La letteratura di lingua tedesca
Letteratura o letterature?
Nel settembre 2000 è uscito a Berlino il primo numero di un nuovo mensile dedicato alle recensioni e, più in generale, al dibattito di temi culturali. Curato da un personaggio tra i più incisivi e di spicco della critica tedesca come Sigrid Löffler, «Literaturen» nel suo editoriale richiama l’attenzione sul significato programmatico di quel plurale del titolo, ‘letterature’ appunto, con cui ci si vuole riferire all’allargarsi degli orizzonti letterari e alla rete di interconnessioni che caratterizzano il mondo contemporaneo. Alla svolta del nuovo secolo la Nationalgalerie di Berlino si propone, con l’imponente mostra Das XX. Jahrhundert che segue in tre diversi luoghi espositivi differenti percorsi tematici, di esplorare un secolo di arte in Germania. I due eventi, che coinvolgono la scena culturale tedesca in una rilevante soglia storica, possono essere considerati come segnali significativi di una tendenza e, al tempo stesso, osservatorio dal quale guardare in avanti, verso ciò che al di là di quella soglia è avvenuto in Germania.
Vista in questa prospettiva l’esposizione berlinese appare interessante per l’idea di fondo di voler disegnare un panorama dal quale emerga, come dato che caratterizza in modo specifico e più di altri Paesi la Germania, lo stretto nesso tra queste sperimentazioni e la vita intellettuale, sociale e politica. Il promotore di questo complesso progetto espositivo, Peter-Klaus Schuster, direttore generale dei musei statali di Berlino, sottolinea nel catalogo che ha accompagnato la mostra il valore simbolico dei tre spazi – l’Altes Museum di Schinkel nel cuore della Berlino neoclassica, la Neue Nationalgalerie di Ludwig Mies van der Rohe sorta nel 1968 nella zona occidentale, e lo Hamburger Bahnhof lungo quello che un tempo era stato il confine tra l’ovest e l’est –, che per la loro collocazione nella topografia della città sollecitano la memoria storica di una Germania «tra unità, divisione e unità ritrovata». La fine del 20° sec., cui Joseph Beuys già nel 1983 aveva dato forma allegorica accumulando a terra enormi steli di basalto grigio, è dunque l’occasione per ripensare la propria storia. Ma se l’intreccio tra storia dell’arte e storia di un secolo è uno dei fili conduttori della mostra, che riporta continuamente al passato tedesco, un altro filo conduce in una direzione opposta facendo emergere non tanto un secolo di arte tedesca, quanto un secolo di arte in Germania.
Se l’apertura verso i linguaggi degli ‘altri’, sia sul terreno letterario sia su quello artistico, appare quasi scontata dopo il crollo dei muri e nell’epoca della ‘modernità fluida’, è proprio nel rapporto dialettico con la ricerca ossessiva della propria identità che l’attenzione alle altre letterature e alle altre sperimentazioni artistiche diventa un elemento caratterizzante della cultura tedesca. In altre parole, una costante nell’eterogeneità della produzione letteraria tedesca più recente sembra costituita proprio dalla dialettica tra l’‘autoreferenzialità’ delle letterature nazionali, di cui parla Carmine (Gino) Chiellino e che la storia tedesca certo non può non sollecitare, e lo sguardo rivolto all’‘altrove’ entro coordinate sostanzialmente diverse dalle realtà postcoloniali. Non è certamente un caso o una questione puramente nominalistica se quella che, almeno a partire dagli anni Sessanta, era stata definita come Gastarbeiterliteratur e poi – forse non soltanto in modo più politically correct – Migrantenliteratur è diventata una componente fondamentale della letteratura di lingua tedesca. La scena letteraria tedesca deve molto al contributo di autori non tedeschi. Lo testimonia l’attenzione della germanistica internazionale che nei congressi della sua associazione prevede da tempo sezioni e gruppi di lavoro sulla letteratura di lingua tedesca in contesti culturali diversi, la nomina a presidente del P.E.N. (Poets, Essaysts, Novelists) Club tedesco, dal 2000 al 2002, dello scrittore e poeta iraniano Said (n. 1947), che vive in Germania dalla metà degli anni Sessanta, e l’accoglienza di poeti di origine non tedesca nelle più classiche tra le antologie di poesia tedesca. E lo testimonia il fatto che l’interculturalità e la letteratura interculturale circolano come manuali: Interkulturelle Literatur in Deutschland. Ein Handbuch (2000), curato da Chiellino, è uscito, come sottolinea il curatore, all’inizio di un nuovo millennio e vuole essere «il biglietto da visita di un paese», e nel 2003 un bilancio sugli scenari multiculturali è stato offerto da Alois Wierlacher e Andrea Bogner nello Handbuch interkulturelle Germanistik. In questo contesto l’emittente radiofonica Multikulti, che fin dal 1994 dà voce alle minoranze etnicolinguistiche della metropoli berlinese con trasmissioni in almeno 16 lingue e con un’offerta culturale parallela al mainstream occidentale, è una precisa dichiarazione di pluralismo, mentre per altro verso anche la sua possibile, prospettata chiusura e la sua uscita dai programmi di nicchia potrebbe significare la conferma di un progetto di integrazione. Se dall’apertura dei confini la Kongresshalle berlinese è diventata la sede dello Haus der Kulturen der Welt, come luogo del dialogo interculturale con l’Asia, l’Africa e l’America Latina, a partire dalla metà degli anni Ottanta dalla Robert Bosch Stiftung e dalla Bayerische Akademie der Schönen Künste è stato istituito un premio, l’Adelbert-von-Chamisso-Preis, destinato ad autori – come appunto Chamisso che era nato in Francia – di lingua e provenienza non tedesca. Tra le righe della motivazione ufficiale del premio è possibile leggere quale ruolo venga assegnato (nella diversità delle terre d’origine e delle ragioni per la scelta di un altro Paese) all’elemento connettore costituito dalla lingua tedesca, considerata una vera e propria koinè culturale che, insieme alla letteratura, «serve alla comprensione tra le culture». E non è raro, come dichiara la stessa Robert Bosch Stiftung in una recente presentazione dell’iniziativa, che la Migrantenliteratur possa di nuovo cambiare nome e venga classificata – a segnalare la sua piena integrazione nella vita letteraria tedesca – come Chamisso-Literatur. Se si passa brevemente in rassegna l’elenco dei vincitori del premio dal 1985, non si può non rilevare l’ampiezza dello spettro di geografie culturali che vi sono rappresentate: dai turchi Aras Ören (1985), Emine Sevgi Özdamar (1999) e Feridun Zaimoğlu (2005), al siriano Rafik Schami (1993), dagli italiani Franco Biondi e Carmine (Gino) Chiellino (entrambi 1987) alla ungherese Terézia Mora (2000), e ancora Zsuzsanna Gahse (2006), di origine ungherese e stabilitasi in Svizzera, Ilma Rakusa (2003), nata in Slovacchia da madre ungherese, Ilija Trojanow (2000), di famiglia bulgara, che vive a Città del Capo. Già le indicazioni che riguardano la generazione degli autori più giovani – come Mora nata nel 1971 – o il cui esordio è più recente – Trojanow ha pubblicato il suo primo romanzo nel 1997 – segnalano un radicale mutamento di rotta nella Migrantenliteratur. La prospettiva multiculturale è, infatti, spesso già presente nella stessa vicenda biografica degli scrittori e l’esperienza della scrittura in una lingua ‘altra’, il tedesco, è oramai diventata, in senso pieno, discorso letterario. Ma a segnare le differenze rispetto al passato in questa generazione, che la categoria di transculturale coglie forse più precisamente nella componente fluida dei suoi rapporti, è soprattutto l’abbandono di tematiche direttamente legate all’emigrazione e all’integrazione o alla contrapposizione tra due ambiti diversi di appartenenza, quello di partenza e quello d’arrivo, e l’acquisizione di un posto preciso all’interno del canone letterario tedesco: basti pensare all’esempio dell’antologia Morgen Land. Neueste deutsche Literatur, uscita nel 2000 curata da Jamal Tuschick con un titolo giocato sull’ambiguità tra ‘Terra d’Oriente’ e ‘Terra del domani’, che rifiuta esplicitamente ogni caratteristica di ‘esotico’ o di mediazione tra le culture presentando un’interessante raccolta di voci esclusivamente non tedesche come «il prodotto più recente della letteratura tedesca».
Particolarmente incisivo è il contributo degli autori di origine turca, la cui comunità è in Germania la più numerosa e tra quelle con una storia di immigrazione di più lunga data. Emine Sevgi Özdamar, nata nel 1946 a Malatya nella Turchia orientale, rappresenta in modo significativo, anche se con accenti del tutto personali, la scena culturale turco-tedesca. I suoi primi testi hanno per oggetto il tema della doppia appartenenza, dove la lingua non è soltanto il medium che racconta la nuova identità, ma anche quello in cui quest’ultima concretamente prende corpo attraverso una ibridazione linguistica che, con la trasposizione di immagini e metafore della lingua turca nella lingua di adozione, opera un déplacement e allo stesso tempo porta allo scoperto il potenziale inventivo di questa scrittura ibrida. Con i romanzi autobiografici Das Leben ist eine Karawanserei (1992), Die Brücke vom goldenen Horn (1998) e Seltsame Sterne starren zur Erde (2003), che compongono la trilogia Sonne auf halbem Weg (2006), l’esistenza migrante va ormai oltre ogni spinta all’integrazione o al ritorno alla terra d’origine e sembra trovare la propria forma normale di vita proprio in questa condizione intermedia, in uno spazio sospeso e a metà, geograficamente collocato tra Istanbul e Berlino. La struttura circolare in Die Brücke vom goldenen Horn, che si apre sull’immagine del treno che porta la protagonista da Istanbul alla Germania e si chiude su un altro treno con cui la giovane donna ritorna dalla Turchia a Berlino, emblematizza nella figura del viaggio lo spazio mobile e fluido della trans-culturalità. Istanbul, in effetti, non rappresenta un sentirsi a casa, ma è un continuo cercare frammenti di ricordi berlinesi (la targa di un’auto, due camicie, un sogno) in un’abitazione che la Özdamar sente come ‘estranea’. E soprattutto non è mai vista come un punto di arrivo, ma percepita, nella ripetizione degli attraversamenti del ponte e dei passaggi dalla parte asiatica a quella europea della città, come un luogo di transito ininterrotto. Allo stesso modo l’esperienza che la Özdamar fa della Berlino occidentale negli anni Sessanta e della parte orientale a metà degli anni Settanta sta in realtà sotto il segno dell’oltrepassamento del confine, nell’una e nell’altra direzione, e della continua, ossessiva ricerca dell’‘altra Berlino’. La meta, insomma, in quanto tale, sembra perennemente sfuggire o essere spostata altrove, mentre a metaforizzare questa condizione non è, in fondo, né Wedding a ovest, né Pankow a est, ma, ancora una volta un luogo per così dire terzo, il posto di controllo, la frontiera.
Vladimir Vertlib, ebreo russo nato a Leningrado nel 1966 e ora residente in Austria, racconta il lungo cammino di migrazione che, dal momento in cui la sua famiglia ha abbandonato l’Unione Sovietica nel 1971, lo ha portato in Israele, Austria, Paesi Bassi, Italia, Stati Uniti e poi di nuovo in Austria, e il titolo di un suo romanzo, Zwischenstationen (1999), rinvia appunto a un nomadismo diventato quasi una forma di esistenza. Se si pensa alla prima grande migrazione successiva alla rivoluzione, i russi a Berlino appartengono ormai alla quarta ondata migratoria, particolarmente numerosa, che ha fatto seguito all’apertura dei confini. Un personaggio centrale in questo scenario è senza dubbio Wladimir Kaminer, arrivato nel 1990 a Berlino da Mosca, dove è nato nel 1967. Un vero e proprio fenomeno culturale potrebbe essere definita la sua presenza che attraversa la scena letteraria ‘alta’ dei premi, dei festival letterari, delle letture ufficiali, quella più alternativa, così come quella più popolare e di consumo. Le sue serate di Russendisko, inaugurate nel 1999 in uno degli edifici storici della cultura alternativa berlinese e poi trasferite al Kaffee Burger, che aveva ospitato molti intellettuali dell’Est, nascono come momento di aggregazione tra i russi a Berlino e rappresentano al tempo stesso ogni volta un evento, mentre la sua partecipazione alle trasmissioni dell’emittente Multikulti è l’altro aspetto di uno scrittore che ha esordito nel 2000 con un volume di racconti, Russendisko (trad. it. 2004), in cui si rievocano, tra l’altro, gli inizi di quella esperienza di serate musicali. La scelta del tedesco è anche qui la scelta di un interspazio, di una realtà linguistica parallela a quella reale, in parte simile, si direbbe, alla lingua delle grammatiche sovietiche, sulla cui rappresentazione di un mondo inesistente, «integro e rassicurante», Kaminer ironizza. «Non sono un berlinese», dichiara del resto lo stesso autore, che fa di questa affermazione il titolo di una stravagante guida della città «per turisti pigri» (Ich bin kein Berliner. Ein Reiseführer für faule Touristen, 2007), e, già in uno dei suoi primi racconti, gioca in modo umoristico sullo scarso interesse per la cittadinanza tedesca, conducendo il suo unico esperimento di assimilazione con il Paese ospitante nella realtà di fatto artificiosa e simulata delle colonie di orti (Mein Leben im Schrebergarten, 2007). Sta anche qui la differenza e la novità della scrittura di Kaminer rispetto ad altre generazioni o ad altre fasi della letteratura di immigrazione: i suoi testi, che hanno come sfondo una città popolata quasi esclusivamente di stranieri, di russi e vietnamiti, di cinesi e di bulgari, e in cui l’apparizione dei tedeschi è relegata appunto al mondo parallelo delle colonie di orti, tocca i temi del dislocamento, dell’estraneità e dell’allontanamento dalla propria terra nei toni sempre lievemente ironici o decisamente umoristici suggeritigli anche dalle sue origini ebraiche, e con una disincantata obliquità dello sguardo. La percezione che anche Kaminer restituisce della città, per quanto colta tutta dalla prospettiva raccorciata di un quartiere, se non addirittura di un’unica strada (Schönhauser Allee, 2001), è legata al cross over delle culture che ha dato vita a identità nuove, in qualche modo plurime, sicché quel ‘mimetismo’, di cui Kaminer racconta e che confonde e mescola continuamente nazionalità e attività commerciali, diventa la metafora di una realtà transculturale.
Un altro esempio della multiculturalità che attraversa la letteratura di lingua tedesca negli ultimi anni è Ilija Trojanow (n. 1965) che con il suo Der Weltensammler (2006; trad. it. Il collezionista di mondi, 2007) segue un percorso diverso nella rappresentazione della ‘estraneità’, della conflittualità e dell’integrazione tra culture e religioni diverse. La vicenda biografica dell’ufficiale britannico Sir Richard Burton, seguita nelle sue spedizioni e negli spostamenti tra l’India, la Mecca e le sorgenti del Nilo nell’Africa orientale, in parte con precisione documentaria in parte con il gioco dell’invenzione, colloca l’‘estraneità’ nei suoi spazi e nelle sue lontananze geografiche. Il nomadismo di Burton, il cui itinerario si sovrappone a quello dello stesso Trojanow, è in realtà lo specchio di un’autentica spinta al movimento, di cui l’autore e i suoi testi offrono una sensibile e significativa testimonianza.
Feridun Zaimoğlu, che è nato in Anatolia nel 1964 e che dal 1974 vive in Germania, si è affermato con la provocazione dei ‘protocolli esistenziali’ del suo Kanak Sprak. 24 Misstöne vom Rande der Gesellschaft (1995), rovesciando in positivo l’accezione dispregiativa del termine canaco con cui in un’ottica discriminatoria vengono indicati gli immigrati turchi in Germania. Quella sorta di slang, che inserisce espressioni turche negli schemi della grammatica tedesca, mescola il gergo giovanile e i linguaggi della cultura e della subcultura metropolitana, diventa così l’espressione delle reti multietniche che caratterizzano la realtà tedesca, trasformandosi in un autentico etnoletto, inteso come un terzo spazio linguistico tra il turco e il tedesco capace di rappresentare la differenza e la distanza da ogni forma di cultura mainstream. E ancora su una provocazione, pur nell’inclinazione grottesca della sua radicalità e dei suoi eccessi, è costruita la vicenda di affermazione identitaria raccontata in Abschaum. Die wahre Geschichte von Ertan Ongun (1997; trad. it. Schiuma. Il romanzo della «feccia» turca, 1999). Con il romanzo Leyla (2006; trad. it. 2007) Zaimoğlu torna, apparentemente, a una storia di emigrazione che, raccontata dalla voce della protagonista, ha il suo inizio nell’Anatolia degli anni Cinquanta, transita per Istanbul e termina in Germania. Sostanzialmente diversa rispetto al cammino degli emigranti è tuttavia la configurazione che Zaimoğlu assegna al viaggio di Leyla: non il triste, doloroso abbandono di una terra, ma al contrario, anche attraverso i non pochi squarci su un mondo fatto di violenze e di crudeltà, un percorso consapevole e caparbio di autoaffermazione. E nuovi sono anche i toni cui l’oralità della narrazione conferisce, nonostante tutte le cupezze, un andamento quasi fiabesco – anche se da fiaba crudele –, ormai lontanissimo da ogni forma di Migrantenliteratur.
La storia raccontata
Se Zaimoğlu con il romanzo in cui ritorna alle sue origini turche ha scritto una vera saga familiare, è proprio su questo terreno delle storie private, inserite nelle grandi costellazioni storiche e nei grandi rivolgimenti, che si può riscontrare un punto di tangenza con molti testi pubblicati in Germania negli ultimi anni. Il romanzo familiare, che ha in questo Paese una sua lunga tradizione, conservata non da ultimo nella letteratura tedesco-orientale in quei cicli che ricostruivano attraverso la storia di una famiglia la genealogia del nuovo Stato e insieme la storia del socialismo, sembra essere diventato nuovamente, a partire dalla riunificazione, un filone privilegiato, ma sembra anche aver mutato abbastanza radicalmente il suo orientamento. Quella letteratura che negli anni Settanta, confrontandosi con la generazione dei padri, aveva fatto i conti – almeno a Occidente, per la prima volta – con il passato nazionalsocialista, allarga ora il proprio raggio di esplorazione oltre i confini spaziali e temporali di un ‘dialogo’ tra padre e figlio, andando indietro nel tempo o recuperando quegli spazi che l’apertura dei confini ha reso in tutti i sensi transitabili. La ‘letteratura dei padri’ diventa così letteratura di un gruppo familiare, di una comunità, dove l’andare indietro nel proprio passato o in quello di un personaggio d’invenzione è l’esercizio attento, doloroso, a volte crudele, con cui frammenti di storia vengono sottratti all’amnesia del singolo o della comunità e riattivati dalla letteratura. La memoria, coartatamente o volontariamente repressa, distorta o cancellata, ritrova ora il suo posto e consente con il recuperato accesso ad archivi ufficiali o a carte private una ricollocazione dei destini e delle esperienze individuali e collettivi. Ed è poco importante, in questa operazione di recupero, che l’archivio porti allo scoperto documenti autentici, autobiografie fittizie o genealogie d’invenzione: ciò che conta, e soprattutto ciò che è nuovo, è il rapporto che lega indissolubilmente memoria e identità nazionale.
Per Marcel Beyer (n. 1965) l’ingresso nell’archivio dei sentimenti è mediato, in Spione (2000), dalla scoperta di un album di fotografie che innesca in quattro cugini, tra i quali è l’io narrante, un atteggiamento voyeuristico. È lo sguardo attraverso lo spioncino della porta a guidare simbolicamente la risistemazione delle tessere di un puzzle. Dalle ‘spore’ del passato si evoca, si ricostruisce o si inventa un intero mondo, si inseguono fantasmi, si sciolgono o si riavviluppano segreti integrando gli spazi lasciati vuoti, nell’album, dalle fotografie mancanti. «Romanzo familiare» definisce Stephan Wackwitz (n. 1952) il suo Ein unsichtbares Land. Familienroman (2003) dove sono ancora delle fotografie a fare da doppio filo conduttore: quelle perdute, non più recuperabili, di una macchina fotografica avventurosamente ritornata al suo proprietario dopo le vicende belliche e quelle che accompagnano la riappropriazione di un paesaggio, di un piccolo paese nell’Alta Slesia e dei suoi abitanti di un tempo. Le immagini e le testimonianze scritte, le lettere e le pagine di diario che Christina von Braun (n. 1944) raccoglie in Stille Post. Eine andere Familiengeschichte (2007) sollecitano un dialogo impossibile con i morti della sua famiglia fino a ricomporre i fatti in un altro ordine e in un’altra storia e secondo una genealogia prevalentemente matrilineare che sottrae al silenzio e alle falsificazioni le figure della madre e della nonna. Wibke Bruhns (n. 1938) in Meines Vaters Land. Geschichte einer deutschen Familie (2004; trad. it. Il cospiratore, 2005) attinge «dalle catacombe di un clan familiare suddiviso in molti rami» una fitta documentazione diaristica e fotografica per ridefinire la percezione distorta del padre giustiziato come uno dei partecipanti all’attentato contro Adolf Hitler del 20 luglio 1944. La ricerca di un uomo in fondo mai conosciuto è, al tempo stesso, la ricerca di una città, quella Halberstadt pressoché completamente distrutta dai bombardamenti degli alleati, rivisitata attraverso la vicenda della famiglia narrata risalendo fino agli inizi dell’Ottocento e a cui fanno da costante contrappunto gli avvenimenti della grande storia. Ma anche là dove l’esplorazione non va a scavare all’indietro in ascendenze lontane e dove la prospettiva sembra tornare a restringersi su un unico personaggio, la riattivazione della memoria ha una funzione nuova, diversa rispetto al confronto generazionale degli anni Settanta, caratterizzato dalla radicalità dei toni e dalla volontà di stabilire differenze. Tornano, insomma, i libri sui padri, sulle madri o sui fratelli dispersi, le ricerche su compagni di strada perduti, ma ora a essere presente è soprattutto l’interrogazione sulle ripercussioni che le vicende storiche hanno avuto su quelle private. Un album fotografico costituisce la struttura di riferimento anche per una raccolta poetica (Album, 2008) in cui Sabine Scho (n. 1970), attraverso il dialogo tra immagini e testo, mette insieme per frammenti una sorta di storia della vita quotidiana tedesca, dagli anni Trenta attraverso la Germania degli anni Cinquanta e del miracolo economico fino alla realtà contemporanea. E qui proprio il linguaggio lirico consente quelle dissolvenze incrociate che finiscono per invertire i luoghi e i tempi, lasciando affiorare dall’oggi di una esibizione aerea a Oldenburg, la Danzica del passato, in una catena pressoché ininterrotta di associazioni in cui la guerra – quasi facendo eco alla scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann – non è più dichiarata, ma proseguita senza soluzione di continuità.
In particolare, riguardo alla catastrofe tedesca del nazionalsocialismo il riorientamento storico sembra aver lasciato da parte il difficile nodo di colpa collettiva e colpa individuale, facendo emergere al suo posto la questione dei profughi, delle vittime civili, delle sofferenze di una popolazione. La recente pubblicazione di una serie di documenti dedicati alla guerra aerea e al cosiddetto moral bombing delle forze alleate sulle città tedesche, che ha comportato oltre 600.000 vittime, ha aperto un dibattito su un tabù infranto, su un tema a lungo rimosso. Con Der Brand. Deutschland im Bombenkrieg 1940-1945 (2002) Jörg Friedrich (n. 1944) ha messo insieme un’agghiacciante carta geografica delle distruzioni operate fondamentalmente dalla Royal Air Force britannica, portando in primo piano i destini dei singoli e il ruolo dei tedeschi non più in quanto esecutori ma in quanto vittime. In realtà la letteratura aveva fin da subito dato testimonianza di quelle distruzioni: si pensi soltanto alle straordinarie, sconcertanti pagine che Hans Erich Nossack (1901-1977) aveva scritto già nel 1948 sui bombardamenti di Amburgo (Der Untergang; trad. it. La fine. Amburgo 1943, 2005). Ma quelle voci erano rimaste fondamentalmente inascoltate o cadute in un processo di rimozione, mentre la ripresa ad ampio raggio e con grande risonanza di un discorso sulle vittime tedesche, che ha scatenato accese polemiche sui giornali, sulle riviste culturali, tra gli storici e tra gli intellettuali, dividendo gli animi attorno al rischio di cancellazione delle differenze, è molto recente. Risalgono al 1997 le lezioni tenute a Zurigo da Winfried G. Sebald (1944-2001) sul tema della guerra aerea e del silenzio degli scrittori (Luftkrieg und Literatur, 1999; trad. it. Storia naturale della distruzione, 2004), mentre nel 2002 Günter Grass (n. 1927) con Im Krebsgang (trad. it. Il passo del gambero, 2002) ha recuperato alla memoria la vicenda dell’affondamento nel gennaio del 1945, per opera di un sottomarino sovietico, della Wilhelm Gustloff che trasportava profughi tedeschi, in prevalenza donne e bambini, dai territori orientali. La ripresa di questo motivo anche nella cinematografia con film girati per la televisione – tra questi Die Flucht (2007) per la regia di Kai Wessel e Die Gustloff (2008) di Joseph Vilsmaier – segnala l’interesse e la diffusione che il tema ha assunto fino ad approdare alle fiction televisive con una rappresentazione spesso molto convenzionale e tendente al mélo. Un notevole esempio di riattivazione letteraria di questa complessa materia è Die Unvollendeten (2003) di Reinhard Jirgl (n. 1953), in cui le esperienze dei profughi dalla regione dei Sudeti, viste attraverso quattro figure femminili, ultime rimaste di una grande famiglia, toccano il motivo di una patria perduta per sempre, di uno sradicamento che non sarà mai cancellabile, e sembrano ripetersi – uguali e insieme diverse – nella ricostruzione delle vicende personali di un Io narrante nella seconda parte del romanzo. Una mostra dal titolo Flucht, Vertreibung, Integration, organizzata a Berlino nel 2006 dal Deutsches Historisches Museum attorno ai drammatici percorsi, in particolare, della popolazione tedesca, chiude il cerchio attorno a questo nodo dalla parte della storia.
Anche la lirica dà testimonianza di un costante lavoro contro l’amnesia storica, che nei poeti dell’Est porta inevitabilmente in primo piano il senso di una espropriazione innanzitutto esistenziale. Heinz Czechowski, voce poetica di notevole intensità che nella sua autobiografia dichiara di aver perso Dresda – la città in cui è nato nel 1935 – per la terza volta, dopo la sua distruzione e la ricostruzione socialista, con l’azzeramento della riunificazione, documenta nella sua lirica le distruzioni materiali e le sofferenze dell’Io attraversato traumaticamente dagli avvenimenti. La ‘vera patria’ è esistita solo un tempo che coincide con la memoria dell’infanzia, e i paesaggi, che possono anche confondersi e sovrapporsi tra loro, portano sempre il segno della storia: «Quale passato dappertutto, / che sia sullo Shannon / o sulle rive dell’Elba, che / sia a Limerick o a Dresda» (Die Zeit steht still, 2000). Ma l’evocazione di uno spazio geografico può arrivare, nel caso di Lutz Seiler (n. 1963), fin dentro alle sedimentazioni geologiche della terra di Turingia di cui è originario e da cui affiorano ancora, attraverso una lingua che si fa strumento di precisione, i resti di una contaminazione ambientale, o a misurare la distanza che separa Berlino dalla sua nuova dimora nei boschi del Brandeburgo nei termini di un «tunnel di assenze» e di cancellazioni (Vierzig Kilometer Nacht, 2003). E sono anche i confini, per es. quella fascia tra i territori orientali della Germania e la Polonia, a essere esplorati, come nel volumetto Kochanie ich habe Brot gekauft (2005) di Uljana Wolf (n. 1979) nei punti di frizione storica o anche nella contiguità linguistica che è già nel titolo tra tedesco e polacco.
Che a questa operazione letteraria di ricostruzione storica si affianchino i bilanci individuali nella forma classica dell’autobiografia è abbastanza evidente, se si pensa a una generazione di autori per i quali – è il caso di G. Grass – il 1939 e lo scoppio della guerra hanno coinciso con la fine dell’infanzia o la cui esistenza – come per Christa Wolf (n. 1929) – è stata vissuta sotto il segno della divisione. Ed è anche evidente come autobiografie che toccano passaggi e svolte storiche e che, secondo la metafora di Grass (Beim Häuten der Zwiebel, 2006; trad. it. Sbucciando la cipolla, 2007), sfogliano gli strati della memoria allo stesso modo delle cipolle, possano riaprire ferite, portare allo scoperto nodi sensibili, scatenare polemiche. Un esempio di particolare virulenza e rilievo di tali polemiche è stata proprio quella nei confronti di Grass e della parte del racconto relativa al suo arruolamento in un battaglione delle SS (Schutzstaffel). Rabbiosa o distaccata che sia, condotta attraverso la coraggiosa esposizione della prima persona o protetta dal filtro della finzione, la rievocazione del passato sembra essere una costante quasi fatale della letteratura tedesca, sulla quale la propria storia continua a gettare la sua lunga ombra.
Questo atteggiamento di autoriflessione e di autoanalisi apre un ampio spettro di tonalità e di possibilità arrivando, in una prospettiva più ravvicinata, fino a formulare, accanto e oltre al disagio legato alla complessa questione intertedesca, alle differenze ancora esistenti sul terreno economico, sociale e dell’assetto urbano, anche la nostalgia per tutto ciò che l’Est era stato e aveva significato. La cosiddetta Ostalgie – che interessa per altro la cultura e la letteratura di molti Paesi dell’Est europeo – diventa così una ‘cultura della memoria’, o almeno viene ipotizzata come tale, come forma identitaria autorappresentativa di chi e di quanto ha le sue radici nella Germania orientale. Un recupero in tal senso nostalgico sembrerebbe essere anche quello che nel 2006 ha dato vita a Berlino al DDR Museum che promette una ‘storia da toccare con mano’, presentando la vita quotidiana, gli oggetti, i miti della Repubblica democratica tedesca in forma interattiva. In realtà qui la Ostalgie è di altra natura e si limita a ridurre a un fatto consumistico, e appunto solo museale, quarant’anni di storia di un Paese. E tuttavia, anche in quest’ottica negativa, non si può non riscontrare la presenza di uno sguardo autoesplorativo, rivolto al proprio passato.
Il canone
Non è certo un fenomeno recente la discussione sulla questione del canone, né evidentemente è un fatto che riguarda esclusivamente la letteratura di lingua tedesca. «How good is Hamlet» è un interrogativo che, come è stato scritto, in Inghilterra ci si pone da molto tempo e senza che questo tolga nulla a Shakespeare, mentre anche le pagine dei giornali tornano di frequente a riproporre questionari e risposte sui classici preferiti. Ma in Germania il dibattito è approdato a operazioni concrete e di rilievo come la pubblicazione, avviata nel 2002 e conclusa nel 2006, di un opus corposo in 50 volumi, ideato e curato da un grande esponente della critica tedesca quale Marcel Reich Ranicki e definito, con un’ambiziosa scorciatoia, Der Kanon, il canone appunto. Pur partendo da una serie di interrogativi sulla reale necessità di un canone, sulla attendibilità di una lista di titoli e sulla effettiva tenuta nel mutare dei tempi, la costituzione di una biblioteca del canone sembra necessaria a Reich Ranicki non da ultimo anche come punto fermo in un panorama culturale caratterizzato dalla discontinuità e dai rivolgimenti rispetto alla tradizione. Der Kanon – dove proprio la paternità di un critico così scomodo ha giocato un ruolo non secondario – non poteva non suscitare reazioni vivaci e, insieme, la proposta di canoni alternativi. E prontamente ha reagito infatti, già all’uscita dei primi volumi dedicati al romanzo, Sigrid Löffler in un fascicolo del 2002 di «Literaturen», in cui si offre, attraverso una serie di interviste a critici, intellettuali e scrittori sulle letture per loro più significative, l’esempio di un «altro canone» che vuole solo testimoniare il piacere del testo. Certo, Löffler, che era stata partner combattiva di Reich Ranicki nella fortunata e autorevole trasmissione televisiva Das literarische Quartett (dedicata alla discussione di libri) fin dai suoi esordi nel 1988 e che ne era uscita polemicamente e clamorosamente nel 2000, non ha molti scrupoli ad affermare nell’editoriale che oggi è possibile parlare soltanto di quell’«altro canone», fatto del gusto tutto individuale della lettura. Reich Ranicki, da parte sua, non può che compiacersi della nascita di un dibattito e di ogni eventuale «contro canone» – nel 2003 la casa editrice Reclam ha pubblicato una scelta di liriche proposte da una poetessa come Ulla Hahn (n. 1946) con il titolo Stimmen im Kanon –, che implica comunque un discorso sulla letteratura.
La discussione sul canone, che può apparire niente più che un’arroventata polemica, anche soltanto personale, è in realtà il segno di un Paese in cui, per un verso, il ruolo della critica è sempre molto determinante e, per l’altro, gruppi editoriali che riuniscono oltre venti case editrici pubblicano 2000 titoli all’anno. L’«altro canone» è dunque anche quello sancito dalle rubriche televisive – Das literarische Quartett ha trovato dal 2003 un suo non meno perentorio e accreditato seguito in Lesen! condotta da Elke Heidenreich – o da riconoscimenti come il premio Der Deutsche Buchpreis che segnala, con non poca ricaduta anche tenuto conto della coincidenza della sua assegnazione con l’apertura della Fiera del libro di Francoforte, il miglior romanzo in lingua tedesca dell’anno. Un rilievo e un peso notevole, anche nel disegnare o ridisegnare un possibile canone, hanno i vari festival della letteratura che si svolgono ogni anno sul territorio tedesco, austriaco o svizzero, da quello internazionale di Berlino, nato nel 2001, a quello di Erlangen che lo scrittore Ingo Schulze ha definito «una Woodstock della letteratura», fino al più recente, inaugurato a Salisburgo nel 2008, o a iniziative come Leipzig liest, legata alla Fiera del libro, e lit.Cologne che ha impresso un suo marchio forte alla città renana. E forse non è neppure tanto sorprendente che accanto all’allargarsi della scena letteraria, per un verso trasformata in un evento destinato anche al grande pubblico e, per l’altro, distribuita contemporaneamente su luoghi diversi di una città utilizzati come palcoscenici di lettura, si sia creato un movimento opposto che cerca spazi alternativi, club, ritrovi vecchi e nuovi, in particolare per performances liriche: tra questi la Literaturwerkstatt Berlin ha già una storia che risale al 1991. Non è un caso che la più discussa antologia lirica degli ultimi anni, Lyrik von jetzt. 74 Stimmen (2003), curata da Björn Kuhligk e Jan Wagner e che raccoglie «la nuova generazione» di poeti, abbia attinto in gran parte proprio alla scena dei circoli, delle riviste a piccola tiratura e dei Poetry Slams. Anche se poi, oggi, molte delle feste letterarie ufficiali hanno aperto sezioni dedicate proprio agli Slam-Performer come segnale di un movimento questa volta circolare che vuole comprendere tutte le forme di letteratura.
Nuovi paesaggi
Nella mappa che la letteratura tedesca disegna nel nuovo secolo il paesaggio urbano continua ad avere una posizione centrale e Berlino è ancora il nodo in cui le esperienze esistenziali si incrociano con le grandi trasformazioni urbanistiche. Non sorprende, insomma, che le suggestioni del film di Walter Ruttmann Berlin. Die Symphonie der Grosstadt (1927) appaiano di nuovo attuali e ritornino in un progetto multimediale per la televisione, 24h Berlin (che verrà trasmesso dalle televisioni di vari Paesi europei nel 2009), in cui la città, attraverso un documentario della durata di 24 ore, si offre in tutti i suoi molteplici aspetti e in tutte le sue contraddizioni mediante una maratona di riprese cinematografiche. Sul versante letterario lo sguardo dell’altro e la prospettiva esterna si integrano con le esplorazioni dall’interno in una rappresentazione dove le coordinate topografiche servono prevalentemente da campo di sperimentazione per una nuova modalità di percezione della realtà. Così Berlin, meine Liebe. Schliessen Sie bitte die Augen (2006), un’antologia in cui «autori ungheresi scrivono» su Berlino, e Berlin Hüttenweg – Stadt erzählen (2006), che raccoglie le impressioni degli scrittori stranieri invitati come docenti di poetica nell’ambito della cattedra dedicata all’editore Samuel Fischer, sono complementari agli ultimi rappresentanti dei cosiddetti romanzi berlinesi nei quali, nel corso degli anni Novanta, la riunificazione aveva trovato una ripercussione letteraria di ampio respiro, o dove, come in Der kleine Bruder (2008) di Sven Regener (n. 1961) – che è anche cantante e autore dei testi della band pop-rock Element of Crime –, il centro dell’attenzione è la scena alternativa del quartiere occidentale di Kreuzberg negli anni Ottanta. Il cinema, con l’amara commedia Sommer vorm Balkon (2005) di Andreas Dresen e Wolfgang Kohlhaase – che qui ha firmato la sceneggiatura, ma che è anche scrittore –, offre uno scorcio ancora diverso da una casa nel quartiere berlinese di Prenz-lauer Berg. Anzi, dal suo balcone, che metaforizza il punto di vista sulla realtà, di fatto nella sua prospettiva dall’alto soltanto illusoria. Al repertorio di solitudini e frustrazioni che ha come sfondo la grande città attinge di frequente anche il teatro contemporaneo, che non ha bisogno di collocare in una geografia precisa le sue metropoli e può limitarsi a definirle – come fa Marius von Mayenburg (n. 1972) in Das kalte Kind (2002) – un luogo dove le bettole ora si chiamano club. Gli scenari di Mayenburg, gli ambienti claustrofobici in cui si manifestano la desolazione e il cinismo di piccoli nuclei familiari, ospitano così, già con Feuergesicht (2000) e Parasiten (2000) fino a Das vergoldete Land – Eldorado (2004), le catastrofi contemporanee. Le architetture urbane sono lo sfondo della flânerie contemporanea che porta anche uno scrittore appartenente alla letteratura pop, Andrea Neumeister (n. 1959), a tracciare un percorso di disorientamento attraverso le città. Che si tratti di Los Angeles o di Roma, di Monaco o di Mosca, in una scrittura a collage e fortemente ritmicizzata su suggestioni musicali, con il suo Könnte Köln sein (2008) lo scrittore monacense descrive realtà urbane che, pure in tutte le loro differenze, appaiono in definitiva uguali dando forma letteraria tanto all’idea della ‘città diffusa’ quanto alla tesi delle shrinking cities.
Interessante è d’altra parte, accanto allo spazio urbano, un parallelo recupero della natura che nella lirica esplora i nuovi segni contaminati e deteriorati del paesaggio, ma fuori dai toni accusatori della letteratura di taglio ecologico degli anni Settanta e piuttosto dentro un’ottica obliqua che privilegia la riflessione, l’ironia, il gioco linguistico e la risemantizzazione del vocabolario. «Il paesaggio da tempo non più così paesaggistico» può dire Ron Winkler (n. 1973) che intitola un suo volume Fragmentierte Gewässer (2007) e, formatosi alla scuola di Durs Grünbein (n. 1962) e del bisturi sezionatore di quella poesia in tensione tra scienza e filosofia, utilizza ogni possibile effetto di straniamento capace di demitizzare e declassare gli elementi della natura che entrano nel suo spettro visivo: le nuvole che «in linea di principio non sono nulla», «il vento che appartiene ai connettori», gli animali che pascolano e che «forse sono veri» o gli uccelli che «chiudono la giornata in silent mode». Di una sorta di nuova educazione allo sguardo si potrebbe parlare anche là dove scrittori e poeti vanno a frugare negli spazi e tra gli oggetti della quotidianità e dove il tono è spesso fortemente narrativo, quasi diaristico o protocollare e, nella lirica, caratterizzato da un gesto e da un appello intensamente confidenziale. Uno dei laghi del Brandeburgo, lo Scharmützelsee, un terreno sulle sue rive e una casa, quella della bisnonna dell’autrice, sono il punto di fuga attorno al quale si svolgono le vicende dei suoi abitanti nel romanzo di Jenny Erpenbeck (n. 1967) Heimsuchung (2008), che è al tempo stesso, nell’ambiguità del titolo, anche ricerca dell’idea di ‘Heimat’. Uno scorcio di natura, che un tempo aveva suggerito un idillio, si rivela in realtà abitato dai fantasmi del passato, e, ancora una volta, la storia incrocia e ‘contamina’ il paesaggio.
Oltre i confini
Se si pensa al procedimento autoanalitico che attraversa come una costante quasi ossessiva la letteratura tedesca, l’autoreferenzialità della letteratura austriaca, rappresentata da quella lunga fase autodenigratoria à la Thomas Bernard definita da molti critici in termini di ‘autismo’ e di ‘solipsismo’, stabilisce, sia pure entro una rete diversa e specifica di riferimenti, di relazioni storico-culturali e di consapevolezza identitaria, un primo evidente punto di tangenza tra le letterature di lingua tedesca al di qua e al di là dei confini. Ma basterebbe pensare ad Arno Geiger, nato nel 1968 a Bregenz nel Vorarlberg austriaco, e al suo Es geht uns gut (2005; trad. it. Va tutto bene, 2008), in cui la storia di una casa e i documenti che vengono alla luce rimettono insieme le tessere del mosaico di una famiglia viennese e di tre generazioni, per trovare ulteriori affinità tematiche che collocano questo testo entro lo stesso filone dei ‘romanzi familiari’ di area tedesca in cui si ricostruisce la memoria storica individuale e di un’intera epoca. O, ancora, allo smascheramento dell’opportunismo svizzero nei confronti del nazionalsocialismo, condotto per es. in Vierzig Rosen (2006) da Thomas Hürlimann (n. 1950) nei suoi consueti modi lievi e insieme ironici, che innesca un meccanismo di analisi critica del passato non dissimile da quello che avviene entro i confini della Germania.
Certo, un monologo come Das Lebewohl (2000; trad. it. L’addio. La giornata di delirio di un leader populista, 2005), con cui Elfriede Jelinek (n. 1946) mette a punto un inesorabile smontaggio della figura di Jörg Haider e della sua politica e che l’attore Martin Wuttke ha letto nel corso di una dimostrazione pubblica (2000) sul Ballhausplatz di Vienna, è un fenomeno del tutto austriaco. E non solo per i precisi riferimenti interni all’Austria e alle vicende del suo governo, ma per l’atteggiamento di molti intellettuali – la Jelinek, come Doron Rabinovici (n. 1961) o Robert Menasse (n. 1954) –, per i quali la critica implacabile al loro Paese è una parte fondamentale della propria attività di scrittori. E certamente l’opera di un autore come Franzobel (pseudonimo di Franz Stefan Griebl, n. 1967), ultimo erede dei giochi linguistici, fonici e grafici della Wiener Gruppe, è concepibile soltanto entro un contesto austriaco che gli consente, cantando la sua nazione, di mettere in campo l’ironia, la rabbia e la malinconia: «L’Austria? È bella. […] E / per non dimenticarlo mai, quanto è bella, / bella l’Austria, gli scolari austriaci devono / scriverlo cento volte / e altre cento volte. […] L’inizio dell’Austria è bello, e anche la fine è bella» (Österreich ist schön, in Zum Glück gibt’s Österreich. Junge österreichische Literatur, hrsg. G. Ernst, K. Fleischhanderl, 2003, p. 9). Ma, se questo è vero, è altrettanto vero quanto scrive Kurt Drawert (n. 1956) nell’introduzione all’antologia lirica da lui curata, il cui sottotitolo rinvia alla ‘giovane poesia tedesca’ (Lagebesprechung. Junge deutsche Lyrik, 2001), di cui sottolinea, al di là della provenienza geografica – «Autori tedeschi vivono in Svizzera o in Brasile, autori austriaci in Irlanda, autori svizzeri in Germania» (p. 8) –, la presenza di un unico comune denominatore rappresentato dalla lingua, forte elemento che spinge sempre più in direzione del superamento delle differenze nazionali.
Un rappresentante particolarmente significativo di questa tendenza al superamento dei confini geografici e nazionali è l’austriaco Raoul Schrott (n. 1964): a caratterizzarlo è proprio quello che si potrebbe definire un nomadismo intellettuale in cui convergono, in un grande «tour d’horizon», il confronto con altre culture e il recupero di lontane fonti letterarie (Gilgamesh, 2001), l’esplorazione del deserto come luogo originario (Khamsin, 2002) o il romanzo di un’isola remota (Tristan da Cunha oder Die Hälfte der Erde, 2003). E anche là dove il poeta doctus fa ricorso nella sua percezione della realtà ai metodi, alla strumentazione e al vocabolario delle scienze naturali la sua voce appare, semmai, più in sintonia con quella del tedesco Grünbein che, come Schrott, si colloca al di là di ogni confine nazionale.
La letteratura del nuovo secolo, insomma, si pone davvero sotto il segno di una sempre maggiore apertura degli orizzonti.
Bibliografia
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