Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dopo la grande fioritura del XII secolo, nel XIII e XIV cessa la produzione di opere strettamente appartenenti al genere visionario. Si volgarizzano i grandi testi dei secoli precedenti mentre la letteratura dell’aldilà assume altre forme, in particolare quella del poemetto didattico di tono popolare e fine edificante o quella del poema allegorico, talvolta venato di intenti satirici. Inoltre attraverso le traduzioni dall’arabo promosse in Spagna può essere conosciuto in Europa il racconto del viaggio oltremondano di Maometto elaborato dalla tradizione visionaria islamica.
Giacomo da Verona
De Ierusalem Celesti et de pulchritudine eius et beatitudine et gaudia sanctorum
De Ierusalem celesti, vv. 29-60
Or començemo a dir ço ke li santi diso
de questa cità santa del Re de paraìso:
mo de le soe belleçe en parto, ço m’è viso,
san Çuano ’de parla entro l’Apocalipso.
Perçò ve’n digo “en parto” k’eo so ben per fermo
k’el no fo mai poeta né om de sì gran seno
ke le poëse dir né per arte comprendro,
tant’è lo soe belleçe sus en lo sovran regno.
Mo d’enfra k’el ne diso e k’ell’ è ancora scrito
e’ sì ò ben sperança êl segnor Iesù Cristo,
ke de quella cità fo fator e maistro,
ke sovra ço v’ò dir gran conse en questo dito.
Tuta empriment, de cerca è muraa,
e ’n quatro cantoni la terra edificaa;
tant è alti li muri com’è longa e laa
de prëe precïose de soto è fundaa.
Per çascun canton sì è tre belle porte
clare plu ke stelle et alte, longhe e grosse;
de margarite e d’or ornae è le soe volte,
né peccaor no g’entra, sì grand è le soe forçe.
Li merli è de cristallo, li corraor d’or fin,
e lì su sta per guarda un angel kerubin
cun una spaa en man k’è de fogo divin,
e corona à en cò tuta de iacentin:
lo qual no ge lassa andar là nuia çent,
vegnir tavan né mosca né bixa né serpent,
né losco né asirao né alguna altra çent
ke a quella cità pos’ esro nociment.
Le vïe e le plaçe, li senteri e le strae,
d’oro e d’arïento e de cristallo è solae;
alleluia canta per tute le contrae
li angeli del celo cun le Vertù beae.
in Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960
Bonvesin da la Riva
Il libro delle tre Scritture
De scriptura nigra
Dre dodhex pen dr’inferno quilò si se comenza:
quest en parol da planze a l’om k’à cognoscenza;
ki ha oreg sì olza, ki ha cor sì intenda,
ki sa si meta in ovra, ki no sa sì imprenda.
S’el foss ki ben odisse de quelle grang pagure,
el se’n devrav comove le prëe k’en sì dure;
quand e’ ge pens ben sovra, e’ n’ho de grang pagure;
lo nostr Segnor ne guarde da quel rëe venture.
Se tut le lengu’ dei homini k’il mond se pon trovar,
de quelle pen grandissime prendessen a parlar,
pur la millesma parte no aven recuintar:
in quella albergaria no fa bon albergar.
Tang en illò i tormenti ke dir no se poria:
ki sover zo pensasse, zamai no peccaria;
ki cor avess in corpo, denanz se guardaria;
ki se guardass inanze, de dre no i ’stoveria.
Illò sosten li miseri de tute guis tormenti
e han tut lo contrario quii delectamenti
dond i al mond usavano con falz adovramenti;
segond le ovre proprie fi dai li pagamenti.
Li peccaor tristissimi illoga fin pagai
segond le ovre proprie de tug li soi peccai,
e de tut lo contrario i fin desconsorai,
azò ke’l pene respondano a tug li soi peccai.
in Le opere volgari di Bonvesin da la Riva, a cura di G. Contini, Roma, Società filologica romana, 1941
Gabriele interroga Maometto
Il Libro della Scala di Maometto
E Gabriele mi domandò: “Maometto, cosa pensi delle cose, così numerose e così grandi, che Dio nella sua pietà ti ha mostrato?”. Ed io gli risposi: “Di certo nessun cuore umano può concepire l’onore e il bene che Dio mi ha recato, poiché mi ha manifestato il suo potere e la sua gloria, e mi ha mostrato i beni e l’onore che attendono i buoni, e le pene e i tormenti che saranno inflitti ai peccatori”. Al che Gabriele mi disse: “Maometto, ti sei bene impresso nel cuore tutto quel che hai visto?”. Ed io risposi di sì. Allora lui disse: “Va’, dunque, e tutto quel che hai visto, riferiscilo e illustralo ai tuoi, affinché lo sappiano, e si tengano nella giusta via della legge, e pensino e facciano in modo di meritarsi il Paradiso e di scampare all’inferno”.
Il Libro della Scala di Maometto, a cura di C. Saccone, trad. it. di R. Rossi Testa, Milano, SE, 1991
Dopo le grandi visioni dell’aldilà scritte durante il XII secolo, la stagione sembra concludersi con la Visione di Thurkillo, all’inizio del XIII. In questo e nel secolo successivo non saranno tanto elaborati nuovi testi, ma si assisterà piuttosto a un lavoro di volgarizzamento e di diffusione più ampia di testi prodotti nei secoli precedenti. Ma al modello visionario si affiancano ora altre tipologie testuali per la rappresentazione dell’aldilà. Le tradizioni oltremondane si complicano e si arricchiscono e su una tale pluralità di modelli presenti nello spazio letterario e culturale potrà appoggiarsi Dante Alighieri nel comporre la Commedia, in cui la molteplice letteratura medievale sull’aldilà è insieme presupposta e superata.
Oltre ai volgarizzamenti, nelle lingue volgari si producono anche opere originali, che in alcuni casi non rispondono alla struttura della visione o del viaggio e offrono invece una presentazione didattica a scopo edificante della condizione ultraterrena delle anime. Particolarmente interessanti risultano due poemetti didattici di argomento escatologico scritti nell’Italia settentrionale nella seconda metà del Duecento.
Il francescano Giacomino da Verona scrive in volgare veronese, in quartine monorime di alessandrini, un poemetto suddiviso in due parti, che descrivono rispettivamente il paradiso e l’inferno come due città oltremondane, il De Ierusalem celesti e il De Babilonia civitate infernali. Il tono di Giacomino è popolare e il fine edificante è dichiarato. Giacomino si mostra consapevole dell’indicibilità delle realtà oltremondane per le risorse linguistiche umane ma non rinuncia a cercare di rappresentarle allegoricamente. Sostiene infatti che è impossibile raffigurare tali realtà nella loro autentica natura (“le soe proprie nature”; “certe e veritevole”). Ecco perché egli, lo ripete più volte variando le formule, non pretende di dire le gioie della città celeste o le sofferenze della città infernale esattamente come sono, ma cerca invece di suggerirne la natura, inattingibile per il linguaggio umano, attraverso esempi concreti, figure allegoriche, simboli (“per ‘sempli e per figure’”; “soto figura”; “significançe”). Così, la “cità santa” del paradiso, la “Ierusalem celeste”, è descritta nei suoi elementi architettonici e urbanistici come fosse proprio una vera città. Del resto l’immagine del paradiso come città era tra le più antiche e affermate, e figurava spesso sia nei testi biblici che nella letteratura visionaria.
L’altro poemetto escatologico duecentesco prodotto nell’Italia settentrionale è il Libro delle Tre Scritture del milanese Bonvesin da la Riva, contemporaneo di Giacomino. Nel De Scriptura nigra, dopo aver trattato della nascita e morte dell’uomo secondo i moduli spregiativi del contemptus mundi (“disprezzo del mondo”), il poeta descrive le dodici pene dell’inferno (il fuoco; il puzzo; il gelo; le bestie infernali, vermi, scorpioni, serpenti, draghi; la visione degli altri dannati puniti dai diavoli; il frastuono prodotto dai lamenti dei dannati; i tormenti inflitti dai diavoli; la fame e la sete; le vesti e i letti pieni di spine e di chiodi; la pestilenza; la tristezza per aver perso il paradiso; la disperazione). La terza parte dell’opera è il De Scriptura aurea, che passa invece in rassegna le glorie del paradiso (la bellezza della città del paradiso; i profumi deliziosi; le grandi ricchezze; la libertà dalla prigionia della vita terrena; la visione degli angeli, della Vergine, di Dio; i canti degli angeli; il conforto portato direttamente da Gesù Cristo ai beati; i cibi deliziosi del convivio celeste; le vesti preziose; la bellezza risplendente di cui è adornato ogni beato; la gioia per essere scampato ai tormenti infernali; la sicurezza e la speranza certa di godere eternamente di queste gioie). Ma tra i due poemetti (infernale e paradisiaco) Bonvesin inserisce il De Scriptura rubra, in cui tratta della passione di Cristo, simboleggiata dal colore rosso. Il poeta propone il dolore sofferto da Cristo e da Maria come modello per ogni cristiano. E l’efficacia di tale dolore apparirà chiara nelle gioie paradisiache che saranno poi descritte nel De Scriptura aurea. Quindi il De Scriptura rubra presenta un dolore produttivo, costruttivo, e si pone come momento intermedio tra il tormento/dolore inutile dell’inferno e la beatitudine paradisiaca.
Con modalità particolari, anche i grandi poemi allegorici del XII secolo si erano misurati con il tema del viaggio oltremondano. Sia il De mundi universitate di Bernardo Silvestre che l’Anticlaudianus di Alano di Lilla rappresentano infatti un’ascesa allegorica attraverso le sfere celesti. Nel XIII secolo il modello trova sviluppo anche in ambito romanzo e soprattutto in area francese, dove si registrano varie Voies de Paradis, fra cui spiccano quelle di Rutebeuf verso il 1265, dello (pseudo) Raoul de Houdenc e di Baudouin de Condé.
Ma lo schema allegorico si può trovare anche a proposito di viaggi infernali. Raoul de Houdenc compone verso il 1215 il Songe d’Enfer, un poema in ottonari, in cui racconta in toni satirici un viaggio all’inferno, durante il quale attraversa luoghi dai chiari significati simbolici (come la città di Cupidigia o il fiume di Ingordigia) e si imbatte nelle personificazioni dei vizi. Infine giunge alla fortezza infernale dove ha luogo un banchetto diabolico, nel corso del quale i diavoli divorano i peccatori cucinati con modalità appropriate ai loro peccati: tra i cibi figurano, per esempio, arrosti di eretici e lingue di falsi avvocati, mentre le tovaglie sono in pelle di usuraio. Il macabro umorismo culinario era tipico delle visioni dell’aldilà, ma qui assume un più spiccato tono sarcastico funzionale all’intento satirico dell’opera, che sferza i vizi della società attraverso allusioni a personaggi reali e situazioni storiche facilmente comprensibili per i contemporanei.
Come la tradizione visionaria cristiana trae la propria autorità scritturale da un laconico versetto di san Paolo nella Seconda Epistola ai Corinzi, così anche in ambito islamico da una rapida allusione coranica si sviluppa una letteratura altrettanto ricca.
Un versetto della XVII Sura del Corano recita: “Gloria a Colui che rapì di notte il Suo servo dal Tempio Santo al Tempio Ultimo, dai benedetti precinti, per mostrargli i Nostri Segni. In verità Egli è l’Ascoltante, il Veggente” (XVII, 1). Da questa e da altre allusioni coraniche si sviluppano due cicli principali di narrazioni relative all’esperienza oltremondana di Maometto: il ciclo del “viaggio notturno” (isrâ’) e quello dell’“ascesa” (mi’râj).
I testi del primo tipo raccontano che Maometto viene svegliato durante la notte e condotto (solitamente dall’arcangelo Gabriele, ma ci sono anche altre varianti) su una montagna (o secondo alcuni testi a Gerusalemme) e da qui gli vengono mostrati i supplizi dell’inferno e le gioie del paradiso.
Il modello del mi’râj è più complesso e interessante: qui il Profeta viene condotto da Gabriele in un’ascensione celeste attraverso dieci gradi, costituiti dai sette cieli, poi dall’“Albero del Loto”, quindi dalla dimora dei beati; infine al decimo grado dell’ascesa Maometto può incontrare il Signore con il quale contratta lungamente il numero di preghiere che giornalmente i fedeli dovranno rivolgergli. In alcune versioni si aggiunge un ulteriore elemento: dal terzo cielo viene mostrato al Profeta l’abisso infernale, suddiviso in sette piani, e gli viene spiegata minuziosamente la disposizione dei dannati e le punizioni che devono subire in base ai loro peccati.
Da questo complesso di narrazioni si sviluppa anche una letteratura raffinata e colta, in arabo e in persiano, che rielabora, sul modello del Profeta, il motivo dell’ascesa oltremondana in dotte narrazioni di viaggi mistici e allegorici. Particolarmente significative sono in tal senso alcune opere di Avicenna, di al-Ghazali, di Ibn al-Arabi.
Ma, al di là delle rielaborazioni dotte, è particolarmente interessante, per la possibile influenza sulla cultura europea, la notizia che nel 1264 il re Alfonso X di Castiglia, detto il Savio, abbia fatto eseguire a Toledo una traduzione di una versione della narrazione tradizionale del mi’râj, dapprima in spagnolo, poi in latino e in francese. Il testo arabo di questa versione è perduto, così come la traduzione spagnola. Restano invece la traduzione latina e quella francese, con il titolo di Liber Scalae Machometi (Libro della Scala di Maometto). Anche attraverso queste traduzioni, oltre che per altri canali, le notizie sull’aldilà islamico e sul viaggio oltremondano di Maometto possono quindi diffondersi in Europa.
Negli ultimi decenni la discussione tra gli studiosi si è concentrata soprattutto sulle possibilità di un eventuale influsso di queste tradizioni sulla Commedia dantesca, con opinioni diverse al proposito. Ma l’aspetto rilevante è che le tradizioni escatologiche islamiche sono conosciute in Europa e che le traduzioni del Libro della Scala offrono un ulteriore testo alla letteratura dell’aldilà, già estremamente ricca e molteplice.