La letteratura ebraica e le origini della letteratura cristiana
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La precoce traduzione dei testi sacri ebraici in greco si rivela ricca di conseguenze; più tardi, il greco sarà anche la lingua del Nuovo Testamento. I primi secoli della letteratura cristiana, a partire dagli apologeti, oggetto di persecuzioni, per arrivare ai Padri cappadoci, vescovi rispettati in un Impero sempre più sotto il segno della croce, sono segnati dalla tensione dialettica (ma anche dalla compenetrazione) tra la cultura classica e la nuova religione.
Nella cosmopolita Alessandria dei Tolemei si insedia anche una ricca e fiorente comunità ebraica, che nel corso degli anni diviene tanto imbevuta della lingua e delle usanze greche da non essere più in grado di utilizzare i testi sacri nella lingua originale. Questo comporta la loro traduzione nel greco della koinè. Il fenomeno, verosimilmente, risulta dilatato nel tempo. Già alla fine del II secolo a.C., peraltro, è attestata la tradizione secondo la quale Tolemeo II Filadelfo, nella sua ansia di procurare testi d’ogni genere per la sua Biblioteca, avrebbe incaricato 72 dotti (sei per ciascuna tribù) di tradurre le sacre scritture ebraiche.
In seguito si affermerà che questi saggi, confinati sull’isola di Faro, abbiano presentato un testo miracolosamente identico, che così riceve una sorta di avallo divino e diviene noto come Bibbia dei Settanta. Il testo dei Settanta, nel quale finiscono per confluire anche scritti (in ebraico o direttamente in greco) rifiutati dalla tradizione più ortodossa (si possono ad esempio citare il Siracide e la Sapienza di Salomone), si diffonde in seguito in tutto l’impero ed è adottato anche dai cristiani di lingua greca.
Un importante tentativo di conciliazione tra filosofia ellenica e tradizione ebraica, incentrato proprio sulla Bibbia dei Settanta, è successivamente svolto da Filone di Alessandria. Occupandosi soprattutto dell’esegesi della Bibbia e ispirandosi alla filosofia stoica, Filone propugna in varie monografie un’interpretazione allegorica per molti dei passi scritturali, inaugurando una prassi che poi sarà seguita anche dai Padri della Chiesa.
Giuseppe Flavio Un tentativo di mediazione politica e letteraria tra l’ebraismo e lo stato romano si può individuare anche nella figura di Giuseppe Flavio, nato a Gerusalemme da una famiglia della nobiltà sacerdotale. Già nel 64 è inviato in ambasceria a Roma; quando, pochi anni dopo, scoppia la rivolta degli Zeloti (66), tenta un’impossibile mediazione, salvo poi accettare un incarico militare affidatogli dai rivoltosi. Difende l’importante fortezza di Iotapata e si arrende a Vespasiano solo dopo un lungo assedio; in quell’occasione, peraltro, predice al generale la prossima ascesa al trono. Quando Vespasiano diviene effettivamente imperatore nel 69, Giuseppe riceve molti benefici e finisce per assumere il nomen dell’imperatore, per l’appunto Flavio. Successivamente è al seguito di Tito in occasione dell’assedio di Gerusalemme, cosa che lo pone in pessima luce agli occhi dei suoi connazionali: la sua Autobiografia è anche un tentativo di difendersi dalle accuse di collaborazionismo.
Nella seconda metà degli anni 70 pubblica anche la Guerra giudaica (originariamente in aramaico, poi tradotta in greco sotto la sua supervisione), resoconto degli scontri avvenuti tra il 66 e il 70, dove la partecipazione emotiva alle vicende del suo popolo si scontra con la convinzione dell’ineluttabile superiorità di Roma.
L’opera più importante di Giuseppe è peraltro costituita dalle monumentali Antichità giudaiche in 20 libri, che ricapitolano tutta la storia ebraica (a partire dalle Sacre Scritture, dagli storici ellenistici e anche da tradizioni orali) dalle origini fino al 66. All’interno del testo tramandato nei manoscritti medievali è tra l’altro presente un celebre accenno a Gesù (noto come Testimonium Flavianum), definito sophos aner (“uomo saggio”), la cui autenticità, totale o parziale, è molto discussa. Giuseppe infine rivendica la dignità del suo popolo nel Contro Apione, testo importante come manifestazione dell’orgoglio ebraico rispetto alla cultura ellenica.
Se la Bibbia dei Settanta è in massima parte la traduzione greca di originali ebraici, il corpus degli scritti che compongono il cosiddetto Nuovo Testamento, alla base della religione cristiana, è costituito invece da testi composti fin da subito in greco. Il canone neotestamentario, nella sua forma più diffusa e tradizionale (accettata dalla Chiesa cattolica e dalla maggioranza di quelle protestanti) raggruppa 27 scritti, corrispondenti alla lista redatta dal vescovo Atanasio di Alessandria nel 367. L’ordinamento che tali scritti hanno all’interno della raccolta non ne rispecchia la data di composizione, ma piuttosto un ordine genericamente cronologico sulla base dei fatti narrati. All’inizio sono dunque collocati i Vangeli (dal greco Euangelion, “buona novella”), resoconti narrativi della vita di Gesù attribuiti ad apostoli o ai loro immediati discepoli.
I primi tre, per la stretta condivisione di struttura ed episodi, sono definiti “sinottici” (affiancabili in un singolo sguardo, in una vista d’insieme). Il Vangelo di Marco, scarno e semplice, è considerato alla base degli altri due, Matteo e Luca (insieme ad altre fonti, scritte o orali, ricostruibili congetturalmente), e viene generalmente datato intorno al 70 (anche se non sono mancati tentativi, fondati su ritrovamenti papiracei e oggetto di aspra discussione, di anticiparne la composizione). Il Vangelo di Giovanni si discosta dagli altri sia nel contenuto, sia nella lingua (più limpida ed elevata), sia nella volontà di interpretazione teologica che lo pervade. Già la tradizione antica, rispecchiata da Clemente d’Alessandria, riconosce che Giovanni sia un vangelo “spirituale”, scritto dopo gli altri e a conoscenza di essi: la data di composizione più plausibile sembra essere la fine del I secolo.
I Vangeli sono seguiti dagli Atti degli Apostoli, scritti dall’evangelista Luca intorno all’80-85, che costituiscono un resoconto delle prime vicende della predicazione cristiana, con particolare attenzione alla figura di Paolo. L’opera è seguita proprio dalle Lettere attribuite a Paolo di Tarso, che costituiscono sicuramente il più antico tra gli scritti neotestamentari, e che sono caratterizzate da una buona padronanza della lingua greca accompagnata però da una caratteristica irruenza espositiva e dall’adozione di un’imagerie simbolica che sfiora frequentemente l’irrazionalità. Dopo ulteriori lettere attribuite ad altri apostoli, la raccolta è conclusa dall’Apocalisse (“rivelazione”), composta secondo la tradizione dall’evangelista Giovanni sull’isola di Patmo verso il 95-96 (la datazione è sostanzialmente accettata). Appartenente a un genere visionario tipico del tardo giudaismo, si segnala per l’uso di potenti immagini allegoriche per trattare il tema dell’escatologia, dei “tempi finali” che precedono il ritorno del Cristo.
Gli apologeti Nel corso del II secolo la fede cristiana vive un periodo di crescente diffusione che la espone peraltro a tutta una serie di ostilità, e infine di persecuzioni, da parte delle autorità imperiali. La letteratura, spesso a carattere popolare, degli Atti e delle Passioni celebra le figure dei martiri, morti per testimoniare la loro fede.
Il cristianesimo viene duramente osteggiato anche su basi filosofiche, per esempio nel Discorso vero del platonico Celso composto intorno al 180; a questo tipo di attacco, oltreché a varie altre accuse, cercano di rispondere i cosiddetti apologeti, autore di scritti (apologie) che si prefiggono la difesa della nuova religione, spesso unita ad un attacco contro le credenze ed i costumi del paganesimo, visti come assurdi e immorali.
La più antica delle apologie conservate è quella di Giustino, nato a Neapolis (l’attuale Nablus in Palestina) intorno agli inizi del II secolo; dopo essersi accostato allo stoicismo, al pitagorismo e al platonismo, abbraccia infine il cristianesimo. Si reca a Roma, dove a quanto sembra apre una scuola di “filosofia cristiana”; nel 165 subisce il martirio. La tradizione manoscritta ha conservato il testo di due Apologie, indirizzate agli imperatori Antonino Pio, Lucio Vero e Marco Aurelio e al senato romano. Importante soprattutto la prima, nella quale Giustino, facendo ampio uso di concetti propri del medioplatonismo, asserisce che solo ai cristiani è concessa la piena rivelazione del Logos, che peraltro si era già manifestato in forma parziale anche prima della venuta di Cristo: per esempio, Socrate sarebbe stato ispirato dal Verbo e la sua morte sarebbe stata causata dai demoni. Gli stessi demoni sarebbero gli inventori della mitologia, che costituirebbe una sorta di scimmiottamento indecente delle profezie bibliche. Nel Dialogo con Trifone, invece, Giustino conversa con un ebreo, dimostrandogli che le Sacre Scritture, profezia dell’arrivo del Cristo, sono divenute patrimonio dei cristiani che hanno saputo comprenderle, mentre gli ebrei, rimasti ciechi, non possono avanzare nessuna pretesa su di esse.
Allievo di Giustino è Taziano, detto “il Siro”, che precedentemente era stato educato alla filosofia greca e iniziato ai misteri. Di lui si conserva il Discorso ai Greci. Distaccandosi dall’insegnamento del suo maestro, che cercava una conciliazione tra gli aspetti più elevati della cultura greca e il cristianesimo, Taziano attacca invece tutta la tradizione pagana. L’unica vera paideia è costituita dalla religione di Cristo, e tutto il resto è viziato dall’inganno dei demoni; celebre una dettagliata esecrazione della statuaria pagana, corredata da una serie di esempi che si sono rivelati molto utili per gli storici dell’arte. Taziano compone anche il Diatessaron, un’armonizzazione del testo dei quattro Vangeli che all’epoca riscuote un qualche successo; il testo originale è perduto, ma può essere ricostruito sulla base di frammenti e traduzioni in lingue orientali.
Si può infine citare la dotta Supplica di Atenagora, indirizzata nel 177 da questo oscuro personaggio (definito “filosofo cristiano in Atene”) a Marco Aurelio e suo figlio Commodo. Nel tentativo di contrastare le accuse mosse dai pagani, Atenagora si sforza di dimostrare che i cristiani non sono atei e non praticano né “pasti di Tieste” (dove la pietanza principale sono i bambini) né “unioni edipiche” (incesti). Al contrario, si tratta di cittadini irreprensibili e la loro credenza in un unico Dio sovrano e nel suo Figlio (cui sono esplicitamente paragonati Marco Aurelio e Commodo) è senz’altro superiore a quella nei molteplici dèi del paganesimo, del quale l’autore sottolinea l’irrazionalità e dà un’interpretazione evemeristica. Viene anche ripresa la concezione giustiniana della prefigurazione delle sofferenze dei cristiani nelle vicende di alcuni pagani illuminati e ingiustamente perseguitati (vengono fatti i nomi di Pitagora, Eraclito, Democrito e Socrate): una dimostrazione di come si continuasse a tentare di gettare un ponte tra il cristianesimo e la tradizione culturale ellenica.
La necessità di disporre di un sistema di pensiero cristiano organizzato e coerente, che permetta da un lato di rintuzzare univocamente gli attacchi dei pagani, e dall’altro di recuperare gli aspetti della filosofia ellenica che più risultino compatibili con la nuova religione, comporta la nascita ad Alessandria, intorno al 180, di una scuola di filosofia cristiana il cui primo maestro è Panteno, già adepto dello stoicismo.
Suo allievo è Tito Flavio Clemente, meglio noto come Clemente Alessandrino, nato ad Atene e, secondo una tradizione, succeduto a Panteno alla guida della scuola intorno al 200. Tra le sue opere occorre senz’altro citare il Protrettico (“esortazione”), finalizzato a convincere i pagani della superiorità del cristianesimo tramite una confutazione degli antichi miti e la dimostrazione che i frammenti di verità veicolati dai grandi filosofi sono solo un primo passo verso la conoscenza del Logos, il cui avvento è stato preannunciato dai profeti biblici. Il pagano convertito trova un ammaestramento etico e morale nel Pedagogo; gli Stromati (letteralmente patchwork, ovvero “mescolanze”), per certo verso analoghi al Protrettico, costituiscono invece uno scritto miscellaneo dove ancora una volta compare la tematica della filosofia pagana come propedeutica alle verità cristiane.
Altro allievo della scuola di Alessandria è Origene, caratterizzato contemporaneamente da una grande apertura (ascolta le lezioni del neoplatonico Ammonio Sacca e impara l’ebraico) e da un’intransigenza che sfiora il fanatismo (si evira interpretando alla lettera la raccomandazione di Matteo 19.12: “vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli”). Entrato in contrasto con il vescovo di Alessandria, si trasferisce a Cesarea, in Palestina, dove fonda una scuola; nel corso della vita scrive una quantità impressionante di opere (800, secondo alcune notizie), che tuttavia sono in larga parte perdute in seguito alla condanna per eresia di alcune tesi di Origene nel VI secolo.
Solo frammenti sopravvivono, ad esempio, degli imponenti Hexapla (“sestuplici”), contenenti sei colonne in cui viene filologicamente affiancato (con tanto di segni diacritici) il testo del Vecchio Testamento in ebraico, in ebraico traslitterato in greco, nella versione dei Settanta e in altre traduzioni greche. Omelie e commentari a libri delle Scritture dimostrano un forte apprezzamento per il metodo allegorico, talora utilizzato in maniera spericolata; nel trattato Contro Celso (il platonico che aveva attaccato il cristianesimo) Origene dimostra di saper replicare con sicurezza rimanendo sullo stesso terreno degli avversari, quello filosofico. Ricostruibile da frammenti e da una versione latina rimaneggiata è poi il trattato Sui principi, dove sono esposte, tra l’altro, le suggestive teorie (che ebbero ampia diffusione anche in Occidente, come dimostrano gli scritti di Sulpicio Severo) della preesistenza delle anime ai corpi e quella dell’apocatastasi, la riconciliazione finale con Dio che coinvolgerebbe anche Satana e gli altri demoni.
Nella natia città di Cesarea, Eusebio frequenta la scuola di Panfilo, discepolo di Origene, del quale contribuisce ad organizzare la biblioteca, sfruttando inoltre gli Hexapla (dei quali forse esisteva un unico esemplare) per la sua attività di critica e commento sulla Bibbia dei Settanta. Dopo l’editto di Milano del 313, che garantisce la libertà di culto ai cristiani, Eusebio (eletto vescovo della sua città) entra a far parte dell’entourage di Costantino, di cui scrive una Vita estremamente encomiastica nella quale cerca anche di reinterpretare alcuni aspetti della religiosità dell’imperatore non perfettamente compatibili con l’ortodossia cristiana.
Eusebio scrive tra l’altro la Preparazione evangelica e la Dimostrazione evangelica, che attestano una grande cultura e la volontà, collocandosi anche nel solco dell’apologetica, di rintuzzare le critiche dei pagani (in particolare, in questo caso, del filosofo Porfirio, autore di un trattato anticristiano) dimostrando come il cristianesimo costituisca il coronamento di tendenze prefigurate nella cultura classica. Di grande importanza sono poi le opere storiche: la Cronaca, sorta di tavola sinottica della cronologia universale (sopravvissuta in traduzione armena e latina), finalizzata a mettere in parallelo l’economia della Salvezza con le vicende secolari, e la Storia della Chiesa. In quest’ultima vengono ripercorse, con scarsa penetrazione ma con abbondanza di citazioni di documenti originali, le vicende del cristianesimo dalle origini fino al 324, l’anno in cui Costantino sconfigge Licinio: l’opera ha grande successo e inaugura un nuovo genere letterario che prospererà nei secoli seguenti.
Il recupero di ampie parti della cultura classica all’interno dei valori del cristianesimo è definitivamente sancito, nel corso del IV secolo, da tre grandissime personalità che, per la loro provenienza, sono collettivamente note come Padri cappadoci.
Basilio, il primo dei tre, nasce a Cesarea da una famiglia cristiana che non si fa problemi ad inviarlo a studiare ad Atene presso Imerio e ad Antiochia presso Libanio. Dopo un’esperienza di vita monastica, Basilio si fa sacerdote e nel 370 diviene vescovo di Cesarea, rimanendolo fino alla morte. Tra i suoi scritti si possono ricordare due regole monastiche, le omelie sull’Esamerone (i sei giorni della Creazione), ricche di spunti eruditi, varie opere teologiche, nelle quali avversa l’eresia ariana, e infine l’importante Esortazione ai giovani sul modo di trarre profitto dalla letteratura ellenica (dove “ellenica” va intesa nel senso tecnico di “pagana”). In questo testo Basilio riscatta le opere dell’antichità dall’etichetta riduttiva di prefigurazione e ombra delle verità cristiane e riconosce loro una dignità e un’importanza autonoma, anche dal punto di vista educativo. È indubbio che questo testo, avallando se non direttamente incoraggiando l’educazione tradizionale basata sui grandi autori della classicità all’interno dell’impero cristiano, ne abbia favorito la conservazione per tutto il corso del successivo millennio bizantino.
Il fratello minore di Basilio, Gregorio – detto “di Nissa” con riferimento alla sede di cui è vescovo dal 371 alla morte, nel 394 –, prima di dedicarsi alla vita monastica si sposa ed intraprende la carriera di maestro di retorica. Nella sua produzione, orientata verso la meditazione e la speculazione, si segnalano in particolare il dialogo Sull’anima e la resurrezione, dove compare il personaggio della sorella Macrina sul punto di morire, che è chiaramente ispirato al Fedone platonico, e la Vita di Mosè, la cui vicenda viene reinterpretata in chiave allegorica come allusione al progresso dell’anima verso la perfezione.
Gregorio di Nazianzo, figlio di un vescovo, è coetaneo e compagno di studi di Basilio; introverso e portato per la vita ascetica, diviene per qualche tempo anche vescovo di Costantinopoli, per poi rinunciare alla carica e ritornare in patria, nella quale muore. Scrive molto, dedicandosi soprattutto alle orazioni (spesso utilizzate per veicolare concetti dogmatici, come nei Discorsi di teologia relativi alla Trinità) e alla poesia, dove dimostra grande padronanza dei metri classici, utilizzati peraltro senza attinenza al contenuto. Si segnala soprattutto il carme giambico Sulla sua vita, dal quale emergono singolari elementi di introspezione, irrequietudine, insoddisfazione di se stessi che rendono Gregorio un autore insolitamente “moderno”. I manoscritti antichi attribuiscono a Gregorio anche il Christus Patiens, un componimento poetico appartenente al genere dei centoni (effettivamente diffuso in epoca tardoantica), non privo di interesse, dove la storia della passione di Cristo è raccontata a partire da versi desunti da autori antichi, in particolare dalle tragedie di Euripide (tra le quali un ruolo importante hanno le Baccanti, delle quali l’autore del carme poteva utilizzare anche parti oggi lacunose). La critica moderna è ancora divisa sulla paternità e la datazione di quest’opera enigmatica, che peraltro simboleggia bene l’appropriazione da parte cristiana delle forme, se non dei contenuti, della letteratura classica.