La letteratura in Francia
Le panoramiche generali, e più che mai quelle dedicate a fenomeni in corso, sono sottoposte per loro natura a necessità selettive che rischiano di ridurre e semplificare la ricchezza e la complessità di situazioni intrinsecamente magmatiche. Di qui la necessità di riconoscere l’inevitabile parzialità, se non unilateralità, di ogni itinerario ricognitivo che attraversi i territori della contemporaneità.
Se si guarda alla letteratura francese di oggi, si sovrappongono alcuni preliminari interrogativi di fondo che in parte concernono l’ambito nazionale, in parte attengono a orizzonti più ampi, inerenti all’intera area occidentale. Prima suggestione che rientra nel quadro degli slogan ricorrenti è quella riguardante il declino della letteratura. Questione, quest’ultima, che impone di precisare comunque di che cosa si parla, se di scrittura o di lettura o di entrambe. E/o magari della società letteraria, dell’industria culturale e così via. La domanda sul destino della letteratura va ben oltre i confini della Francia, dato che si pone a tutta la società attuale. Ma alla sua applicazione al campo francese si aggiunge una specificità che concerne la salute, e cioè la diffusione, di questa lingua (e di questa cultura) nel mondo.
Le sorti della lettura
Converrà quindi attenersi alle inflessioni spiccatamente francesi di queste problematiche. Il versante della ricezione non offre grandi sorprese rispetto a quello che ci si può aspettare al giorno d’oggi. Rimanendo all’ambito giovanile, che appare decisivo per configurare in prospettiva un profilo di lettore, le valutazioni statistiche ed etnografiche delle inchieste non offrono parametri univoci. Come hanno rilevato Christian Baudelot, Marie Cartier e Christine Detrez (1999) in una loro ricerca sullo stato della lettura in Francia, all’inizio di questo secolo emergeva che il 40% dei giovani leggono poco o niente, mentre il 60% mantiene con i libri rapporti positivi, anche se suscettibili d’interruzioni provvisorie o definitive. Volendo raffinare il dato, si constata che se si scorporano i non lettori assoluti dai lettori parsimoniosi, si può arrivare a un 78% di individui che intrattengono con qualunque frequenza e intensità un rapporto con i libri. Se è vero che solo il 23% va considerato lettore regolare, il che darebbe luogo a considerazioni pessimistiche, è anche indubbio che in definitiva soltanto un quarto della popolazione giovanile si astiene totalmente dalla lettura. E quest’ultimo rilievo potrebbe indurre gli ottimisti a qualche compiacimento. Qualora si guardi alla progressione dei ragazzi nei loro studi, si constata che mano a mano che avanzano verso la licenza liceale e che poi la superano perdono il gusto della lettura. Certi sociologi della lettura tendono poi a osservare che, ancor più che la quantità o la natura di autori e testi preferiti, ciò che distingue le varie tipologie di giovani lettori è il modo di appropriazione delle opere. Un autore di successo planetario come Stephen King, letto da tutti gli appartenenti al campione statistico di Baudelot, può essere filtrato attraverso differenti modalità e capacità di approccio critico. Questa variabilità di ricezione vale anche per la fruizione dei classici previsti dai programmi scolastici.
Vero è che nel campionario di scelte compiute dai giovani, quelle imposte dalla scuola non hanno rilievo significativo. Certo, alcuni nomi ricorrono, e sono quelli prevedibili, come Molière, Balzac, Stendhal, Maupassant e Zola. Ma le opzioni personali sono altre, specialmente a vent’anni, quando il ciclo scolastico è ormai alle spalle. I titoli preferiti non appartengono neppure in prevalenza all’ambito francese: accanto ai best seller Marc Levy e Amélie Nothomb spiccano Douglas Kennedy, Mary Higgins Clark e l’inevitabile Joanne Kathleen Rowling di Harry Potter. Resistono, in un quadro di letteratura di livello più impegnativo, opere come 1984 (1949; trad. it. 1950) di George Orwell o L’écume des jours (1947; trad. it. La schiuma dei giorni, 1992) di Boris Vian, maggiormente consone, per argomento (quella di Orwell) o per tono (quella di Vian), alla sensibilità del pubblico contemporaneo. Altre letture di largo consumo sono gli album a fumetti (la BD, Bande Dessinée), che propongono spesso opere di concezione relativamente complessa, come i romans graphiques o graphic novel, apprezzati anche dai giovani acculturati, e i libri illustrati incentrati sugli idoli dello spettacolo e della canzone.
Volendo desumere qualche linea d’insieme da questo panorama, bisogna ammettere che il quadro è variegato. Le abitudini di lettura sono cambiate: secondo un sondaggio della società di ricerca Sofres, la percentuale di grandi lettori, cioè di coloro che leggono più di 20 libri all’anno, è scesa negli ultimi diciassette anni dal 14% al 9%. In compenso, per così dire, è salito dal 24% al 35% il numero di ‘piccoli’ lettori, ovvero di consumatori di 1-5 libri all’anno. Non si può quindi parlare di un crollo della lettura, ma di una sua differente distribuzione e composizione rispetto al passato. Anche perché la diffusa dimestichezza con le moderne tecnologie di massa comporta un’intensa utilizzazione di Internet, con i suoi blog interattivi, i film e le musiche da scaricare. Questi ultimi non sono fattori esclusivamente concorrenziali, perché possono notevolmente contribuire a pubblicizzare dei libri, come avviene anche da sempre per gli adattamenti cinematografici che fanno venire la curiosità allo spettatore di conoscere il romanzo da cui sono stati tratti.
Il dato comunemente ammesso dalle inchieste dei sociologi della lettura è di ordine qualitativo, nel senso che si constata il tramonto attuale della lettura di tipo umanistico. La lettura, cioè, non è più sentita come una componente fondante e corroborante della personalità individuale e sociale. Non è più, come ha scritto qualche anno fa Baudelot, «un fatto culturale totale, incaricato di assolvere contemporaneamente a tutte le funzioni possibili e immaginabili che riguardano la formazione e l’informazione della persona […] Il libro è in quest’ottica la fonte di tutte le conoscenze, di tutte le esperienze e di tutti i diversivi» (Baudelot, Cartier, Detrez 1999, p. 245).
Nella sensibilità odierna, la lettura è un’esperienza come un’altra, spesso concepita come occasione di acculturazione, d’informazione, di distrazione, di soddisfazione di curiosità. Meno che mai comporta un confronto con il canone letterario e con una gerarchia di scrittori: si leggono e si memorizzano dei libri, ma di rado li si scelgono o memorizzano in funzione degli autori o delle tendenze. Non è neppure frequente che questa esperienza sia oggetto di conversazione o di dibattito con amici: resta un’esperienza privata, a-sistematica, sporadica. Naturalmente, non si può generalizzare oltre certi limiti. In molti casi, gli anni di studio, soprattutto nelle formazioni umanistiche, hanno fornito strumenti di approccio e d’interpretazione più o meno consciamente utilizzabili anche nell’ambito di letture occasionali. Resta comunque una netta frattura fra i libri imposti dal sistema scolastico e quelli liberamente scelti.
Letture di massa e qualità dei successi
La questione della lettura porta inevitabilmente una presa in considerazione dei best seller, libri il cui successo costituisce un fenomeno che chiama in causa simultaneamente ricezione e produzione. È stato notato come sul piano delle vendite nel territorio francese gli autori locali se la cavino piuttosto bene rispetto ai loro colleghi di successo di altre nazionalità. Secondo la classifica degli scrittori più venduti nel 2005, accanto a Dan Brown, Mary Higgins Clark, Paulo Coelho e Harlan Coben, spiccano i francesi: Marc Levy, Bernard Werber, Amélie Nothomb (che a rigore è belga), Éric-Emmanuel Schmitt, Fred Vargas. Si tratta di buone notizie per l’editoria, peraltro caratterizzata da fenomeni crescenti di concentrazione e di ristrutturazione. Secondo una tendenza di antica data, i romanzi di larga diffusione suscitano atteggiamenti di sufficienza, diffidenza o franca ostilità in buona parte della critica, soprattutto di quella universitaria. Concepite e scritte secondo canoni deliberatamente corrivi ai gusti del pubblico, queste opere non contribuirebbero a svelare nuovi aspetti della realtà e nuovi orizzonti estetici, bensì a confermare e ribadire schemi abusati di pensiero, di scrittura, di vita. È quella che lo studioso Dominique Viart ha chiamato letteratura concertante, «che consente a occupare il posto che la società generalmente preferisce accordarle, quella di un’arte di consenso votata all’esercizio dell’immaginario romanzesco e alle delizie della finzione» (Viart, Vercier 2005, p. 9). A essa si contrappone una letteratura sconcertante, che invece «di corrispondere alle attese dei lettori contribuisce a spiazzarle» (p. 10).
Questo genere di antitesi, nato con l’affermarsi della cultura di massa, è controverso, specialmente oggi in una società dove il successo tende a pretendere (e a ottenere) in quanto tale una sostanziale legittimazione anche qualitativa. Dicotomie troppo rigide rischiano di costruire steccati che non giovano a nessuno. Esistono d’altronde molteplici livelli che diversificano il panorama della domanda e dell’offerta, della produzione e della ricezione. Certi autori di grande e recente risonanza spiccano per l’abilità con cui maneggiano la tastiera dei sentimenti primari, l’amore, l’amicizia, il dolore: è il caso di M. Levy (n. 1961), avvezzo a inventare intrecci accattivanti, qualche volta limitrofi al fantastico, ma sempre saturi di affettività, trattati con scrittura agile e sveltezza dialogica (Toutes ces choses qu’on ne s’est pas dites, 2008); di Muriel Barbery (n. 1969), che nel suo fortunatissimo L’élégance du hérisson (2006; trad. it. L’eleganza del riccio, 2007) ha inscenato l’incontro fra personaggi insoliti e sensibili (tra cui una portinaia coltissima) in un testo trapunto di ricercatezze lessicali, spunti eruditi, frasi lunghe; e in particolar modo di Anna Gavalda (n. 1970), capace di una certa freschezza nell’orchestrare incontri fra esseri feriti dalla vita (Ensemble, c’est tout, 2004; trad. it. Insieme, e basta, 2004) e disinvolta nell’elaborazione esibita di una scrittura mossa, nervosa, aperta al parlato (La consolante, 2008; trad. it. L’età dei sogni, 2008). In realtà, il successo non basta a fare da comune denominatore di scrittori e generi molto diversi fra loro: si va dal genere storico, sempre salutato dal consenso del pubblico e impersonato soprattutto da Christian Jacq (n. 1947), al poliziesco con punte esoteriche e fantastiche di Jean-Christophe Grangé (n. 1961), mentre Fred Vargas (pseud. di Frédérique Audouin-Rouzeau, n. 1957) mostra come il noir possa assurgere a modi personalizzati di scrittura e d’invenzione, suscettibili d’integrare atmosfere, enigmi, situazioni di grande suggestione e di diversa matrice, anche colta (Un lieu incertain, 2008; trad. it. Un luogo incerto, 2009).
Quest’ultimo caso testimonia che traguardi di vendita e qualità letteraria non vanno necessariamente scissi, ma possono comportare individualità differenti ed equilibri intermedi. Di qui la persistente fortuna di autori non collocabili in tendenze d’insieme. Così, Daniel Pennac (n. 1944) raffina di volta in volta la sua formula fatta di vivacità, di anticonformismo, di rifiuto dei luoghi comuni (Chagrin d’école, 2007; trad. it. Diario di scuola, 2008). Anche A. Nothomb (n. 1967) reitera schemi collaudati della sua narrativa, mescolando una vena autobiografica con un umorismo scattante, un acuto dono d’osservazione ma anche una disinvolta competenza culturale e una sua peculiare psicologia (Ni d’Ève ni d’Adam, 2007; trad. it. Né di Eva né di Adamo, 2008). La sua capacità d’inventare spunti narrativi si manifesta anche in Le fait du prince (2008; trad. it. Causa di forza maggiore, 2009), virtuosistica parabola sull’usurpazione d’identità. L’estrema agilità dello stile, che concorre all’abbondante produttività di questa scrittrice (pressoché un libro all’anno), propizia evidentemente la fruizione del lettore. I successi di vario genere e livello, alcuni dei quali ignorati dalla critica più esigente altri valutati con cautela, non nascondono però la problematicità del quadro letterario francese. Intanto, sotto il profilo della ricezione la situazione, come si è visto, presenta chiaroscuri. La letteratura in quanto tale è ridimensionata al rango di componente non primaria di un panorama culturale sempre più eterogeneo e multimediale. Certo, la produzione rimane intensissima (più di seicento nuovi titoli all’anno), e non si contano gli esordienti narratori, come testimoniano il Festival du premier roman di Chambéry e altre iniziative affini. Tuttavia permane uno iato fra la letteratura più ambiziosa e meditata, assai più cara alla critica che al pubblico, e quella di più largo consumo, spesso (ma non sempre) di qualità più modesta.
Le diagnosi
Soprattutto, alcune caratteristiche spiccatamente francesi sembrano contribuire a un più volte paventato o annunciato declino della letteratura. Più di un saggista ha cercato di mostrare come un fenomeno del genere, ancor più che dipendere dal contesto sociale, costituisca in qualche modo l’esito di un processo tutto endogeno di autocontestazione della letteratura e degli scrittori, cominciato in buona misura nell’Ottocento e aggravatosi fino ai giorni nostri. È quanto sostengono William Marx nel suo L’adieu à la littérature. Histoire d’une dévalorisation XVIIIe-XXe siècle (2005) e Laurent Nunez in Les écrivains contre l’écriture 1900-2000 (2006). Sempre più sdegnosa di una subordinazione a funzioni cronistiche o mimetiche, la letteratura si sarebbe man mano scarnificata e ridotta a linguaggio autoreferenziale, deliberatamente ininfluente sul mondo. D’altra parte l’insofferenza di certi scrittori nei confronti dell’istituzione e della tradizione letteraria ha determinato una rivolta contro la letteratura stessa, intesa come ripetizione e retorica, in nome di una espressione inedita ed essenziale. Risultato comune, quello di un distacco sempre più accentuato dalle altre forme di rappresentazione e interpretazione della realtà.
Un processo di questo tipo, considerato nelle analisi appena menzionate come comune a tutta l’area occidentale, ha avuto inflessioni soprattutto francesi, come testimonia l’avventura del nouveau roman. Il rinnegamento della funzione rappresentativa dell’espressione letteraria, concretamente praticato nel campo della creazione, è stato per un certo tempo un parametro qualitativo e interpretativo anche in quello della poetica e della critica. In anni recenti, questo orientamento è stato oggetto di revisioni problematiche come quelle di Antoine Compagnon (Le démon de la théorie. Littérature et sens commun, 1998; trad. it. 2000) che ha rilevato le forzature concettuali operate dallo strutturalismo trionfante degli anni Settanta, per il quale la letteratura non era intrinsecamente in grado di parlare del mondo. Da parte sua, il linguista Dominique Maingueneau ha biasimato certi dogmi rigidi della critica strutturalista, come in particolare il principio di esaminare l’opera tenendola separata, oltre che dal contesto storico, culturale e sociale, anche dalla figura dell’autore, così da ottemperare per eccesso alle posizioni di Proust nella sua polemica con il metodo biografico di Sainte-Beuve (Contre Saint Proust ou la fin de la littérature, 2006). Su una linea analoga, in un suo pamphlet del 2007, La littérature en péril (trad. it. 2008), Tzvetan Todorov deplora l’orientamento rigidamente formalista dei programmi ministeriali per la scuola e sostiene l’assurdità di interrogare nelle opere esclusivamente o prioritariamente la loro struttura costitutiva piuttosto che il senso che esse trasmettono. Insieme al formalismo egli stigmatizza anche il decostruzionismo, che si occupa della verità dei testi ma la dichiara irraggiungibile, nonché il nichilismo che nasce dall’atteggiamento puramente descrittivo di una critica indifferente alla componente etica e conoscitiva di fronte a opere univocamente distruttive, la cui fondatezza non viene neppure interrogata.
Riprendendo anche qualche spunto di Todorov, Michel Le Bris, fautore di una letteratura di viaggio e autore con Jean Rouaud di un manifesto programmatico, Pour une littérature-monde, sfociato nel 2007 in un libro collettivo dallo stesso titolo, ha auspicato un ben più ampio respiro della narrativa francese, una proiezione più coraggiosa e generosa verso orizzonti più ampi di quelli di una letteratura autoreferenziale o esclusivamente psicologistica. In quest’ottica può essere prezioso alimentarsi della vitalità e dell’energia degli scrittori di lingua francese provenienti dalle antiche colonie e dai dipartimenti d’oltremare, che non vanno più ghettizzati nella categoria generica della francofonia. Occorre invece unire gli slanci creativi dei francesi e dei ‘francofoni’ in una letteratura-mondo di lingua francese, che sappia proiettarsi all’esterno, in una dimensione centrifuga, per parlare degli e agli uomini dell’intero pianeta.
Quale che sia l’attendibilità di queste posizioni, sintomatiche peraltro di un malessere nei confronti della salute e delle sorti della letteratura, esse hanno il pregio di mettere in rilievo la sottile tensione problematica che pervade il campo letterario nelle sue diverse componenti creative e critiche.
Il panorama di oggi
In realtà, il panorama dell’attività letteraria non è univoco, e in certa misura risponde alle considerazioni fin qui riportate. Certo, si parla soprattutto di narrativa, che resta il genere chiave, anche per la sua estrema plasticità che le permette di annettere modi e linguaggi contigui. Proprio in antitesi ai fenomeni stigmatizzati dai detrattori dello strutturalismo, il romanzo torna a trattare entità bersagliate dalle avanguardie degli anni Sessanta e Settanta: elabora un racconto più o meno sequenziale, cerca di rappresentare il reale, tenta di dar voce alla soggettività individuale e ai relativi personaggi. Insomma, la letteratura si dà un altro oggetto che non sia sé stessa, mira a ritornare essenzialmente transitiva.
Ma questi sono fenomeni che durano già dall’ultimo ventennio del secolo scorso. Tuttavia si sono ulteriormente precisati e approfonditi in questi anni. Questo ritorno alla rappresentazione e alla narrazione non può naturalmente comportare un ripristino puro e semplice di nozioni e pratiche pregresse. Non si scrive impunemente dopo Samuel Beckett. Di qui una tendenza implicitamente riflessiva che comporta più interrogazioni che affermazioni, più distanza che coinvolgimento. Si tratta di fenomeni che possono indurre il sospetto di intellettualismo o di cerebralismo, qualche volta plausibile ma più spesso ingiustificato. I nuovi narratori francesi suscitano l’attenzione vigile e continua di vari critici universitari, il che rappresenta un fenomeno abbastanza inedito, anche se non del tutto privo di precedenti, nel rapporto fra gli studi accademici, in genere non dedicati ad autori viventi, e la produzione contemporanea. Il dialogo (e forse l’interazione, se si verifica) che può così istituirsi fra scrittura e commento accentua il carattere riflessivo della pratica letteraria. Quest’ultimo aspetto può essere valutato in vario modo, a seconda che si valorizzi la componente innovativa della ricerca estetica o che si focalizzi il carattere potenzialmente sterilizzante di un eccesso di problematicità.
La crisi investe la letteratura o il modo di concepirla, di studiarla, di presentarla? Le connessioni che ci possono essere fra i due ambiti non devono far dimenticare che la creazione letteraria gode in Francia non solo quantitativamente ma anche qualitativamente di uno sviluppo apprezzabile, naturalmente in relazione a ciò che i tempi concedono. Certo, di sicuro non esiste più la tipologia del ‘grande scrittore’, dell’autore carismatico, perché per molti versi una figura del genere, carica di autorevolezza estetica ma anche etica e gnoseologica, è divenuta oggi anacronistica e improponibile, non tanto a causa di un decadimento di valore ma proprio in ragione del declino oggettivo della centralità della letteratura. Tuttavia la pluralità delle direzioni e delle personalità manifesta un’intensa vitalità. Anche se possono ravvisarsi certe tendenze molto generali, che verranno ampiamente illustrate nelle pagine che seguono, sono di fatto le individualità che si affermano.
Mancano dalla scena i gruppi letterari, come quelli che avevano dominato gli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Va fatta salva qualche eccezione, relativa, per es., agli animatori della rivista «Ligne de risque», che si ricollega alle esigenze espresse proprio da quei movimenti e che quindi si schiera con forza contro quella che viene giudicata una letteratura psicologica di media qualità, ben inserita in un contesto di commercializzazione estrema dell’industria culturale. Da queste considerazioni, formulate dal direttore della rivista Frédéric Badré nel suo saggio L’avenir de la littérature (2003), conseguono l’istanza e l’auspicio di una letteratura capace di neutralizzare la banalizzazione del linguaggio e di puntare su un nuovo modo di pensare, impostato attorno alla nozione e alla pratica di una dimensione mai recepita dalla metafisica occidentale, ossia quella del nulla. Un altro gruppo attivo attorno a una rivista è quello di «Inculte», animato tra gli altri dai giovani scrittori François Bégaudeau e Arno Bertina, nell’ambito del quale si manifestano opinioni di scrittori su varie tematiche, non esclusivamente letterarie, del mondo contemporaneo, sempre libere da pregiudiziali culturali, ispirate a un atteggiamento quasi da ‘incolti’.
Nell’insieme, si riscontra una scarsa teorizzazione esplicita anche da parte dei singoli. Più che enunciare linee programmatiche e riflessioni generali di poetica, gli scrittori preferiscono riversare le intenzioni nella concreta pratica letteraria, arricchendola eventualmente di quella inflessione critica di cui si diceva poco sopra.
L’esigenza del racconto
Rimane ancora operante una tendenza a perseguire un genere di invenzione linguistica e stilistica che perturba la linearità del racconto, moltiplica i materiali e i percorsi testuali, ribadisce il protagonismo della scrittura, pregiudica i confini sempre più labili fra i generi. Uno fra gli esempi più caratteristici è offerto dall’opera inclassificabile di Olivier Cadiot (n. 1956; Retour définitif et durable de l’être aimé, 2002; Un nid pour quoi faire, 2007).
Ma per lo più prevale il ritorno alla dimensione narrativa e all’elaborazione dell’intreccio, a suo tempo contestate dalle avanguardie per eccesso di banalizzazione e inattitudine a esplorare le potenzialità rivelatrici del linguaggio letterario. Tuttavia si tratta in molte occasioni di un tipo di narrazione assai particolare, pressoché di secondo grado, dove gli stereotipi sono assunti deliberatamente come veicolo funzionale, utilizzato implicitamente per suggerire la nostalgia e l’impossibilità del romanzesco. Chi si cimenta con virtuosismo in questa impostazione è Tanguy Viel (n. 1973), già autore nel 1999 di un romanzo, Cinéma (trad. it. Cinema, 2002), tutto basato sulla descrizione e l’apologia di un film la cui visione viene raccontata per filo e per segno. In altri romanzi come L’absolue perfection du crime (2001; trad. it. L’assoluta perfezione del crimine, 2002) e Insoupçonnable (2006; trad. it. Insospettabile, 2006) il riferimento filmico è interamente implicito ma resta fondamentale, anche perché raccordato a quel genere noir che contempla insieme il progetto, la tensione, l’attesa e l’inevitabilità dello scacco. Il riuso creativo di collaudati schemi di genere caratterizza anche Paris-Brest (2009), dove le costanti del romanzo familiare si articolano e si rinnovano in una sofisticata costruzione narrativa, densa di risvolti. Autore di culto per Viel è stato Jean Echenoz (n. 1947), che ha maneggiato a lungo macchine narrative importate dal cinema e dal romanzo poliziesco, spionistico, fantascientifico, d’avventura, smarcandosene attraverso la sovrana disinvoltura di un discorso narrativo ora distaccato e divagante, ora ironico e ammiccante. Ma con il progredire del tempo la vena di Echenoz è divenuta più rarefatta ed essenziale, mentre la citazione dei generi si è fatta meno riconoscibile. Il gusto dell’intreccio che caratterizza Au piano (2003; trad. it. Al pianoforte, 2008), romanzo originalissimo per invenzione e risonanze simboliche, converge nell’illustrazione di un percorso malinconico segnato dall’ineluttabilità della frustrazione e dello scacco, appena bilanciata da una residua ironia. Una simile fatalità sembra contrassegnare anche Ravel (2006; trad. it. Ravel. Un romanzo, 2007), apparentemente una biografia del celebre musicista, il cui successo storicamente notorio non esclude un segreto, insopprimibile malessere. Ancora una volta ricalcare un modello di genere serve allo scrittore per una variazione personale. Un’altra pseudo-biografia, Courir (2008), scritta con stile agilissimo e passo incalzante, percorre la vita del famoso atleta ceco Emil Zatopek, fra toni malinconici e condanna senza appello al perseguimento febbrile della performance.
Un parziale recupero della concatenazione narrativa caratterizza tuttora la produzione degli scrittori cosiddetti minimalisti. Si tratta di un’affabulazione ristretta a uno sviluppo rigorosamente lineare, privo tanto di retrospezioni temporali e di approfondimenti psicologici quanto di eventi rilevanti. Il romanzo di Jean-Philippe Toussaint (n. 1957), Fuir (2005; trad. it. Fuggire, 2007), tutto basato su una rincorsa frenetica da Parigi alla Cina all’isola d’Elba, manifesta una crescente tensione emotiva e sensuale, ai limiti del drammatico, che fa da seguito coerente a Faire l’amour (2002; trad. it. Fare l’amore, 2003), lontano dalle atmosfere stagnanti e dalle tonalità paradossali dei precedenti romanzi. Più lento e flemmatico l’andamento delle opere di Christian Oster (n. 1949) che, a partire da una rottura iniziale di una sedentaria routine quotidiana, inanellano poi situazioni gratuite, suscettibili di sfociare tanto in esiti inattesi e sconcertanti (L’imprévu, 2005; Trois hommes seuls, 2008) quanto in happy end amorosi (Dans le train, 2002, trad. it. In treno, 2003; Sur la dune, 2007). Non viene mai meno in questi romanzi la registrazione minuziosa di eventi microscopici della vita di tutti i giorni. È quanto accade anche nei testi di Christian Gailly (n. 1943), a loro volta lenti nel ritmo, più esili nella durata e nella gamma di notazioni, ma basati anch’essi sulla formula di una rottura dell’esistenza monotona (generalmente un incontro), suscettibile di condurre al recupero di una dimensione più autentica, amorosa e/o estetica (Un soir au club, 2002, trad. it. Una notte al club, 2004; Dernier amour, 2004; Les oubliés, 2007). Data la crescente valorizzazione di una tematica sentimentale da parte di questi scrittori, il ‘minimalismo’ loro attribuito sembra da riferirsi piuttosto alla tecnica di scarnificazione narrativa che non al peso esistenziale, tutt’altro che trascurabile, delle situazioni raccontate.
Un’evoluzione di questo genere si riscontra anche in altri scrittori non legati a questa etichetta, come Éric Laurrent (n. 1966). Dopo un periodo di netta sproporzione fra la ricercatezza della frase, della sintassi, del lessico, e la sostanziale, deliberata futilità delle situazioni trattate (la meccanica ripetitiva e gratuita del movimento perpetuo in Dehors, 2000), Laurrent ha decisamente accentuato le problematiche affettive (À la fin, 2004, sulla morte della nonna del protagonista) e amorose (Clara Stern, 2005; Renaissance italienne, 2008), senza peraltro rinunciare a un’euforia stilistica che rintraccia e discrimina le minime sfumature di problematiche individuali e private.
Altrettanta dilatazione stilistica e discorsiva mira a produrre effetti comici, eversivi almeno nelle intenzioni di codici e abitudini culturali, nelle opere di Éric Chevillard (n. 1964). La vena ludica di questo autore si applica alla riflessione meta-operativa sulla propria scrittura (Du hérisson, 2002), alla rielaborazione con deviazioni e divagazioni di un racconto dei fratelli Grimm (Le vaillant petit tailleur, 2003), alla parodia dello scrittore viaggiatore in Paesi esotici (Oreille rouge, 2005), alla figura del critico ottuso e sordo alla contemporaneità, quale fu Désiré Nisard (Démolir Nisard, 2006), alla perorazione funebre per la sparizione di una specie animale, emblema della pulsione distruttiva dell’ambiente da parte dell’uomo (Sans l’orang-outan, 2007). Si tratta di testi dall’impronta tendenzialmente autoreferenziale, il cui filo di continuità risiede principalmente nell’esibita verve linguistica e discorsiva.
In questa tendenza della scrittura a ripiegarsi o su sé stessa o su una dimensione prettamente individuale e quotidiana spicca un fenomeno come quello di Philippe Delerm (n. 1950), autore baciato da uno straordinario e permanente successo di pubblico, per il quale il critico Rémi Bertrand ha coniato il termine di minimalismo positivo. Nei suoi scritti, in genere di misura breve, ma talvolta estesi alla durata del romanzo, si dispiega una capacità capillare di descrivere e assaporare i tanti piccoli piaceri della vita quotidiana, che riguardino la gamma delle sensazioni (vista, olfatto, gusto, tatto) o quella delle emozioni, soprattutto estetiche, date dal rapporto con paesaggi, libri, dipinti (tra gli altri, Le buveur de temps, 2002, trad. it. Il sommelier del tempo, 2003; Enregistrements pirates, 2003, trad. it. Una passeggiata al parco, 2004; Dickens, barbe à papa et autres nourritures délectables, 2005, trad. it. Pagine e cioccolato, 2006). Malgrado il rischio ricorrente della leziosità, attitudine a cogliere l’istante e ricettività della memoria si alleano per spiritualizzare la sensazione e conferire peso sensibile a emozioni e pensieri. Certo, la componente narrativa è comunque molto esile, se non assente.
Rispetto ai recuperi indiretti e citazionali del dinamismo della narrazione da parte di Echenoz e dei minimalisti, esistono operazioni più decise di ritorno al piacere del racconto serrato. Spiccano in questo senso alcune opere di Laurent Gaudé (n. 1972), che costruisce robusti svolgimenti di eventi e situazioni ricorrendo al modello mitico-antropologico (La mort du roi Tsongor, 2002; trad. it. La morte di re Tsongor, 2004, ambientato in un tempo e in uno spazio favolosi e imprecisati, ma di stampo arcaico), o alle suggestioni di ambienti regionali e mediterranei, secondo un afflato collettivo che va da Verga a Vittorini (Le soleil des Scorta, 2004; trad. it. Gli Scorta, 2005, basato sulle vicissitudini di più generazioni di una stessa famiglia, gravata da una maledizione originaria). Questo vigore narrativo, a sua volta sottilmente allusivo perché memore di tradizioni folkloriche e letterarie di altre epoche, si applica anche alla trattazione di temi di scottante attualità, come quello dell’immigrazione clandestina (Eldorado, 2006; trad. it. 2007). La struttura mitica della discesa agli inferi, ancora innestata nel mezzogiorno italiano, produce effetti prossimi al fantastico in La porte des enfers (2008).
Scritture di sé
Il ritorno della soggettività come fonte e oggetto di letteratura caratterizza ancora e più che mai (forse troppo) l’odierna narrativa francese. Permane il gusto della cosiddetta autofiction, contrassegnata dalla coesistenza esplicita in una stessa opera del carattere autobiografico ma anche di una componente d’invenzione. Il romanzo stesso, d’altra parte, assume in molti casi modalità autobiografiche, variamente rintracciabili e valutabili. La dimensione personale incoraggia un eccesso di esibizione, come la cronaca minuta delle prodezze sessuali di Catherine Millet (n. 1948; La vie sexuelle de Catherine Millet, 2001; trad. it. La vita sessuale di Catherine M., 2001), o l’ostentazione viscerale del vissuto da parte di Christine Angot (n. 1959; Rendez-vous, 2006; trad. it. 2008). La vena autobiografica sembra prevalentemente di sesso femminile. Tutt’altra consapevolezza compositiva e problematica si manifesta nell’opera di Camille Laurens (n. 1957), che esplora le varie facce dell’amore in L’amour, roman (2003), dove alla pluralità di impostazioni dell’analisi concorrono molteplici riferimenti letterari, come quello a La Rochefoucauld, e in Ni toi ni moi (2006), testo fatto quasi interamente di e-mail, nel quale la sottigliezza della casistica sentimentale si appoggia sulla finzione di un film da fare, ispirato al difficile rapporto fra due celebri amanti della letteratura, Adolphe ed Ellénore di Benjamin Constant. La zona autobiografica abbraccia strati molto profondi dell’affettività: il tema dei bambini ricorre a più riprese. C. Laurens, che dedicò un libro, Philippe (1995), al dolore per la morte di un suo figlio neonato, ha rinfacciato una sorta di plagio a Marie Darrieussecq (n. 1969), autrice di un romanzo (non autobiografico) sulla scomparsa accidentale di un bambino, Tom est mort (2007; trad. it. Tom è morto, 2008). Ma quest’ultima già in opere precedenti si era interrogata sul mistero di un bambino piccolo, sulla maternità (Le bébé, 2002; trad. it. Una buona madre, 2002) e sulla conciliazione fra condizione di madre, di figlia e di scrittrice (Le pays, 2005). Il tema di un bambino che muore (singolare e inquietante ricorrenza, in questo inizio di secolo!) era stato anche al centro di alcune narrazioni di Philippe Forest (n. 1962) che, dopo aver raccontato in libri precedenti l’insostenibile dolore per la perdita della figlia piccola, disseziona in un testo spoglio e analitico, Le nouvel amour (2007), l’avvento di un’inattesa relazione amorosa. Da parte sua Emmanuel Carrère (n. 1957) mescola continuamente delicati segreti della famiglia di origine e problematiche sue personali di uomo e di scrittore in Un roman russe (2007).
Al di là di ogni distinzione fra verità e invenzione, autobiografia e autofinzione, la vera innovazione nel campo della letteratura autobiografica è stata da anni quella di Annie Ernaux (n. 1940), che ha saputo sottrarla alle derive narcisistiche della confessione per elevarla a documento socioantropologico, interrogazione non solo sulla propria storia ma sul rapporto fra sé e gli altri, e più in generale sulla relazione fra individuo e società. Se L’usage de la photo (2005), interessante per l’impiego della fotografia, resta forse troppo sul piano del privato, un’opera come La vie extérieure, 1993-1999 (2000), raccolta di notazioni sulla vita quotidiana definita dall’autrice «etno-testo», apre la strada all’affascinante affresco di sessant’anni di storia francese tracciato in Les années (2008), dove la scrittrice rivive e fa rivivere a partire dal suo itinerario personale le mode, i miti, le speranze, le infatuazioni, le illusioni, le delusioni di un’intera generazione, tanto nella vita privata quanto nel rapporto con quella pubblica, politica, sociale. Vale la pena sottolineare che il pronome di prima persona singolare, je, è assente da questo testo autobiografico dove prevalgono la terza persona singolare, con cui l’autrice designa sé stessa, e la prima plurale, che è quella della generazione di appartenenza.
Passato individuale e passato collettivo
Un’esigenza di verità, perseguita attraverso l’evocazione del passato, alimenta in linea di principio la pratica autobiografica nelle sue varie modulazioni, investendo per lo più la sfera individuale. Un’eccezione rilevante come quella di A. Ernaux mostra come una simile istanza possa proiettarsi anche a livello interpersonale e collettivo e assumere un respiro più ampio. La biografia risponde a requisiti del genere, in quanto oltrepassa l’autocontemplazione per interrogare retrospettivamente l’altro nel suo percorso. È fiorito in questo periodo a cavallo fra due secoli un tipo particolare di narrazione biografica, che interroga le vite di grandi artisti visti da angolazioni particolari, spesso quelle di persone umili e ignare che ne hanno attraversato il cammino. Si tratta di un modo indiretto di sondare il mistero della riuscita estetica da parte dello scrittore moderno che, nano sulle spalle dei giganti, sente di non poter competere con i suoi lontani predecessori. Donde la riflessione di Pierre Michon (n. 1945), già autore di varie biografie orientate in questo senso, sui due corpi dell’artista, simile in questo ai re: il corpo eterno, dinastico, consacrato dal testo, e una spoglia mortale, profana, banale, relativa alla vita di tutti i giorni. Resta da sondare l’interrelazione (Corps du roi, 2002). Con il suo stile raffinato, intarsiato di citazioni implicite, di accostamenti folgoranti e di ellissi reiterate, Michon risale indietro nel tempo, manipola antiche leggende e pieghe oscure della storia barbarica (Abbés, 2002; L’empereur d’Occident, 1989 e 2007) individuandovi temi segretamente personali, quali l’erotismo, lo scacco e il rapporto con i padri, perché in definitiva la biografia è anche autobiografia mascherata e la risalita del corso della storia è in definitiva accurata diagnosi del presente.
La componente individuale si amplia nella direzione di un passato collettivo, come testimonia l’ampia, coerente opera di un autore come Pierre Bergounioux (n. 1949) che, dopo aver lungamente intrecciato la storia della sua famiglia e della sua terra nei testi degli anni Novanta, interroga ancora nella sua dimensione spaziale e temporale la specificità del paesaggio e dell’atmosfera dei luoghi d’origine (Un peu de bleu dans le paysage, 2001; Simples, magistraux et autres antidotes, 2001).
Nel caso dei racconti di stampo biografico e autobiografico, come per altri versi in quello del rinnovato approccio alla realtà, più avanti esaminato, appare comunque evidente che sarebbe riduttivo classificare tali opere esclusivamente sotto il termine di romanzo, soprattutto nella misura in cui quest’ultimo comporta l’invenzione di un mondo fittizio, laddove i testi in questione si riferiscono sovente a un vissuto sperimentato e attestato. Il critico letterario Dominique Viart ha parlato per es., a proposito di testi come quelli di Michon, di «biografie critiche». Si tratta di nuovi territori della narrativa, che intreccia in termini inscindibili ipotesi e affermazioni, immaginazione e documento. Non a caso un altro studioso di letteratura contemporanea, Dominique Rabaté, si è domandato se il termine récit, meno coinvolto con la finzione (il dizionario Robert lo definisce «relazione orale o scritta di fatti veri o immaginari»), non possa sostituire quello di roman per coprire il campo di narrazioni che è talvolta arduo annettere al romanzo, e che presentano aspetti originali e innovatori.
Narrativa e storia
La ricognizione del passato costituisce da almeno un ventennio una delle tendenze principali della letteratura francese contemporanea. Un orientamento del genere può avere vari motivi, fra cui il ridimensionamento nazionale indotto dall’unificazione europea e dalla globalizzazione, con l’interrogazione identitaria che ne consegue. Tuttavia si può ricondurre parimenti a un fenomeno più largamente occidentale, quello di un presente invadente e insieme evanescente, privato della dimensione utopica e soffocato da un’attualità pervasiva. Donde l’inconscia ricerca di fondamenti e chiarimenti nel passato, politico, sociale, culturale: un passato che nel caso francese comprende tutti i periodi più scottanti e tormentati della storia nazionale e non, dal Sessantotto alla decolonizzazione (guerre d’Indocina e d’Algeria), all’occupazione e alla Seconda guerra mondiale, alla Grande guerra, financo alla Comune. L’anamnesi si spinge anche più indietro, dall’Ottocento attraverso i secoli fino a Roma antica e addirittura alla preistoria (Dormance, 2000, di Jean-Loup Trassard). Sembra quasi che arrivando a scrutare le origini si possano individuare alcune chiavi interpretative della condizione presente.
Il fenomeno è diffuso, e naturalmente investe in particolar modo il Novecento. Gli anni posteriori al Sessantotto, quando sembrava che fosse possibile cambiare la vita e il mondo, sono l’oggetto di una rievocazione soprattutto autocritica e beffarda, ma in parte anche nostalgica, in Tigre en papier (2002) di Olivier Rolin (n. 1947). Si tratta non tanto di un rimpianto di quel periodo, quanto di un recupero del passato e della memoria in un’epoca che sembra dimenticare con facilità. Indipendentemente da ogni rimpianto generazionale e politico, la ricerca retrospettiva di Rolin, estesa a una pittoresca rievocazione del mondo artistico di fine Ottocento, assume francamente il suo carattere d’immersione nel tempo perduto in Un chasseur de lions (2008). La guerra d’Algeria ispira meno intensamente la produzione narrativa, ma un testo come Le dehors ou la migration des truites (2001) di Arno Bertina (n. 1975) inventa itinerari incrociati e prospettive trasversali per configurare senso e conseguenze collettive e individuali di quel tragico conflitto. L’occupazione polarizza da diverso tempo l’attenzione dei narratori, fra i quali spicca il primo che vi si è dedicato in modo sistematico, Patrick Modiano (n. 1945). Se quello è il periodo che lo ha calamitato ossessivamente fin dai suoi esordi, è anche vero che la sua passione è comunque quella di un’erranza della memoria, fra invenzione e autobiografia, ricordo e ipotesi, che rievoca senza mai esaurirli gli strati di un nebuloso passato vissuto dalle generazioni precedenti in una Parigi irraggiungibile e perduta, ma ripercorsa idealmente palmo a palmo (Accident nocturne, 2003; Un pedigree, 2005, trad. it. 2006; Dans le café de la jeunesse perdue, 2007). Tanto cruciale resta l’impronta dell’occupazione da ispirare ancora testi di stampo autobiografico che con essa fanno i conti, come 1945 (2004) di Michel Chaillou (n. 1930), cronaca di un’infanzia difficile resa con un virtuosismo verbale fra lirico e graffiante. Ma non mancano romanzi di scrittori che non hanno vissuto quegli anni, come Lutetia (2005) di Pierre Assouline (n. 1953) che, attraverso la narrazione di un testimone semicoinvolto, ricostruisce l’ambiguità di situazioni oscillanti fra compromesso, complicità, indifferenza. In Nuit ouverte (2007) di Clémence Boulouque (n. 1977), ambientato al giorno d’oggi, l’ossessione della giovane protagonista è proprio quella retrospettiva degli anni del regime di Vichy, rivissuta attraverso la memoria indelebile del collaborazionismo della nonna e delle traversie di uno zio più indocile. Alle sciagure della guerra, alle follie della storia, all’umiliazione della presenza straniera sul suolo natio può fare da contraltare l’umile e tenace, ma nello stesso tempo esaltante, corpo a corpo con la natura, la tanto agognata conquista di una terra da coltivare. È questo il nucleo tematico e narrativo di La déménagerie (2004) di J.-L. Trassard (n. 1933).
Il caso più vistoso e più discusso di un libro dedicato al secondo conflitto mondiale è stato quello di Les bienveillantes (2006; trad. it. Le benevole, 2007), torrenziale volume di cinquecento pagine scritto da un giovane americano naturalizzato francese, Jonathan Littell (n. 1967). L’adozione del punto di vista perverso di un aguzzino, un ufficiale della Gestapo, ha scandalizzato una parte del pubblico e dei critici. Prova, questa, indipendentemente dal valore estetico del libro, dell’incisività di una letteratura che affronta nodi tuttora scabrosi e dolorosi del passato occidentale oltre che francese. È possibile raccontare a partire dalla prospettiva del male, con il rischio di favorire pericolose identificazioni? Una domanda del genere può valere anche per Itinéraire d’un salaud ordinaire (2006) di Didier Daeninckx (n. 1949), autore di pregiati noir che investono per l’appunto alcuni momenti capitali della storia francese del Novecento. Qui l’angolazione è quella di un mediocre funzionario dei servizi d’informazione del ministero dell’interno che, con asettica meccanicità, si fa sistematico esecutore e complice delle persecuzioni e dei complotti orditi dagli apparati di Stato, dal periodo appunto dell’occupazione attraverso il dopoguerra, la decolonizzazione, il Sessantotto, fino al 1982. Una sintesi di quarant’anni che, nel denunciare la continuità degli intrighi dei detentori del potere, ricostruisce i processi mentali che portano molti individui a farsene pedissequi esecutori. In Camarades de classe (2008), dello stesso scrittore, l’intreccio polifonico di diversi punti di vista restituisce percorsi e destini di una classe di liceali degli anni precedenti al maggio Sessantotto.
Risultano poi frequentissime le incursioni della narrativa nella Grande guerra, praticate in molte occasioni da scrittori esordienti o quasi. Oggetto ormai, ai nostri tempi, di memoria trasmessa e non diretta, quel conflitto appare evento multiforme e pluri-dimensionale, che inaugura la modernità sanguinosa del ‘secolo breve’, il Novecento. Su questo tema spiccano tra molti altri testi Cris (2001) di Laurent Gaudé (n. 1972), rappresentazione visionaria e incandescente del fronte, Les âmes grises (2003; trad. it. Le anime grigie, 2004) di Philippe Claudel (n. 1962), dove gli effetti disumanizzanti della guerra contagiano le retrovie nella vita di tutti i giorni, e Le théorème de Roitelet (2004) di Frédéric Cathala (n. 1962), satira corrosiva dell’ottusità degli alti gradi civili e militari.
La portata di questo sguardo complessivo sulla storia può estendersi molto indietro. Jean Rouaud (n. 1952) risale in L’imitation du bonheur (2005) fino ai tempi della Comune, soprattutto per il piacere di giocare con le forme del grande romanzo d’amore e d’avventura dell’Ottocento senza rinunciare ai moduli citazionali e autoriflessivi del narratore moderno. Tale connubio fra gusto del raccontare ed esibizione dialogico-discorsiva si ritrova in una storia d’amore questa volta contemporanea, La femme promise (2009), mentre La fiancée juive (2008) combina autobiografismo e disinvoltura argomentativa. Si può andare ben più lontano nel tempo, per es. alle origini del mito occidentale, come avviene per l’opera più recente di Alain Nadaud (n. 1948), già autore di romanzi ispirati a una sorta di archeologia culturale, che tra geografia moderna e memoria dell’immaginario ricostruisce una mappa degli inferi (Aux portes des enfers: enquête géographique littéraire, historique et légendaire sur les endroits qui, dans l’antiquité, donnaient accès aux enfers, 2004). L’incursione retrospettiva di Nadaud si spinge verso orizzonti intellettuali e cronologici sempre più remoti, coinvolgendo un cartografo del Settecento (Le vacillement du monde, 2006), il filosofo cristiano del Medio Evo Anselmo d’Aosta (Si Dieu existe, 2008), uno scrittore che rivive in Tibet esistenze anteriori (Le passage du col, 2009).
L’attenzione al passato non sfocia nel ritorno a un vero e proprio romanzo storico, ma comporta un confronto del romanzo con la storia, intesa tanto come narrazione quanto come corso di eventi. Da un lato la storia offre in ogni caso dispositivi e contenuti narrativi; dall’altro il romanzo, lungi dal cercare in essa un’iniezione documentaria, una garanzia di realtà e di oggettività, all’inverso la interroga mettendone in questione la linearità, l’intelligibilità, la tessitura stessa. Il punto di vista e le esigenze conoscitive appartengono comunque al presente, come rivela il fatto che per lo più il discorso narrativo parte dai giorni d’oggi per approdare al passato. In certi casi anche al futuro, come mostrano le distopie narrative di Antoine Volodine (n. 1950). L’implicita constatazione del fallimento delle rivoluzioni nel 20° sec. vi si proietta in un futuro inquietante e tenebroso, in epoche imprecisate e implicitamente postapocalittiche, abitate da sinistri regimi totalitari, dominate da cupe società oppressive, attraversate da esseri mutanti e sfuggenti. Il tutto nel quadro di una tecnica di affabulazione estremamente inventiva, libera dai codici del realismo e della verosimiglianza, più sottile e sofisticata rispetto agli stilemi correnti della fantascienza, memore anche di tradizioni asiatiche. È quello che Volodine chiama «post-esotismo», cui s’ispirano i suoi Dondog (2002), Bardo or not Bardo (2004), Songes de Mevlido (2007).
Uno sguardo sul presente
L’orientamento retrospettivo di alcuni non esclude, e anzi sottintende, la diagnosi del presente, praticata invece da altri scrittori in modo diretto, senza deviazioni di tipo storico e memoriale. Questi autori si sono fatti carico di tentare una rappresentazione approfondita del reale, nei suoi aspetti molteplici, collettivi, sociali, individuali. Si mira però a evitare il documento puro e semplice, il populismo, la perorazione paternalistica di opere a tesi. Il coinvolgimento di François Bon (n. 1953), forse l’autore più attento al disagio lacerante degli emarginati e degli sconfitti, si esprime in forme idonee a rispecchiare la peculiare frammentazione del mondo di oggi: così, il dramma della disoccupazione creato dalla chiusura di alcune fabbriche coreane in Francia si diffrange in un montaggio pressoché teatrale di testimonianze, di voci, di dialoghi, di resoconti e sopralluoghi che restituiscono l’ineluttabilità e insieme l’intollerabilità di un evento che brucia irreversibilmente tante esistenze (Daewoo, 2004). L’intento di cogliere con sempre maggiore approssimazione la tessitura complessa del reale, che sfocia nel ‘blog-journal’ tenuto su Internet da Bon (www.tierslivre.net), ha portato poi lo scrittore a riunire testi già pubblicati in rete, moltiplicando percorsi, approcci, spunti in direzioni sempre meno preventivabili (Tumulte, 2006).
Proprio l’istanza di una restituzione del mondo attuale che non si risolva in semplificazione abusiva induce qualche altro scrittore a sperimentare nuove forme, ancora più linguistiche e discorsive che narrative. Così, A. Bertina intreccia in Anima motrix (2006; trad. it. 2008) varie vicende di disagio e di esclusione, non raccontandole ma filtrandole attraverso l’accavallarsi di continui flussi verbali, monologhi e dialoghi interiori, cui si mescola un sentimento quasi elementare del corpo e dei luoghi insieme a una reminiscenza di miti persecutori, come quello di Atteone. Un faccia a faccia con realtà più immediatamente riconoscibili e circoscritte è quello di François Bégaudeau (n. 1971), che in Entre les murs (2006; trad. it. La classe, 2008), il cui adattamento cinematografico di Laurent Cantet ha vinto il Festival di Cannes del 2008, affronta dall’interno, tra finzione e documento, la quotidiana impresa intercomunicativa di un professore di francese nell’ambito di una classe scolastica eterogenea, dove si confrontano con difficoltà linguaggi, provenienze, modi di pensare differenti, mentre il testo si fa campo di reiterate tensioni e interazioni verbali, senza peraltro illusioni di progressioni risolutive e panacee sociopedagogiche. È invece con il rapporto fra mediazione mediatica, scottante attualità politica e personalità individuale che si misura Fin de l’histoire (2007), sempre di Bégaudeau, orchestrato come contrappunto e commento ‘interlineare’ della conferenza stampa televisiva tenuta dalla giornalista Florence Aubenas qualche giorno dopo il suo rilascio dalla lunga prigionia in ῾Irāq. Anche qui, interazione e interferenza di linguaggi mirano a delimitare zone di verità, di manipolazione, di distorsione. In un complesso incrocio di narrativa, reportage, riflessione si situa l’opera collettiva Une année en France (2007) di Bégaudeau, Bertina e Oliver Rohe che, senza alcuna pretesa di completezza sociologica o di elaborazione esclusivamente letteraria, moltiplica e intreccia notazioni deliberatamente frammentarie ed eterogenee su alcuni avvenimenti cruciali degli ultimi anni, quali il rifiuto della Costituzione europea, la rivolta delle periferie, le manifestazioni contro il contratto di primo impiego. Su quel terreno esplosivo di malessere che sono le periferie si sofferma Maryline Desbiolles (n. 1959) in C’est pourtant pas la guerre (2007), altro testo oscillante fra inchiesta, testimonianza, mediazione letteraria, che fa vivere un quartiere di Nizza marginale e composito, Ariane, attraverso dieci voci dei suoi abitanti. Nuovo Teseo privo di qualunque funzione privilegiata di sintesi, lo scrittore cuce, coordina, elabora per trasmettere al lettore una realtà difficile da formulare, eppure contrassegnata da un’identità sofferente, contorta, orgogliosa.
Su un registro completamente diverso lo scrittore di noir (genere caratterizzato in Francia da una forte valenza sociale) Thierry Jonquet (n. 1954) propone una visione molto cruda e disillusa del mondo delle banlieues e del suo popolo, senza fare sconti a nessuno (Ils sont votre épouvante et vous êtes leur crainte, 2006). L’esperienza della solidarietà verso un gruppo miserabile di immigrati caratterizza À l’abri de rien (2007) di Olivier Adam (n. 1974), dove la protagonista abbandona la routine della sua vita familiare per immergersi progressivamente senza più remore nella vita dei suoi protetti. Il respiro di un’oralità che prolunga le frasi o le fa ansimare rende la tensione estrema delle situazioni. Delphine de Vigan (n. 1966), scrittrice di grande successo, abbozza con garbo in No et moi (2007; trad. it. Gli effetti secondari dei sogni, 2008) il tentativo compiuto da un’adolescente di salvare dalla deriva una ragazza sdf (senza domicilio fisso), con un esito frustrato dalla dura fatalità dei condizionamenti sociali. La chiusura di una impresa-modello di ricerca farmaceutica, con i licenziamenti che colpiscono senza pietà dopo anni di lavoro impiegati e operai, ispira la rievocazione di Sylvain Rossignol Notre usine est un roman (2008), dove il mondo della fabbrica rivive attraverso una ricostruzione partecipe delle varie esperienze individuali e collettive.
Un’esplorazione delle zone ‘bianche’, non giudicate degne d’alcun simbolo sulle mappe urbane caratterizza Un livre blanc (2007) di Philippe Vasset (n. 1972), straordinario viaggio attraverso spazi innominati ai margini della megalopoli, dove abbandono, miseria, contraddizioni urbane si manifestano attraverso i loro segni negativi, l’estensione del vuoto, i labili confini dei luoghi e dei territori, senza diagnosi predicatorie né esibiti sociologismi. Di una geografia dei bordi urbani, dei non luoghi industriali e portuali, delle periferie dell’Europa e della storia è maestro Jean Rolin (n. 1949), che in Terminal Frigo (2005) percorre le zone litorali francesi, da Saint-Nazaire a Marsiglia, descrivendo con stile sobrio e asciutto persone e ambienti, sempre visti da testimone esterno, capace peraltro di riconoscere anche tracce del passato. Lo stesso atteggiamento di constatazione tendenzialmente oggettiva, ma non asettica e indifferente, guida il viaggiatore Rolin in regioni cruciali del pianeta, quali l’ex Iugoslavia (Campagnes, 2000), la Palestina (Chrétiens, 2003), il Congo (L’explosion de la durite, 2007), dove l’itinerario del narratore non è immemore di illustri fantasmi, letterari (Conrad) e non (Lumumba, Che Guevara). Un ulteriore percorso lo conduce in territori lontani e desolati sulle tracce dei cani randagi, emblemi di un’umanità vagante (Un chien mort après lui, 2009). Non si tratta certo di veri e propri romanzi, ma di prose dove l’opposizione realtà/finzione cessa di essere pertinente, per mostrare come la letteratura, quale che ne sia il grado di affabulazione e d’invenzione, possa far vedere e decifrare il mondo, con occhi e parole sempre differenti.
Fra le realtà del nostro tempo non manca davvero la guerra, che la narrativa francese non elude, come nel caso del conflitto arabo-israeliano per Hubert Haddad (n. 1947; Palestine, 2007). Nel raccontare la storia di un soldato israeliano che, caduto in mano araba e divenuto amnesico, condivide la vita dei palestinesi, Haddad abbraccia con sguardo comprensivo e dolente le vicende di personaggi vittime di una tragedia cronica di cui non intravvedono né senso né prospettive.
Nella civiltà urbana occidentale si combattono guerre quotidiane di ordine metaforico e simbolico, come le gare sportive. Ma accade che anche quei confronti possano volgere bruscamente al tragico, come l’incontro di finale della coppa dei campioni di calcio del 1985 allo stadio Heysel, finito con un massacro degli spettatori. Le interazioni delle fatalità sociali con i destini individuali sono capillarmente rintracciate da Laurent Mauvignier (n. 1967) in Dans la foule (2006), romanzo dedicato a quell’evento, del quale polifonia e variazioni di stile rendono in profondità e in estensione la complessità e le implicazioni.
In realtà si manifestano molti modi di parlare della società contemporanea. In alcuni romanzi, peraltro assai diversi fra loro, essa suscita una ripulsa esistenziale per sottrazione. L’abbandono del lavoro, il sesso e l’erranza esimono da qualunque radicamento il protagonista di Cercle (2007) di Yannick Haenel (n. 1967). In Le théorème d’Almodóvar (2008; trad.it 2009), dell’esordiente Antoni Casas Ros (n. 1972), un ripiegamento forzato del narratore nella propria interiorità, sperimentato grazie anche all’erotismo, dischiude estasi segrete in una vita di animale notturno. Un personaggio femminile rompe con abitudini consolidate del passato e persegue un paradiso segreto, nei paesaggi e nella propria mente: è quanto accade in Villa Amalia (2006) di Pascal Quignard (n. 1948).
Si possono poi erodere i confini e confondere le piste, come accade da tempo nei romanzi e nelle novelle di Marie NDiaye (n. 1967), le cui sottili incongruenze, gli effetti di straniamento, l’onnipresenza di un sottile malessere persecutorio denunciano, al di là di un fantastico di vaga ascendenza kafkiana, la difficoltà d’integrazione e d’appartenenza dell’individuo moderno (Rosie Carpe, 2001, trad. it. 2005; Tous mes amis, 2004, trad. it. Tutti i miei amici, 2005; Autoportrait en vert, 2005; Mon cœur à l’étroit, 2007).
Tutt’altro stile e ben più esplicita compromissione con il mondo di oggi caratterizzano l’opera di Michel Houellebecq (n. 1958), una delle poche salutate da un successo planetario. A sua volta, per trattare della mentalità della società occidentale contemporanea, questo scrittore prende le distanze. Attraverso certi schemi della fantascienza, egli prospetta un mondo futuro in cui le ossessioni maggiori di questo secolo, il sesso e la morte, saranno esorcizzate dalla riproduzione clonata e conseguentemente da una sorta d’immortalità dell’individuo, garantita dalla trasmissione del DNA di ogni singolo da un ciclo vitale a un altro. Come premessa per contrasto di questo remoto avvenire spicca il panorama di una società ormai abbrutita in una rincorsa esclusiva all’appagamento dei piaceri più materiali (La possibilité d’une île, 2005; trad. it. La possibilità di un’isola, 2005). Come sempre, alla fortuna editoriale (che qualche volta premia autori dotati di personalità spiccata!) si oppongono reazioni differenziate della critica, di cui una parte rimprovera a Houellebecq una mancanza di stile e quindi di capacità trasfiguratrice, un’altra un atteggiamento implicitamente moralistico e reazionario (buona parte dell’attuale culto ottuso dell’edonismo viene da lui attribuita agli effetti del Sessantotto e della contestazione degli anni Settanta). Oppure c’è complicità dello scrittore con il fenomeno che descrive? Si può comunque constatare in questo autore il coraggio di allargare gli orizzonti alla critica di un’intera civiltà senza cercare solidarietà, il puntiglio di una scrittura che non arretra di fronte alla fenomenologia minuta di uno squallore certo sottolineato univocamente.
Orizzonte 2000
La ricchezza degli orientamenti tematici, strutturali e stilistici della letteratura francese di questi primi anni del 21° sec. ridimensiona in realtà le critiche di quanti l’accusano di cerebralismo, di formalismo, di autoreferenzialità. Se una esigenza di sperimentazione espressiva resta da sempre elemento caratterizzante di questa cultura, e non soltanto a partire dal nouveau roman, è anche vero che una simile ricerca è per lo più (non sempre) finalizzata all’individuazione e allo sviluppo di nuovi significati, per comprendere un mondo che cambia ma anche per evitare la piatta uniformazione ripetitiva agli stereotipi della società mediatica. Non c’è quindi crisi né solipsismo della letteratura in questo senso, anche se la letteratura sconta non solo in Francia ma in tutto il mondo moderno la dicotomia fra pubblico d’élite e consumo di massa. Certo, la produzione francese rimane a volte legata agli orizzonti della nazione, e qualche volta può risultare non immediatamente esportabile: è quanto mostra per contrasto la fortuna della produzione cosiddetta francofona. Ma le sorti alterne della presenza politica e linguistica di un Paese nel mondo possono influenzare la ricezione di tutte le sue manifestazioni espressive, indipendentemente dallo specifico valore di ciascuna di esse. Per ora, vale la pena di seguire in questo nuovo secolo il rinnovamento di una civiltà letteraria che nel corso del Novecento ha conosciuto momenti di alta realizzazione qualitativa e comunicativa.
Bibliografia
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