Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il teatro barocco italiano svolge un ruolo determinante nella spettacolarizzazione del rapporto ambiguo tra realtà e finzione, mondo e palcoscenico. Nascono nuovi generi di intrattenimento cortigiano e cittadino: il dramma per musica e la commedia dell’arte si diffondono in Europa, portando con sé attori girovaghi e professionisti, musicisti, architetti, scenografi. Meno rilevante risulta la produzione di testi drammatici regolari.
Teatro di corte
La forma drammatica della favola pastorale nasce in ambiente cortigiano e si definisce come genere misto che combina idealizzazione di gusto arcadico e realismo patetico del sentimento. Sulle orme del Poliziano e del Tasso, Battista Guarini realizza il primo capolavoro tragicomico. Il pastor fido conosce enorme successo di pubblico per il “diletto” e la “meraviglia” suscitati dalla vicenda che sfiora la tensione della catastrofe per poi risolversi lietamente. Il linguaggio di livello elevato “magnifico” e “pulito” corrisponde all’armonia prestabilita pretesa dagli spettatori sdegnosi verso la bassa comicità. Per muovere gli “affetti” il teatro elabora strategie ben precise, riflettendo sul rapporto tra parole ed effetti scenici. Si agisce in particolare sulla musica tanto da creare un genere straordinariamente longevo, quello del dramma per musica.
Alcuni teorici italiani del tardo Cinquecento, seguendo un ideale di classicità come “semplicità” e l’esigenza della completa intelligibilità del testo, scelgono la monodia per la restaurazione della tragedia greca, anziché l’imperante polifonia. La poetica del “recitar cantando” sottolinea il valore emotivo della parola, valendosi dell’accompagnamento strumentale. Nel corso del Seicento il senso dello spettacolo e l’uso di macchine sceniche, balletti, decorazioni prevalgono sulla classicità del dialogo melodrammatico, anticipando la vocalità spiegata dall’“aria” settecentesca. I primi testi per musica, nati dalla collaborazione tra scrittori e musicisti, sono quelli di Ottavio Rinuccini e costituiscono quasi degli archetipi del “libretto”. Firenze, Venezia e Roma divengono i centri di elaborazione del nuovo linguaggio letterario adatto al canto e all’accompagnamento musicale. Per la perfezione artistica e sentimentale l’argomento pastorale e mitologico avvia la ricerca della combinazione armonica di elementi scenici e testo; il tema storico di Busenello e quello sacro del Rospigliosi hanno minore fortuna.
Teatro di piazza
Il gusto per lo spettacolo caratterizza il teatro barocco italiano modificando il rapporto tra testo e scena. Già nella seconda metà del Cinquecento le piazze cittadine accolgono girovaghi professionisti della recitazione che intrattengono il pubblico popolare con l’improvvisazione. Nasce la commedia dell’arte per l’iniziativa collettiva delle compagnie cui partecipano attori e attrici, escluse precedentemente dal teatro cortigiano. Celebre diviene la Compagnia dei Gelosi, che opera dal 1568 al 1604, guidata da Francesco Andreini e dalla sua affascinante moglie Isabella. L’organizzazione di compagnie fisse emula l’istituzione accademica indicando la volontà di ottenere il riconoscimento sociale di una professione al servizio del divertimento.
Trionfo della gestualità, la commedia all’improvviso possiede una retorica specifica della pratica teatrale che regola l’intreccio e il dialogo. I canovacci o scenari modellano situazioni di stampo classico e plautino, con complicazioni novellistiche care alla tradizione boccaccesca. La raccolta di Flaminio Scala offre una preziosa testimonianza del repertorio d’invenzione cui attingono gli attori, interpreti proteiformi di mimi, acrobazie, musiche, canti. Attraverso le maschere si impongono alcuni personaggi tipici, immediatamente riconoscibili dall’abito e dal linguaggio: gli zanni Arlecchino e Pulcinella, i magnifici Pantalone e Graziano e ancora il Capitan Spaventa, gli innamorati Flavio, Lelio, Isabella.
Con straordinaria abilità inventiva autonomamente ricreata sulla base di uno schema sommario, i comici elaborano discorsi di riuso, fondati sulla retorica oscena del lazzo o quella ridicolmente idealizzata dell’innamoramento, aggredendo gli spettatori con il più sfrenato plurilinguismo. Il pubblico prova gusto nell’identificarsi con figure note e amate; il corpo dell’attore si modella sul personaggio, ripete meccanicamente gesti e parole, ma non ha nulla dell’automa. L’improvvisazione garantisce la personalità della performance.
Pro e contro la retorica del riso
Dato il carattere effimero delle rappresentazioni è difficile ricostruire questo genere teatrale. Oltre ai canovacci, resta memoria di numerosi generici e soprattutto dell’influenza sulla commedia letteraria. Per contrasto, si immagina il successo dei commedianti seguendo le reazioni negative della chiesa controriformistica, la quale individua nello spettacolo una pericolosa e coinvolgente forma di trasgressione: il cardinale Borromeo avversa i comici ritenuti portatori di forze diaboliche, le attrici considerate ispiratrici di lascivia, e l’uso delle maschere che contraddice il valore individuale e irripetibile del volto donato singolarmente da Dio all’uomo. Con questi presupposti viene impostato il teatro gesuitico, ma proprio il modello istrionico di una cultura del gesto, del camuffamento e della finzione determina la fortuna della commedia dell’arte nell’Europa secentesca, affascinata dalla vertigine di una forma di esibizione indipendente dalla civiltà delle buone maniere.
La concorrenza tra commedia letteraria e improvvisata si nota nella produzione di Giovan BattistaDella Porta, studioso di fisiognomica e scienziato, che moltiplica travestimenti e false apparenze, plurilinguismo e mostruosità, contraddicendo il suo stesso rigore classificatorio e la fiducia nella corrispondenza armonica tra corpo, carattere e realtà naturale. A suo avviso “tutte le cose sono instabili ed incerte”, “il mondo inchina or ad una ed or ad un’altra parte e l’uomo accorto deve accomodar l’animo suo” alle circostanze più imprevedibili. Nessuna regola garantisce l’intelligibilità del mondo, nemmeno la letteratura può ritrarre il movimento delle passioni, che assalgono l’uomo davvero all’improvviso. Anche chi come Michelangelo Buonarroti il giovane definisce il suo interesse in ambito sociale, finisce per produrre testi di difficile interpretazione: troppe figure affollano la Fiera che risulta un’opera astratta e moralistica.
Lacrime femminili
La variante seria del teatro si modula su temi religiosi e morali, affrontati con la languida femminilità dell’anima barocca. Non convincono il pentimento della seducente Maddalena di Giovan Battista Andreini e la tragica invasione del pubblico nel privato dell’eroina de La forza del fato di Giacinto Andrea Cicognini. Poco rappresentabili le tragedie regolari di Prospero Bonarelli, Angelo Ingegneri, Emanuele Tesauro; Giovanni Delfino non si preoccupa nemmeno di approntare la recita della sua tragedia Cleopatra. Difficoltà presenta pure la seria tematica della peste affrontata dal teologo padre Benedetto Cinquanta in La peste del 1630 (1632): si discute di malattia, morte, contagio in un tono predicatorio ma non pedante. Il limite dell’opera, che mostra viva attenzione per la realtà sociale, sta nella dispersione degli episodi.
Tentativi falliti di conciliare la leggibilità del testo scritto con l’esigenza dello spettacolo.
Autentiche eccezioni tra i mediocri drammaturghi italiani sono Federico Della Valle, poco conosciuto ai suoi tempi, e il più illustre Carlo de’Dottori. Intenso e inquieto analista delle passioni umane, il Della Valle affronta liricamente la tragedia del destino e dell’azione umana: Maria Stuarda, Ester e Iudit delineano figure femminili appassionate e sofferenti, sfortunate e combattive. La presenza del bene e del male assume la voce dei cori e dei personaggi minori che interpretano e amplificano la tensione interiore delle eroine. Pure la coscienza satirica e disillusa del Dottori si avvicina alla sensibilità di una donna per rappresentare tragicamente la rassegnazione al sacrificio della vita: Merope appare sublime ed eroica nella sua dolcezza, mentre Aristodemo diviene il portavoce dell’aggressività maschile, smaniosa di potere e sopraffatta da un ritardato e inutile dolore. La concentrazione poetica dei due tragediografi del barocco italiano risulta dalla rielaborazione personale del contesto storico contemporaneo, travagliato dal conflitto tra la vincente ragione di stato e la violenza rimossa e repressa delle passioni.
Carlo de’ Dottori
Policare discute con Merope
Aristodemo
MEROPE: Policare, vicino è ’l fin della mia vita. Il colpo attendo, che libera la patria: e mi preparo a non temer sì gloriosa morte. Io vado, e nulla meco porterò di più nobile e più degno della mia fé. Tu le memorie mie pietoso accogli, e vivi. Un cener poco, un molto amor ti lascio; prendine cura. Unico e dolce erede de’ miei candidi affetti, rendi l’ossa al sepolcro e serba il nome. Duolmi di te; ma di morir mi piace per te, che sei compreso nella Messenia liberata gente. Così ’l mio sangue pur ti plachi il Cielo, ti concilii Fortuna. Io fra le opache ombre d’Eliso andrò narrando i casi; e dell’istoria mia non poca parte Policare sarà: sì che ’l tuo nome fie per la lingua mia, se parlan l’ombre, prima dell’ombra tua noto agli Elisii. Tu, deh frena i lamenti; e sol di due picciole lagrimette il cener bagna, ultimo onor, più caro dell’arabe fragranze; e co’ teneri uffizii, deh, per pietà la madre mia consola.
POLICARE: Ch’io viva? Io ti dia tomba? Io così vile, crudel, ti sembro? E tal m’amasti? e tale che se ferro mancasse o tosco o laccio, non possa solo uccidermi il dolore? Merope, o tu mi tenti, o tu non m’ami. Testificar saprò ben io la fede e l’amor mio. Va, raccomanda l’ossa e l’onor del sepolcro a chi non deve teco perir. Se mi toccasse, o dèi, un rogo istesso, e mescolar nell’urna le polveri felici, io già v’assolvo, ed assolvo Fortuna. Scompagnata da me tu non vedrai, Merope, Averno. Attenderò sul lido la tua venuta, e varcheremo insieme, per le tenebre cieche e per l’ignote vie del sepolto mondo precederò. Lusingherotti il Cane, difenderò i tuoi passi dalle pesti di Abisso. Ah, qual Erinni, qual Cerbero vedendo ombra sì bella, stupido e riverente non deporrà l’orgoglio, e non ti lascerà libero il calle Né sarò vil compagno: a te bel fregio darà l’opra famosa, a me la fede. Tu con atto magnanimo non temi la morte per la patria, e tu vorrai, s’io per te muoro, invidiar la lode al mio seguace amor? Sarai gelosa di tua virtù, che non s’imiti, e tanto altri non osi? Se disprezzi il compagno, non amasti lo sposo. Altri che morte congiunger non ci può. Separa morte le basse, e non l’eccelse anime amanti. Ma non è questo il talamo e la face, misero, ch’io sperai. Non sull’erbose rive del pigro Lete teco fra l’ombre aver letto infecondo, e con amplessi vani e freddi baci, sterili, e senza suon nudrir un muto e vano amor d’inefficaci affetti. Non so chi ti condanni altri che ’l padre, o ambizioso o ingiusto, né so qual dio, qual dura umana legge ad obbedir ti sforzi. Vive Arena pur anco, in cui cadde la sorte. A te non tocca non sortita cader. Non ti condanna chi pria t’assolse. E tu vorrai la vece sostener d’una vittima fuggita, incerta dell’evento e della lode, certa solo del danno?
in Storia della letteratura italiana, a cura di E. Cecchi e N. Sapegno, Milano, Garzanti, 1968
Lezioni a teatro
Alla fine del secolo si avverte aria di cambiamento: affievolita l’invenzione comica delle maschere dell’arte, il teatro vuole educare la moralità del pubblico sempre più numeroso ed esigente culturalmente. La riforma antibarocca promossa dall’Arcadia investe anche il gusto per la spettacolarità esasperata. La letteratura ricerca l’impegno civile e prima di giungere alla perfezione di Metastasio, Goldoni e Alfieri, il teatro investe le sue energie nell’ottenere riconoscimento come strumento di formazione sociale. Leggendo la produzione francese del classicismo nasce inevitabilmente un senso di imbarazzante inferiorità: da questo disagio prende le mosse la riflessione teorica dell’estetica teatrale settecentesca. Intanto qualcuno si avventura in esperienze diversamente organiche rispetto al teatro secentesco. Carlo Maria Maggi tenta la commedia in dialetto milanese, allestendo una sorta di lezione morale di buon senso provinciale. Più ardito lo spirito di Girolamo Gigli, intellettuale scanzonato e ribelle che si impegna nella satira di costume, con risultati non più che mediocri.
Federigo Della Valle
Judith
JUDITH: O colpe, madri de la morte e stolte figlie di cieco errore, micidiali de l’alma onde nascete; qual oceàn di mali, qual turbo, quai procelle d’arme e di genti dispietate e fiere, misera, avete accolte insin dal mondo estremo contra Israelle, contra il popol santo, che solo adora il vivo Dio dei vivi. Bella Gierusalèm, così da lunge ti vede l’alma, e ’l monte, e ’l sacro altare, ove in tremenda maestà benigna la somma gloria de le glorie appare, fier coltel ti sovrasta, e già balena sovra la testa tua nube sanguigna, a inondarti, a allagarti, lassa me, ad affogarti con meritata pena! Gemi, ahi, gemi dogliosa, lagrimosa! Spargi le chiome inanellate ai venti, e scapigliata giaci in cenere e cilicio. E grida, e prega, ché se n’è tempo, il vedi, già fors’anco il senti. E tu, Betulia mia, nodrice e madre e dolce albergo dei miei padri e mio, qui presente rimiro: et in mirarti, dal più profondo di gran duol sospiro. E lagrime darei tinte di vivo sangue, e gemiti trarrei d’orba vedova madre sovra l’unico essangue; ma al tuo gran danno nessun pianto è assai, o che giovano alfin lagrime e lai? Spirto e vigor conviensi ad opra forte, qual al tuo mal s’aspetta, e qual la chiede l’estremo di tua sorte. Ma valor o vigor, ond’avrò io, se non l’ho dal mio Dio? Lasciam dunque, Abra mia, riposo e sonno, ché è l’uno e l’altro troppo si sconviene a chi la patria vede e fratelli et amici carchi omai di durissime catene solitarie, notturne. Prendiam l’usata via del fiume e della valle eletta a nostri preghi. Già solo il pregar resta in orrida di mali ruïnosa tempesta. Affrettiamoci, perch’anco il mal s’affretta, et ogni volo è lento a chi in mortal tormento scampo o rimedio aspetta.
F. Della Valle, Tragedie, a cura di A. Careffi, Milano, Mursia, 1988
Quale eredità lascia il teatro secentesco italiano? Soprattutto la nascita della professione e la costruzione dell’edificio architettonico fisso: inaugurati nel 1585 l’Olimpico di Vicenza di Andrea Palladio e nel 1628 il teatro Farnese di Parma, testimoniano in modo monumentale la vocazione spettacolare dell’Italia barocca. Luoghi indipendenti dalla corte, moderni nella distribuzione degli spazi divisi tra la compagnia degli attori e il pubblico, accolgono una recitazione che non coincide né con la quotidianità, né con la sua trasformazione utopica, ma è solo un mestiere, una prestazione retribuita. In anticipo sulla letteratura, il teatro istituzionalizza il fascino di una competenza specializzata ed estranea ai non addetti ai lavori.