Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nell’Ottocento la letteratura femminile interviene su temi di attualità anche nei generi di evasione, quali le riviste di moda e il feuilleton: dai diritti civili delle donne alle questioni della schiavitù, dall’educazione delle adolescenti ai problemi sociali delle classi disagiate.
Donne in carriera
Con la Rivoluzione francese, per la prima volta, le donne si confrontano con la storia, ritrovandosi spesso sole ad affrontare responsabilità familiari, pedagogiche, economiche, alle quali nulla le ha preparate: in opuscoli o petizioni esse proclamano di fronte alla società le loro aspettative e avanzano proposte di riforma. Timide o radicali, queste Adresses esprimono la volontà di non essere escluse dalla vita politica e di dare il proprio contributo all’ordinamento di un mondo nuovo, in cui tutti godano dei diritti civili.
Accanto alla produzione collettiva, nasce una sorta di antropologia al femminile grazie all’attività della francese Olympe de Gouges, che scrive la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina (1791), e dell’inglese Mary Wollstonecraft, autrice della famosa Rivendicazione dei diritti della donna (1792).
Traggono origine da questa battaglia dai preponderanti obiettivi civili le energie, ideologiche prima che letterarie, per l’affermazione delle scrittrici ottocentesche, testimoni di una libertà intellettuale che cerca adeguata espressione nella scrittura. Se nei secoli precedenti le donne si limitavano a interventi di tipo morale, pedagogico o sentimentale, dopo la Rivoluzione francese esse affrontano realtà concrete e attuali, dando voce a un pubblico femminile che manifesta una straordinaria curiosità per tutto ciò che è moderno: avvenimenti, scienze e invenzioni. In particolare il romanzo diviene lo strumento culturale più conforme alla varietà dei problemi politici, civili e morali che le donne presentano dal loro punto di vista, spesso denunciando la convenzionalità delle regole assunte come naturali.
La letteratura femminile non si muove certo in un’unica direzione: con le tre generazioni di scrittrici che si succedono nel corso dell’Ottocento è naturale assistere ad alcuni mutamenti.Coloro che sono nate prima del 1820 presentano una certa renitenza a rivelare la propria identità, privilegiando gli pseudonimi maschili, ritenuti più concorrenziali sul mercato letterario. Dopo la Restaurazione, esse devono vincere le perentorie riserve dei conservatori che limitano non solo la libertà di leggere, ma pure quella di pubblicare. Verso la metà del secolo sembra invece di assistere a una nuova animazione, in Inghilterra con l’inizio dell’età vittoriana, in altre parti d’Europa in coincidenza con i movimenti risorgimentali e le rivendicazioni politiche. Così, mentre le utopie socialiste ripensano il funzionamento della famiglia, la maternità e le attività civiche delle donne, la letteratura femminile assume una connotazione sociale e ideologica. Le scrittrici nate tra il 1820 e il 1840 pubblicano più facilmente, cominciano a essere retribuite, usano più spesso pseudonimi femminili ed emancipano la propria sensibilità dalla sudditanza al modello maschile.
Infine, nata tra il 1840 e il 1860, la terza generazione si scontra con la stereotipata immagine femminile proposta dai positivisti, in base alla quale le capacità biologiche inferiori del cervello delle donne renderebbero impossibile l’attività letteraria. Tale inasprimento misogino comporta da un lato fenomeni di evasione nel sentimentale e dall’altro prove di scrittura per l’infanzia. A parte il caso di Lou Andreas-Salomé, amica di Nietzsche e Rilke, e allieva di Freud, solo le donne nate negli ultimi due decenni del secolo impongono vittoriosamente una lucida indagine dello specifico femminile.
Già con Madame de Staël la letteratura femminile, negandosi come evasione, si configura quale militanza e presenza sui temi d’attualità: legata agli idéologues e insieme partecipe di quella corrente di sensibilità emozionale che, con Rousseau, fa ingresso nella letteratura francese; compagna del "liberale" Benjamin Constant e corrispondente di Stendhal, al quale fa leggere i suoi romanzi; divulgatrice della filosofia idealista e del Romanticismo germanico di Schiller, Goethe, di Friedrich e di August Wilhelm Schlegel, Madame de Staël consiglia di “calmare le tempeste del cuore” attraverso “le gioie della mente”, senza però nascondere, avendole provate, le difficoltà dell’esposizione in pubblico attraverso la scrittura. Perciò la protagonista di Corinne, poetessa riccamente dotata, non può immaginare altra realizzazione se non quella di deporre l’omaggio della gloria che ha conquistato ai piedi di Oswald, il suo amante. Ma questi si sottrae, vittima di un falso dovere, e Corinne soccombe al dolore dell’abbandono. "La sorte di una donna è segnata quando non ha sposato colui che ama" scrive Madame de Staël in Delphine (1802) – “la società ha lasciato nel destino della donna soltanto una speranza; quando il gioco è fatto e si è perduto, è tutto detto”. Queste parole registrano la situazione di una classe borghese che fa della famiglia l’istituzione più sacra, e della donna la sua angelica custode. L’unica possibilità per coloro che non condividono le gioie del matrimonio sembra quella indicata dalla Consuelo di George Sand: associarsi ad altre dissidenti e raggiungere il popolo in una sorta di appassionata solidarietà tra oppressi. Ma dopo il fallimento dell’azione sociale di Flora Tristan, che organizza il mondo operaio nel corso del suo viaggio in Francia, le donne concordano sulla necessità di organizzarsi in movimenti solidali a livello europeo. Sinché restano casi isolati – la svizzera Madame de Staël, l’italiana Cristina Trivulzio Belgioioso – le donne non possono riscattare il ritardo con cui si sono inserite nel dibattito culturale e ideologico che anima il mondo maschile.
Altrettanto strenua e radicale è la discussione sul ruolo femminile nella giovane repubblica degli Stati Uniti, dove Judith Sergent Murray definisce il modello della nuova donna americana: nei suoi scritti, la giornalista richiede anzitutto un’educazione adeguata a un mondo soggetto a repentini cambiamenti. La "Penelope" americana – così battezzata per sottolineare la difficoltà con cui la donna provvede alla famiglia mentre il marito è impegnato al fronte – è una giovane pragmatica che, sdegnando moda e frivolezze, dedica il proprio tempo allo studio, con la serietà tipica dell’etica protestante. Ma, almeno sino agli anni Trenta, la "repubblicana" svolge il ruolo primario della madre, il cui inserimento nella vita pubblica avviene solo attraverso i figli. Un intervento più diretto nel sociale si ha quando, in anticipo sulla sudafricana Olive Schreiner, Lydia Maria Child si occupa della complessa questione della schiavitù: Un appello a favore di quella classe di Americani chiamati Africani (1833) è un testo di denuncia contro il modo in cui non solo gli schiavi, ma anche gli uomini liberi neri vengono trattati nelle scuole, nelle chiese, nei tribunali. “Non è soltanto la causa degli schiavi che noi difendiamo, ma quella della donna come essere morale e responsabile”, afferma Angelina Grimké, attivamente impegnata nella creazione di “un nuovo ordine delle cose”, capace di garantire eguali diritti a ogni cittadino. Si può dire che con Angelina e Sarah Grimké, autrice delle Lettere sull’eguaglianza dei sessi e La condizione della donna (1838), nasca il femminismo protestante contemporaneo.
Il fascino discreto della borghesia
Nel corso del secolo l’Inghilterra è forse il Paese che tollera meglio le donne scrittrici, anche perché esse si addentrano solo nella sfera del privato e nell’intimità della vita domestica, seguendo la cronaca di vicende amorose scandite dalle fasi del corteggiamento e culminanti nel matrimonio. “Tre o quattro famiglie in un villaggio di campagna, questo l’argomento su cui lavorare”, così Jane Austen definisce il cronotopo "provinciale" dei suoi romanzi di "formazione", pubblicati in Inghilterra a partire dal 1811. Ragione e sentimento e Orgoglio e pregiudizio – due tra i novel più fortunati – narrano il rapporto problematico tra una o più identità individuali in fase di maturazione (signorine assennate, ragazzine sventate, timide ereditiere) e il mondo esterno, ritratto con un sense of humor tale da prefigurare la tonalità dickensiana: madri ciarliere, ufficiali affascinanti, governanti fedeli, qualche pericoloso villain a caccia di dote, reverendi pedanti, padri di poco cervello, giovani innamorati e compìti che, tra cene, balli e riunioni, partecipano delle infinite variazioni della "sensibilità". Alla fine, in questo minuscolo mondo borghese, il matrimonio segnala l’avvenuta integrazione del personaggio nella società: questo il destino di Elisabeth in Orgoglio e pregiudizio, testo straordinario per l’equilibrio della struttura narrativa e la cristallina precisione della scrittura.
Jane Austen
Elizabeth e Darcy
Orgoglio e pregiudizio, Cap. LIX-LX
"Buon dio!", esclamò Mrs Bennet il mattino seguente dalla finestra dov’era affacciata. "Quel noioso Mr Darcy viene ancora qui col nostro caro Bingley! Che cosa gli viene in mente di stare sempre da noi? Credevo che fosse venuto per la caccia o per qualche altro motivo, ma speravo che non ci avrebbe tanto ripetutamente afflitte con la sua compagnia. Che cosa ne faremo? Lizzy, dovresti andare ancora a passeggio con lui, perché non secchi Bingley".
Elizabeth si trattenne a stento dal ridere a una proposta così opportuna, benché fosse veramente annoiata che sua madre parlasse sempre di lui con tanta antipatia.
Appena entrati, Bingley la guardò con grande espressione di affetto e le strinse la mano con calore: non rimasero a Elizabeth più dubbi che fosse informato di tutto, e poco dopo egli disse ad alta voce: "Mrs Bennet, non avete altri viali qui intorno, dove Lizzy possa perdersi anche quest’oggi?"
"Consiglierei a Mr Darcy, Lizzy e Kitty", disse Mrs Bennet, "di andare a Oakham Mount, questa mattina. È una bella passeggiata e Mr Darcy non conosce quel posto".
"Per gli altri può andare", rispose Bingley, "ma credo sia troppo lunga per Kitty, non è vero, Kitty?"
Kitty riconobbe che preferiva stare a casa.
Darcy invece mostrò un gran desiderio di vedere il panorama da Oakham Mount, ed Elizabeth acconsentì silenziosamente. Mentre saliva in camera per prepararsi, Mrs Bennet la seguì dicendole:
"Mi rincresce proprio, Lizzy, che sia costretta ad occuparsi da sola di quell’essere antipatico. Ma spero che non ci farai caso; è tutto per amore di Jane, e poi con lui non occorre parlare molto, basta una parola ogni tanto. Non te la prendere troppo".
Durante la passeggiata decisero che egli avrebbe chiesto il consenso di Mr Bennet quella sera stessa. Elizabeth si riservò di parlare con la madre. Non sapeva come costei avrebbe preso la cosa, dubitando che tutta la ricchezza e la posizione di Darcy sarebbero bastate a superare la sua antipatia per l’uomo. Ad ogni modo, sia che fosse decisamente contraria a quell’unione, o violentemente entusiasta, era così certa che il contegno di lei non avrebbe fatto onore al suo buonsenso, e non sopportava l’idea che Mr Darcy dovesse subire i primi trasporti della sua gioia o le prime manifestazioni della sua disapprovazione.
Nella serata, appena Mr Bennet si ritirò nella sua biblioteca, Elizabeth vide che Mr Darcy si alzava per seguirlo, e fu presa da una profondissima agitazione. Non che temesse l’opposizione di suo padre, ma sapeva che avrebbe sofferto per causa sua; e che proprio lei, la sua figlia favorita, dovesse addolorarlo con la sua scelta, procurandogli timore e rammarico per questo matrimonio, era un pensiero ben triste che la rese infelice finché Mr Darcy riapparve; ma, guardandolo, fu alquanto sollevata dal sorriso di lui.
Un momento dopo egli si avvicinò alla tavola dove era seduta con Kitty, e facendo finta di ammirare il suo lavoro, le mormorò:
"Andate da vostro padre; vi desidera in biblioteca".
Ella vi andò immediatamente. Suo padre passeggiava su è giù per la camera con aria grave e preoccupata: "Lizzy", disse, "che cosa mi combini? Hai perso la testa, per accettare quell’uomo? Non lo hai sempre odiato?".
Come rimpianse allora che i suoi giudizi passati non fossero stati più ragionevoli, le sue espressioni più moderate! Quante noiose spiegazioni le sarebbero state evitate, che ora era invece necessario dare! Così, con una certa confusione, lo assicurò del suo affetto per Mr Darcy.
"Vuol dire, insomma, che sei decisa a sposarlo. Certamente è ricco e potrai avere più abiti e più carrozze di Jane; ma credi che questo ti renderà felice?"
"Non avete altre obiezioni", chiese Elizabeth, "oltre quella di credere che mi sia indifferente?"
"Nessuna. Sappiano tutti che è orgoglioso e non troppo amabile; ma questo non vorrebbe dir nulla, se tu gli volessi bene davvero".
"Ma gliene voglio", rispose lei con le lacrime agli occhi. "Lo amo veramente. Vi assicuro che il suo orgoglio non è sbagliato. Ed è più che amabile. Voi non lo conoscete bene; vi prego quindi di non affliggermi parlandomi di lui in tal modo".
"Lizzy", disse suo padre, "gli ho dato il mio consenso. A un tipo simile non oserei rifiutare nulla che si degnasse di chiedermi. Per me te lo concedo, se tu sei decisa a volerlo. Ma lascia che ti consigli di riflettere ancora. Ti conosco, Lizzy, so che non potresti essere felice se tu non potessi stimare e apprezzare sinceramente tuo marito, se non lo considerassi superiore a te. Le tue brillanti qualità ti esporrebbero a dei grandi pericoli se facessi un matrimonio non adatto alla tua intelligenza. Non potresti evitare umiliazioni e dolori. Bimba mia, non darmi la pena di vederti incapace di rispettare il compagno della tua vita. Tu non sai quello che stai per fare.
Elizabeth, sempre più contristata, rispose con la maggiore serietà che Mr Darcy era proprio l’oggetto della sua scelta, spiegandogli come fossero mutati i suoi giudizi su di lui, e la sua assoluta certezza che tale affetto non era cosa di un giorno, ma che aveva subìto la prova di molti mesi; e ricapitolando con grande convinzione tutte le buone qualità di Darcy, riuscì a vincere l’incredulità di suo padre e a riconciliarlo con questo matrimonio.
"Ebbene, cara", egli disse quando Lizzy ebbe finito di parlare: "non ho più nulla da dire. Se le cose stanno così, ti merita. Non avrei potuto separarmi da te, Lizzy mia, per qualcuno di meno degno".
Allora, per completare questa opinione favorevole, Elizabeth gli raccontò quello che Darcy aveva fatto spontaneamente per Lydia. Egli l’ascoltò meravigliato.
"È proprio la serata delle sorprese! E così Darcy ha fatto tutto; combinato il matrimonio, dato il denaro, pagato i debiti del giovanotto e procurato il suo brevetto di ufficiale. Tanto meglio. Mi eviterò un monte di guai e di spese. Se lo avesse fatto lo zio, avrei dovuto e voluto ripagarlo, ma questi ardenti innamorati fanno tutto a modo loro. Domani gli offrirò immediatamente di rimborsarlo, lui protesterà, pago del suo amore per te, e non se ne parlerà più".
Allora si ricordò del turbamento che Elizabeth aveva mostrato leggendo la lettera di Mr Collins, e, dopo averla canzonata un pochino, la lasciò finalmente andare, dicendo mentre usciva:
"Se ci sono dei pretendenti per Mary o per Kitty, mandameli pure: sono a loro disposizione".
Il cuore di Elizabeth era sollevato da un gran peso, e dopo mezz’ora di calma riflessione in camera sua, poté raggiungere gli altri con sufficiente serenità. Tutto era ancora troppo recente per dar adito alla gioia, ma la serata trascorse tranquillamente; non c’era più nulla da temere, e il conforto dell’intimità e della familiarità sarebbe venuto col tempo.
Quando la madre salì più tardi nel suo spogliatoio, Elizabeth la seguì e le comunicò la grande notizia. L’effetto fu sorprendente; Mrs Bennet rimase immobile ad ascoltare la figlia, incapace di profferire una sillaba. Ci vollero parecchi minuti prima che riuscisse a rendersi conto di quello che aveva sentito, benché, generalmente, non fosse tanto lenta nell’afferrare tutto quello che poteva essere di vantaggio alla famiglia, o che apparisse sotto l’aspetto di un pretendente per le sue ragazze. Finalmente si riebbe, si agitò sulla sua sedia, si alzò, si risedette, meravigliandosi e abbandonandosi alle più strane esclamazioni:
"Buon Dio! Dio mi benedica! chi avrebbe pensato una cosa simile! Povera me! Mr Darcy! Chi l’avrebbe detto! Ed è proprio vero? Oh, mia diletta Lizzy! Che gran dama, che signora sarai! Che rendita, che gioielli, che vetture avrai! Jane non sarà niente in confronto a te, niente davvero! Sono così contenta, così felice! Un uomo così seducente! Così bello, così alto! Oh, cara Lizzy! Ti prego, scusami se mi era tanto antipatico. Spero che lui ci passerà sopra. Cara, cara Lizzy! Una casa a Londra! Tutta la felicità! Tre ragazze sposate! Diecimila sterline l’anno! Oh, Dio! Che ne sarà di me? Mi pare di impazzire!".
Ce n’era abbastanza per non dubitare della sua approvazione, ed Elizabeth rallegrandosi che questa effusione fosse stata udita solamente da lei, se ne andò al più presto. Ma era appena arrivata in camera sua che la mamma la raggiunse.
"Bambina mia", esclamò, "non riesco a pensare ad altro! Diecimila sterline l’anno e forse anche più. È quasi come se tu sposassi un lord! Avrete una licenza speciale per il matrimonio! Dovete certo sposarvi con una licenza speciale! Ma, amor mio, dimmi qual è la pietanza preferita da Mr Darcy perché la possa ordinare per domani".
Questo era un brutto indizio di quello che sarebbe stato il contegno di sua madre verso Darcy, ed Elizabeth pensò che, benché sicura dell’affetto di lui e certa del consenso dei suoi genitori, le rimaneva ancora qualcosa da desiderare. Ma l’indomani le cose andarono molto meglio di quanto si aspettava, perché fortunatamente Mrs Bennet era così intimidita dal suo futuro genero che non osava quasi parlargli, se non per mostrare la più grande deferenza verso le sue opinioni.
Elizabeth ebbe la gioia di vedere che suo padre cercava di conoscerlo meglio, e infatti Mr Bennet presto le disse che Darcy saliva rapidamente nella sua stima.
"Ammiro moltissimo tutti i miei generi", disse, "forse il mio preferito è Wickham, ma credo che vorrò bene a tuo marito come a quello di Jane".
Capitolo sessantesimo
Elizabeth, tornata di ottimo umore, volle che Mr Darcy le spiegasse come si era innamorato di lei. "Come è cominciato?", chiese. "Posso capire che una volta nata, la cosa abbia preso piede, ma che cosa ti ha fatto innamorare all’inizio?"
"Non posso fissare né l’ora né il posto, o lo sguardo o le parole che furono il principio del mio amore. È passato troppo tempo. Ero già innamorato prima di accorgermene".
"Quanto alla mia bellezza l’avevi disprezzata, e quanto ai miei modi, il mio contegno verso di te rasentava quasi la sgarberia, e non ti ho mai parlato senza un vago desiderio di ferirti. Sii dunque sincero: mi hai ammirato per la mia impertinenza?"
"Diciamo per la vivacità del tuo spirito".
"Chiamala pure impertinenza. Era poco meno; il fatto è che eri stanco di cortesie, di deferenza, di attenzioni ossequiose. Eri disgustato delle donne che parlavano e agivano solo per ottenere la tua approvazione. Ho destato la tua attenzione solo perché ero così diversa da loro. Se tu non fossi profondamente buono mi avresti odiata, ma, nonostante la pena che ti dai per apparire diverso, i tuoi sentimenti sono sempre stati nobili e giusti, e in cuor tuo disprezzavi le persone che ti facevano la corte. Ecco, ti ho risparmiato il disturbo di spiegarmelo, e, tutto considerato, comincio a trovarlo perfettamente ragionevole. In realtà non conosci di me nessuna buona qualità, ma nessuno pensa a questo quando s’innamora".
"Non era dunque bontà la tua affettuosa premura per Jane, quando era ammalata a Netherfield?"
"Cara Jane! Chi avrebbe fatto di meno per lei? Ma se ti piace, stimala pure una virtù. Le mie buone qualità sono sotto la tua protezione e puoi esagerarle quanto ti è possibile, mentre in compenso io cercherò ogni occasione per tormentarti e per litigare con te. Comincio subito chiedendoti: "Che cosa ti ha fatto tanto esitare prima di dichiararti? Che cosa ti ha reso così timido durante la tua prima visita, e poi quando sei venuto a pranzo? Perché, soprattutto, sembrava che non ti curassi affatto di me?"".
"Perché eri seria e silenziosa, e non mi incoraggiavi in nessun modo".
"Ma ero confusa!"
"E lo ero anch’io".
"Quando sei venuto a pranzo, però, avresti potuto parlarle un po’ di più con me, no?"
"Lo avrebbe potuto uno meno innamorato di me".
"Che peccato che tu abbia sempre una risposta così sensata e che io sia così ragionevole da accettarla! Ma mi chiedo quanto tempo sarebbe durata la cosa se ti avessi lasciato a te stesso! Mi chiedo quando avresti parlato se non te l’avessi chiesto io! La mia decisione di ringraziarti per la tua bontà verso Lydia ebbe certo un grande effetto. Troppo, temo, perché dove va a finire la morale se la nostra felicità deriva dalla rottura di una promessa? Infatti io non avrei mai dovuto parlarti di quell’argomento. No, questo non va".
"Non ti crucciare. La morale è salva. L’ingiustificato tentativo di Lady Catherine per separarci servì a togliermi ogni dubbio. Non devo dunque la mia felicità al tuo ansioso desiderio di mostrarmi la tua gratitudine. Il mio stato d’animo non mi consentiva di aspettare un tuo incoraggiamento. Le parole di mia zia mi avevano fatto sperare, ed ero deciso a sapere subito ogni cosa".
"Lady Catherine è stata veramente preziosa, cosa che la dovrebbe rendere felice, perché muore sempre dalla voglia di rendersi utile. Ma dimmi, perché eri venuto a Netherfield? Solo per cavalcare fino a Longbourn con quell’aria imbarazzata, o avevi dei propositi più seri?"
"Il mio vero recondito scopo era quello di vederti, e di capire se avrei mai potuto sperare di farmi amare da te. Quello confessato, o per lo meno che confessavo a me stesso, era di vedere se tua sorella voleva ancora bene a Bingley, e, in questo caso, di confessargli tutto come ho fatto".
"Avrai mai il coraggio di annunciare a Lady Catherine quello che le sta per capitare?"
"È più facile che mi manchi il tempo che il coraggio, Elizabeth. Ma bisogna farlo; e se mi dai un foglio lo farò subito".
"Se non dovessi scrivere una lettera io stessa mi metterei a sedere accanto a te ammirando la regolarità della tua calligrafia, come faceva un tempo un’altra signorina. Ma anch’io ho una zia che non deve essere trascurata più a lungo".
Jane Austen, Orgoglio e pregiudizio, a cura di R. Reim, trad. it. di I. Castellini e N. Rosi, Roma, Newton Compton, 1996
Un’altra vicenda di "formazione" viene proposta da Charlotte Brontë in Jane Eyre (1847): divenuta istitutrice nella casa di un ricco signore, la povera orfanella lo fa innamorare, ma in prossimità delle nozze scopre che egli nasconde l’orribile segreto di una moglie pazza nascosta in casa. Ne segue una serie di drammatiche vicissitudini che rendono ancora più gratificante il matrimonio della diseredata protagonista. Assai più complesso appare invece Cime tempestose (1847) di Emily Brontë, la quale costruisce una figura di eroe negativo, il trovatello Heathcliff, che matura una lenta, implacabile vendetta contro la famiglia del suo benefattore, seminando odio e distruzione. Critico verso le convenzioni vittoriane e il mito ipocrita della famiglia e dell’educazione, questo novel costringe a rivedere anche la struttura "armonica" del Bildungsroman alla luce di una tragica concezione della vita che non prevede compromessi tra individuo e società.
Non c’è dubbio che Emily Brontë rappresenti una tendenza minoritaria di scrittura femminile, restando più ammirata che letta, dal momento che il pubblico vittoriano preferisce i romanzi didascalici e moralistici di George Eliot (Il mulino sulla Floss, 1860; Middle march, 1871-1872) che celebra il valore e la poesia della vita degli umili, appellandosi alla fede cristiana. Negli stessi anni, però, si diffonde anche un gusto più audacemente moderno: in Francia la contessa di Ségur inventa la figura ribelle di Sophie (I dolori di Sofia, 1864), mentre negli Stati Uniti May Louise Alcott affida ai personaggi femminili di Piccole donne il ruolo di modelli di "formazione" di un’adolescenza che non si identifica con il vittimismo della Cosetta di Victor Hugo. L’intreccio di novità e tradizione si manifesta con chiarezza nella produzione letteraria di George Sand, il cui vero nome è Amandine-Lucie-Aurore Dupin, che, dopo aver composto testi "passionali"e "femministi" (Indiana, 1832; Valentine, 1832; Lélia, 1833) e aver aderito al socialismo, si dedica a romanzi di ambiente "campestre" e di orientamento democratico-umanitario, meritando l’appellativo di "amica dei contadini". Se Consuelo è un’artista forte e ribelle che resiste agli ostacoli posti dalle leggi patriarcali, la Marie di La palude del diavolo (1846) e la Fadette del romanzo omonimo (1849) risultano modelli di abnegazione, per quanto "piccoli" e piuttosto scialbi. Anche in questi casi, comunque, George Sand si segnala per l’attenzione ardimentosa verso i problemi umani dei ceti rurali, e in ragione di tale realismo viene ammirata, tra gli altri, dall’italiana Caterina Percoto che nei suoi Racconti disegna figure femminili duramente segnate da fatica, miseria, emarginazione.
Alle origini delle comunicazioni di massa
Con la rivoluzione industriale le donne lavorano sempre più in ambienti non domestici e questo contribuisce alla loro emancipazione. Anche se di rado può disporre liberamente del salario, la lavoratrice allenta i legami simbolici di dipendenza dal mondo maschile. Non desta sorpresa che, con sempre maggiore frequenza, essa sfogli le riviste di moda, un vero e proprio strumento culturale a partire dagli anni Cinquanta: in America, il "Ladies Book" di Godey, edito da Sarah Josepha Hale, conta 40 mila abbonati intorno al 1849, mentre in Francia "Le petit echo de la mode" ha una diffusione di 200 mila copie nell’ultimo decennio del secolo. Tale successo indica l’affermazione di un’immagine femminile di nuovo tipo: non più solo produttrice che lavora abiti e accessori in casa, la donna diviene consumatrice che spende fuori casa. In apparenza assai diverso, il giornale legato al movimento femminista nasce nella medesima cultura capitalista, di cui discute aspetti complessi quali la quantificazione e i rapporti alienanti: l’"Englishwoman’s Journal", creato nel 1859 a Londra; "La Fronde", quotidiano parigino dal 1897 al 1903; la "Gleichheit", dal 1892 organo del movimento delle donne socialiste tedesche e internazionaliste; l’austriaco "Die Waffen nieder" (1894-1900), sulle cui pagine Bertha von Suttner lotta per la pace nell’Europa e nel mondo, guardano al futuro con la consapevolezza critica di una donna impegnata in contenuti civili e politici. Persino in Italia, dove manca una rivoluzione industriale che esasperi la lotta di classe, la giornalista Matilde Serao denuncia con spirito zoliano il malcostume politico responsabile della degradazione della vita cittadina.
Matilde Serao
L’urna
Il paese di cuccagna, Cap. I
Ad un tratto, un lungo grido di soddisfazione uscì dal petto della folla, variato in tutti i toni, saliente alle note più acute e scendente alle note più gravi: il grande balcone della terrazza si era schiuso. La gente che aspettava nella via cercò di penetrare nell’androne, quella che era nell’androne si accalcò nel cortile: vi fu come un serramento, mentre tutte le facce si levavano, prese da un’ardente curiosità, prese da un’angoscia ardente. Un grande silenzio. E guardando bene al moto delle labbra di certe donne, si vedeva che pregavano: mentre Carmela, la fanciulla dall’attraente volto consumato e dagli occhi neri infinitamente tristi, giocherellava con un cordoncino nero che le pendeva dal collo, e a cui erano attaccati una medaglina della Madonna Addolorata e un piccolo corno di corallo. Silenzio universale: di aspettazione, di stupore. Sul terrazzino, due uscieri del Regio Lotto avevano collocato un lungo e stretto tavolino coperto di un tappeto verde; e dietro il tavolino, tre seggioloni, perché vi sedessero le tre autorità: un consigliere di prefettura, il direttore del Lotto a Napoli, e un rappresentante del municipio. Sopra un altro piccolo tavolino fu collocata l’urna, per i novanta numeri. È grande, l’urna; tutta fatta di una rete metallica, trasparente, a forma di limone, con certe strisce di ottone che vanno da un capo all’altro, cingendola come i circoli del meridiano circondano la terra: sottili strisce luccicanti che ne assicurano la forza, senza impedirle la perfetta trasparenza. L’urna è sospesa, in aria, fra due piuoli di ottone, e presso un piuolo c’è un manubrio, anche metallico, che, voltato, fa rapidamente girare sul suo asse tutta l’urna. I due uscieri che aveano portato tutto questo materiale fuori il terrazzino, erano vecchi, un po’ curvi, come sonnacchiosi. Anche le tre autorità, in soprabito e cappello a cilindro, sembravano annoiate e sonnolente, sedendosi dietro il tavolino: così il consigliere di prefettura dai mustacchi tinti di un nero fortissimo, che pareva avessero stinto in bruno, sul bruno volto lucido e assonnato: così un consigliere comunale, che era un giovanotto dalla barbetta scura. Questa gente si muoveva lentamente, con una misura di movimenti, con una precisione di automi, tanto che un popolano, dalla folla, gridò:
"Andiamo, andiamo!"
Di nuovo, silenzio, ma vi fu un grande ondeggiamento di emozione, quando comparve sulla terrazzina il fanciulletto che doveva estrarre dall’urna, i numeri dell’estrazione.
Era un fanciulletto vestito della bigia uniforme dell’Albergo dei Poveri, un povero fanciulletto del Serraglio, come i napoletani chiamano l’ospizio di quelle creature abbandonate, un povero serragliuolo senza madre e senza padre, o figliuolo di genitori che, per miseria o per crudeltà, avevano abbandonato la loro prole. Il fanciulletto, aiutato da uno degli uscieri, indossò, sull’uniforme da serragliuolo, una tunica di lana bianca: un berretto bianco, anche di lana, gli fu messo sulla testa, perché la leggenda del Lotto vuole che il piccolo innocente porti la veste bianca dell’innocenza. E lestamente salì sopra uno sgabello, per trovarsi all’altezza dell’urna. Di sotto, la folla tumultuava:
"Bel figliuolo, bel figliuolo!"
"Che tu possa essere benedetto!"
"Mi raccomando a te e a San Giuseppe!"
"La Madonna ti benedica le mani!"
"Benedetto, benedetto!"
"Santo e vecchio, santo e vecchio!"
Tutti gli dicevano qualche cosa, un augurio, una benedizione, un desiderio, un’invocazione pietosa, una preghiera. Il bambino taceva, guardando, con la manina appoggiata sulla rete metallica dell’urna; e un po’ discosto, appoggiato allo stipite del balcone, v’era un altro bambinetto del Serraglio, serio serio, malgrado le rosee guance e i biondi capelli tagliati sulla fronte: era il fanciulletto che doveva estrarre i numeri il sabato prossimo e che veniva là per imparare, per assuefarsi alla manovra dell’estrazione e ai gridi della folla. Ma di lui nessuno si curava: era quello vestito di bianco, quello di quel giorno, a cui si rivolgevano le mille esclamazioni della gente; era la piccola anima innocente biancovestita, che faceva sorridere di tenerezza, che faceva venire le lagrime agli occhi a quella folla di esseri tormentati, e speranzosi solo nella Fortuna. Alcune donne avevano sollevato nelle braccia i propri fanciullini e li tendevano verso il piccolo serragliuolo. E le voci, tenere, appassionate, straziate, continuavano:
"Pare un piccolo san Giovanni, pare!"
"Che tu possa trovare sempre grazia, se mi fai fare questa grazia!"
"Core di mamma, quanto è caro!" (...)
Non si scambiava una parola, lassù, non un sorriso: la febbre restava all’altezza delle persone, nel cortile, non saliva al primo piano. Giù, adesso, le persone più serie ridevano convulsamente, sottovoce, crollavano il capo, come se si fosse loro comunicato il morbo nella forma più chiassosa. L’operazione parve si affrettasse, verso la fine. Nuovi gridi accolsero il settantacinque che è il numero di Pulcinella e il settantasette che è quello del diavolo; ma un lungo, lunghissimo applauso salutò il novanta, l’ultimo numero, anzitutto perché era l’ultimo, poi perché il novanta è un numero estremamente simpatico: novanta fa la paura: novanta fa il mare: novanta fa il popolo: e insieme ha altri cinque o sei significati, tutti popolari. Tutti applaudivano, nel cortile, uomini, donne, fanciulli, al gran novanta, che è l’omega del lotto. Poi, subito, come per incanto, un silenzio profondo si fece: una immobilità arrestò tutti quei corpi, tutte quelle facce - la gran gente convulsa parve pietrificata nei sentimenti, nella parola, negli atti, nella espressione.
Il primo usciere, quello che aveva dichiarato i novanta numeri, accostò alla balaustra una tabella di legno, lunga e stretta, a cinque caselle vuote, simile a quella dei bookmakers sui campi delle corse, mentre l’altro usciere dava gli ultimi giri all’urna riempita di tutti i novanta numeri. La tabella era voltata verso il popolo. Poi il consigliere scosse un campanello: il giro dell’urna si arrestò: il terzo usciere mise una benda sugli occhi del bimbo biancovestito; costui lestamente immerse la manina nell’urna aperta e cercò un momento, un momento solo, cavando subito una pallina col numero. Mentre questa pallina passava di mano in mano, giù, da quei petti pietrificati, da quelle bocche pietrificate, uscì un sospiro cupo, tetro, angoscioso.
"Dieci", gridò l’usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo subito nella prima casella.
Mormorio e agitazione fra il popolo: tutti coloro che avevano sperato nel primo estratto erano delusi.
Nuova scossa di campanello: il bimbo immerse, per la seconda volta, la manina delicata nell’urna.
"Due", gridò l’usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo nella seconda casella.
Al crescente mormorio qualche bestemmia soffocata si aggiunse: tutti quelli che avevano giuocato il secondo estratto erano delusi: tutti quelli che avevano sperato di prendere quattro numeri erano delusi: tutti quelli che avevano giuocato un grosso terno secco cominciavano a temere fortemente la delusione. Tanto che, quando per la terza volta la manina del fanciulletto penetrò nell’urna, qualcuno gridò, angosciosamente:
"Cerca bene, scegli bene, bambino!"
"Ottantaquattro", gridò l’usciere, dichiarando il numero e collocandolo nella terza casella.
Qui scoppiò il grande urlo d’indignazione, fatto di bestemmie, di lamenti, di esclamazioni colleriche e dolorose. Questo terzo numero, cattivo, era decisivo, era decisivo per l’estrazione e per i giuocatori. Con l’ottantaquattro erano delusi già tutti quelli che avevano giuocato il primo, il secondo e il terzo estratto; erano delusi tutti quelli che avevano giuocato la quintina, la quaterna, il terno, il terno secco, speranza e amore del popolo napoletano, speranza e desiderio di tutti i giuocatori, da quelli accaniti a quelli che giuocano una volta sola, per caso: il terno che è la parola fondamentale di tutti quei desiderii, di tutti quei bisogni, di tutte quelle necessità, di tutte quelle miserie. Un coro di maledizioni si levava, di giù, contro la mala fortuna, contro la mala sorte, contro il Lotto e contro chi ci crede, contro il governo, contro quello sciagurato ragazzo che aveva la mano così disgraziata. Serragliuolo, serragliuolo! gridavano da basso, per insultarlo, mostrandogli il pugno. Dal terzo al quarto numero passarono due o tre minuti; ogni settimana accadeva così: il terzo numero era l’espressione paurosa della infinita delusione popolare.
"Settantacinque", dichiarò con voce più fiacca l’usciere, mettendo il numero estratto nella quarta casella.
Tra le voci irose che non si calmavano, qualche fischio risuonò, vendicativo. Le ingiurie piovevano sul capo del bimbo; ma le maggiori imprecazioni erano contro il Lotto, dove non si può vincere mai, mai, dove tutto è combinato perché non si vinca mai, mai, specialmente per la povera gente.
"Quarantatré", finì di proclamare l’usciere, collocando il quinto ed ultimo numero.
E un ultimo soffio di collera, fra il popolo: niente altro. In un momento, dal terrazzino scomparve tutta la fredda macchina del lotto: sparvero i due bimbi, le tre autorità, l’urna con gli ottantacinque numeri e il suo piedistallo, sparvero tavolini, seggioloni, uscieri, si chiusero i cristalli e le imposte del grande balcone, in un momento. Sola, ritta, accosto alla balaustra, rimase la crudele tabella, coi suoi cinque numeri, quelli, quelli, la grande fatalità, la grande delusione.
Con molta lentezza, a malincuore, la folla si diradava nel cortile. Sui più esaltati dalla passione del giuoco aveva soffiato il vento della desolazione e li aveva abbattuti, come se avessero le braccia e le gambe spezzate, la bocca amara di bile; quelli che avevano giuocato tutt’i loro denari, quella mattina, non sentendo più il bisogno di mangiare, di bere, di fumare, nutrendosi vividamente delle visioni di cuccagna nella fantasia, sognando per quella sera di sabato e per la domenica e per tutti i giorni successivi, tutta una spanciata di pranzi grassi e ricchi divorati in immaginazione, tenevano mollemente le mani nelle tasche vuote, e negli occhi desolati si dipingeva il fisico, l’infantile dolore di chi sente i primi crampi della fame e non ha, sa di non poter avere il pane per chetare lo stomaco: altri, i più folli, caduti dall’altezza delle loro speranze in un momento, provavano quel lungo minuto di pazzia angosciosa, quando non si vuol credere, no, non si può credere alla sventura e gli occhi hanno quello sguardo smarrito che non vede più la forma delle cose e le labbra balbettano parole incoerenti - ed erano questi folli disperati che figgevano ancora gli occhi sulla tabella dei cinque numeri, come se non potessero ancora convincersi della verità, e macchinalmente confrontavano i cinque numeri, con la lunga lista bianca delle loro bollette da giuoco.
Matilde Serao, Il paese di cuccagna, Milano, Garzanti, 1981
Per raggiungere la folla sempre più eterogenea delle lettrici, quella che è ormai l’industria della scrittura non si allea solo con il giornale, ma anche con il feuilleton, insieme stimolo e risposta all’esigenza di una commozione agevole e disimpegnata. Mentre langue la lirica (poco praticata dalle scrittrici ottocentesche, a parte alcune celebri poetesse quali Annette von Droste-Hülshoff, Rosalía de Castro ed Emily Dickinson, la cui forza di astrazione simbolica resta per gran parte sconosciuta sino alla metà del Novecento), invade il mercato un profluvio di novelle, racconti, romanzi che intrecciano vicende d’amore e temi sociali, in una struttura elementare e ripetitiva che, nel caso dell’italiana Carolina Invernizio, garantisce “profondo interesse e viva commozione”. Nella narrativa d’appendice il dramma femminile della vita ordinaria e reale, tessuto di vicende di sopraffazione, viene coperto da colpi di scena e capovolgimenti imprevisti che conducono sempre allo scioglimento desiderato e gratificante. E mentre questa letteratura diffonde messaggi indolori, la realtà delle lavoratrici, siano esse operaie o artiste, non subisce sostanziali flessioni: se nella prima metà del secolo Bettina Brentano merita il disprezzo del fratello Clemens Marie per avere “spiattellato sulla pubblica piazza quello che aveva di meglio, di più intimo”, allo stesso modo Alice James si scontra con l’ostilità del fratello Henry, ampiamente responsabile dei ritardi della pubblicazione del suo Diario, uscito nel 1934, più di quarant’anni dopo la morte dell’autrice. Anche in difetto di comprensione, però, le donne hanno continuato a scrivere, tentando di raccontare una storia diversa e testimoniando un profondo desiderio d’interpretare la realtà.
Carolina Invernizio
Alfonso ossessionato dalla perdita di Clara
Il bacio di una morta
Il custode aveva con lentezza fatte girare le viti della cassa e, senza alcuno sforzo, ne sollevò il pesante coperchio.
Un gran velo bianco copriva il cadavere. Il custode l’alzò con una delicatezza ed un rispetto, strani in un uomo del suo mestiere, e scoperse la pallida e bella figura della contessa.
Alfonso ed Ines congiunsero le mani, e per qualche minuto il loro dolore parve tacere, davanti alla serenità di quella figura, che dormiva del sonno tranquillo, solenne della morte.
La contessa era vestita tutta di bianco: i suoi capelli sparivano sotto una cuffia di trina, che le scendeva fino sulla fronte: al collo aveva una croce di brillanti attaccata ad un nastro celeste.
Ella era bella di una celeste purezza, e sotto quelle trine candide, con quel vestito bianco, pareva una vergine assopita nei pensieri del cielo.
Il viso era pallido, dimagrato, ma non aveva quella lividezza spaventosa, propria dei cadaveri. Nessuno, vedendola, avrebbe creduto alle sofferenze che furono il preludio della di lei morte. Uno sguardo sembrava scivolar fuori dalle pupille semichiuse; dalle labbra aperte ad un principio di sorriso, sembrava uscire ancora una parola di amore, di addio, per i suoi cari.
"Com’era bella" mormorò Ines portandosi il fazzoletto agli occhi.
"Bella e buona" disse Alfonso con un brivido.
E scuotendosi dall’estasi che l’aveva per un istante dominato, si gettò piangendo su quell’adorato cadavere.
"Clara... mia Clara... - diceva singhiozzando - eccomi a te di ritorno... ma tu non mi vedi... non odi il tuo povero fratello che ti è vicino; tu sei morta pensando che io t’avesse dimenticata... morta scrivendo... e pronunciando il mio nome... Clara... o mia Clara..."
Le lacrime gli scendevano in copia sulle guance.
"Sei pur bella!... - continuò - ma Dio solo vede ora i tuoi dolci sorrisi... Oh! Clara... dimmi chi ti ha resa infelice sulla terra, chi ti ha fatto morire così giovane?... parlami... parlami... sono Alfonso, il tuo fratello che amavi tanto..."
S’interruppe con un palpito angoscioso, e le braccia indebolite gli caddero penzoloni lungo il corpo.
Ines cercò di sorreggerlo, di trascinarlo lontano. Ma egli si svincolò da lei. Pareva non potersi saziare di guardare quel cadavere; egli s’ostinava a credere che colei che aveva tanto amato non poteva essere morta, e che forse stava per risvegliarsi.
Era sì bella ancora quella morta! V’era ancora tanto fascino in quelle purissime forme, nella delicata posa! Possibile che l’anima di lei fosse svanita intieramente nello spazio, e non rimanesse ancora, in quel corpo reso inerte, un soffio di vitalità!
Le pupille di Clara non avevano il color vitreo, appannato, oscuro, che sogliono prendere gli occhi degli estinti.
Alfonso le guardava e gli pareva che esse ricambiassero i suoi sguardi. Eppure quelle pupille erano immobili, come la fronte di Clara era ghiacciata.
Ma il giovane non sapeva staccarsene.
"Ah! se Dio volesse... se Dio volesse - mormorava come in delirio. - Clara... Clara... guardami ancora... dammi un bacio... un bacio solo... per mostrarmi che mi hai perdonato". Ed appoggiò le sue labbra ardenti sulle labbra della povera morta.
Ma allora gettò un grido, che risuonò lungamente in tutta la cappella, e si alzò barcollando come un ubriaco, coi capelli scomposti, gli occhi sbarrati.
"Le sue labbra si sono mosse! - esclamò. - Ella mi ha baciato... ella è viva... sì, è viva!"
in G. Zaccaria (a cura di),Il romanzo d’appendice. Aspetti della narrativa “popolare”, Torino, Paravia, 1977