Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il Medioevo non è un’epoca statica ma un mondo in movimento continuo: dai Goti in migrazione di massa nel V secolo ai Normanni dell’XI, dai cavalieri ai giullari, dai missionari ai diplomatici, dai mercanti ai pellegrini, dai monaci agli studenti, questa mobilità ispira una serie di nuovi generi e filoni letterari sconosciuti all’antichità greca e latina.
Paolo Caucci von Saucken
Baschi e Navarri secondo il pellegrino di Santiago
I navarri e i baschi sono molto simili in quanto a mangiare, vestiti e lingua, ma i baschi sono di viso più chiaro dei navarri. Questi si vestono con panni neri e corti soltanto fino alle ginocchia, alla maniera degli scozzesi e usano delle calzature che chiamano lavarcas, fatte di cuoio non conciato, legate al piede con lacci, che proteggono solo la pianta del piede, lasciando nudo il resto. Portano dei mantelli di lana nera, lunghi fino ai gomiti e orlati alla maniera di una paenula che chiamano saias. Mangiano, bevono e vestono turpemente. Infatti tutta la famiglia di una casa navarra, tanto il servo come il padrone, lo stesso la serva come la padrona, sono soliti mangiare tutti i cibi mescolati insieme in una scodella, non con un cucchiaio ma con le mani e sono soliti bere in uno stesso bicchiere. Se li vedessi mangiare, li prenderesti per cani e maiali mentre mangiano. E se li sentissi parlare, ti ricorderebbero il latrare dei cani, dal momento che la loro lingua è completamente barbara. Dio lo chiamano Urcia; la Madre di Dio Andrea Maria; il pane orgui; il vino ardum; la carne aragui; il pesce araign; la casa echea; il padrone di casa iaona; la padrona Andrea; la chiesa elicera […].
Questo è un popolo barbaro, diverso da ogni altro nei costumi e nel modo di essere, pieno di malvagità, scuro di colorito, di aspetto laido, depravato, perverso, perfido, sleale e falso, lussurioso, ubriacone, edotto in ogni tipo di violenza, feroce, selvaggio, malvagio e reprobo, empio ed aspro, crudele e litigioso, privo di qualsiasi virtù ed esperto in tutti i vizi ed iniquità, simile in malvagità ai goti ed ai saraceni e nemico del nostro popolo gallo. Un basco o un navarro per un solo denaro uccide, se può, un francese. In alcune delle loro terre, soprattutto in Vizcaya e in Alava, l’uomo e la donna navarri si mostrano reciprocamente i propri genitali mentre si riscaldano. I navarri usano anche delle bestie per accoppiamenti vergognosi. Si racconta inoltre che il navarro appende delle catene nella parte posteriore della sua mula o cavalla, affinché nessuno possa avvicinarsi se non lui stesso. Bacia poi lussuriosamente il sesso della donna e della mula.
Per questo i navarri devono essere censurati da ogni persona prudente. Tuttavia sono considerati buoni in battaglia campale, cattivi nell’assalto dei castelli, giusti nel pagamento delle decime e costanti nelle offerte agli altari. Infatti ogni giorno, quando vanno in chiesa, i navarri fanno un’offerta a Dio, o di pane o di vino o di grano o di qualche altro prodotto. Tutte le volte che un navarro o un basco si mette in cammino appende al collo un corno come i cacciatori e porta in mano, secondo il costume, due o tre frecce che chiama auconas. Quando entra o esce di casa fischia come un falco. E quando, trovandosi nascosto in luoghi appartati o solitari per rubare, desidera chiamare i suoi compagni senza farsi scoprire, o canta alla maniera del gufo, o ulula come un lupo.
Si è soliti dire che discendono dal lignaggio degli scozzesi, per il fatto che sono simili ad essi nei costumi e nell’aspetto. Corre fama che Giulio Cesare inviò in Spagna, per sottomettere gli spagnoli, perché non volevano pagare i tributi, tre popoli: i nubiani, gli scozzesi e i caudati della Cornovaglia, con l’ordine di passare a fil di spada tutte le persone di sesso maschile e di risparmiare soltanto le donne […] dalle quali generarono figli che poi furono chiamati navarri dai loro successori. Dal che “navarro” viene interpretato come “non vero”, cioè generato da stirpe non vera, o da una città chiamata Naddaver, che si trova nelle terre da cui in principio erano venuti. In questa città li convertì al Signore, nei primi tempi, con la sua predicazione, l’apostolo ed evangelista Marco.
P. Caucci von Saucken, Guida del pellegrino di Santiago. Libro quinto del Codex Calixtinus. Secolo XII, con modifiche di F. Stella, Milano, Jaca Book, 1989
Al-Mas’udi
Il nord europa visto da un arabo
Le popolazioni del quadrante settentrionale [le popolazioni europee] sono quelle per cui il sole si allontana dallo zenith man mano che muovono a Nord, come gli slavi, i franchi e le nazioni vicine. La potenza del sole è indebolita tra quelle popolazioni a causa della distanza che lo separa da loro; nelle loro regioni predominano il freddo e l’umidità, e neve e ghiaccio si susseguono interminabilmente. A costoro manca il temperamento appassionato; sono di corporatura grossa, indole rozza, maniere rudi, intendimento corto e lingua grossolana. Il loro colorito è bianco a tal punto da farli sembrare azzurri; la pelle è delicata e le carni rozzamente disegnate. Anche i loro occhi sono azzurri, in tono con la loro carnagione; i capelli sono slavati e rossicci a causa delle umide nebbie […]. Quanto più a Nord si trovano, tanto più stupidi, rozzi e incivili diventano.
in M.S. Mazzi, Oltre l’orizzonte. In viaggio nel Medioevo, Torino, Gribaudo-Paravia, 1997
Said Ben Ahmad
I “barbari” del Nord
L’eccessiva distanza del sole dallo zenit rende l’aria fredda e il cielo denso di nubi: di conseguenza essi sono dotati di animo insensibile, indole rozza, ventre pingue, colorito pallido, capigliatura lunga e snerbata. Non hanno perciò né acume né lucido intelletto e sono preda dell’ignoranza, dell’apatia, della mancanza di discernimento e della stupidità.
in M. S. Mazzi, Oltre l’orizzonte. In viaggio nel Medioevo, Torino, Gribaudo-Paravia, 1997
Il gusto del viaggio è una scoperta del Medioevo. Anche nel Medioevo ci si muove in prima istanza per uno scopo concreto: una missione politica o religiosa, una conquista militare, un rapporto commerciale, la visita a un santuario. E bisognerà aspettare il Trecento per leggere i primi diari di chi, come il fiorentino Bonaccorso Pitti, si mette a vent’anni a girare “per lo mondo” al solo fine di vedere cose e persone. Ma quello che cambia radicalmente nel Medioevo è il quadro culturale in cui questo gesto si iscrive: se i cristiani sono definiti advenae et peregrini, “viandanti e stranieri” in cammino per il regno dei cieli (I Lettera di san Pietro), il viaggio diventa il paradigma dell’esistenza, il modello di una condizione spirituale che trova la sua incarnazione nell’homo viator, il viaggiatore.
Le mete principali dei pellegrini nel Medioevo sono tre: Gerusalemme e in genere la Terrasanta, con i luoghi dove era vissuto e dove era morto Gesù; Roma, come sede pontificale e soprattutto come luogo del martirio di san Pietro e san Paolo; e Santiago de Compostela, dove si diceva fosse riapparso san Giacomo e dove era conservato il suo corpo. A queste si aggiunge una miriade di mete minori, santificate dalla presenza di reliquie illustri e/o dal verificarsi di prodigi, apparizioni, guarigioni miracolose che ne attestavano la sacralità.
Da quando Elena, madre dell’imperatore Costantino, scopre a Gerusalemme i resti della “vera croce” l’Occidente comincia a mettersi in marcia verso la Terrasanta e le esperienze dei viaggiatori producono da una parte gli Itineraria, guide di viaggio con l’indicazione delle tappe attraversate, delle distanze intermedie e qualche consiglio sulle difficoltà del percorso, e dall’altra le descriptiones, opere più ampie e particolareggiate, che riportano i ricordi e le esperienze personali: il capostipite di questo genere, conosciuto come Itinerarium Burdigalense, traccia nel 333 la rotta di un viaggio da Bordeaux a Gerusalemme passando per Costantinopoli, con ritorno a Milano passando per Roma. Ma la più celebre di queste primordiali guide, o meglio il primo vero racconto di viaggio, è l’Itinerarium Egeriae, scoperto nel 1884 in un manoscritto di Arezzo di origine cassinese, e composto fra IV e V secolo da una donna proveniente dalla Galizia. Un documento straordinario sia perché rappresenta un esempio, rarissimo prima del Medioevo, di scrittura femminile, sia perché contiene descrizioni importanti delle cerimonie liturgiche di Gerusalemme ed è scritto in un latino molto vicino al parlato tardoantico. A ogni tappa Egeria legge un brano della Bibbia relativo al luogo in cui si trova, recita un salmo adatto alla situazione e chiude con una preghiera: questo consente una sacralizzazione del viaggio e rivela che nel Medioevo il viaggio non è quasi mai partenza alla scoperta di un mondo nuovo, ma esplorazione di luoghi già “abitati” da una memoria culturale.
Grazie a questa memoria libresca è possibile scrivere Itineraria senza muoversi da casa. Uno dei primi è il monaco Beda del Northumberland, considerato il padre della storia inglese, che scrive fra 702 e 703 un De locis sanctis interamente fondato sulle informazioni ricavate dai Padri della Chiesa, e il filone culmina nei due capolavori del genere: il primo è il libro dei Viaggi del misterioso Giovanni di Mandeville, che a metà del Trecento in 34 capitoli accompagna il lettore fino alle Indie, al Catai e al regno del Prete Gianni, raccogliendo tutto il materiale folklorico e leggendario fino ad allora conosciuto in un’opera destinata a propagarsi in centinaia di manoscritti e decine di volgarizzamenti in nove lingue europee; il secondo è l’Itinerarium in Terrasanta di Francesco Petrarca, che, invitato a un pellegrinaggio della corte viscontea, lo scrive nel 1358 basandosi, oltre che sulla Bibbia e sui Padri, anche su notizie dei geografi e reminiscenze dei poeti classici. Sono, come li ha definiti Jean Richard, “viaggiatori da camera”, il cui viaggio di carta sostituisce lo spostamento reale senza perdere la sua verità.
La più celebre introduzione al viaggio del Medioevo è probabilmente la cosiddetta Guida del pellegrino di Santiago, libro V del Codex Calixtinus, manoscritto della cattedrale di Santiago de Compostela dedicato al culto di san Giacomo e chiamato così per l’epistola dedicatoria attribuita al papa Callisto II: a differenza di quanto accade nelle guide per Roma e la Terrasanta, dove prevalgono le descrizioni della meta, qui l’obiettivo della “grafocamera” (Cardini), è proprio il percorso di avvicinamento a Santiago, i diversi itinerari che compongono il Camino e che si possono scegliere per arrivarci (soprattutto i quattro principali: via tolosana, via podense – attraverso Le Puy –, via lemovicense – attraverso Limoges –, e via turonense – attraverso Tours segue la descrizione delle tappe, delle città che si incontrano, degli ostelli importanti, dei fiumi, dei passi e delle popolazioni incontrate, per chiudersi con un elenco preciso di luoghi e monumenti e soprattutto di reliquie.
Il prototipo del viaggiatore instancabile, del viaggiatore che non ritorna, trascinato da un’insaziabile curiosità, e si appropria degli spazi che percorre, è Alessandro Magno, il grande condottiero macedone che nel IV secolo a.C. conquistò gran parte dell’Asia conosciuta spingendosi dalla Grecia fino all’India e all’Egitto. Sui suoi viaggi e le sue avventure fioriscono ben presto narrazioni romanzate che attraversano l’antichità per dare origine, nel Medioevo, a cicli epico-fantastici in prosa e in versi di tutte le lingue. Il vertice di questa produzione si può collocare nel poema Alexandreis: dodici libri di esametri, con cui Gualtiero di Châtillon pensa nel XII secolo di creare un equivalente medievale all’Eneide. Il testo sarà presto adottato nelle scuole, tanto che lo conoscerà a quanto pare anche Dante. Nel mito di Alessandro si fondono la monumentalizzazione del condottiero invincibile e l’immaginario dell’Asia come “orizzonte onirico”, dove tutto può accadere e dove si può incontrare ogni forma di vita prodigiosa: l’Altrove per eccellenza. Ma oltre questo filone il Medioevo produce infinite varianti del viaggio fantastico, che si registrano più spesso nelle categorie del meraviglioso (Navigatio Brendani) e della visione.
Questo orizzonte di magia e di sconfinamento nell’ultraumano ha fatto dell’Asia di Alessandro un mito destinato ad alimentare i sogni dei viaggiatori medievali e moderni.
Quest’Asia si ritrova in testi come la Lettera del Prete Gianni, fantomatico sovrano cristiano di un regno sperduto in un Oriente indefinito, improntato ai principi di una società eticamente perfetta. Scritto in latino nel penultimo quarto del XII secolo, il testo viene continuamente rielaborato, versificato e studiato nei secoli successivi. La Lettera diventa un “catalizzatore dell’immaginario europeo”, dando vita a rielaborazioni poetiche di grande fascino come i Vers de la Terra de Preste Johan del catalano Cerveri de Girona, e contribuisce ad alimentare l’immaginario di un’Asia favolosa dove si realizzano le speranze escatologiche dell’Occidente deluso, specie dopo il fallimento della seconda crociata.
Questo contesto storico e questi modelli letterari producono una infinita serie di testi, che si diramano per due filoni principali: i viaggi immaginari in paesi della cuccagna, come nel Guerrin Meschino e in molti poemi cavallereschi, e i resoconti di viaggio veri e propri, che aprono all’Occidente i paesaggi terrestri e umani di un’Asia non più fantastica ma sempre prodigiosa e innaturale. Sono soprattutto i Francescani, come si sa, a occuparsi di questa missione ad Tartaros per conto del papa (a cominciare da Innocenzo IV dopo il 1215), e subito dopo i loro concorrenti Domenicani: molti di questi viaggi sono raccontati in prosa da partecipanti alle missioni.
Fra i più celebri troviamo Giovanni da Pian del Carpine, autore di una Historia Mongalorum preziosa per il suo valore antropologico ma anche per gli echi di leggende analoghe a quelle della letteratura fantastica, e intrigante per l’attenzione alla natura profonda, al ruolo storico e alle liturgie diplomatiche dei popoli che incontra, soprattutto di quei Mongoli che Giovanni esorcizza descrivendoli e, in un certo senso, svelandoli; Guglielmo di Rubruck, inviato di Luigi IX di Francia, che riscontra con cura le differenze fra la realtà osservata e i pregiudizi tramandati dalle fonti letterarie; Marco Polo, che ha descritto la sua missione nel Devisament dou monde dettato a Rustichello da Pisa nel 1298, per finire con gli ultimi viaggiatori medievali in Cina: Odorico da Pordenone, il primo a penetrare in Tibet, e Giovanni de’ Marignolli col suo Chronicon Boemiae. Il “romanzo” di Polo riscuote certamente un successo straordinario, come attestano le numerose stampe già dal 1477; ma i lettori continuano a preferire i viaggi immaginari, come i Voyages di Giovanni di Mandeville, che risultano meno spiazzanti dei resoconti reali perché rispondono più fedelmente ai cliché divertenti e stranianti del viaggio da camera. È questo tipo di sollecitazioni, reali e immaginarie, a spingere Cristoforo Colombo sulla nuova via che doveva condurre a questo medesimo favoloso Est, alle Indie del Prete Gianni: la copia colombina del Milione, con le annotazioni del genovese, è ancora conservata a Siviglia. E pare che siano proprio le descrizioni dei tetti d’oro del Giappone a far nascere il mito cinquecentesco dell’Eldorado nelle Nuove Indie.