Più tardi nell’opera ha luogo, infatti, un secondo volo meraviglioso: Woland ha appena ricevuto da Gesù di Nazareth, per bocca del pubblicano Levi Matteo, la richiesta di dare «riposo» al Maestro e alla sua amata, Margherita. Azazello, uno dei compari di Woland, avvelena i due con il Falerno bevuto da Ponzio Pilato. E a questo punto il demone, Margherita e il Maestro cavalcano destrieri aerei per raggiungere Satana. Con lui, riprendono il galoppo celeste attraverso la notte sino a giungere su di un ripiano dove i massi luccicano tra abissi bui nei quali non penetra la luce della luna. Siede qui da quasi duemila anni, tormentato e prigioniero dei suoi rimorsi, il procuratore della Giudea Ponzio Pilato. Su richiesta del Maestro, egli viene liberato. Poco dopo, mentre Woland e i suoi si gettano nell’abisso, il Maestro e Margherita entrano nella piccola «casa eterna» della quiete e del silenzio.
Il Master i Margarita, con il suo carico di meraviglie, satira, ri-scrittura e lirismo, entra in circolazione fra il 1966 e il 1967, immediatamente coronato da meritato successo mondiale. Ma il 1967 è anche l’anno di pubblicazione di Cien años de soledad (trad. it. Cent’anni di solitudine, 1968) di Gabriel García Márquez (n. 1927), il romanzo con il quale si fanno generalmente iniziare il postmodernismo e il realismo magico. Cien años de soledad è la storia epico-tragica della famiglia Buendía e del villaggio, poi cittadina, di Macondo, dove essa vive. Se si vuole avere un’idea delle novità che il romanzo introduce, basterà paragonarlo a vicende simili come quelle dei Buddenbrooks (1901; trad. it. I Buddenbrook, 1967) di Thomas Mann o della Forsyte saga (1906-1921; trad. it. La saga dei Forsyte, 1939) di John Galsworthy. Dove là prevalgono la solida sequenza temporale mimetica e il succedersi naturale delle generazioni e della decadenza borghese talché si possono avvicinare quei romanzi o quei cicli narrativi allo scorrere di un fiume come il Reno o il Tamigi, qui dominano un tempo ripetitivo, pieno di eventi arcani e meravigliosi e un intreccio che assomiglia al delta dell’Orinoco. Sin dalla prima pagina del romanzo, incontriamo un’analessi presentata come prolessi, l’identificazione del villaggio di Macondo con la preistoria e addirittura con il Principio, l’enigma suscitato dall’incongruenza logica che pone l’una dopo l’altra la futura morte di Aureliano Buendía, il ricordo del ghiaccio, i primordi di Macondo, l’apparizione degli zingari e di Melquíades con la portentosa calamita: «Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e canna selvatica costruito sulle rive di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito. Tutti gli anni, verso il mese di marzo, una famiglia di zingari cenciosi piantava la tenda vicino al villaggio, e con grande frastuono di zufoli e tamburi faceva conoscere le nuove invenzioni. Prima portarono la calamita. Uno zingaro corpulento, con barba arruffata e mani di passero, che si presentò col nome di Melquíades, diede una truculenta manifestazione pubblica di quella che egli stesso chiamava l’ottava meraviglia dei savi alchimisti della Macedonia» (Cent’anni di solitudine, in Opere narrative, 1° vol., 1987, p. 563).
Occorre leggere l’intero romanzo per comprendere questa sequenza, le complicate ramificazioni dei Buendía, l’importanza di Sir Francis Drake, le infinite meraviglie degli zingari. Nelle ultime pagine Aureliano Buendía, discendente di quel José Arcadio che fonda la famiglia e Macondo, comincia a leggere le pergamene di Melquíades, lo zingaro che continua ad apparire nella vicenda. Redatte in sanscrito, e cifrate nei versi pari con la chiave privata dell’imperatore Augusto e in quelli dispari con chiavi militari lacedemoni (chi sente odore di Borges ha buon fiuto), esse ordinano i fatti non secondo il tempo convenzionale, ma concentrando «un secolo di episodi quotidiani, di modo che tutti coesistessero in un istante». Mentre Aureliano ripercorre le proprie radici e passa oltre per scoprire il proprio destino, comincia il vento, «tiepido, incipiente, pieno di voci del passato, di mormorii di gerani antichi, di sospiri di delusioni anteriori alle nostalgie più tenaci». Aureliano non se ne accorge, né sente il secondo, impetuoso, assalto del vento, che ora con potenza ciclonica strappa via porte e finestre e sradica perfino le fondamenta della casa. Scopre, invece, le proprie origini e i «labirinti più intricati del sangue». L’uragano «biblico», nella sua collera, centrifuga senza pietà l’intera Macondo in un vortice pauroso di polvere e macerie: Aureliano salta undici pagine «per non perder tempo con fatti fin troppo noti» e comincia a decifrare l’istante che sta vivendo, e lo decifra a mano a mano che lo vive, «profetizzando se stesso nell’atto di decifrare l’ultima pagina delle pergamene, come se si stesse vedendo in uno specchio parlante […] Allora saltò oltre per precorrere le predizioni e appurare la data e le circostanze della sua morte. Tuttavia, prima di arrivare al verso finale, aveva già compreso che non sarebbe mai più uscito da quella stanza, perché era previsto che la città degli specchi (o degli specchietti) sarebbe stata spianata dal vento e bandita dalla memoria degli uomini nell’istante in cui Aureliano Babilonia avesse terminato di decifrare le pergamene, e che tutto quello che vi era scritto era irripetibile da sempre e per sempre, perché le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra» (p. 981).
Lo specchio è la metafora che conclude l’intera, tragica vicenda dei Buendía, spazzando via persino la ripetitività dei suoi cicli. Il finale epico del romanzo non nasconde, però, il confinamento nella stanza (alla maniera di Beckett o di Auster), né il coincidere di lettura e profezia, di prefigurazione e compimento.
Se saltiamo a piè pari una dozzina di anni, eccoci a Midnight’s children (1981; trad. it. I figli della mezzanotte, 1984) di Salman Rushdie (n. 1947), il romanzo che ha lanciato la letteratura anglo-indiana sul palcoscenico mondiale. Saleem Sinai, il protagonista, che proviene da una famiglia musulmana, narra in punto di morte la sua storia, strettamente intrecciata a quella dell’India postcoloniale. Saleem, come gli altri «figli della mezzanotte», è nato appunto alla mezzanotte del 15 agosto 1947, al momento in cui l’India proclamò la propria indipendenza. Tutti quei bambini possiedono doti straordinarie, come una forza sovrumana e una bellezza soprannaturale, la capacità di divenire invisibili e di viaggiare nel tempo. Saleem, telepata dal naso enorme e perennemente gocciolante, attraversa tutte le vicissitudini della propria patria: dopo la partizione del Paese, la famiglia emigra in Pakistan, ma viene sterminata in un raid aereo durante la guerra tra Pakistan e India; egli perde la memoria, partecipa alla guerra fra Pakistan Occidentale e Orientale, la ritrova durante il proprio esilio nella giungla di Sundarban, ritorna in Bangladesh, entra illegalmente nell’India di Indira Gandhi e viene incarcerato, perdendo durante l’emergenza proclamata da Indira, assieme agli altri «figli della mezzanotte», i propri poteri. Tragico e comico allo stesso tempo, il romanzo risulta da una invenzione geniale e da una somma di ispirazioni: le Mille e una notte e Die Blechtrommel (1959; trad. it. Il tamburo di latta, 1962) di Günter Grass, Tristram Shandy (1760-1767; trad. it. 1922-23) di Laurence Sterne assieme al Mahābhārata e al Rāmāyana (più tardi, per The satanic verses, 1988, trad. it. I versi satanici, 1989, Rushdie ammetterà l’influenza del Master i Margarita). Il multiculturalismo ne è del resto una caratteristica saliente: «C’erano una volta», confessa a un certo punto Saleem, «Radha e Krishna e Sita e Laila e Majnu; e anche (poiché non possiamo dire di non essere stati toccati dall’Occidente) Romeo e Giulietta e Spencer Tracy e Katharine Hepburn» (2003, p. 367). Anche il plurilinguismo di Midnight’s children (che inaugura una caratteristica della narrativa postcoloniale) fa parte dell’impasto del realismo magico: un inglese flessibile, ironico e paradossale si accompagna alle varie lingue indiane, rinnovando il tradizionale linguaggio della scrittura anglo-indiana. Ma, soprattutto, è Saleem stesso, in una delle pagine centrali del libro, a presentare con autocoscienza e sottigliezza non dissimili da quelle esibite da Dante nell’Epistola a Cangrande, i piani sui quali l’opera marcia: «Con la combinazione tra ‘attivo’ e ‘letterale’ alludo, ovviamente, a tutte le mie azioni che influirono direttamente – letteralmente – su eventi storici fondamentali o ne alterarono il corso [...]. L’unione tra ‘passivo’ e ‘metaforico’ include tutte le tendenze sociopolitiche e gli eventi che, per il solo fatto di esistere, agirono metaforicamente su di me [...]. I successivi ‘passivo’ e ‘letterale’, uniti da trattino, coprono tutti i momenti in cui gli eventi nazionali ebbero un rapporto diretto con la mia vita e quella della mia famiglia [...]. E infine c’è il ‘modo’ ‘attivo-metaforico’, che raggruppa quei casi in cui cose fatte da me o a me si rispecchiarono nel macrocosmo degli affari pubblici e la mia esistenza personale si rivelò simbolicamente tutt’uno con la storia» (p. 337).
Midnight’s children è un romanzo per molti versi epocale, perché segnala alla coscienza europea e occidentale una ormai avvenuta globalizzazione letteraria (si riparla oggi di Weltliteratur), un métissage culturale che pare affermarsi come una delle tendenze più durature del nostro tempo. Se si guarda alla narrativa, non si potrà fare a meno di notare la provenienza geografica, e spesso anche linguistica, degli autori maggiori: Nagib Mahfuz (1911-2006, Egitto), Abrāhām B. Yehoshua (n. 1936, Israele), Julio Cortázar (1914-1984, Argentina), V.S. (Vidiadhar Surajprasad) Naipaul (n. 1932, Trinidad, Caraibi), Orhan Pamuk (n. 1952, Turchia), J.M. (John Maxwell) Coetzee (n. 1940) e Nadine Gordimer (n. 1923, entrambi del Sudafrica), Kenzaburo Ōe (n. 1935, Giappone), Gao Xingjian (n. 1940, Cina). A questi si affiancano scrittori altrettanto significativi provenienti dalla più tradizionale area euro-americana: Michel Tournier (n. 1924), José Saramago (n. 1922), Thomas Berhard (1931-1989), W.G. (Winfred Georg) Sebald (1944-2001), Christoph Ransmayr (n. 1954), Umberto Eco (n. 1932), Doris Lessing (n. 1919), John Barth (n. 1930), il già citato P. Auster, Thomas Pynchon (n. 1937), Don DeLillo (n. 1936), Toni Morrison (pseud. di Chloe Anthony Wofford, n. 1931). Infine, fenomeni emergenti come, per es., il Khaled Hosseini (n. 1965, statunitense ma afgano di nascita) di The kite runner (2003; trad. it. Il cacciatore di aquiloni, 2004) e di A thousand splendid suns (2007; trad. it. Mille splendidi soli, 2007), o il Mohsin Hamid (n. 1971) di The reluctant fundamentalist (2007; trad. it. Il fondamentalista riluttante, 2007).
Il postmodernismo dichiarato di alcuni, come Barth, Cortázar, Coetzee, Auster, Pynchon, e la maniera affatto personale di un Yehoshua o di un Saramago non impediscono ibridazioni. Le parabole di Saramago, per es. in Ensaio sobre a Cegueira (1995; trad. it. Cecità, 1996), l’immaginazione ricostruttiva di un Ransmayr in Letzte Welt (1988; trad. it. Il mondo estremo, 1989), la ri-scrittura e il realismo fantastico di Tournier, le sperimentazioni e l’afflato di Mar Mani (1990; trad. it. Il signor Mani, 1994) e di Massa῾el tom ha-elef (1997; trad. it. Viaggio alla fine del millennio, 1998) di Yehoshua, non sono poi così distanti dal realismo magico. Allo stesso modo, l’intreccio ‘giallo’ domina Il nome della rosa e Il pendolo di Foucault (1988) di Eco quanto Benim Adım Kırmızı (1998; trad. it. Il mio nome è rosso, 2001) di Pamuk, i romanzi di Cortázar (dedito, del resto, sulle orme di Borges, anche al fantastico e alla metafisica), e The New York tril-ogy (1985; trad. it. Trilogia di New York, 1996) di Auster. Come provano anche fenomeni dall’indiscutibile successo di massa quali gli intrighi di John Le Carré (pseud. di David John Moore Cornwell, n. 1931), Patricia Highsmith (propr. Mary Patricia Plaugman, 1921-1995), John Grisham (n. 1955), Patricia Cornwell (n. 1956), Michael Crichton (1942-2008) e Dan Brown (n. 1964), la narrativa della fine del 20° sec. e dell’inizio del 21° – che incontra in questo il cinema e la televisione e mostra una tendenza ad avvicinare modi alti e popolari – sembra avere un insopprimibile bisogno del mistero e una vocazione innata all’enigma. Il pubblico adora inoltre la fantasy più sfrenata, come dimostrano il mondo degli hobbit di J.R.R. (John Ronald Reuel) Tolkien (1892-1973) e quello di Harry Potter di J.K. (Joanne Kathleen) Rowling (n. 1965). Ma tutta la narrativa dei nostri giorni ama l’invenzione fantastica, paradossale, storico-mitica, sovente in forma di ri-scrittura, di viaggio attraverso la storia. Tragedie remote e prossime sono rivisitate con allucinato profetismo, con la veggente cecità della scrittura. Come dichiarano le ultime righe del romanzo di Saramago: «Perché siamo diventati ciechi, Non lo so, forse un giorno si arriverà a conoscerne la ragione, Vuoi che ti dica cosa penso, Parla, Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur ve-dendo, non vedono» (trad. it. Cecità, 1996, pp. 314-15).
Poesia: postcolonialismo, mito, sincretismo
Presentare un panorama altrettanto organico della poesia contemporanea è in sostanza impossibile: perché i poeti sono ben più chiusi in sé stessi dei romanzieri e assai più restii ad accettare soggettivamente, o rientrare oggettivamente, in etichette cumulative; e perché è più difficile applicare la categoria di contemporaneo a uomini e donne che, venendo consacrati in età generalmente più avanzata dei narratori, spesso giungono alla contemporaneità quando sono ormai venerabili aedi che hanno già percorso numerose fasi di scrittura e di poetica. Due dei più influenti poeti italiani ‘contemporanei’, per es., Mario Luzi e Andrea Zanzotto, sono nati rispettivamente nel 1914 e nel 1921 (e Luzi è morto nel 2005), e Cristina Campo (pseud. di Vittoria Guerrini), che sempre più viene considerata come una delle voci liriche più alte del Novecento, era del 1923 (ed è morta nel 1977). René Char (1907-1988), Claude Simon (1913-2005), Yves Bonnefoy (n. 1923) e Philippe Jaccottet (n. 1925), che è quanto a dire il pantheon lirico di lingua francese, vanno dal 1907 al 1925. Czesław Miłosz (1911-2004) e Wiesława Szymborska (n. 1923), i due grandi polacchi, dal 1911 (lo stesso anno di nascita della statunitense Elizabeth Bishop) al 1923. Anche Ted Hughes (1930-1998) e Sylvia Plath (1932-1963) avrebbero oggi quasi ottant’anni, e loro contemporanei sono due fra i lirici più importanti degli Stati Uniti, John Ashbery (n. 1927) e Charles Wright (n. 1935).
Converrà perciò fermarsi, nel tentativo di mantenersi tra i poeti indiscutibilmente affermati a livello internazionale, su quello che appare come un terzetto, formato da Adonis (pseud. di ῾Alī Aḥmad al-Sa῾īd, n. 1930), Wole (propr. Akinwande Oluwole) Soyinka (n. 1934) e Derek Walcott (n. 1930), emerso a livello mondiale fra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta del secolo scorso. I tre provengono da alcune fra le zone più travagliate del pianeta, il mondo arabo, la Nigeria e i Caraibi, e forse proprio per le loro origini così diverse, e per le loro storie fatte anche di emigrazione, esilio, lotta contro l’autocrazia o il dominio coloniale, sono particolarmente rappresentativi delle tendenze della lirica contemporanea.
Il sincretismo sembra accomunare Adonis, Soyinka e Walcott: tutti e tre immersi per un verso negli archetipi occidentali, tutti e tre alla ricerca di una sintesi con le proprie culture d’origine. Il maggiore poeta arabo vivente, il siriano (ma di nazionalità libanese e residente a Parigi) Adonis, dice di sé stesso: «Fuggo nelle grotte sulfuree / stringo tra le braccia le scintille / sorprendo i segreti / in una nube d’incenso, nelle unghie degli spiritelli. // Cerco Ulisse / Forse innalzerà per me i suoi giorni come una scala / Forse mi parlerà e mi dirà quel che le onde non sanno» (Mémoire du vent. Poèmes 1957-1990, 1991; trad. it. Memoria del vento, 2002, pp. 46 e 48). Ulisse (e altrove Icaro; A memory of wings, in The pages of day and night, 1994, p. 27) è, in effetti, uno dei miti più importanti negli Aġānī Mihyār al-dimašqī (1961; trad. it. Canti di Mihyar il damasceno, in Nella pietra e nel vento, a cura di M.F. Corrao, 1999) di Adonis, ma egli è costantemente accompagnato da Gilgamesh e Sindbad, perché il poeta pensa che esista un’antica tradizione mediterranea nella quale la vita è un campo vastissimo per la conoscenza umana e i semi dai quali quel campo cresce alla fertilità – i semi del progresso – sono espressi dall’epica di Gilgamesh e dall’Odissea omerica. Ma, si domanda Adonis, Sindbad è davvero differente dal sumero Gilgamesh o da un Ulisse greco cantato in arabo? Il sincretismo – sembra suggerire il cantore siriano – rappresenta per il mondo arabo di oggi l’unica salvezza: non mera assimilazione all’Occidente, ma neppure la chiusa realtà che il fondamentalismo vorrebbe imporre. Appassionatamente legati alla propria lingua, i poeti arabi dei nostri giorni vorrebbero superare la «divisione delle culture» ritornando ai loro più aperti predecessori e immergendosi nella più vasta civiltà dell’antico Oriente mediterraneo (si vedano le raccolte di Adonis pubblicate in Italia Desiderio che avanza nelle mappe della materia, 1997, e La preghiera e la spada, 2002).
Sincretismo non vuol dire assorbimento indolore, acquiescenza ai modelli altrui: significa invece pena dell’esistenza, conflitto tra civiltà, divisione lancinante nella vita e nella storia. Anche Wole Soyinka, il grande scrittore africano in esilio, si riallaccia al mito classico di Omero: ma per descrivere i conquistatori britannici dell’Africa, con bruciante ironia, come coloro che si consideravano discendenti di Ulisse, e per vedere in Nelson Mandela un Ulisse resistente a tutte le Sirene dell’animo e del mondo (cfr. Ulysses Britannicus in Africa e ‘No!’ He said, in Ulisse. Archeologia dell’uomo moderno, a cura di P. Boitani, R. Ambrosini, 1998, pp. 367-74 e 375-77; Mandela’s earth and other poems, 19902, pp. 21-23). Incollato a un promontorio, i frangenti cercano di annegargli nella marea la «volontà nera della sua razza», mentre anguille albine frugano il «cortice del suo cuore», gli offrono l’oblio e la libertà dalla prigione, tentano di sedurlo e vincerlo abbattendone l’identità, ricordandogli gli apparentemente inarrestabili compromessi della storia, il passare del tempo, la sua lingua incatenata, il suo essere un povero Nessuno. A ogni tentazione, compresa quella che con voce suadente lo invita a fungere da «mascotte d’ebano sull’ammiraglia della nostra flotta spaziale», Mandela-Ulisse risponde: «No». No, perché egli non è un prigioniero di quella roccia, ma la roccia stessa; no, perché, «precedente su questo suolo», egli ha faticato e combattuto «come nella grande balena scura del tempo, Buco Nero della galassia», per dare alla luce mondi nuovi in guisa d’antico demiurgo.
E tuttavia, se questo è il potente messaggio politico, etico e storico di un Omero proveniente dalla Nigeria, Soyinka sa anche, da grande letterato, assorbire il disegno generale dell’Odissea in quel libro autobiografico intitolato Ìsarà. A voyage around Essay (1989; trad. it. Ìsarà: intorno a mio padre. Un viaggio, 1996), certo non scevro di conflitti politici e culturali, ma che è anche un viaggio «attorno» alla vita e ai tempi «eroici» di suo padre Essay. Né manca in lui la figura del poeta come esploratore alla ricerca della giustizia, l’Ofeyi che campeggia in Season of anomy (1973; trad. it. Stagione di anomia, 1981).
Del resto, il mito classico si accompagna a quello biblico e a quelli inglesi – Ulisse, Giuseppe figlio di Giacobbe, Gulliver e Amleto – a formare i quattro archetipi fondamentali di Soyinka, come bene indica la sezione di A shuttle in the crypt (1972) intitolata appunto Four archetypes. Egli cerca nelle quattro figure archetipiche provenienti da culture diverse le ombre di sé stesso: ecco di nuovo, per es., le «onde dal centro di vino», le «pieghe con l’odore dei maiali», gli Stretti tra «rocce vaginali». Circe ha tenuto il poeta in prigione, ma senza riuscire a cambiarlo in bestia. Il passaggio fra Scilla e Cariddi, fra Nigeria e Biafra, è stato un orrore che lo scrittore ha affrontato e superato. Ogni esperienza strappa un pezzo di carne, erode la pelle. Eppure, acquistare esperienza del mondo e dell’umano valore è parte nobile della vita, l’unica che consenta a «menti fatte canute dalla ricerca» di rimanere radicate, nell’attività e nell’impegno, come «solitudine massiccia tra le onde»: l’unica che paradossalmente permetta di mantenere, sui «mari caduti nell’oscurità», il «nostro essere lucente, sospeso come un miraggio sulla realtà del mondo». Métissage, di nuovo, farsi, sino in fondo, come gli archetipi: prendere dunque su di sé Giuseppe, Gulliver, Amleto, Essay, Ofeyi e Nelson Mandela.
Derek Walcott – come gli altri poeti caribici Wilson Harris (n. 1921: Eternity to season, 1978), Edward Brathwaite (n. 1930: The arrivants. A new world tril-ogy, 1973) e David Dabydeen (n. 1955: Coolie odyssey, 1988) – è fra i poeti degli ultimi decenni quello più legato al mare e al mito, che riscrive in molte delle sue opere con piglio epico. «The sea is History», il mare è Storia, egli canta, e percorrendo i libri della Bibbia, dall’Antico al Nuovo Testamento, ricostruisce la vicenda degli afroamericani: deportazione, schiavitù, emancipazione (in Collected poems 1948-1984, 1992, pp. 364-67; trad. it. Mappa del nuovo mondo, 1992). Il mare è Storia, è sangue e oppressione. Quando, nel 1990, Walcott pubblica Omeros (trad. it. 2003), il poema che gli varrà il Nobel, la sua ispirazione si è fatta di più largo respiro. Omeros, fondendo l’esametro e la terza rima, riecheggiando Dante, Joyce, Montale, Hemingway, Conrad, Kipling e la Bibbia, canterà bensì di una guerra – quella, per gelosia della bellissima Elena, fra il semplice pescatore, il «quieto Achille, figlio di Afolabe», che commette un’unica strage, di pesci, e morirà la «morte per acqua» del Phlebas di Eliot, e un Ettore che ha abbandonato le canoe per guidare un taxi – e della ferita di Filottete, guida turistica sull’isola natale del poeta, Saint Lucia, e ancora la storia del maggiore Plunkett e di sua moglie Maud; ma canta anche, e soprattutto, il Mar dei Caraibi, che «goes on», continua: il mare che è ancora e sempre; e il paesaggio incantato delle sue isole, che pare redimere l’uomo dalla Storia; e le albe e i tramonti e la luna piena che brilla sull’oceano. Omeros, però, mette anche in scena Sette Mari, un aedo cieco e veggente come Demodoco, e l’antico poeta, Omero stesso: O («l’invocazione della concava conchiglia»), mer («madre e mare nel nostro patois delle Antille»), os («un osso grigio, e il bianco frangente quando si frange / e sfarina il suo colletto sibilante sul merletto della riva»): Omeros.
Il poeta ne insegue le ombre percorrendo il mondo, attraversando il suo meridiano e raggiungendo il «villaggio di fango cotto fondato da Ulisse»: Ulissibona, Lisbona (l. V, cap. XXXVII, I-III, pp. 320 e sgg.). E Omero si fa Ulisse e Odissea, Joyce e Ulisse. Compare a Londra, in un nero cappotto da battelliere: ha in mano «il suo manoscritto di carta da pacchi». Occhi chiusi, labbra logore, la barba riccia «come le orecchiette della sua Odissea», battezza le navi, si raggomitola come un mendicante su di una panchina sotto l’argine del Tamigi, contempla il fiume e le barche e le ombre e la nebbia «che nasconde gli imperi: Londra, Roma, la Grecia» (l. V, cap. XXXVIII, I-II, pp. 328-33). Sulla Liffey di Dublino, subito dopo, ecco Anna Livia Plurabelle, protagonista del Finnegans wake di Joyce, «Musa dell’Omeros del nostro tempo, Maestro indiscusso / e autentico tenore del luogo». Poi, Joyce stesso, gentile, la voce come il promontorio di Howth Head che chiude la baia di Dublino a nord, «spruzzato di sole, muschio viola», fa da guida a tutti, compresa la voce narrante del poema. Infine, appare Ulisse stesso, allo stesso tempo sull’Egeo e sul Mar dei Caraibi: «ombra stanca», la cui vela aderisce come una farfalla allo snodo di un ramo d’ulivo, la cui sposa, al braccio del vecchio padre, teme per il futuro. Ulisse errante in folle volo, ma pieno di desiderio e timore del ritorno (l. V, cap. XL, I-II, pp. 342-47).
Queste ombre sono, però, provvisorie, come i poeti che Dante incontra nel suo viaggio: Omeros sarà il Virgilio dell’io narrante, Joyce un’altra guida, Ulisse un modello. Ma come Dante si libera di Virgilio, e di tutti i poeti che l’hanno formato, dai due Guidi ad Arnaut, per compiere il suo cammino, così Walcott deve acquistare coscienza che c’è un percorso suo, che quel che ha letto e «riscritto finché la letteratura non è divenuta colpevole come la Storia» deve essere non abbandonato, ma trasformato in quel che vuole lui: «un bosco fresco lungo una strada, una capanna / chiusa come una ferita, e il suono di un fiume che si allarga / fra gli alberi». Un uomo che sbuca dal sentiero, una ragazza carica di bucato, l’odore di pagnotte, la strada, le farfalle vestite di giallo lungo gli argini erbosi: «Perché non vedere Elena // come il sole la vedeva, senza nessuna ombra di Omero, / mentre dondolava i sandali di plastica sulla spiaggia, sola, / fresca come la brezza del mare?» (l. VI, cap. LIV, pp. 456-61).
Omeros attraversa la poesia, segue le orme della storia insanguinata e piena di risentimenti che l’Europa e l’Occidente hanno fatto calpestare a sé stessi, all’Africa, ai Caraibi, a tutta l’America. La percorre senza sconti, ma con infinita compassione, con la pietà dovuta agli uomini e alle donne, alla natura: ad Achille, Ettore, ma anche a Elena e Filottete. E scopre, infine, il viaggio «giusto», l’odissea che Omero, e quindi ogni poeta, ha compiuto componendo, accovacciato e completamente immobile nel silenzio, e mandando invece il suo narratore, ossia Ulisse, a soffrire sui flutti e a incontrare genti e lingue straniere.
«I classici possono consolare. Ma non abbastanza», scriveva Walcott in Sea grapes (1976). Non si deve dunque dimenticare la storia, con i suoi dolori, i suoi incerti passi. Prima dell’Odissea, c’è sempre una guerra di Troia, e colui che ritorna a Itaca è quello stesso che ha ridotto Ilio in cenere e tizzi, il primo europeo a distruggere l’altro e tradurne schiavi a Occidente. Viene, però, il momento in cui la poesia coglie l’istante primevo, il proprio stesso inizio e il principio del mondo. Nella Bibbia, è l’attimo della Creazione. Nella cultura e nella poesia che dai greci, attraverso mille metamorfosi, discende sino a noi, è un altro momento di creazione: poetica. Forse, di contro all’affermazione di Walcott in Sea grapes, «I classici possono consolare. Ma non abbastanza», si può collocare il conforto che la riscrittura dei classici in una cultura mista – nel métissage del 21° sec. – offre a tutti noi proprio dall’opera di Walcott, da quella Map of the new world nella quale la poesia ritorna al suo principio, al suo inizio incantato, dove «un uomo con occhi annuvolati» raccoglie la pioggia: «Alla fine di questa frase, comincerà la pioggia. / All’orlo della pioggia, una vela. // Lenta la vela perderà di vista le isole; / in una foschia se ne andrà la fede nei porti / di un’intera razza. //La guerra dei dieci anni è finita. / La chioma di Elena, una nuvola grigia. / Troia, un bianco accumulo di cenere / vicino al gocciolar del mare. // Il gocciolio si tende come le corde di un’arpa. / Un uomo con occhi annuvolati raccoglie la pioggia / e pizzica il primo verso dell’Odissea. //» (trad. it. in Mappa del nuovo mondo, 1992, pp. 150-51).
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