La letteratura orale
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Durante i primi secoli, anche dopo l’adozione dell’alfabeto fenicio (VIII sec. a.C.), la produzione, la diffusione e la trasmissione della letteratura greca avvengono per via orale: le performance poetiche degli aedi che cantano le vicende dell’Iliade e dell’Odissea sono “orali” non solo dal punto di vista della comunicazione, ma anche da quello della composizione, perché i poeti improvvisano componendo le loro opere in modo estemporaneo.
Un signore, un pubblico, un cantore che, accompagnandosi con uno strumento musicale, racconta una storia – di vita e di morte, di guerra e di pace, di amore e d’odio, di dolore e di gioia. Nasce così la letteratura greca, in un’età non ben precisata che oscilla tra il 1200 e l’800 a.C., i cosiddetti “secoli bui” (Dark Ages), il periodo che va dalla fine dell’età micenea alla nascita della polis: il signore è il basileus (il “re”); il pubblico è il gruppo ristretto degli aristocratici che il re ha invitato nelle sale interne del suo palazzo per un simposio o la platea più ampia dei cittadini che assistono alla performance nell’agorà, nella piazza centrale della città, durante una festa pubblica; il cantore è il poeta, l’aedo (aoidos, dal greco aeidein, “cantare”), che, dopo aver invocato la Musa, dà inizio al suo canto accompagnandosi con la cetra.
Ma un simile quadro potrebbe essere spostato indietro di parecchi secoli, fino al 1800 a.C., con una sola differenza: il signore in questione sarebbe il wanaka, la figura che si trova al vertice della gerarchia politica micenea. Per quale motivo non possiamo essere più precisi? Perché le più antiche forme poetiche della letteratura greca non ci sono giunte. E non ci sono giunte perché non potevano giungerci attraverso il più comune canale di trasmissione della cultura: la scrittura. Non che questa, nella Grecia delle origini, non esistesse: sull’isola di Creta sono stati scoperti testi scritti in una scrittura sillabica non ancora perfettamente decifrata, la “lineare A”, databili tra il 1700 e il 1400 a.C.; sempre a Creta, ma anche in altre località della Grecia continentale (Micene, Tirinto e Pilo), sono state ritrovate numerose tavolette d’argilla scritte, a partire dal 1500, in una scrittura sillabica (la “lineare B”) che, dopo essere stata decifrata nel 1952 da Michael Ventris e John Chadwick, si è rivelata essere una lingua greca, il cosiddetto miceneo (e infatti il sostantivo wanaka è il termine miceneo che corrisponde al greco anax, “signore”).
Ma i testi scritti nella “lineare B” non sono testi letterari: le tavolette contengono solo elenchi di materie prime e di prodotti, liste di nomi propri (funzionari, artigiani, schiavi), registrazioni di offerte votive. Per molti secoli, anche successivamente all’adozione dell’alfabeto fenicio da parte dei Greci, avvenuta nell’VIII secolo a.C., la produzione, la diffusione e la trasmissione di quella che noi chiamiamo letteratura si realizza principalmente per via orale.
Per quel che riguarda gli unici esempi completi di composizioni epiche che ci sono pervenute sotto forma di testo scritto (i due poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea, composti entrambi nel verso caratteristico dell’epica, l’esametro), le cose sono andate molto probabilmente in questo modo. Le performance poetiche degli aedi che, nei banchetti o nelle piazze, cantano le vicende della guerra di Troia e le peripezie patite dai comandanti dell’esercito greco durante il loro ritorno in patria, sono “orali” non solo dal punto di vista della comunicazione, ma, come sostiene la maggior parte degli studiosi, anche da quello della composizione. In altre parole, questi poeti non cantano testi che essi stessi hanno prima scritto e poi imparato a memoria: come è testimoniato anche in molte altre società passate e presenti, letterate o meno, gli aedi (chiamati anche col nome di rapsodi, dal verbo rhaptein, cucire) sono soprattutto improvvisatori che compongono le loro opere in modo estemporaneo, appoggiandosi su un ampio repertorio di cosiddette “formule”, frasi o porzioni di frasi cristallizzate che possono combinarsi fra loro con una certa libertà grazie alla struttura flessibile dell’esametro; se mai si servono della scrittura, lo fanno soltanto per supportare gli schemi essenziali della narrazione.
La particolare struttura del testo dei poemi omerici conferma una simile ipotesi, avanzata per la prima volta intorno agli anni Trenta da Milman Parry, che aveva studiato le analoghe modalità compositive dei cantori popolari serbo-croati; ripresa da altri studiosi come Albert Bates Lord e Geoffrey Stephen Kirk, è stata in parte corretta dalle posizioni di coloro che, come Eric Alfred Havelock, hanno sottolineato l’importanza del ruolo della memoria nel lavoro degli aedi, i quali non a caso affermavano che il loro canto nasceva dalle Muse, figlie di Zeus e Mnemosyne (la memoria).