Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Con il romanticismo nascono la moderna cultura di massa e una letteratura commerciale che viene prodotta da scrittori generalmente borghesi. Con la nozione di letteratura popolare non si intende dunque uno scrivere dal popolo, ma per il popolo e, solo in qualche caso, col popolo.
Premessa
Prima del XIX secolo tra la gente comune dentro e fuori le città circolano almanacchi, vite di santi, fiabe, invettive satiriche e immagini che esprimono un’autonoma attività folklorica in gran parte non sfiorata dai valori letterari d’élite. Il romanticismo segna invece il passaggio dal folklore tradizionale a una più moderna forma di cultura di massa, espressione delle classi medie e inferiori del loro desiderio di coinvolgimento politico o di distrazione, e insieme adattamento entro il sistema dei generi popolari di un’estetica che, con la Rivoluzione francese, si socializza, trasferendosi dai salotti settecenteschi alle piazze e ai teatri. Tale trapasso istituzionale ridefinisce il canone letterario secondo una morfologia anticlassica che ammette la versificazione più libera in poesia (enjambement, rime approssimate, vocabolario ampio), l’accantonamento delle tre unità drammatiche di tempo, spazio, azione, la fusione di comico e tragico nel teatro in prosa (con la conseguenza che nessun contenuto viene scartato solo perché non appropriato a virtù e valori classici) e il "medievalismo" sul modello di Walter Scott, con figure energiche, conflitti drammatici e un apparato scenico "goticheggiante". Sul versante "popolare", dove le precedenti opere di poesia, teatro e narrativa erano state semplici nella forma, anonime per origine e liberamente disponibili nella ricezione, i nuovi testi divengono in certa misura più complessi, assimilando quegli elementi della poetica d’élite che vengono filtrati da mediatori professionisti, socialmente distinti dal pubblico dei destinatari. Viene così meno una genuina cultura popolare, legata ai moduli dell’oralità, e nasce la letteratura commerciale in forma stampata e venduta a prezzo modico. Non va infatti dimenticato che il romanticismo del primo Ottocento coincide con lo sviluppo dell’editoria, dell’alfabetismo (che oscilla dall’80 percento della Prussia al 2 percento del Meridione italiano), della politicizzazione delle masse (con la conseguente curiosità intellettuale) e con la borghesizzazione dello scrittore di qualunque condizione sociale: la nuova generazione di autori postrivoluzionari impara presto a trarre profitto dal mercato culturale. Con la nozione di "letteratura popolare" non si intende dunque uno scrivere dal popolo, ma per il popolo e, solo in qualche caso, col popolo.
Bisogna allora chiedersi che cosa intendono i romantici per "popolo". Il termine non è univoco, ma per lo più allude a un complesso di valori morali (naturale semplicità e sanità, spesso contrapposte all’artificiosità dei costumi moderni) ed estetici (creatività originaria e spontanea della poesia e dell’arte) connessi all’identità della "nazione": il popolo rappresenta la parte sana, custode della tradizione autentica di una collettività. A questa entità intesa come anima nazionale e alla sua cultura (canti, leggende, fiabe e storie) si rivolgono intellettuali quali Walter Scott, Clemens Brentano, Achim Arnim, i fratelli Grimm e più tardi Niccolò Tommaseo per rintracciare documenti del passato e spontanee testimonianze della poesia medievale e cristiana. A parte i casi di Georg Büchner – che "scopre" il quarto stato denunciandone le sofferenze con il soldato Woyzeck – e di Heinrich Heine – che a Parigi entra in contatto con Karl Marx – ai letterati ottocenteschi manca dunque il concetto socio-economico di "classe" popolare e, con esso, quelli della divisione dei poteri e della contrapposizione degli interessi.
Verso la metà del secolo, allorché l’entusiasmo romantico verso la cultura "primitiva" lascia il posto a studi antropologici scientificamente più rigorosi e la "massa" dei lettori comincia a organizzarsi come "pubblico", assurgendo al ruolo del committente che vuole ritrovarsi in opere contemporanee, si afferma una tendenza culturale definita con il termine di "populismo"; esso consiste nella rappresentazione degli umili come modelli di moderni valori positivi (lavoro, risparmio, igiene, rispetto, famiglia) in una società organica in cui gli individui collaborano, ciascuno secondo la propria funzione e senza alcuna conflittualità.
Mentre l’operaio di fabbrica va acquistando coscienza e forza sociale, la letteratura esclude il proletariato e si fa "campagnola" o "piccolo-medio borghese", approntando una produzione middlebrow adatta anche al pubblico femminile, che si addentra volentieri nella sfera del privato e segue con partecipazione la cronaca di vicende socio-familiari in cui chi dirige si assume la responsabilità del destino amoroso, umano e sociale dei sottoposti (a cui non spetta, quindi, provvedere da sé a emanciparsi). A parere della critica marxista, il letterato ottocentesco, filantropo e paternalista, non rappresenta la realtà del sistema economico borghese, basata sullo sfruttamento.
Resta comunque vero che la "folla" si è imposta sia come tema specifico, sia come presenza sociologica sottesa alla produzione e in certa misura incombente.
Il letterato guida il popolo
Nella prima metà del secolo alcuni artisti partecipano con il popolo alle questioni politiche, assumendo la missione di profeti dei destini nazionali. Nella tela La Libertà che guida il popolo Eugène Delacroix celebra l’esperienza della rivoluzione parigina del 1830, mentre con Le fucilazioni Francisco Goya fa vivere allo spettatore la notte di sangue alla Puerta del Sol: così i pittori saldano l’arte alla vita, secondo un canone civile di testimonianza della storia del proprio tempo. Anche la scrittura si mescola alla realtà moderna per opera del poeta-vate, figura di patriota romantico che nasce tra Germania e Italia, allorché le lotte per l’indipendenza coinvolgono l’intera collettività. Infiammato dai Discorsi alla nazione tedesca di Fichte e sotto l’urgenza dell’invasione napoleonica del 1812-1813, Theodor Körner unisce la "lira" alla "spada" sino alla precoce morte sul campo che ne consacra la fama di "poeta-soldato" (Alessandro Manzoni gli dedica Marzo 1821) . Come le poesie di guerra di Körner, quelle del Risorgimento italiano propongono il linguaggio e lo stile della prosa, con versi parisillabi e cadenze facilmente orecchiabili, non senza enfasi retorica e reminiscenze classiche (basti pensare all’"elmo di Scipio" del Canto nazionale di Goffredo Mameli), badando comunque sempre agli effetti sul destinatario popolare, sul cittadino che deve essere educato alle virtù, alla libertà della patria, all’interesse della cosa pubblica.
In altro contesto, animato non tanto da una tematica politico-patriottica immediata, quanto dall’epica celebrazione di vicende passate o dall’amoroso recupero delle tradizioni, Aleksandr Sergeevic Puškin si erge a "profeta" dei "cuori degli uomini", dando impulso a una cultura nazionale e popolare, i cui effetti sono visibili in Turgenev e Gogol’, in Gončarov e Tolstoj.
In Francia intanto l’oratoria popolare diviene voce di protesta con Victor Hugo, la più vistosa esemplificazione del poeta-vate impegnato nel dibattito politico-sociale: in sede parlamentare interviene contro la pena di morte e per il miglioramento delle condizioni del popolo; finito in esilio dopo il trionfo di Napoleone III, scrive contro l’"usurpatore" gli aspri componimenti dei Castighi e infine, ritornato a Parigi, celebra la grandiosità dell’esperienza della Comune e si batte per l’amnistia ai comunardi. Ma il cantore della "folla" non cerca "popolarità" solo con l’attività politica e con la lirica. Abile nell’identificare le attese del pubblico e arguto manipolatore delle tecniche retoriche, Hugo sperimenta il romanzo e sin dal titolo – con I miserabili e poi con I lavoratori del mare – si rivolge agli umili, affidando loro una serie di personaggi emblematici: il generoso ex forzato Jean Valjean, il santo vescovo Myriel, la sedotta e abbandonata Fantine con la figlia Cosette, lo spietato commissario Javert, il monello Gavroche, il patriota Marius. Grande affresco della società francese del primo Ottocento, feuilleton e insieme opera umanitaria, I miserabili ottiene un successo straordinario.
La vicenda letteraria di Hugo è paradigmatica dell’adattamento di un artista al suo pubblico: da un lato autore collettivo di poesia agonale nei toni melodrammatici di Verdi, dall’altro scrittore di intrattenimento che, accanto a elementi seri e impegnati di analisi sociale, offre materiali "patetici", tra avventura e mistero. Stringendo una fattiva collaborazione col mercato in divenire, il poeta romantico soggiace da ultimo alla legge della produzione e del consumo, accettandone le regole: se il contesto popolare diversifica i suoi interessi (dal politico al sociale e al sentimentale), il prodotto letterario deve acquisire competenze specifiche per servire i molteplici gruppi. Questa è la cultura di quei "secoli democratici" che, secondo il lungimirante Alexis de Tocqueville, prediligono la "scintillante" varietà delle emozioni in modo da dimenticare una quotidianità alienata dalla divisione del lavoro. E se, a partire dalla rivoluzione industriale, il popolo chiede un compenso onirico giornaliero al letterato, questi elargisce con benigna concessione una grande "massa" di testi straordinariamente omogenei nella struttura elementare e ripetitiva e nell’ideologia conservatrice.
Il romanzo per il popolo
Victor Hugo non è il primo a sperimentare l’efficacia dei moduli narrativi del feuilleton: personaggi ordinati secondo opposizioni semantiche assai nitide; vicende di persecuzione e seduzione che, attraverso agnizioni, rivelazioni, smascheramenti e travestimenti, determinano il trionfo finale della giustizia; tecnica della suspence, con apposite forme di controllo del tempo e artifici ritardanti come il cliffhanger (momentanea interruzione di una sequenza aneddotica).
Alexandre Dumas, padre
La fretta di D’Artagnan
I tre moschettieri
A ogni istante Athos invitava d’Artagnan, che era sempre in testa alla comitiva, a riprendere il suo posto che, un attimo dopo, egli abbandonava di nuovo. D’Artagnan non aveva che un pensiero: andare avanti, e andava.
Attraversarono in silenzio il villaggio di Festubert, dove era rimasto il domestico ferito, poi costeggiarono il bosco di Richebourg; arrivati a Herliers, Planchet, che guidava sempre la colonna, voltò a sinistra.
Molte volte, lord Winter, Porthos o Aramis avevano tentato di rivolgere la parola all’uomo dal mantello rosso, ma a ogni domanda che gli era stata rivolta, egli si era inchiodato senza rispondere. I viaggiatori avevano allora capito che c’era qualche motivo che imponeva allo sconosciuto di serbare il silenzio, e avevano smesso di rivolgergli la parola.
D’altra parte l’uragano si avvicinava, i lampi si succedevano rapidamente, il tuono cominciava a rumoreggiare e il vento, precursore della tempesta, soffiava sulla pianura, agitando le piume dei cavalieri.
La cavalcata allungò il trotto.
Un po’ dopo Fromelles, l’uragano scoppiò; furono srotolati i mantelli; rimanevano ancora tre leghe da fare, e furono fatte sotto torrenti di pioggia.
D’Artagnan s’era tolto il feltro e non aveva indossato il mantello; egli provava piacere a lasciare scorrere l’acqua sulla sua fronte bruciante e sul suo corpo agitato da brividi di febbre.
Non appena i viaggiatori ebbero passato Goskal e quando stavano per arrivare alla posta, un uomo riparato sotto un albero si staccò dal tronco col quale era rimasto confuso nell’oscurità, e si avanzò sino in mezzo alla strada, mettendosi un dito sulle labbra.
Athos riconobbe Grimaud.
"Che c’è?" domandò d’Artagnan. "Ha forse lasciato Armentières?"
"Grimaud fece, con la testa, un segno affermativo. D’Artagnan digrignò i denti.
"Silenzio, d’Artagnan!" impose Athos "io mi sono incaricato di tutto; spetta dunque a me interrogare Grimaud".
"Dov’è?" chiese poi al servo.
Grimaud stese la mano in direzione della Lys.
"Lontano da qui?" domandò Athos.
Grimaud fece vedere al padrone il suo indice ripiegato.
"Sola?" domandò Athos.
Grimaud accennò di sì.
"Signori", disse Athos "ella è sola a mezza lega da qui, in direzione del fiume".
"Bene", disse d’Artagnan "guidaci, Grimaud".
Grimaud prese attraverso i campi e fece da guida alla cavalcata.
Dopo circa cinquecento passi trovarono un ruscello che fu passato a guado.
Alla luce di un lampo scorsero il villaggio di Erquinhem.
"È là?" domandò d’Artagnan.
Grimaud scosse il capo in atto di diniego.
"Silenzio, dunque" disse Athos.
E il drappello continuò il cammino.
Un altro lampo illuminò il cielo; Grimaud stese il braccio, e, al bagliore turchiniccio del serpente di fuoco, si scorse una casetta isolata, sulla riva del fiume, a cento passi dalla chiatta del traghettatore.
Una finestra era illuminata.
"Ci siamo" disse Athos.
In quel mentre un uomo coricato in fondo a un fosso si alzò; era Mousqueton che, indicando col dito la finestra illuminata, disse:
"È là".
"E Bazin?" domandò Athos.
"Mentre io stavo di guardia alla finestra, egli stava di guardia alla porta".
"Bene", disse Athos "siete tutti dei fedeli servitori".
Athos saltò a terra, dette le briglie del suo cavallo a Grimaud e si avanzò verso la finestra, dopo aver fatto cenno agli altri di girare dal lato della porta.
La casetta era circondata da una siepe viva, alta due o tre piedi. Athos saltò la siepe e si spinse fin sotto la finestra che non aveva persiane, ma le cui mezze tendine erano accuratamente tirate.
Allora salì sul davanzale di pietra affinché il suo occhio potesse sorpassare l’altezza delle tende.
Alla luce di una lampada vide una donna, avviluppata in un mantello di colore cupo, seduta su uno sgabello, accanto a un fuoco morente; i suoi gomiti posavano su un brutto tavolo, ed essa appoggiava la testa alle mani bianche come l’avorio.
Non si poteva distinguere il suo viso, ma un sorriso sinistro sfiorò le labbra di Athos: non c’era possibilità di ingannarsi: era colei che cercava.
In quel momento un cavallo nitrì: Milady levò il capo, vide, incollato ai vetri, il pallido viso di Athos e gettò un grido.
Athos capì d’essere stato riconosciuto, spinse l’impannata col ginocchio e con la mano, la finestra cedette, i vetri si spezzarono, e Athos, simile allo spettro della vendetta, saltò nella camera.
Milady corse alla porta e l’aprì: più pallido e più minaccioso di Athos, d’Artagnan era sulla soglia.
Milady indietreggiò gettando un grido. D’Artagnan, temendo che ella avesse qualche via di scampo e che potesse fuggire, levò una pistola dalla cintura, ma Athos alzò una mano.
"Rimetti a posto quell’arma, d’Artagnan", disse "non si può dire che questa donna sia stata assassinata. Aspetta ancora un attimo, d’Artagnan, e sarai soddisfatto. Entrate, signori".
D’Artagnan obbedì, perché Athos aveva il gesto e la voce solenne di un giudice inviato da Dio. Così, dietro d’Artagnan, entrarono Porthos, Aramis, lord Winter e l’uomo dal mantello rosso.
I quattro servitori rimasero a guardia della porta e della finestra.
Milady era ricaduta sulla sedia, con le mani tese come per scongiurare quella terribile apparizione; scorgendo il cognato, gettò un grido terribile.
"Che cosa cercate?" esclamò Milady.
"Cerchiamo" rispose Athos "Anna di Breuil che si chiamò dapprima contessa de La Fère, poi lady di Winter, baronessa di Scheffield".
"Sono io" mormorò la donna al colmo del terrore: "che volete da me?"
"Vogliamo giudicarvi in base ai vostri delitti" disse Athos; "voi sarete libera di difendervi; giustificatevi, se lo potete. D’Artagnan, a voi l’accusarla per primo".
D’Artagnan si fece avanti.
"Davanti a Dio e davanti agli uomini" disse "accuso questa donna di avere avvelenato Costanza Bonacieux, morta ieri sera".
Si volse verso Porthos e Aramis, ed essi a una voce esclamarono: "Lo confermiamo".
D’Artagnan continuò:
"Davanti a Dio e davanti agli uomini, accuso questa donna di avere cercato d’avvelenarmi con vino mandatomi da Villeroy con una falsa lettera, come se il vino mi fosse stato spedito da amici; il Signore mi salvò, ma un uomo morì in vece mia, un uomo che si chiamava Brisemont".
"Lo confermiamo" dissero all’unisono Porthos e Aramis.
E d’Artagnan andò dall’altro lato della camera insieme con Porthos ed Aramis.
"A voi, milord" disse Athos.
Il barone si avvicinò a sua volta.
"Davanti a Dio e davanti agli uomini" disse "accuso questa donna di aver fatto assassinare il duca di Buckingham".
"Il duca di Buckingham assassinato!" esclamarono tutti i presenti con un grido.
"Sì, assassinato" ripeté il barone. "Dopo aver ricevuto la lettera di avviso che mi avevate scritta, feci arrestare questa donna; avevo incaricato di vigilare su di lei un leale servitore; ella ha corrotto quest’uomo, gli ha messo in mano il pugnale, gli ha fatto uccidere il duca, e forse in questo momento Felton sconta con la sua testa il delitto di questa furia".
Un fremito invase i giudici alla rivelazione di questi delitti ancora ignoti.
"Ma non è tutto" ripigliò lord Winter; "mio fratello, che vi aveva nominata sua erede universale, è morto in tre ore, di una strana malattia che lascia su tutto il corpo delle macchie livide. Sorella mia, com’è morto vostro marito?"
"È orribile!" esclamarono Porthos e Aramis.
"Assassina di Buckingham, assassina di Felton, assassina di mio fratello, io chiedo giustizia contro di voi, e dichiaro che, se giustizia non sarà fatta, la farò da me".
E lord Winter prese posto vicino a d’Artagnan, cedendo il posto a un altro accusatore.
Milady lasciò cadere la fronte tra le mani e cercò di riordinare le idee confuse da una vertigine mortale.
"È la mia volta", disse Athos, tremando anch’egli come trema un leone alla vista di un serpente, "è la mia volta. Sposai questa donna quand’era giovinetta, la sposai contro la volontà di tutta la mia famiglia; le detti le mie ricchezze, le detti il mio nome; ma un giorno mi accorsi che questa donna era infamata, marcata con un giglio sulla spalla sinistra".
"Oh!" disse Milady alzandosi "sfido chiunque a ritrovare colui che ha eseguito questa sentenza".
"Silenzio" disse una voce. "A questo spetta a me rispondere".
E l’uomo dal mantello rosso si avanzò a sua volta.
"Chi è quell’uomo? Chi è quell’uomo?" urlò Milady soffocata dal terrore; e i suoi capelli si sciolsero guizzando come se fossero vivi.
Gli occhi dei presenti si volsero verso quell’uomo, perché egli era sconosciuto a tutti, tranne che ad Athos.
Ma lo stesso Athos lo guardava con una stupefazione non diversa da quella degli altri; infatti neppure lui era in grado di immaginare come egli potesse essere immischiato nell’orribile dramma che stava svolgendosi.
Dopo essersi avvicinato a Milady con passo lento e solenne, di modo che il tavolo solo lo separava da lei, lo sconosciuto si tolse la maschera.
Milady osservò per un attimo e con crescente terrore quel viso pallido, inquadrato dai capelli e dai favoriti neri, la cui sola espressione era una glaciale impassibilità, poi, improvvisamente:
"Oh, no!" disse alzandosi e arretrando sino alla parete "no, no, è impossibile. Questa è un’apparizione infernale! Non può essere lui! Aiuto, aiuto! esclamò con voce rauca volgendosi contro il muro, come se sperasse di aprirvi un passaggio con le mani.
"Ma chi siete dunque?" domandarono tutti i testimoni di questa scena.
"Domandatelo a questa donna" rispose l’uomo dal mantello rosso "perché vedete bene che lei mi ha riconosciuto".
"Il carnefice di Lilla! Il carnefice di Lilla!" esclamò Milady in preda a un terrore insensato, aggrappandosi alla parete con le mani, per non cadere.
Tutti si fecero da parte e l’uomo dal mantello rosso rimase solo ritto in mezzo alla stanza.
"Oh, grazia! grazia! perdono!" supplicò la miserabile cadendo ginocchioni.
Lo sconosciuto aspettò che il silenziò fosse ristabilito e rispose:
"Ve lo dicevo che mi aveva riconosciuto! Sì, sono il boia di Lilla ed ecco la mia storia!".
Tutti gli occhi erano fissi su quell’uomo, di cui i presenti attendevano le parole con ansiosa avidità.
"Questa giovane donna fu in altri tempi una giovinetta bella quanto è bella ancor oggi. Era religiosa nel convento delle benedettine di Templemar. Un giovane prete dal cuore semplice, credente, era curato nella chiesa di quel convento; ella cercò di sedurlo e vi riuscì; avrebbe sedotto un santo.
"I voti di entrambi erano sacri, irrevocabili; la loro relazione non poteva durare a lungo senza perderli tutti e due. Essa ottenne da lui che abbandonasse il paese; ma per lasciare il paese, per fuggire insieme, per rifugiarsi in un’altra parte della Francia ove fosse loro possibile vivere tranquilli grazie al fatto di esservi sconosciuti, ci voleva del denaro; né l’uno né l’altra ne avevano.
"Il prete rubò gli arredi sacri e li vendette; ma, allorché stavano per fuggire insieme, furono arrestati.
"Otto giorni dopo, ella aveva sedotto il figlio del carceriere ed era fuggita. Il giovane prete fu condannato a dieci anni di ferri e al marchio infame. Io ero il carnefice di Lilla, come vi ha detto questa donna. Fui costretto a marchiare il colpevole, e il colpevole, signori, era mio fratello!
"Giurai quel giorno che colei che lo aveva perduto, che era più che la sua complice, avrebbe condiviso il suo castigo. Intuii dove poteva essersi nascosta, la inseguii, la raggiunsi, la legai e le impressi lo stesso marchio che avevo impresso nelle carni di mio fratello.
"Il giorno dopo, allorché tornai a Lilla, mio fratello riuscì anch’egli a fuggire; fui accusato di complicità e condannato a restare in carcere finché egli non si fosse costituito prigioniero.
"Il mio povero fratello ignorava questa condanna; aveva raggiunto questa donna e insieme erano riparati nel Berry dove egli aveva ottenuto una piccola parrocchia, e dove costei era creduta sua sorella.
"Il signore della terra su cui sorgeva la chiesa del curato, vide questa pretesa sorella e se ne innamorò, se ne innamorò al punto che le propose di sposarla. Allora ella abbandonò colui che aveva rovinato e divenne la contessa de La Fère".
Tutti guardarono Athos del quale questo era il vero nome, ed egli accennò col capo che quanto aveva detto il carnefice era vero.
"Allora", riprese quest’ultimo "il mio povero fratello, quasi impazzito, risoluto a finire una esistenza alla quale essa aveva tolto tutto, onore e felicità, tornò a Lilla e, venuto a conoscenza della sentenza che mi aveva condannato in sua vece, si costituì prigioniero e la sera stessa si impiccò al finestrino della sua cella.
"D’altronde debbo rendere giustizia a coloro che mi avevano condannato: essi mantennero la parola. Non appena identificato il cadavere, mi misero in libertà".
"Ecco il delitto del quale accuso questa donna, ecco la ragione per cui la marchiai".
"Signor d’Artagnan", disse Athos "qual è la pena che chiedete contro questa donna?"
"La pena di morte" rispose d’Artagnan.
"Milord di Winter", continuò Athos "qual è la pena che chiedete contro questa donna?"
"La pena di morte" rispose lord Winter.
"Signori Porthos e Aramis", riprese Athos "voi che siete i suoi giudici, qual è la pena a cui condannate questa donna?"
"La pena di morte" risposero con voce sorda i due moschettieri.
Milady gettò un grido spaventoso e fece qualche passo verso i giudici trascinandosi sulle ginocchia.
Athos tese una mano verso di lei.
"Anna di Breuil, contessa di La Fère, lady di Winter", disse "i vostri delitti hanno stancato gli uomini sulla terra e Dio in cielo. Se sapete qualche preghiera, ditela, perché la vostra sentenza è stata pronunciata e fra poco morrete".
A queste parole, che non le lasciavano alcuna speranza, Milady si levò in tutta la sua altezza e volle dire qualche cosa, ma le forze la abbandonarono: sentì che una mano forte e implacabile la afferrava per i capelli e la trascinava irrevocabilmente, come la fatalità trascina l’uomo; essa non tentò dunque neppure di resistere e uscì dalla casetta.
Lord Winter, d’Artagnan, Athos, Porthos e Aramis uscirono dietro di lei. I domestici seguirono i loro padroni e la camera restò vuota e silenziosa con la sua finestra fracassata, la sua porta aperta e la sua lampada fumosa che ardeva tristemente sulla tavola.
Alexandre Dumas, I tre moschettieri, trad. it. di A. Beltramelli, Milano, Mondadori, 1987
Sempre in Francia, a partire dagli anni Trenta, la pubblicazione di romanzi a puntate in fondo alle pagine dei giornali diviene un vero e proprio affare sia per gli editori sia per gli autori: Balzac, George Sand, Alexandre Dumas ed Eugène Sue scrivono "in appendice", contribuendo non poco alla diffusione della stampa periodica. E la domanda diviene talmente incalzante che, per soddisfare le richieste degli impresari, Balzac non esita ad appaltare la stesura o la preparazione di alcune parti ad altri meno noti professionisti. Clamoroso resta il caso di Dumas che impiega fino a 73 collaboratori, giungendo a pubblicare a suo nome assai più di quanto gli fosse materialmente possibile scrivere. A questa data, l’opera letteraria è davvero diventata una merce.
Ben presto, il canale comunicativo condiziona la struttura della narrazione perché a ogni puntata bisogna rinnovare la suspence del lettore, con episodi sempre nuovi e inattesi che facilitino l’identificazione con emozioni forti ma non perturbanti. Anche dopo la metà del secolo prevale la figura dell’eroe che agisce a favore degli oppressi (Rodolfo di Gerolstein di Sue, Jean Valjean di Hugo) e punisce le ingiustizie (il conte di Montecristo e i tre moschettieri – eroi "storici" alla Scott – di Dumas); più tardi, ad esempio con Xavier de Montépin e Carolina Invernizio, campeggiano personaggi patetici conformi al gusto delle piccola borghesia conservatrice; e infine si impone la lotta tra l’eroe del male (il grande delinquente) e il garante del bene (il grande investigatore) che tutela gli spazi dilatati della metropoli: Rocambole di Pierre-Alexis Ponson du Terrail e, nel nuovo secolo, Fantomas di Souvestre e Allain, e Arsenio Lupin di Maurice Leblanc. Con il feuilleton, ma anche con il melodramma e il vaudeville, la letteratura esce dai confini dell’"artigianato" per estendersi alla dimensione "industriale" della riproducibilità tecnica di tipi e situazioni. Siamo già all’origine del processo che porta alla “perdita dell’aura” come afferma Walter Benjamin, mettendo in discussione la possibilità stessa di sopravvivenza dell’arte, così come era stata intesa per secoli.
Eugène Sue
La Parigi nascosta
I misteri di Parigi
Il 13 dicembre del 1838, in una serata piovosa e fredda, un uomo di statura atletica, con addosso un logoro camiciotto, attraversò il ponte e s’addentrò nella Cité, labirinto di vie oscure, strette, tortuose che va dal palazzo di Giustizia fino a Notre-Dame.
Il quartiere del palazzo di Giustizia, assai circoscritto, alquanto sorvegliato, serve nondimeno d’asilo e di luogo d’appuntamento per i malfattori di Parigi. Non è strano, o meglio fatale, che un’irresistibile attrazione faccia sempre gravitare questi criminali attorno al temibile tribunale che li condanna alla prigione, ai lavori forzati, al patibolo?
Quella notte, dunque, il vento s’infilava con violenza nelle orrende viuzze del lugubre quartiere: la luce pallida, vacillante, dei lampioni investiti dalla tramontana si rifletteva sul rigagnolo d’acqua nerastra che scorreva in mezzo ai selciati fangosi.
Le case color fango avevano rade finestre con le intelaiature tarlate e quasi senza vetri. Androni neri, infetti, conducevano a scale ancora più nere, più infette, e così perpendicolari che chi avesse voluto salirvi avrebbe dovuto aiutarsi con una corda fissata con ganci di ferro ai muri alti e umidi.
Il pianterreno di alcune case era occupato da banchetti di carbonai, di trippai, o di rivenditori di carni di bassa macellazione.
Nonostante lo scarso valore di questi generi di consumo, la vetrina di quasi tutte le miserabili botteghe era protetta da un’inferriata, talmente i venditori temevano l’audacia dei ladri del quartiere.
Il nostro uomo, entrando nella rue aux Fèves, situata al centro della Cité, rallentò di molto l’andatura: si sentiva a casa sua.
La notte era profonda, l’acqua cadeva a torrenti, forti raffiche di vento e di pioggia frustavano le muraglie.
Lontano, l’orologio del palazzo di Giustizia, rintoccavano le dieci.
Alcune donne imboscate sotto portici a volta, oscuri, profondi come caverne, cantavano a mezza voce qualche arietta popolare.
Una di queste creature doveva senza dubbio essere conosciuta dal nostro uomo; perché, fermandosi bruscamente davanti a lei, l’afferrò per un braccio.
"Buonasera, Chourineur".
Quest’uomo, un pregiudicato, era stato soprannominato così in colonia penale.
"Sei tu, Goualeuse", disse l’uomo in camiciotto "adesso mi paghi dell’eau d’aff, o ti faccio ballare senza musica!"
"Non ho soldi" rispose la donna tremando, poiché quell’uomo incuteva un grande terrore nel quartiere.
"Se sei all’asciutto, la padrona della bettola ti farà credito per i tuoi begli occhi".
"Dio mio! le devo già il nolo dei vestiti che porto..."
"Ah! osi fare obiezioni?" esclamò lo Chourineur. E diede nell’ombra e a caso un pugno così violento alla disgraziata, ch’ella mandò un acuto grido di dolore.
"Questo non è ancora niente, ragazza! è un piccolo avvertimento..."
Subito dopo aver pronunciato queste parole, il brigante sbottò in una spaventosa bestemmia:
"Ho un braccio bucato: mi hai graffiato con le forbici".
E, furioso, si lanciò all’inseguimento della Goualeuse nel nero androne.
"Non avvicinarti, o ti cavo i fanali con le forbici" disse con tono deciso. "Non t’avevo fatto niente, perché mi hai picchiata?"
"Te lo dico subito" esclamò il bandito, senza cessare di avanzare nell’oscurità.
"Ah! t’ho presa! e adesso ti faccio ballare io!" aggiunse afferrando con le sue larghe e forti mani il polso sottile e fragile di lei.
"Ballerai tu invece" disse una voce maschia.
"Un uomo! Sei tu, Bras-Rouge? rispondi dunque e non stringere così forte... sono nell’androne di casa tua, non puoi essere che tu..."
"Non è Bras-Rouge" rispose la voce.
"Bene, poiché non si tratta di un amico, spanderemo del rosso" esclamò lo Chourineur. "Ma di chi è allora la zampetta che ho qui tra le mani?"
"È sorella di quest’altra".
Sotto la pelle delicata e morbida della mano che venne ad afferrarlo bruscamente alla gola, lo Chourineur sentì tendersi nervi e muscoli d’acciaio.
La Goualeuse, rifugiatasi in fondo all’androne, aveva fatto lestamente alcuni gradini: si fermò un momento e si rivolse all’ignoto difensore esclamando:
"Oh! grazie, signore, d’aver preso le mie parti. Lo Chourineur m’ha picchiata perché non volevo pagargli da bere. Io ho reagito, ma non ho potuto fargli molto male con le mie piccole forbici. Ora sono fuori pericolo, lasciatelo: state attento, ché avete a che fare con lo Chourineur".
Il terrore che incuteva quell’uomo era grandissimo".
"Ma voi non mi ascoltate, allora? Vi dico che è lo Chourineur!" ripeté la Goualeuse.
"Ed io sono un tipo che non ha fifa" rispose lo sconosciuto.
Poi tutto si tacque.
Si sentì per qualche secondo il rumore di una lotta accanita.
"Ma allora vuoi che ti accoppi?" esclamò il bandito facendo uno sforzo violento per liberarsi del suo avversario che trovava di una forza straordinaria. "Bene, bene, pagherai per la Goualeuse e per te" aggiunse arrotando i denti.
"Pagare a pugni contanti, sì" rispose lo sconosciuto.
"Se non mi molli il collo, ti mangio il naso" mormorò lo Chourineur con voce strozzata.
"Ho il naso troppo piccolo, amico, e tu non ci vedi molto bene!"
"Allora vieni sotto il lampione".
"Vieni", rispose lo sconosciuto "ci guarderemo nel bianco degli occhi".
E buttandosi contro lo Chourineur, che teneva sempre per il collo, lo fece indietreggiare fino alla porta dell’androne e lo spinse violentemente sulla strada illuminata a mala pena dalla fioca luce del lampione.
Il bandito incespicò, ma, riprendendosi subito, si gettò infuriato contro lo sconosciuto la cui corporatura agile e slanciata sembrava nascondere la forza straordinaria di cui dava prova.
Lo Chourineur, benché di costituzione atletica e di grandissima abilità in un tipo di pugilato chiamato volgarmente la savate, trovò, come si dice, il suo maestro.
Lo sconosciuto gli agganciò la gamba (con una specie di sgambetto) mostrando meravigliosa abilità, e lo fece cadere due volte.
Non volendo riconoscere la superiorità dell’avversario, lo Chourineur ritornò alla carica con ruggiti di rabbia.
Allora il difensore della Goualeuse, cambiando bruscamente tecnica, fece piovere sulla testa del bandito una gragnuola di colpi così efficaci che sembravano assestati con un guanto di ferro.
Questi colpi, degni dell’invidia e dell’ammirazione di Jack Turner, uno dei più famosi pugili di Londra, non erano d’altronde contemplati nei regolamenti della savate, cosicché lo Chourineur ne fu doppiamente stordito; per la terza volta il brigante cadde come un bue sul selciato mormorando:
"Mi hai tolto tutta la polvere di dosso".
"Non finitelo, se si arrende, abbiate pietà di lui!" disse la Goualeuse, che durante la rissa s’era arrischiata sulla soglia dell’androne della casa di Bras-Rouge. Poi, presa da stupore, aggiunse: "Ma chi siete voi? A parte il Maître, non c’è nessuno, dalla rue Saint-Eloi fino a Notre-Dame, che sia in grado di battere lo Chourineur. Vi ringrazio molto, signore; ahimè, senza di voi egli mi avrebbe ucciso".
Lo sconosciuto, invece di rispondere alla donna, stava ad ascoltarne attentamente la voce.
Mai timbro più dolce, più fresco, più argentino era giunto alle sue orecchie. Cercò di vedere in volto la Goualeuse; non poté riuscirvi, la notte era troppo buia, la luce del lampione era troppo debole.
Dopo essere stato qualche minuto immobile, lo Chourineur mosse le gambe, le braccia, e infine si pose a sedere.
"State attento!" gridò la Goualeuse, rifugiandosi di nuovo nell’androne e tirando il suo protettore per un braccio, "state attento, forse vuole vendicarsi!"
"Stai tranquilla, ragazza! Se ne vuole ancora, ho di che accontentarlo".
Il brigante udì quelle parole.
"Ho la zucca che è a pezzi" disse allo sconosciuto. "Per oggi ne ho abbastanza, non ho più voglia; un’altra volta forse, se ti ritrovo".
"Non sei contento? ti lamenti?" esclamò lo sconosciuto con tono minaccioso. "Mi sono comportato da vigliacco?"
"No, no, non mi lamento, sei un giovanotto che ha del fegato" rispose il brigante con tono burbero, ma con quella sorta di stima piena di rispetto che la forza fisica ispira sempre alla gente di quella specie. "Mi hai vinto: e nessuno, eccetto il Maître, che si mangerebbe tre Alcidi per colazione, nessuno fino a questo momento può vantarsi d’avermi messo i piedi sul collo".
"Bene; e poi?"
"Poi?... ho trovato il mio maestro, ecco tutto. Tu troverai il tuo un giorno o l’altro, prima o poi... tutti trovano il loro... In mancanza di uomini c’è sempre Dio, come dicono i preti. Una cosa è sicura: ora che hai messo sotto i piedi lo Chourineur, puoi fare tutto quello che vuoi nella Cité. Tutte le sgualdrine saranno tue schiave: osti e ostesse non oseranno rifiutare di farti credito. Ma insomma chi sei?... parli il nostro gergo come non ho mai sentito! Se sei ladro, non sono l’uomo che fa per te. Io ho dato coltellate, è vero; perché, quando il sangue mi monta alla testa, vedo rosso, e devo colpire... ma ho pagato il fio delle mie coltellate con quindici anni di galera. Ho scontato la pena, non devo niente ai giudici, e non ho mai rubato; domandalo alla Goualeuse".
"È vero, non è un ladro" disse questa.
"Allora andiamo a bere un bicchiere d’acquavite, così mi conoscerai", disse lo sconosciuto "andiamo, da buoni amici".
"È gentile da parte tua. Sei il mio maestro, lo riconosco, sai adoperare molto bene le mani... C’è stata soprattutto la gragnuola di colpi alla fine... Capperi! come mi grandinavano sulla testa! non ho mai visto niente di simile... che fuoco di fila! picchiavi come un martello. È un gioco nuovo... bisognerà che me lo insegni".
"Ricomincerò quando vorrai".
"Eh! non con me, almeno; eh! non con me. Ho ancora il capogiro. Ma allora tu conosci Bras-Rouge, dal momento che ti trovavi nell’androne di casa sua?"
"Bras-Rouge!" disse lo sconosciuto sorpreso dalla domanda; "non so che cosa tu voglia dire. Senza dubbio, Bras-Rouge non è il solo ad abitare in questa casa".
"Sì, invece, amico... Bras-Rouge ha i suoi motivi per non volere vicini" rispose lo Chourineur sorridendo con espressione singolare.
"Ebbene, meglio per lui" riprese lo sconosciuto, che sembrava non volere continuare la conversazione su questo argomento. "Non conosco né Bras-Rouge né Bras-Noir. Pioveva, ero entrato un momento nell’androne per mettermi al coperto; volevi picchiare questa povera ragazza, io t’ho battuto, tutto qui".
"Giusto; d’altronde i tuoi affari non mi riguardano; tutti quelli che hanno bisogno di Bras-Rouge non vanno a gridarlo sui tetti. Non parliamone più". Poi, rivolgendosi alla Goualeuse: "Per me, sei una brava ragazza; t’ho dato una scopola e tu m’hai ripagato con un colpo di forbici, era nel gioco; ma è stato gentile da parte tua non avermi aizzato contro questo mastino, quando non ne potevo più. Vieni a bere con noi! paga il signore. A proposito, amico", disse allo sconosciuto "invece d’andare a bere proporrei di cenare al Lapin-Blanc: è una bettola".
"D’accordo, pago la cena. Vuoi venire, Goualeuse?" disse lo sconosciuto.
"Oh! Avevo molta fame", rispose; "ma la vista delle batterie mi dà la nausea, mi toglie l’appetito".
"Su! su! ti verrà mangiando", disse lo Chourineur "e la cucina del Lapin-Blanc è molto buona".
I tre personaggi, allora, in perfetto accordo, si avviarono verso la taverna.
Durante la lotta tra lo Chourineur e lo sconosciuto, un carbonaio di statura colossale, imboscato in un altro androne, aveva osservato con ansietà le fasi del combattimento, senza tuttavia, come abbiamo visto, prestare il più piccolo aiuto a uno o all’altro dei due avversari. Quando lo sconosciuto, lo Chourineur e la Goualeuse si diressero verso la taverna, il carbonaio si mise a seguirli.
Eugène Sue, I misteri di Parigi, trad. it. di M. Militello, Milano, Sugar Editore, 1965
Ma per quale ragione, secondo la testimonianza diretta di un Théophile Gautier critico nei confronti di Sue, “quasi tutta la Francia fu impegnata per più di un anno con le avventure del principe Rodolfo prima di fare il proprio lavoro?” L’ascesa della Trivialliteratur, di cui si potrebbe assumere quale data d’inizio il 1842, allorché appaiono i Misteri di Parigi di Eugène Sue, trova solide ragioni sociali, che vanno oltre l’ipotesi gramsciana della funzione compensatoria per un pubblico popolare cui vengono consentite solo fantasie di vendetta e giustizia. Sembra di capire che il feuilleton sia anzitutto uno strumento di comprensione (anche attraverso il brivido della paura e del mistero) di un mondo che la rivoluzione industriale ha reso sempre più caotico e opprimente: non a caso lo spazio urbano è l’autentico protagonista del romanzo popolare. Ci sono le città dei misteri, dalla Parigi di Sue alla Firenze di Collodi, dalla Napoli di Francesco Mastriani alla Marsiglia di Émile Zola; e ci sono i luoghi metropolitani del dolore in una Londra fatta di quartieri popolari e ospizi di carità, analizzati con intenzioni realistiche da Charles Dickens (il quale pratica le tecniche del feuilleton pubblicando "a dispense" i propri romanzi).
Verso la fine dell’Ottocento, sotto l’influsso del naturalismo francese, la metropoli europea assume tonalità lugubri e malinconiche, mentre aumenta il senso di reclusione fisica e spirituale che toglie qualsiasi speranza di vita migliore agli individui sempre più soli e alienati. Persino nel mondo anglosassone, dove nel 1859 esce il fortunato Self-Help di Samuel Smiles – manuale dell’uomo comune che può ottenere il successo solo in base alla sua capacità e intraprendenza – la città diviene sempre più di frequente ricettacolo di crimini e violenze private, contrastate solo dall’intelligenza di alcuni detective, come Sherlock Holmes, creato da Conan Doyle. Riducendo ed esorcizzando entro ambiti "borghesi" l’avventura e il mistero, il romanzo "poliziesco" è il prodotto della narrativa di massa destinato a svolgere il ruolo maggiore nel Novecento (affiancato dal romanzo "rosa").
Arthur Conan Doyle
Holmes e Watson condividono casa e investigazione
Uno studio in rosso
Ci trovammo il giorno successivo, come d’accordo, e andammo a vedere l’appartamento al n. 221 B di Baker Street. Constava di due comode camere da letto e di un unico ampio salotto che prendeva aria e luce da due finestroni. L’arredamento era allegro. Insomma, le stanze erano tanto attraenti e il prezzo, diviso in due, risultava così conveniente, che l’affare fu concluso senza indugio e noi prendemmo subito possesso della casa.
Quella sera stessa vi trasferii i miei effetti, dall’albergo in Baker Street, e la mattina seguente Sherlock Holmes mi raggiunse con varie casse e valigie. Per un paio di giorni, fummo occupati a disfare i bagagli e a sistemare la nostra roba nel modo migliore. Terminata l’opera, cominciammo, a poco a poco, ad acclimatarci nel nuovo ambiente.
Sembrava proprio che non fosse difficile convivere con Holmes. Aveva abitudini tranquille e regolari. Di rado restava alzato oltre le dieci di sera, e invariabilmente aveva già fatto colazione ed era uscito quando io m’alzavo, la mattina. Qualche volta, passava la giornata al laboratorio chimico; altre volte, se ne stava dalla mattina alla sera in sala anatomica, e, di quando in quando, faceva lunghissime passeggiate, specialmente nei quartieri più miserabili della città.
La sua energia sembrava inesauribile, quando lo coglieva un accesso di attività; ma, di tanto in tanto, succedeva in lui come una reazione. Allora, per giorni e giorni, se ne stava sul divano del salotto, pronunciando a malapena qualche monosillabo e senza contrarre un solo muscolo del viso, dal mattino alla sera. In quelle occasioni avevo notato un’espressione vacua, assente, nei suoi occhi, e avrei sospettato che facesse uso di qualche stupefacente, se la palese temperanza e l’igiene che regolavano la sua vita non m’avessero indotto a respingere una simile ipotesi.
A mano a mano che le settimane passavano, il mio interesse e la mia curiosità riguardo allo scopo dei suoi studi si approfondirono sempre più. Il suo fisico, di per se stesso, era tale da attirare l’attenzione dell’osservatore più superficiale. La statura di Holmes superava il metro e ottanta ed egli era tanto magro che sembrava più alto. Aveva gli occhi acuti e penetranti, salvo in quei periodi di torpore di cui ho fatto cenno; il naso affilato e un po’ adunco conferiva al viso un’espressione vigilante e decisa. Anche il mento, quadrato e pronunciato, denotava in lui una salda volontà. Aveva le mani sempre macchiate d’inchiostro e di sostanze chimiche, eppure possedeva una straordinaria delicatezza di tatto, come avevo osservato vedendolo manipolare i suoi fragili strumenti. [...]
Il suo zelo per certi studi era straordinario, e il suo sapere, entro certi limiti, era talmente vasto e profondo che spesso egli mi sbalordiva con le sue osservazioni. Non era possibile che un uomo lavorasse tanto assiduamente e si procurasse nozioni così precise senza avere in vista una mèta ben definita. Chi legge sporadicamente su questa o quella materia, ben di rado brilla per la profondità delle sue cognizioni. E nessuno si rompe il cervello con minutissimi particolari, a meno che non abbia degli ottimi motivi per farlo.
La sua ignoranza era notevole quanto la sua cultura. In fatto di letteratura contemporanea, di filosofia e di politica, sembrava che Holmes sapesse poco o nulla. Una volta mi accadde di citare Thomas Carlyle. Mi chiese nel modo più ingenuo chi era e che cosa aveva fatto. Ma la mia meraviglia giunse al colmo quando scoprii casualmente che ignorava la teoria di Copernico nonché la composizione del sistema solare. Il fatto che un essere civile, in questo nostro diciannovesimo secolo, non sapesse che la terra gira attorno al sole mi pareva così straordinario che stentavo a capacitarmene. "Sembrate sbalordito", disse Holmes, e sorrise osservando la mia espressione. "Ora che mi avete insegnato queste cose, farò del mio meglio per dimenticarle".
"Per dimenticarle?"
"Vedete", mi spiegò, "secondo me, il cervello d’un uomo, in origine, è come una soffitta vuota: la si deve riempire con mobilio di nostra scelta. L’incauto v’immagazzina tutte le mercanzie che si trova tra i piedi: le nozioni che potrebbero essergli utili finiscono a non trovare più il loro posto o, nella migliore delle ipotesi, si mescolano e si confondono con una quantità d’altre cose, cosicché diviene assai difficile reperirle. Viceversa, lo studioso accorto seleziona accuratamente ciò che immagazzina nella soffitta del suo cervello. Ci mette soltanto gli strumenti, che possono aiutarlo nel lavoro, ma di quelli tiene un vasto assortimento, e si sforza di sistemarli nell’ordine più perfetto. È un errore illudersi che quella stanzetta abbia le pareti elastiche e possa ampliarsi a dismisura. Credete a me, viene sempre il momento in cui, per ogni nuova cognizione, se ne dimentica qualcuna acquisita in passato. Di conseguenza è importantissimo evitare che un assortimento di fatti inutili possa spodestare quelli utili".
"Ma qui si tratta del sistema solare", protestai.
"Che me ne importa?", m’interruppe Holmes con impazienza. "Voi dite che noi giriamo attorno al sole. Se girassimo attorno alla luna non cambierebbe nulla per me o per il mio lavoro". [...]
Si era al 4 di marzo (e io ho i miei buoni motivi per ricordarmene). Mi alzai un po’ prima del solito e trovai Sherlock Holmes che ancora non aveva finito la prima colazione. La padrona di casa si era tanto assuefatta alle mie abitudini da dormiglione, che non mi aveva preparato il posto a tavola. Con l’irragionevole petulanza del genere umano, suonai il campanello e annunciai bruscamente che aspettavo il caffè, poi presi una rivista che era sulla tavola e tentai di ammazzare il tempo leggendo, mentre il mio compagno sbocconcellava in silenzio il pane tostato. Uno degli articoli aveva un segno a matita presso il titolo e, naturalmente, cominciai a scorrerlo. Il titolo, alquanto pretenzioso, era Il libro della vita. Nell’articolo si tentava di dimostrare quanto potesse ricavare un buon osservatore da un esame accurato e sistematico di tutto ciò che gli capitava sott’occhio. Quel testo mi parve un singolare miscuglio di acume e di assurdità. Il ragionamento era conscio e serrato, ma le deduzioni mi parevano campate in aria ed eccessive. L’autore asseriva di poter sondare i più intimi pensieri di un uomo attraverso un’espressione momentanea, una contrazione muscolare o una rapida occhiata. La simulazione, secondo lui, era una cosa impossibile al cospetto di una persona abituata all’osservazione e all’analisi. Le sue conclusioni erano presentate come infallibili al pari dei teoremi di Euclide. I risultati da lui esposti sarebbero apparsi così sconcertanti al profano, che chiunque, prima d’aver afferrato i processi attraverso i quali l’autore vi era giunto, l’avrebbe facilmente considerato uno stregone.
"Da una goccia d’acqua" affermava l’autore "un ragionatore logico potrebbe dedurre la possibile esistenza di un Atlantico o di una cascata del Niagara, senza averli visti e senza aver mai sentito parlare né dell’uno né dell’altro. Così, tutta la vita è una grande catena la cui natura si rivela a chiunque ne osservi un solo anello. Come tutte le arti, la scienza della deduzione e dell’analisi può essere acquisita soltanto attraverso uno studio lungo e paziente, né la vita è abbastanza lunga perché un qualsiasi mortale possa raggiungere il più alto grado di perfezione in questo campo. Prima di occuparsi di quegli aspetti morali e cerebrali della questione che presentano le maggiori difficoltà, lo studioso affronti i problemi più elementari. Incontrando un suo simile, impari a dedurne a prima vista la storia e il mestiere o la professione che esercita. Per quanto possa sembrar puerile, questo esercizio acuisce lo spirito di osservazione e insegna dove si deve guardare e che cosa si deve cercare. Dalle unghie di un uomo, dalle maniche della sua giacca, dalle scarpe, dalle ginocchia dei calzoni, dalle callosità delle dita, dall’espressione, dai polsini della camicia... da ognuna di queste cose si può avere la rivelazione del mestiere di un uomo. Che tutte queste cose messe assieme, poi, possano mancar di illuminare l’indagatore che sa il fatto suo, è virtualmente inconcepibile".
"Che ineffabile guazzabuglio!" esclamai buttando la rivista sulla tavola.
"Non ho mai letto un simile mucchio di sciocchezze, in vita mia". "Che cos’è" domandò Sherlock Holmes.
"Ma questo articolo!" soggiunsi servendomi, per indicarlo, del cucchiaino con cui stavo mangiando un uovo. "Immagino che l’abbiate letto, dato che ci avete fatto un segno a matita. Non nego che sia scritto con intelligenza, ma nello stesso tempo è irritante. Si tratta, evidentemente delle teorie di qualche sfaccendato che si diletta di tutti questi nitidi paradossi standosene in poltrona nel proprio studio. Non possono avere applicazione pratica. Mi piacerebbe vederlo in una carrozza di terza classe della ferrovia sotterranea e pregarlo di indicarmi il mestiere di tutti i suoi compagni di viaggio. Scommetterei mille contro uno, contro di lui".
"Perdereste i vostri quattrini" rispose Holmes con calma. "Quanto all’articolo, l’ho scritto io".
"Voi?"
"Sì. Ho una certa tendenza tanto per l’osservazione quanto per la deduzione. Le teorie che ho espresso in quell’articolo e che a voi sembrano chimeriche, sono estremamente pratiche... tanto che io ci vivo sopra".
"In che modo?" domandai, mio malgrado.
"Ecco, esercito una professione tutta mia particolare. Credo di essere l’unico al mondo. Sono investigatore-consulente... ma non so se possiate capire quel che significa. Qui, a Londra, abbiamo una quantità di investigatori appartenenti alla polizia e un buon numero di investigatori privati. Quando questi bravi signori si trovano disorientati, vengono da me e io riesco a metterli sulla buona pista. Mi espongono tutti gli indizi e io, in generale, con l’aiuto delle mie cognizioni in fatto di storia giudiziaria, riesco a illuminarli. C’è una forte analogia tra i vari misfatti... come un’aria di famiglia... e se avete sulla punta delle dita i particolari di novecentonovantanove misfatti, è ben difficile che non riusciate a chiarire il millesimo". "In altre parole, voi affermate che senza allontanarvi da casa potete sciogliere dei nodi che altri uomini non riescono a sciogliere, benché abbiano visto coi loro occhi ogni particolare?"
"Esattamente. Ho una specie di potere intuito, in quel senso. Di quando in quando, si presenta un caso più complesso degli altri. Allora, devo darmi d’attorno e andare a vedere le cose coi miei occhi. Vedete, possiedo una quantità di nozioni particolari che applico ai problemi e che mi facilitano in modo meraviglioso. Le regole esposte in quell’articolo che vi ha fatto sogghignare, mi sono preziose e io le applico praticamente nel mio lavoro. In me, lo spirito d’osservazione è una seconda natura. Voi siete rimasto stupito quando vi ho detto, al nostro primo incontro, che venivate dall’Afghanistan".
"Senza dubbio, qualcuno ve l’aveva detto".
"Niente di tutto ciò. Io ho capito che venivate dall’Afghanistan. Per lunga abitudine, il lavorio dei miei pensieri è così rapido, che sono arrivato a quella conclusione senza esser conscio dei passaggi intermedi. Però, ci sono stati dei passaggi intermedi. Ecco il filo del mio ragionamento: quest’uomo ha qualcosa del medico, ma anche qualcosa del militare. Evidentemente, un medico militare. È reduce dai tropici, poiché ha il viso molto scuro ma quello non è il suo colorito naturale dato che ha i polsi chiari. Ha subìto privazioni e malattie, come dimostra il suo viso emaciato. Inoltre, è stato ferito al braccio sinistro. Lo tiene in una posizione rigida e poco naturale. In quale paese dei tropici un medico dell’esercito britannico può essere stato costretto a sopportare dure fatiche e privazioni, e aver riportato una ferita a un braccio? Nell’Afghanistan, naturalmente. S’intende che il mio cervello ha impiegato meno di un secondo a formulare questo seguito di pensieri. Allora, vi ho detto che venivate dall’Afghanistan, e voi siete rimasto sbalordito".
"Spiegata così, la cosa sembra abbastanza semplice" dissi sorridendo.
"Mi ricordate il Dupin di Edgar Allan Poe. Non avevo l’idea che simili persone esistessero nella vita reale".
"Senza dubbio, credete di farmi un complimento paragonandomi a Dupin" osservò. "Ora, secondo la mia opinione, Dupin era un mediocre; aveva una certa capacità analitica, ma non era quel famoso fenomeno che Poe sembrava considerarlo".
"Avete letto le opere di Gaboriau?" domandai. "Lecoq è all’altezza della vostra concezione dell’investigatore ideale?"
Sherlock Holmes sbuffò sorridendo ironicamente.
"Lecoq era un miserabile pasticcione" disse con tono stizzito. "Aveva una sola dote al suo attivo: l’energia. La letteratura di Monsieur Lecoq mi ha dato addirittura la nausea. Il problema consisteva nell’identificare un prigioniero sconosciuto. Io avrei potuto risolverlo in ventiquattr’ore. Lecoq ci ha messo sei mesi. Quel romanzo potrebbe servire come libro di testo agli investigatori perché imparino quel che devono evitare".
Mi sentivo alquanto irritato sentendo demolire due personaggi che ammiravo molto. Mi avvicinai alla finestra e rimasi a osservare il movimento della via. Forse, quell’uomo era molto intelligente, pensavo, ma era, senza dubbio, un presuntuoso.
"Al giorno d’oggi, non esistono più né delitti né delinquenti" soggiunse Holmes in tono scoraggiato. "A che serve possedere dell’intelligenza nella nostra professione? So benissimo di avere le doti necessarie per rendere famoso il mio nome. Non c’è, e non c’è mai stato, un uomo al mondo che si sia dedicato alle indagini criminologiche con la mia profondità di cognizioni e con la mia abilità innata. Ma quali sono i risultati? Non ci sono delitti da mettere in luce o, tutt’al più, c’è qualche grossolano reato con un movente così palese, che persino i funzionari di Scotland Yard riescono a scorgerlo a prima vista".
Ero ancora contrariato da quel suo parlare tronfio. Preferii cambiare argomento.
"Chi sa che cosa cerca quell’uomo laggiù?" dissi additando un individuo aitante, modestamente vestito, che camminava lentamente su è giù per il marciapiede di fronte, scrutando i numeri delle porte. Teneva in mano una grossa busta azzurra e aveva tutta l’aria di doverla consegnare a qualcuno.
"Alludete a quell’ex-sergente di marina?" mi domandò Sherlock Holmes.
"Che gradassata!" pensai. "Egli sa benissimo che non posso controllare la sua ipotesi".
Questo pensiero aveva appena attraversato la mia mente, quando l’uomo che osservavamo avvistò il numero della nostra porta e attraversò la strada alla svelta.
Al piano di sotto, il campanello trillò forte. Subito dopo udimmo una voce profonda, poi un rumor di passi sulle scale.
"Per il signor Sherlock Holmes" disse il giovanotto entrando nella stanza di soggiorno e porgendo la busta al mio amico.
Era un’ottima occasione per far calare le arie a Holmes. Egli, certo, non l’aveva prevista quando aveva arrischiato quella sua asserzione a casaccio.
"Se non sono indiscreto" dissi apostrofando con fare disinvolto il nuovo venuto "che mestiere fate?"
"Fattorino, signore" rispose lui bruscamente. "Sono in borghese perché ho la divisa in riparazione".
"E prima, che cosa facevate?" domandai ancora, lanciando un’occhiata maliziosa al mio coabitante.
"Ero sergente, signore, sergente della fanteria di marina. C’è risposta, signor Holmes? No? Benissimo".
Unì i talloni con un colpo secco, abbozzò un saluto militare e uscì.
A. Conan Doyle, Uno studio in rosso, Milano, Rizzoli, 1995
Nata da una società che si autointerroga sulla dilagante criminalità e alimentata dall’operoso artigianato di scrittori popolari quali Ponson du Terrail, non senza avere affascinato Balzac e De Quincey, Hugo e Dickens, Dumas e Dostoevskij, la detective story illustra chiaramente il mutamento del gusto dei lettori popolari: in luogo dei generici proclami patriottici del primo Ottocento, essi esigono precise inchieste circa le responsabilità individuali; infastiditi dalla filantropia, vogliono un sistema di polizia efficiente e, prima di assaporare l’irrinunciabile happy end, pretendono la spiegazione dei "misteri" metropolitani. Meno idealista o ribelle, la folla sembra amare l’ordine e la protezione.
Si tratta in realtà di un giro stretto di collegamenti reciproci e condizionanti tra editori (rappresentanti degli interessi politico-culturali dominanti), scrittori e pubblico, per cui alla fine il lettore "chiede" spontaneamente ciò che l’impresario vuole dargli, e l’autore soddisfa le richieste di entrambi. Divenuto criminologo, il romanziere non tende a instaurare un ordine nuovo (istanza implicita nella vecchia immagine del poeta-patriota), ma restaura quello vigente, gratificando tanto la fiducia nell’ordine pubblico quanto la capacità logico-analitica dei lettori, coinvolti nella caccia agli indizi e al criminale. Con il suo repertorio di azioni complicate, tensione crescente, colpi di scena, sangue, orrori, morte, spesso in un clima da grand-guignol, il romanzo poliziesco risponde a un duplice bisogno del pubblico: da un lato esso vede rappresentati i fattori di maggiore complessità storico-sociale in cui si trova a vivere, dall’altro li vede ridotti all’ordine. E poiché lo scontro insieme realistico e mitico tra bene e male coinvolge individui di diversa provenienza sociale (anche coloro che non ignorano la ben più drammatica lotta di classe), il "giallo" mostra l’omogeneità culturale dell’Europa fin de siècle, l’esito avanzato di quel processo romantico che ha portato il pubblico colto e quello popolare a consumare le stesse canzoni, le stesse opere teatrali, narrative e storiche, sempre più disponibili a basso costo. In questa democratizzazione senza precedenti della cultura consiste allora il mutamento più rilevante della sensibilità ottocentesca.