La letteratura in Italia
Il tempo a venire
La letteratura non sfugge al crollo di modelli, schemi, certezze che si profila sull’orizzonte sociale e culturale del nuovo secolo. Non può evitare di toccare il punto di non ritorno cui sembrano giunte le linee portanti della cultura del secondo Novecento: linee certamente molteplici, confuse, contraddittorie, ma identificabili e riassumibili entro categorie condivise anche da punti di vista opposti. Così è ben evidente come siano ormai fuori causa tutte le presunzioni di movimento storico in avanti, sia quelle ‘democratiche’ e riformistiche, sia quelle utopistiche e ‘rivoluzionarie’: sono venuti meno gli orizzonti di sviluppo progressivo comunque inteso; e si sta perdendo ogni continuità con le ideologie e i modelli di vita che il secolo scorso ha faticosamente, contraddittoriamente e spesso rovinosamente elaborato (dal sogno di una società universale giusta e felice, a quello di una trionfante espansione del mercato e del consumo, a quello di un alleggerimento e virtualizzazione radicale dell’esperienza ecc.). Se non appare credibile nessuna ‘fine della storia’, è pur vero che si ha la sensazione che molte cose tendano verso la fine, per effetto di una sorta di costipazione, di evaporazione per eccesso, di cieco disgregarsi dei loro fondamenti. Mentre questa dimensione ‘finale’ sembra gravare sui sistemi istituzionali, antropologici, culturali, ambientali più diversi, non può non essere in causa una letteratura che ha dialogato con la fine e che si è variamente proiettata sul ‘senso della fine’ e che oggi si sente minacciata nelle sue condizioni, nel suo statuto, nel suo rilievo sociale (Marx 2005; Todorov 2007). E sempre più urgente dovrebbe essere la presa non tanto delle sempre più numerose apocalissi fantascientifiche, ma delle riflessioni offerte da libri apparsi sullo scorcio finale del Novecento, rivolti a disegnare le condizioni di «fine della democrazia» (J.-M. Guéhenno, La fin de la démocratie, 1993; trad. it. 1994), di «fine dell’educazione» (N. Postman, The end of education, 1995; trad. it. 1997), «fine della scienza» (J. Horgan, The end of science, 1996; trad. it. 1998) e così via. Non si tratta di sogni apocalittici, ma di allarmate disamine che possono essere fatte convergere con l’inquietante libro dell’astrofisico Martin Rees, Our final hour (2003; trad. it. Il secolo finale, 2004). A questi diagrammi della fine si collega l’esperienza di tanti tragici crolli, primo fra tutti quello delle Twin Towers di New York, di quell’11 settembre 2001 che appare un terribile ingresso nel nuovo secolo, accompagnato da tutto un insieme di smottamenti, disgregazioni, scivolamenti culturali e sociali, come nel darsi di un «tempo penultimo», di una sorta di fine che non finisce (Belpoliti 2005). E comunque, al di là di perplessità e diffidenze che può suscitare questa ossessione e forse ‘illusione’ della fine, resta il fatto che sempre più si sta rivelando l’insostenibilità dei modelli e delle forme correnti di sviluppo economico e sociale. L’espansione dello spreco delle risorse, nel circolo della produzione e del consumo, crea una miscela distruttiva che rovina l’esistenza di intere popolazioni, alimenta conflitti etnici e religiosi, produce alterazioni climatiche irreversibili, minaccia la stessa sopravvivenza dell’umanità. Il ‘tempo a venire’ sembra disegnarsi in un’implosione di quello sviluppo illimitato che nessuno è in grado di arrestare.
L’insieme della produzione letteraria italiana (a parte qualche eccezione e qualche marginale sussulto) non sembra volersi far carico della radicalità di questa situazione: sembra come adagiata in modelli e forme definiti nello scorcio finale del Novecento, disposta a viverne fino in fondo l’esaurimento. Ritorno del narrare senza intoppi ‘sperimentali’, riciclaggi e combinazioni ‘postmoderne’, rilanci di prospettive ‘antagoniste’ o tardoavanguardiste, immagini e proiezioni di quella che appare la ‘realtà’ italiana, confronti con i media, eros e sesso fra trasgressioni e perversioni, tortuosi e narcisistici giochi introspettivi, esibizioni plateali di violenza e disgregazione, varia legittimazione di ‘generi’ paraletterari (il noir in primo luogo), immersioni in mondi minori e marginali ecc.: tutto ciò abita un affollato panorama editoriale, in un effetto di ripetizione e di costipazione. Si accumulano libri che sembrano come annullarsi l’un l’altro, che nell’insieme sembrano segnare una topografia i cui elementi si spostano continuamente, si scambiano le parti, emergono in superficie e improvvisamente svaniscono: come in un’epifania della quantità, in una indefinita declinazione dell’apparenza. L’insieme dell’universo letterario viene così a manifestare in questo affollamento lo svuotamento dell’esperienza, la sua riduzione a scarto, a rifiuto, similmente a ciò che accade nelle altre molteplici forme della cultura e della comunicazione, a tutte le forme di una vita collettiva ossessionata dall’accumulo di oggetti, di percezioni, di situazioni che devono essere continuamente consumati e rapidamente sostituiti da altri oggetti, percezioni, situazioni: il vorticoso e ripetitivo offrirsi di possibilità e di occasioni sembra destinare la letteratura a essere gettata via, a perdere le stesse ragioni della propria presenza.
La produzione: accumulo e scarto, pubblico e critica
Questa condizione di scarto e di rifiuto viene determinata in prima istanza proprio dai meccanismi della produzione e del mercato editoriale. Ci troviamo di fronte a una indefinita espansione quantitativa, che viene favorita da una serie di fattori. Ne ricordo rapidamente alcuni: il numero vastissimo di coloro che sono in grado di scrivere e che trovano il tempo per confezionare ogni sorta di testi, agevolati per giunta dalla facilità e dalla velocità della scrittura al computer; la varia e confusa articolazione delle case editrici, in una gamma che va dalla concentrazione dei grandi gruppi al frenetico e continuo sorgere di case editrici piccole e minime; la disinvoltura e la rapidità del confezionamento dell’oggetto libro (dovuta anche questa all’uso dell’informatica); la trasformazione delle librerie in veri e propri supermarket del libro, in cui gli oggetti letterari si intrecciano, si confondono con oggetti musicali, multimediali, pubblicitari, con gadget di vario tipo, e nello stesso tempo si fanno da essi sostenere; l’eterogeneità di un mercato che da una parte si appoggia su pochi ripetitivi best seller, dall’altra coltiva nicchie e ‘culti’ molteplici, ciascuno con un proprio target ben definito. I libri si accavallano e si inseguono sui banchi dei librai; si impilano i best seller variamente annunciati; uno spazio più discreto tocca ai nomi di prestigio su cui comunque gli editori sembrano puntare un po’ di più; sommersi e quasi sconosciuti (salvo rare improvvise combinazioni) restano tutti gli altri. D’altra parte le statistiche e gli studi sull’editoria ci dicono ben poco sull’effettivo rapporto dei lettori con i libri: si basano perlopiù sui dati delle vendite, scambiando direttamente l’acquirente per il lettore, mentre proprio la velocità e l’eterogeneità del mercato non dà luogo a nessuna diretta corrispondenza tra l’acquisto di un libro e il suo reale attraversamento; oltre al fatto che la presenza dei libri dentro le case non è di per sé garanzia di maturazione culturale.
Raramente comunque c’è il tempo perché qualche libro di alto livello letterario dia luogo a qualche confronto problematico, crei autentici scambi di esperienze tra lettori, susciti riflessioni e discussioni a largo raggio, stimoli domande sulla sua attuale presenza nel mondo. Ogni libro ‘nuovo’ sparisce dalla scena dopo pochissimo tempo dalla pubblicazione, spesso solo dopo un paio di settimane, incalzato e sostituito da altri libri condannati comunque a subire lo stesso destino, e così in un vortice che sembra senza fine. Lo ha notato recentemente uno scrittore tutt’altro che marginale, uno degli scrittori europei di maggior interesse e di maggior successo, Javier Marías (n. 1951), partendo da una battuta di un suo amico libraio a proposito del suo ultimo romanzo («Un libro uscito un mese e mezzo fa è già preistoria»): la velocità con cui un libro attraversa il mercato e sorvola la scena della comunicazione sembra caricare sulla letteratura la velocità stessa della fuga del tempo, sottraendola alla sua secolare ricerca di stabilità, di densità, di esperienza, di memoria, trasformandola in oggetto fuggevole, il cui apparire e sparire coincide con la labilità della percezione degli istanti, fuggiti via nel momento stesso in cui si crede di afferrarli, continuamente dissolti nel loro proiettarsi verso un futuro che quando si dà è già passato (J. Marías, Se il mio romanzo dopo un mese è già vecchio, «la Repubblica», 5 marzo 2008).
L’osservazione di Marías vale naturalmente per tutto il mercato editoriale del nostro Occidente, e certamente per quello del nostro Paese: questa fuga dei libri nel tempo accumula oggetti destinati a essere sostituiti, scartati, al massimo gettati in quella biblioteca di Babele che sempre più sembra assumere l’aspetto di una universale poubelle. Gli autori, o coloro che come tali vengono identificati dal mercato, trascinati dentro questo meccanismo, si sentono costretti a seguirlo fino in fondo, a proiettare la loro stessa scrittura in questo ritmo di fuga perpetua. E devono sfornare libri in continuazione, uno o anche più di uno ogni anno, proprio per impedire che il mercato li dimentichi, per provare a restare sulla scena pubblica evitando di essere sopraffatti da tutti gli altri che la affollano: è ovvio come tutto ciò vada a scapito della necessità, finisca per condurre anche i migliori talenti verso la più superficiale inessenzialità. Questo movimento rende ineffettuale o inconsistente la critica: quella critica ‘militante’ di cui molto spesso si lamenta l’assenza o a cui ormai altrettanto spesso si tenta di attribuire una nuova vitalità, ma che comunque non è più in grado di accompagnare i libri che si fanno, di metterli di fronte alle urgenze del presente, di porre loro domande essenziali. Il mercato editoriale da parte sua dà ben scarso credito alla critica, mentre tra le generazioni più giovani il rapporto tra scrittura ‘creativa’ e critica si è venuto sempre più a ridurre (questo già negli ultimi decenni del Novecento). Gli scrittori sembrano mostrare una coscienza critica sempre più generica e indeterminata, anche quando assumono l’abito di critici (specie in ambito giornalistico); sempre più vaghi, esteriori, pretestuosi, sfuggenti sono gli interventi critici sulle scritture che si vengono facendo. Tutto ciò si collega paradossalmente a un moltiplicarsi della critica e delle scritture, in un gioco indefinito di proiezioni di secondo grado, in svariati riattraversamenti di mappe già disegnate, sulla scia dei più eterogenei imperativi mediatici. Come la letteratura ‘creativa’, anche la critica è in fuga, sommersa dalla propria proliferante e abnorme quantità, che d’altra parte ormai sfiora solo assai raramente gli scaffali delle librerie, limitandosi a circolazioni endogamiche, specialistiche, concorsuali. Siamo dentro quella proliferazione del discorso secondo che è stata più volte stigmatizzata da George Steiner: ossessione dello sguardo di secondo grado, della parola che si avvolge sulla parola già data, dell’esperienza sempre inquadrata da specchi artificiali, della comunicazione sempre riavvolta su sé stessa. Il proporsi della realtà e del linguaggio sempre come visione, interpretazione, proiezione, considerazione, misurazione, decostruzione ecc. sta perfettamente nel quadro di una comunicazione che tende a risolversi in archiviazione/registrazione di ogni possibile lacerto culturale, emblema di una vita collettiva che esclude ogni indugio sul senso del presente, mira piuttosto a sottrarlo a sé stesso, riducendolo a esibizione, spettacolo, dibattito, registrazione voyeuristica.
Dal suo campo marginale la critica contribuisce a suo modo a questo generale allontanamento dell’esperienza: sommergendo la letteratura in una rete di discorsi, analisi, strumentazioni, interrogazioni, ricostruzioni ecc., e oscillando tra due opposti modelli, che possiamo giocosamente indicare come l’elefante e la farfalla. Quella dell’elefante è una critica invadente e onnivalente, che sovrappone ai testi turgidi blocchi interpretativi, che li misura con agguerriti parametri tecnici, epistemologici, ideologici, nella presunzione (non sempre dichiarata) che ci sia una ‘verità’ superiore, data dai modelli seguiti dal critico, che possono essere retorici, linguistici, psicoanalitici, filosofici, ideologici, sociologici e altro ancora. Quella della farfalla è invece una critica sfarfalleggiante, che si affida a eterogenee divagazioni, che possono essere di tipo personale e biografico/autobiografico, oppure di tipo mistico/orfico, sacrale, iniziatico, metaforico: in ogni caso con giochi di indeterminata allusività, con atteggiate sfumature argomentative, alla ricerca di misteri, esaltazioni e deiezioni, transitività e nomadismi, rizomi e trasgressioni e così via.
Accade in tal modo che mediazioni interpretative, interrogazioni dei significati delle opere che si vengono facendo, riconoscimenti di valore vengano affidati alle improvvisazioni dei media, alle presupposizioni giornalistiche: in una generale spinta a rinviare a target precostituiti, che trova la matrice ultima nel nesso sempre più perverso tra televisione e pubblicità. La televisione costituisce peraltro un fittissimo serbatoio letterario, raccoglie e manipola dentro di sé i più vari modelli narrativi (sia quelli più banalmente tradizionali, sia quelli più esteriormente trasgressivi), li trasforma e li propaga fuori di sé, diffondendo nuovi modi di percezione del racconto, giungendo a cancellare ogni limite tra realtà e apparenza (fino al caso estremo dei reality show): e sostiene la diffusione di una letteratura di ‘genere’, che si dispone secondo schemi ricalcati direttamente dalla televisione stessa e che poi fornisce nuovo alimento alle narrazioni televisive. Questa azione dei modelli televisivi pesa particolarmente sulle generazioni più giovani, che la scuola ha abbandonato completamente a sé stesse, incapace di suggerire sguardi critici verso l’orizzonte mediatico. Per l’effetto convergente del lassismo buonista e del pedagogismo burocratico la scuola non è in alcun modo in grado di formare lettori ‘forti’ e di mantener viva la necessaria continuità tra la letteratura del passato e quella del presente; solo raramente, e per gli sforzi personali di docenti appassionati, riesce a far percepire l’intensità di esperienza dei classici, mentre ai contemporanei guarda solo episodicamente, per occasioni esterne o seguendo i richiami della moda (nefaste addirittura possono essere certe visite di scrittori nelle scuole, con la promozione di libri che in verità sarebbe meglio non leggere; e nefasto è l’uso di costituire giurie di premi letterari fatte di intere scolaresche, conducendo ragazzi che non hanno mai letto un classico a leggere e giudicare libri inevitabilmente mediocri: ma fin troppo ovvio è il fatto che inutili e sempre più privi di senso sono i premi letterari comunque intesi).
Non deve ingannare, in questo contesto, il successo dei festival e delle fiere letterarie, il richiamo pubblico di letture e performances, esaltate con tanto entusiasmo dai giornalisti culturali: in queste manifestazioni non sembrano tanto contare forme e contenuti delle opere in questione, quanto piuttosto la presenza scenica degli autori, il loro richiamo esteriore, il loro porsi come emblemi di distinzione culturale o come suscitatori di variegate emozioni. Lì la letteratura e gli autori vengono a presentare il proprio volto accattivante, si offrono all’immediatezza dell’apparire, brillano tra conciliazioni e trasgressioni: e quel dilatarsi della scrittura in immediata risonanza pubblica ha un carattere inevitabilmente ‘sportivo’. Siamo nell’ambito della comunicazione fuggevole e indifferente, dell’evaporazione spettacolare, in un riflettersi tra il guardare e l’essere guardati, che finisce per disperdere nel vuoto anche le questioni più essenziali e le esperienze più laceranti.
Verso nuovi linguaggi
Alla moltiplicazione delle scritture, al loro spintonarsi per farsi strada nel mercato, fornisce un contributo di primo piano tutto il panorama dei linguaggi nuovi o alternativi, che sembrano promettere una uscita dalla tradizionale letteratura, dalla fissità della pagina, dai modelli epistemologici e antropologici da essa veicolati, dalla metafisica e dall’universalismo ‘occidentali’. Linguaggi variamente creati e alimentati dai nuovi media e in genere dalle comunicazioni di massa: linguaggi che sembrano far arretrare in lontananza la letteratura, così come è stata concepita per lunghi secoli, e che invadono ormai quasi tutti gli spazi della vita collettiva. Cinema, televisione, pubblicità, forme musicali pop, fumetti, videogiochi ecc.: ma al vertice di tutto, sintesi suprema e proiezione trasversale di tutti i nuovi linguaggi e di tutti i media che li producono, si impone la rete. Internet è luogo non luogo di scambio e di intreccio infinito, strada della leggerezza e della facilità, che può rendere tutto compresente con tutto e dare l’illusione dell’annullamento dello spazio e del tempo; e insieme è macchina pesantissima, contenitore universale, archivio/museo dell’intero universo, del suo stesso farsi, assestarsi e disgregarsi, immensa Babele, non solo biblioteca, ma videoteca, audioteca, mediateca, stazione, porto e aeroporto, stadio e lotteria. L’avvento e la diffusione di Internet ha dato luogo a varie improvvisate utopie, che hanno preso il posto di tante altre utopie novecentesche dolorosamente sfumate. Queste utopie informatiche si sono mosse in due opposte direzioni: da una parte in una chiave democratica e progressista, con la prefigurazione di un universo di libera disponibilità, di alleggerimento illimitato, di felice espansione di informazione, sapere, conoscenza; dall’altra in chiave aggressivamente rivoluzionaria, in vista di un rovesciamento radicale dei tradizionali valori dell’Occidente, a vantaggio di una pluralità pulviscolare, finalmente emancipata dal secolare e oppressivo impero del logos. Ideologie tecnologiche e tecnocratiche, estremismi e anarchismi ‘desideranti’, rifiuti variamente combinati dell’umanesimo illuministico si sono così riciclati sotto il segno dell’informatica e di Internet: la verifica della potenza pervasiva dei nuovi media ha fatto variamente pensare a una trionfale uscita dalla ‘galassia Gutenberg’, a una liberazione dalla fissità della scrittura e dai modelli ideologici ‘forti’ che essa sosterrebbe. Ai media ‘elettrici’ e in primo luogo all’informatica, con tutte le sue applicazioni, viene demandata la funzione di operare quella ‘rivoluzione’, quel movimento verso il ‘nuovo’ che la realtà storica e sociale sembra per tanti versi ostacolare o rendere impossibile. E si sentono varie grida di trionfo sull’indebolimento delle forme tradizionali della letteratura/scrittura, sulla sovversione della tirannia della lettera (perfino indebite chiamate a correo dell’apostolo Paolo e della Seconda lettera ai Corinzi, 3, 6: «la lettera uccide, lo Spirito dà vita»), sul conseguente affrancamento da metafisica, razionalismo, umanesimo e molto altro. Non mancano coloro che si riagganciano alla condanna platonica della scrittura, credendo che l’invasione dei nuovi media garantisca addirittura un ritorno della ‘presenza’, un potenziamento della ‘voce’, del suo flusso e del suo respiro vitale. Il mito e la nostalgia dell’oralità, della manifestazione diretta e non mediata della parola sembrano trovare nuovo appiglio nelle possibilità di trasmissione, registrazione, riproduzione, amplificazione della voce, sostenute per giunta dalle contaminazioni con le forme, i codici, i dati sensoriali più diversi messi in opera dalla multimedialità. La parola letteraria viene così a uscire fuori di sé, a puntare sull’esibizione e la manipolazione vocale; e si danno vari tentativi di performance tecnologica, di recitazione di poesia con supporti e amplificazioni multimediali. Ma tali prove, piuttosto che dare luogo a qualche rivelazione di ‘presenza’, mostrano esemplarmente come la strumentazione tecnologica scavi ulteriormente il solco della ‘differenza’, imponga alla parola un ulteriore carico di artificio. Nella loro composizione, peraltro, quasi tutte queste performances tecnologiche finiscono per risolversi in stanche ed esteriori riprese di prove già ampiamente messe in atto dalle avanguardie di inizio Novecento.
La contemplazione del paesaggio delle comunicazioni di massa suscita anche varie forme di incantato entusiasmo per l’invasione degli ‘analfabeti’ o dei ‘barbari’ che esso comporta: tanti intellettuali giovani e meno giovani sorvolano con occhio aquilino gli sterminati deserti subculturali, esaltandosi nel trash e portandolo al parossismo, o compiacendosi per il brusio delle moltitudini trasversali, per le perversioni virtuali, per le nuove possibilità di eludere la biologia, per l’affollarsi di mutanti, di doppi, di avatar, di cyborg, di identificazioni in un mondo oltreumano e postumano. In equivoco miscuglio tra radicalismi rivoluzionari e sogni di gestione burocratica delle tecnologie, si configura il superamento di ogni confine tra reale e virtuale, con l’auspicio di una letteratura immersa nella pluralità della rete, affrancata dall’oggetto libro e dal confronto con l’oggettività del mondo, rivolta all’esplorazione delle possibilità infinite che sfuggono alla rigidità della lettera, ai vincoli ‘realistici’ dell’umanesimo e dell’illuminismo, in un moltiplicarsi di flussi, di orizzonti, di dispositivi, di estensioni rizomatiche e così via. Sono posizioni in cui ancora una volta convergono e tra loro si identificano due opposte tensioni: quella anarcoide verso un’origine assoluta, verso una sorta di ‘prima’ rispetto al portato della modernità, verso un’uscita dalle costrizioni del ‘contratto sociale’, dai limiti del tempo e dello spazio; e quella consumistica verso l’artificio tecnologico, verso l’invasione di macchine e macchinette, di gadget di ogni sorta. Il quadro è ancora in fondo quello del vitalismo di inizio Novecento, delle disinvolte esaltazioni futuristiche del carattere energetico, barbarico, selvaggio della macchina: a cui si aggiungono manipolazioni dei più vari esiti della cultura ‘negativa’ degli ultimi secoli e delle più diverse pratiche di decostruzione che ne sono scaturite.
Le attese di una letteratura virtualizzata e proiettata nel postumano (se ne trova un significativo e imbarazzante campione in La letteratura nell’era dell’informatica, 2007) restano comunque confinate su di un piano meramente teorico; si appoggiano generalmente su alcuni recenti esemplari della letteratura americana, ma scambiando perlopiù quelli che sono dati tematici per dati di tipo strutturale, o si provano indebitamente (senza nessuna credibile verifica sul linguaggio) ad annettere all’orizzonte della virtualità opere che invece sono integralmente dentro l’orizzonte della testualità libraria (è quanto fa Mazzarella 2008). E tocca il paradosso che la presunta liberazione dalla tirannia della lettera venga espressa in modi ultraletterari, entro prove di spossante formalismo accademico, che può avvalersi anche di sapienza metrico-linguistica e di artificiosa erudizione, ma non fa intravedere nessun nuovo orizzonte: come accade alla poesia di Gabriele Frasca (n. 1957), che sembra voler proiettare l’inarrivabile Beckett verso una abnorme superfetazione barocca, ma di un barocco legnoso e altezzoso, sfuggente verso la più improbabile astrazione, in una misura di freddo e monotono grigiore (si veda la sua autoantologia Prime. Poesie scelte 1977-2007, 2007). In queste prove l’agognata uccisione della lettera, ben lungi dal realizzarsi, si risolve piuttosto in una sua ulteriore espansione artificiale.
Comunque, al di là delle varie proiezioni più o meno utopiche sui nuovi orizzonti determinati dall’informatica e da Internet, resta il fatto che molti scrittori tendono ad assumere i più particolari linguaggi dei media nel loro rilievo esteriore, senza farne un’occasione di confronto critico: dalla pubblicità, dalla televisione, dal cinema, dai videogiochi, dalla musica rock, si recepiscono spesso, come in seconda battuta, forme e modelli che a loro volta quei linguaggi mediatici avevano ricavato proprio dalla letteratura. Così molti sono i romanzi costruiti secondo schemi e ritmi narrativi semplificati e velocizzati, che fanno pensare ai modi della narrazione cinematografica o televisiva, e che in fondo sembrano già scritti per diventare film, entro un ben prevedibile orizzonte d’attesa.
Per altra via il mondo dei media può offrire sfondi ambientali o quadri tematici. È cosa più che ovvia e che non dovrebbe suscitare particolari meraviglie: dato che i media costituiscono una presenza essenziale della vita sociale contemporanea, ne occupano un grandissimo spazio, è ben naturale che non vengano trascurati da una letteratura che voglia toccare il quadro della realtà presente. Allora non si potranno attribuire caratteri distintivi a certi libri solo per il fatto che parlano di televisione o di musica rock, che accumulano citazioni da pubblicità o da canzoni, sfiorano il mondo dei reality show ecc.: libri pur non privi di interesse come Un amore dell’altro mondo (2002) di Tommaso Pincio (propr. Marco Colapietro, n. 1963), Fiona (2005) di Mauro Covacich (n. 1965), Troppi paradisi (2006) di Walter Siti (n. 1947), piuttosto che confrontarsi con i nuovi linguaggi dei media, sembrano in effetti ricavarne un quadro ambientale, un orizzonte tematico (qualcosa di simile era accaduto peraltro in quel presunto ‘genere’ affacciatosi alla fine del secolo precedente, denominato con il termine di pulp e gonfiato da un’abile promozione mediatica: non si trattava in realtà di nuovi linguaggi, ma di una tematica che voleva essere provocatoria e ‘trasgressiva’ e che è servita a far emergere sulla scena qualche giovane abile e spregiudicato).
Fine dello stile
Con la scrittura al computer (magari anche per la facilità delle funzioni copia/incolla) si possono scrivere velocissimamente romanzi di quasi 1000 pagine: ma l’eccessiva fiducia nella leggerezza della scrittura dà luogo a una generalizzata indifferenza a quello che un tempo si chiamava stile, con il diffondersi di una sempre più deprimente sciatteria linguistica. La rapidità della scrittura informatica, sostenuta dalla rapidità della trasmissione telematica, permette di soddisfare agevolmente quelle richieste del mercato di cui sopra si è detto, garantendo agli scrittori l’illusione di una presenza continua sulla scena pubblica, con la ripetizione indeterminata di schemi già collaudati. Ma il linguaggio, se non sottoposto ad adeguato controllo, rischia di divenire evanescente, perde ogni contatto con la sua origine corporea (la famosa ‘presenza’!), ogni tensione a mettere in gioco la realtà in modo essenziale. I profeti della letteratura informatizzata vedono in tutto ciò una liberazione di linguaggio e di esperienza dall’insopportabile fissità della pagina, una felice proiezione nella ‘leggerezza’: questa in realtà, ondeggiando dentro l’inflazione della comunicazione, in mezzo all’invasione incontrollabile di messaggi di ogni sorta, cancella la stessa possibilità di un corpo a corpo con la lingua, di quel corpo a corpo a cui ogni autentica letteratura non può in nessun modo sfuggire. Perlopiù le scritture correnti si modellano sulla convenzionalità dei vari linguaggi mediatici, mantenendosi a un livello di comunicazione ‘neutra’ o giocando con deformazioni e trasgressioni che coincidono con quelle stesse del linguaggio corrente, magari con quelle dei più diversi linguaggi speciali, dai gerghi giovanili e giovanilistici, a quelli della pubblicità, della televisione, del giornalismo, ma anche della musica pop, dello sport, della droga, della criminalità, di particolari aree dialettali.
L’indifferenza al linguaggio sostiene il pervasivo successo della letteratura di ‘genere’, tra cui campeggia il cosiddetto noir, con tutta una serie di ramificazioni che conducono fino al romanzo storico o al reportage di cronaca più o meno ‘nera’. Da più parti si tenta di attribuire al noir un rilievo centrale nel panorama letterario attuale; se ne rivendica la tempestività e la presunta forza ‘critica’, la capacità di denunciare o comunque di rappresentare la violenza che mina in profondità le società moderne, e in particolare il nostro disastrato Paese. In realtà la moda del noir non fa altro che registrare una generale assuefazione alla violenza, offrendo modelli di consumo al diffuso cinismo e nichilismo di gran parte della piccola borghesia intellettuale: pretendendo di dare un’immagine ‘estrema’ della realtà, finisce per cancellarne ogni traccia concreta, trasformandola in una matrice di scenari ossessivamente ripetitivi; più che fare luce sul senso del mondo che presumono di rappresentare, queste scritture non fanno altro che ruotare attorno al già noto, ripetendolo all’infinito. E in genere si tratta di materiale narrativo precostituito (sempre più spesso direttamente attinto dalla cronaca nera), sostenuto da schemi plasmati esteriormente su modelli cinematografici o televisivi: e l’eventuale capacità artigianale degli autori esclude (salvo sporadiche eccezioni) ogni vera tensione linguistica, ogni anche remota possibilità di stile.
Qualcosa di simile accade nell’uso vario e confuso del romanzo storico: proprio mentre il pubblico di massa tende sempre più a perdere il senso della distanza storica, mentre l’universo della comunicazione spinge sempre più verso una cancellazione della memoria del passato, molti sono gli scrittori più o meno giovani che provano a setacciare i diversi periodi storici, da quelli più lontani a quelli più vicini, per ricavarne intrecci di vario genere, disegni sentimentali, ironici, truci, avventurosi, esplosivi, corrosivi, meditativi e altro ancora. Qui tra l’altro possono aver luogo anche prove di mimetismo linguistico, sostenute da imperterrita e disinvolta manipolazione di fonti e di citazioni: ma è lo stesso gioco combinatorio a escludere ogni autentica sfida stilistica. In fondo siamo ancora sull’onda lunga de Il nome della rosa (1980) di Umberto Eco: è la strada di un artigianato narrativo che alcuni dei diretti interessati stanno tentando di far passare come la nuova grande strada della narrativa italiana, suggerendo l’etichetta di new Italian epic, piuttosto comica per la verità, anche perché sembra escludere ogni nozione di ciò che sia o sia stata veramente l’epica (si veda l’articolo di Wu Ming su «l’Unità» del 25 aprile 2008, Storia, fiction e fantasia. È la nuova epica, bellezza, che ha suscitato un bislacco dibattito sui blog). L’etichetta mette insieme i testi più diversi, con l’evidente proposito di promuovere una generazione di scrittori che si proclama impegnata a «raccontare l’Italia», quella di ieri e quella di oggi, ma senza mettere in questione i linguaggi dominanti, inquadrandosi dentro modelli di comunicazione già previsti dai media e dalle attese dei vari strati di pubblico colto o semicolto.
Scritture al di là dello stile sono anche quelle che sembrano muoversi sul terreno di un espressionismo dialettale ridotto e semplificato, che offre particolari stereotipi regionali, immagini esteriori e pittoresche di realtà lacerate ma non prive di qualcosa di incondito, di fintamente genuino. Ma forse la più radicale uccisione dello stile va cercata in certe stucchevoli recitazioni di eleganza e di misura, di proiezione ‘poetica’ nell’orizzonte vuoto del presente, tra ammiccante familiarità e segni di distinzione, tra danzante leggerezza e affondi di allibita pensosità, secondo una linea che persegue la profondità di superficie ed è aperta al «transito del mondo», al dolce vento della buona coscienza metropolitana, alle possibilità e alle offerte di un aggiornato consumo intellettuale; in un flusso incessante di gesti e comportamenti estetico-esistenziali, in una ininterrotta proiezione di incongrue sfide sulla scena del mondo, in un continuo disegno di pose spettacolari vuote. È insomma la recitazione dello stile come dolce sottoscrizione della fuggevolezza del mondo, della sua totale evanescenza, della sua non conoscibilità: vera e propria mimesi accattivante della nullità della comunicazione e dello spazio collettivo.
Intrecci e polifonie
Lontani ormai dall’opposizione avanguardistica tra narrativa realistica e narrativa antirealistica, tra romanzo tradizionale ‘ottocentesco’ e romanzo sperimentale, tra romanzo borghese e nouveau roman, tra chiusura in sé della finzione e suo smascheramento, possiamo percepire chiaramente, di fronte alle forme narrative che circolano a livello planetario, come il romanzo sia stato sempre segnato dalla divaricazione, dall’intersezione tra piani diversi, dalla disposizione a svelare ed esibire la propria natura di finzione, a chiamare in causa modelli di mondo diversi e a proporre dubbi sulla consistenza stessa della realtà data, dell’orizzonte sociale determinato. Ogni tentativo di narrare il mondo con le sue contraddizioni, i suoi conflitti, le sue esuberanze e i suoi splendori, le sue falle e le sue lacerazioni, comporta una interna sfasatura: da ogni proposito di toccare la realtà scaturiscono atti di proiezione, di lavoro, di artificio, inevitabili deformazioni (produttive e critiche in quanto deformazioni); e sempre ciò ha comportato, perfino in narrazioni più apparentemente legate alla cultura ufficiale e ai sistemi di dominio, una insorgente carica critica, una spinta a collocarsi sui confini tra la realtà e l’invenzione e a uscire dai loro rispettivi limiti. Nello sviluppo del romanzo si è data così una varia e ricca possibilità di scarto critico, che in modi diversi ha potuto chiamare in causa la responsabilità della parola: responsabilità dell’autore, e del suo linguaggio, responsabilità dell’invenzione di fronte a sé stessa, di fronte al lettore, di fronte al mondo e al suo destino. Tutto ciò è ben evidente già in quello che consideriamo il primo romanzo ‘moderno’, il Don Quijote, che si svolge in una continua intersezione di piani, in un gioco di dislocazioni e sovrapposizioni tra la realtà e la scrittura, tra il mondo attraversato dal folle protagonista e quello delle finzioni romanzesche da cui egli è posseduto. La sfasatura tra voce narrativa e realtà storica costituisce peraltro la spinta più interna de I promessi sposi, rappresentazione/riflessione addirittura spietata sulla consistenza dei rapporti sociali, sul gioco di inganno e di autoinganno su cui si costruisce l’opinione di sé e lo scambio intersoggettivo. Sfasatura e dislocazione sono fondamento essenziale della polifonia del romanzo, della sua apertura ‘dialogica’ alle voci più diverse e contrastanti, del suo porsi come genere non genere, genere capace di intrecciarsi con tutti i generi possibili, di far agire dentro di sé i principi e i dati conoscitivi di generi e forme diverse, al di là dei vincoli stessi della narrativa. La forma di romanzo che sembra meglio resistere alla situazione contemporanea, da cui possiamo attenderci ancora qualche esito letterario essenziale, appare proprio quella disposta di più a uscire dai vincoli dell’invenzione narrativa: opere che sappiano ritrovare una possibilità di stile proprio nell’intreccio, nella dislocazione interna, nell’apertura a più punti di vista, in modi di riflessione e di discussione di tipo saggistico. Romanzo, saggio, autobiografia, ricerca storica reale o fittizia, trattato filosofico e sociologico, inserzione di lettere, testimonianze, correzioni e critiche interne, traduzione e interpretazione: la polifonia del romanzo, tanto vigorosamente affermata da Michail Bachtin, non si definisce più entro una struttura narrativa continuata, ma si affida sempre più nettamente alla combinazione di diversi livelli di contenuti, di forme, di prospettive, riconoscibili anche tipograficamente, nella scansione stessa che la pagina viene ad assumere.
Molti sono gli autori che, in questi primi anni del 21° sec., sembrano muoversi in questa direzione, con obiettivi e con esiti assai vari; autori di generazioni diverse, che cercano di interrogare il mondo sotto il segno dell’interferenza, in una tesa problematicità, che esplora più dimensioni possibili del linguaggio e della pagina, che pone domande, che sfugge a una dimensione assertiva o narcisistica, che, pur facendosi carico delle molteplici minacce che gravano sulla letteratura, mantiene vivo il filo che la lega alla sua storia passata, alle grandi scritture ed esperienze che abbiamo alle spalle. Tra questi libri a più dimensioni ricordiamo Il Duca di Mantova (2004) di Franco Cordelli (n. 1943), Secoli di gioventù (2004) e La città dei ragazzi (2008) di Eraldo Affinati (n. 1956), Il sopravvissuto (2005) di Antonio Scurati (n. 1969), Tutti contenti (2003) e Nel cuore che ti cerca (2008) di Paolo Di Stefano (n. 1956), Gomorra (2006) di Roberto Saviano (n. 1979), Storia naturale dei giganti (2007) di Ermanno Cavazzoni (n. 1947), La via (2008), ultimo libro di Fabrizia Ramondino (1936-2008). Ma certo la disponibilità alla contaminazione appare viva in numerosi altri autori, da Michele Mari (n. 1955) ad Antonio Moresco (n. 1947), da Giuseppe Montesano (n. 1959) ad Alessandro Piperno (n. 1972), da Roberto Alajmo (n. 1959) a Laura Pariani (n. 1951): al di là delle singole scelte e del diverso valore che si può riconoscere ai loro esiti, sembra evidente che la strada di ciò che si continua a chiamare romanzo non sia né nelle indeterminate e aleatorie proiezioni verso la virtualità, né nella indiscriminata espansione delle forme di ‘genere’, ma nella difficile ricerca di uno scarto critico, nella interrogazione della sfasata eterogeneità delle esperienze e dei linguaggi.
Romanzo e racconto
Se peraltro il romanzo sembra godere ancora ottima salute in molte culture e in molte lingue (specialmente fuori dall’Europa), è comunque evidente che da noi si trova in una situazione di stallo; riesce raramente a dirci cose essenziali sullo stato del mondo, a sondare territori sconosciuti, a trovare linguaggi veramente all’altezza del nostro difficile e oscuro presente. Certo esso risente di quell’espansione eccessiva di cui sopra si è detto: non solo i romanzi sono troppi di numero, ma sempre più frequenti sono quelli che risultano da una vera e propria dilatazione del numero delle loro pagine. Così ogni singolo libro viene a invadere spropositatamente il tempo del possibile lettore, sottraendolo alle letture di altri possibili libri concorrenti: e questa guerra sotterranea si risolve in una sostanziale debolezza e vacuità dei risultati. Il romanzo rischia insomma di diventare una specie di simulacro per lettori sprovveduti, in modo che continuino a essere sprovveduti.
Rispetto a questa pericolosa vacuità del grande romanzo, alcuni dei risultati più essenziali degli ultimi decenni sembrano venire piuttosto dalla forma del racconto e semmai da romanzi di breve misura. Il racconto ci riconduce alla fonte primaria del narrare e, al di là di una modernità ormai disgregata, può toccare più da vicino il senso di un presente frantumato, della globalizzazione puntiforme in cui siamo catturati. La forma del racconto suscita quasi sempre un più diretto e impegnativo confronto con la consistenza del linguaggio; nella brevità e nella concentrazione gli scrittori possono trovare lo stimolo a scavare nella lingua, a cercare parole essenziali capaci di prendere di petto la realtà, di sfidarne la consistenza, di dare alla narrazione quel rilievo critico che sfugge a chi crede di toccare il mondo in velocità, di specchiarne il senso nella velocità del tocco sulla tastiera, nel rapido accumularsi delle parole sullo schermo.
Uno dei più significativi tra gli autori di romanzi (romanzi non ‘storici’, ma di escavazione storica) del tardo Novecento, Sebastiano Vassalli (n. 1941) con La morte di Marx e altri racconti (2006), si è affidato a un nuovo uso della forma del racconto, sostenendo proprio che ormai la realtà non è più narrabile attraverso il romanzo e che la misura per dire il presente può essere semmai quella del racconto. Attraverso i suoi racconti Vassalli suggerisce un congedo dalla «modernità», dai modelli della grande letteratura del Novecento e dalle ipotesi di movimento progressivo del mondo che hanno retto la storia degli ultimi secoli. Con ingannevole allusività il titolo generale sembra chiamare in causa la fine della fede comunista (evocando nel contempo una formula che ha percorso a lungo la cultura novecentesca, quella della «morte di Dio»): ma poi chi leggerà il racconto da cui quel titolo è ricavato vedrà che esso non tratta della morte dell’autore del Manifesto del partito comunista, ma dell’assassinio di un contemporaneo dottor Marx, un colto omosessuale la cui barba lo fa assomigliare al filosofo tedesco. Al congedo da Marx, affidato alla vicenda di questo dottor Marx, si accompagna qui quello da Kafka, emblema della grande modernità letteraria, che si dà con il passaggio dall’uomo insetto all’uomo automobile: Vassalli nota, infatti, che nel corso del secolo passato si è svolta una «metamorfosi» ulteriore e ben più radicale rispetto a quella del kafkiano Gregorio Samsa, la trasformazione dell’uomo contemporaneo in «automobilista», imprigionato nelle sue macchine, catturato nelle strade senza fine che sembrano diventate la sola ragione della mobilità e dell’esistenza. Vari racconti del libro tracciano il disegno di questo mondo così tremendamente «postumano», entro una sua disillusa religione della verità e della letteratura, della letteratura come verità.
La vitalità del racconto, tanto nettamente sottolineata da Vassalli, e mostrata del resto già da vari esiti del tardo Novecento (da Pier Vittorio Tondelli ad Antonio Tabucchi a Gianni Celati ad Antonio Debenedetti a E. Cavazzoni a M. Mari), ha dato luogo in questi ultimi anni a vari libri di notevole interesse. In modo nuovo sono tornati al racconto autori che l’avevano già ampiamente praticato, da Celati (al 2001 risale Cinema naturale, passaggi attraverso il carattere insieme artificiale e naturale di diversi luoghi del mondo) a Debenedetti (nel gennaio 2008 sono apparsi i dodici testi di In due, emblemi di comportamenti, disposizioni morali, intrecci interpersonali entro un mondo borghese e piccolo borghese, cuore profondo, dolce e fangoso, distorta spina dorsale dell’Italia). Ma altre voci diverse si sono affacciate: sia per opera di scrittori già noti per una varia produzione narrativa, come Silvana Grasso (n. 1952; Pazza è la luna, 2007, segue in una Sicilia periferica piccole esistenze corrose tra stramberie e paradossi, beffarde combinazioni del caso, fissazioni in abitudini ostinatamente maniacali), sia di nuove presenze che proprio nella forma del racconto sembrano trovare una nuova determinata e dolorosa capacità di dire: Antonio Pascale (n. 1966; La manutenzione degli affetti, 2003), Valeria Parrella (n. 1974; Per grazia ricevuta, 2005), Giovanni Martini (n. 1961; La nostra presenza, 2006), Francesco Pecoraro (n. 1945; Dove credi di andare, 2007).
Il silenzio della poesia
Per ciò che riguarda la poesia, la dilatazione quantitativa è fenomeno già assodato da molto tempo: se per scrivere una poesia bastano un foglio di carta e una penna, è chiaro che tutti possono mettersi a farlo, essere o sentirsi poeti. Il mercato, a differenza di ciò che accade per la narrativa, si mostra ben poco disposto a concedere uno spazio adeguato alla poesia, anche se, nelle nuove condizioni di questi ultimi anni, lascia comunque qualche spiraglio in più che nel passato. Continua peraltro e si moltiplica il fenomeno di pubblicazioni autofinanziate e a circuito chiuso, mentre altre occasioni di moltiplicazione sono date dal web e dalle illusioni di apertura comunicativa che variamente suscita. Nel secondo Novecento si sono più volte riproposte bislacche utopie di liberazione indeterminata della parola poetica, entusiasmi di espansione universale della poesia, di estetizzazione felice dell’intero orizzonte sociale. Ma questo si è collegato, presso le generazioni più giovani, a una vaporizzazione della coscienza teorica, a una evanescenza dell’impegno e del rigore tecnico e linguistico, e a una vera e propria assenza di pubblico, se si escludono effimere occasioni di esaltazione spettacolare, di proiezione della poesia in happening, in pura presenza vuota. Con queste vicende alle spalle, la poesia si trova oggi a scontare in modo estremo l’universale costipazione della comunicazione: il numero eccessivo di poeti e l’indeterminatezza delle poetiche sembra rendere comunque impossibile l’affermazione di una parola poetica essenziale, che abbia in sé la stigma del presente, che permetta agli eventuali lettori di riconoscersi e di riconoscere il senso del mondo. Se per i giovani degli anni Trenta i versi de Le occasioni del quarantenne Eugenio Montale potevano imporsi subito come memorabili, essere parte essenziale del riconoscimento di sé, oggi nessun verso di poeta giovane o meno giovane riesce a entrare nella memoria, a porsi come emblema del presente; questa funzione è piuttosto demandata alle parole delle canzoni, e non solo a quelle dei migliori cantautori. La musica pop diffonde modelli di poeticità indeterminata e intercambiabile, moltiplica ulteriormente e ulteriormente fa evaporare e dissolvere lo spazio e la presenza della poesia.
Le fittissime e incontrollabili scritture poetiche che comunque continuano a proporsi sfuggono peraltro a ogni adeguato controllo critico, ma ciò non soltanto per il loro numero eccessivo. Una critica che oscilla tra tecnicismo linguistico, sfuggenti metaforizzazioni, formule astratte e intercambiabili, non riesce a interrogare in profondità i testi, a operare adeguate discriminazioni, tanto più che nella variegata comunità poetica sembra vigere «una logica di accoglienza» (Berardinelli 2008, p. 26), che in definitiva finisce per ridurre il rilievo anche delle voci più essenziali. Questa logica di accoglienza può peraltro condurre ad apologie della pluralità: nel moltiplicarsi delle voci poetiche si può vedere il proiettarsi di una comunità «che viene», l’utopia del «minore», l’annunciarsi sempre aperto e sempre futuro di un «popolo che manca» (Cortellessa 2006, p. XV). Eppure dovrebbe essere evidente che le voci più autentiche sembrano piuttosto esperire nella poesia un «essere a parte»: ne fanno voce di angoscia, di desiderio, di identità che si scava una sorta di vuoto nell’insopportabile pieno dei linguaggi contemporanei. Si tratta di una nuova ‘separatezza’, testimoniata soprattutto da voci femminili. Caratteri ben riconoscibili hanno gli ultimi libri di tre poetesse pur molto diverse tra loro: ostinata e aggressiva tensione letteraria in Patrizia Valduga (n. 1953; Lezione d’amore, 2004); attraversamento dell’indifferente continuità di uno spazio personale in Patrizia Cavalli (n. 1947; Pigre divinità e pigra sorte, 2006); proiezione dell’esistenza personale sull’indecifrabile e assoluta estraneità del mondo in Antonella Anedda (n. 1955; Dal balcone del corpo, 2007).
Responsabilità: tra narrativa e saggistica
Di fronte alla confusione della cosiddetta era digitale, alla folle accelerazione della vita collettiva, all’espandersi di una violenza che aggredisce le persone, gli insediamenti umani, gli ambienti naturali, alla sempre più incombente minaccia ecologica, la letteratura può apparire un’ultima difesa dell’esperienza tradizionale, di una continuità con un passato ‘umano’. A molti questa ‘difesa’ può apparire attardata e conservatrice, nostalgicamente protesa alla salvaguardia di modelli culturali scalzati dall’avvento delle tecnologie e dalle avveniristiche prospettive del ‘postumano’. Ma, come si è constatato all’inizio di questo scritto, sempre meno credibili, del tutto illusorie e distruttive appaiono proprio le ipotesi di sviluppo in avanti della storia e del mondo: è proprio la situazione attuale del pianeta a mostrarci che siamo a un punto di non ritorno, che smentisce ogni accelerazione in avanti (comunque intesa) e richiede invece una ‘cura’ per il presente, una assunzione di responsabilità nei confronti delle sempre più pericolose deformazioni dello sviluppo, della deriva produttiva, ambientale, sociale, culturale, politica da cui è preso l’universo globalizzato ed entro cui il nostro Paese sta assumendo caratteri sempre più inquietanti (si pensi al generalizzato potere televisivo-pubblicitario, sostenuto dal dominio della criminalità in gran parte del Sud e dalla chiusura particolaristica di gran parte del Nord). Di fronte a tutto ciò la letteratura dovrebbe poter ritrovare una forza di conoscenza di cui sola può farsi carico, proprio scavando nella divaricazione tra i livelli del linguaggio e dell’esperienza, facendo leva sulla responsabilità della parola e della scrittura, sulla tensione critica che può sprigionare da esse, e interrogando il destino del Paese e del mondo. Responsabilità e destino dovrebbero essere in effetti i due termini emblematici per la letteratura del 21° sec., al di là dei crolli dei modelli novecenteschi, dello sfaldamento del moderno e dell’evaporazione del postmoderno: abbiamo bisogno di una letteratura che chieda al lettore responsabilità critica, non certo per via moralistica o pedagogica, ma nell’ascolto delle derive del mondo e nell’inquieta interrogazione del destino individuale e collettivo. In questa letteratura prosa e poesia, romanzo o romanzo-saggio comunque intrecciato e frantumato, linguaggio poetico comunque scavato e dispiegato, avranno ancora un senso se dal loro sguardo alla realtà sapranno svolgere una critica della parola e della realtà, commisurando parola e realtà a una responsabilità e a un destino. La letteratura può far vivere in concreto, al di là di ogni intenzionalità programmatica, nel suo stesso costituirsi in forma, la responsabilità verso coloro che sono stati e verso coloro che saranno: risposta alla memoria del passato, di coloro che hanno fatto la nostra vita e la nostra mente, e richiamo alle condizioni del futuro, alla possibilità di vita per le generazioni che verranno; pietas per l’uso che il passato ha fatto del mondo e del linguaggio e offerta all’uso che ne potrà fare un futuro sottratto alla rovina. Se oggi è in gioco il destino dell’umanità, abbiamo bisogno di una letteratura che interroghi questo destino, lo custodisca e lo salvi; e nel destino dell’umanità riconosciamo il destino del nostro Paese, della lingua italiana: grande può essere la responsabilità dei nostri scrittori verso i grandi modelli che hanno alle spalle, grande la loro responsabilità verso il destino dei loro lettori e dei lettori futuri. Ciò dovrebbe sottrarli alle esibizioni spettacolari, alle infatuazioni tecnologiche, ai sussulti anarcoidi e pseudorivoluzionari, ai narcisismi ombelicali, anche nella piena libertà dei loro sogni e delle loro invenzioni, perché, come suggerì William Butler Yeats, «In dreams begins responsibility».
Bibliografia
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