La libertà religiosa come tema costantiniano e anticostantiniano
Sono ormai trascorsi più di cinquant’anni dalla relazione La fin de l’ère constantinienne presentata da Marie-Dominique Chenu alle Giornate di studio in preparazione al concilio Vaticano II organizzate da Informations catholiques internationales. In tale relazione, il teologo domenicano aveva proposto all’uditorio la fine della «lunga stagione del constantinismo» (Daniele Menozzi), caratterizzata non solo dalla «politicizzazione della teologia e sacralizzazione della politica», ma anche da una stretta alleanza fra trono e altare capace di trasformare – in diverse parti dello scacchiere geopolitico – la religione cristiana in instrumentum regni e, nello stesso tempo, di garantire il legal enforcement della morale cristiana.
La visione di Chenu era chiara e al tempo stesso profetica: le Chiese cristiane (e in particolare la Chiesa cattolica) avrebbero dovuto rinunziare non solo a ogni forma di ‘braccio secolare’ (idoneo a garantire la traslazione dei loro valori di riferimento all’interno dell’ordinamento giuridico e la piena tutela del loro ordine interno anche grazie alla minaccia della sanzione criminale statuale), ma anche a ogni privilegio di carattere giuridico-istituzionale diretto a realizzare un sistema di confessionismo sostanziale (sistema nel quale una confessione religiosa è trattata con particolare sollecitudine e alcuni diritti sono riconosciuti ai soli cittadini che professano la religione dello Stato). Ciò avrebbe consentito loro non solo di realizzare una funzione di sincera e disinteressata evangelizzazione all’interno di una società ormai illuminata dall’alba del processo di secolarizzazione, ma anche di emanciparsi nei confronti del potere politico, dando così loro modo di svolgere – senza timore e con serenità di giudizio – un ruolo critico nei riguardi delle degenerazioni di un’autorità esercitata contra dignitatem hominis.
Riflettendo sulle considerazioni di Chenu, Menozzi – in occasione di un convegno tenutosi a Bologna nel dicembre 1984 – tracciò un quadro delle reazioni che, all’interno dell’area cattolica, si erano pian piano delineate di fronte alla prospettiva della fine del costantinismo in età postconciliare. L’ermeneutica di Menozzi individuò tre precise linee di tendenza: un cattolicesimo conservatore, fortemente critico nei confronti del declino dell’autorità politica cristiana; un cattolicesimo attento al mondo marxista, per il quale l’età costantiniana sarebbe stata superata solo attraverso l’impegno del cristiano nella lotta di classe; e, infine, un cattolicesimo istituzionale, che, partendo dal magistero di Paolo VI, si dimostrava attento a mantenere saldi i legami tra politica e religione (cristiana).
I rischi di quest’ultima posizione – come fu evidenziato da Giuseppe Ruggieri nelle considerazioni introduttive al simposio bolognese – sono sovente individuati nella riduzione della dimensione escatologica e profetica del cristianesimo e nella trasformazione di quest’ultimo da ‘evento’ a ideologia identitaria; tanto che Beniamino Andreatta si espresse manifestando la necessità che il superamento dell’età costantiniana potesse finalmente sfociare in un dialogo tra cristianesimo e altre fedi, capace di distruggere ogni tentazione di autoreferenziale alleanza fra trono e altare e di affrontare, con peculiare attenzione al rispetto della dignità dell’uomo, le questioni relative al governo della terra e alla distribuzione delle ricchezze.
L’auspicio di Andreatta finì per decantare nelle pieghe di un iter storico (religioso, sociale e politico) segnato da alcuni avvenimenti difficilmente prevedibili nell’anno che pure aveva visto Indira Gandhi assassinata dal terrorismo di matrice sikh.
E in effetti il quadro sociale, giuridico e politico che si schiudeva – all’alba del 1985 – di fronte all’osservatore dei rapporti tra potere religioso e potere secolare autorizzava un’interpretazione diretta a prospettare un ridimensionamento del ruolo della Chiesa cattolica in Europa occidentale e un’ulteriore contrazione del compito assolto da tutte le altre fedi all’interno di altri contesti geografici.
Le idee che questo saggio intende proporre sono le seguenti: 1. nel periodo 1984-2012 non è possibile parlare di costantinismo – inteso, come prima si è accennato, nel senso di stretta alleanza fra trono e altare atta a trasformare la religione dominante in instrumentum regni e a garantire il legal enforcement di una certa morale confessionale – né in Europa occidentale né tantomeno in altri contesti geopolitici mai soggetti all’auctoritas di Costantino il Grande; 2. se si vuole trovare qualche elemento residuale di costantinismo, occorre volgere lo sguardo all’Europa orientale, sia pure con diverse sfumature e peculiarità; 3. in molti contesti geopolitici si è assistito a un potente ritorno delle religioni nella sfera pubblica, ma in forme diverse dal costantinismo, che si sono declinate: a) nella proposizione, da parte di una o più tradizioni religiose, di una tavola di valori diretti a fondare il bene comune anche all’interno di Stati democratici e pluralisti. È vero che tale proposizione è a volte stata legata a forme dirette di azione politica da parte delle gerarchie religiose, ma essa non ha cercato tanto la riaffermazione del confessionismo di Stato, quanto piuttosto l’esercizio di una potestà direttiva sui fedeli; b) nel tentativo, talora riuscito, di creare spazi di legittimazione religiosa per l’autorità politica sulla base di un teismo identitario, visto come concreta realizzazione dei valori della nazione; c) nella visione della religione quale strumento controcostantiniano di emancipazione dei poveri e degli oppressi da regimi politici dittatoriali; d) nel tentativo di creare teocrazie fondate sulla legge religiosa come legge fondamentale dello Stato e sulla repressione del dissenso confessionale.
Verificheremo ora la bontà di tali tesi all’interno di spazi geopolitici diversi, secondo un percorso di carattere diacronico1.
In Italia, il protocollo addizionale all’accordo di revisione del Concordato tra Repubblica e Santa Sede del febbraio 1984, stabilendo che le parti contraenti ritengono non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti Lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano, sembra avere sancito la fine del confessionismo e la piena realizzazione di quel ‘pluralismo confessionale aperto’ che la dottrina, muovendo dall’esegesi del primo comma dell’art. 8 della Costituzione, aveva individuato come canone assiologico fondamentale del diritto ecclesiastico italiano2. Si apre così una stagione (quella della ‘transizione’) che pare destinata a sfociare in una piena attuazione dei principi costituzionali di uguale libertà confessionale e di bilateralità nei rapporti tra Stato e confessioni diverse dalla cattolica, in modo da realizzare quella ‘promessa di laicità’ che Arturo Carlo Jemolo aveva intravisto nelle disposizioni della Carta fondamentale.
Del resto, il quadro politico nazionale, indelebilmente segnato da quel ‘filotto laico’ rappresentato dalla promulgazione della legge sul divorzio (e dalla sconfitta dei ‘sì’ nel referendum abrogativo del maggio 1974), dalla riforma del diritto di famiglia e dall’approvazione della legge sull’aborto (anch’essa sopravvissuta a un referendum abrogativo promosso dal Movimento per la vita e respinto dal corpo elettorale del 1981) sembra volgere a una ‘nuova collaborazione’ tra Democrazia cristiana e altre forze dell’arco costituzionale per realizzare, utilizzando espressioni di Bettino Craxi3, una legislazione ecclesiastica fondata non solo su laicità e aconfessionalità, ma anche sulla valorizzazione del ruolo delle religioni come strumento di progresso spirituale per il paese.
Si prospetta, in altre parole, la possibilità di un concreto passaggio dal costantinismo al pluralismo, idoneo non solo a realizzare la piena attuazione del quadro profilato dalla Carta fondamentale a tutela della libertà religiosa individuale e dell’uguale libertà dei culti, ma addirittura a creare una convergenza di tutte le forze politiche verso la concretizzazione di una politica ecclesiastica inclusiva. L’intesa con la Tavola Valdese del 21 febbraio 1984 rappresenta, in quest’ottica, un momento storico: il diritto ecclesiastico italiano cessa di ruotare intorno alla legge n. 1159 del 1929, fortemente condizionata dal giurisdizionalismo fascista ed evidentemente promulgata in un quadro generale di tutela del confessionismo in senso cattolico, e inizia a fondarsi su quel principio di bilateralità ‘diffusa’, individuato dai Padri costituenti come strumento per garantire la piena libertà degli individui e dei gruppi in materia religiosa. Nello stesso tempo, l’esigenza di intendere la legislazione in materia ecclesiastica come legislatio libertatis4 trova conferma in una serie di considerazioni di carattere giuridico della Corte costituzionale. Questa, con sentenza n. 18 del 1982, stabilisce di fatto l’inammissibilità di qualunque forma di costantinismo nell’ordinamento giuridico italiano, sancendo, tra l’altro, la priorità assiologica di alcuni principi costituzionali e della tutela dei diritti inviolabili dell’uomo su ogni pattuizione diretta a creare un regime giuridico di collaborazione (di privilegio, di reciproco sostegno) nei rapporti tra Stato e confessioni religiose5. La Repubblica democratica fondata sul lavoro e sui diritti inviolabili dell’uomo (ex art. 2 della Costituzione) non può più – nell’ermeneutica dei giudici della Consulta – autorizzare deroghe all’uguaglianza senza distinzione di religione attraverso regimi giuridici neocostantiniani capaci di introdurre, per motivi politici, una normativa di favore a beneficio di una o più Chiese6.
In realtà, il quadro politico è più complesso: e la stagione della revisione del Concordato, cui seguirà quella delle intese con le confessioni diverse dalla cattolica, inizia a mostrare segni di cedimento quando parte della scena politica (prevalentemente il Movimento popolare di Roberto Formigoni) principia a vagheggiare un nuovo legame tra fede religiosa e ratio Rei publicae. Non si tratta tanto, però, almeno in quel momento, di nostalgie costantiniane dirette a riconsegnare un ‘pacchetto’ di privilegi alla Chiesa di maggioranza, quanto piuttosto di applicare con maggiore intransigenza i valori cattolici a tutto il governo della vita secolare, in modo che lo Stato possa ben dire di riconoscere nei principi fondamentali del cristianesimo la fonte e l’anima delle sue leggi. Si affaccia così un nuovo ruolo della tradizione cattolica: ruolo ideologico o addirittura assiologico, capace di rimodellare quell’opera di laicizzazione del diritto, che la stagione della revisione concordataria pareva avere aperto, secondo la rivendicazione delle matrici cristiane dell’ordinamento7.
Cresce, dunque, la forza, all’interno della Democrazia cristiana, del Movimento popolare, non certo tenero con Ciriaco De Mita e il suo asserito obiettivo di ‘laicizzare’ il partito di maggioranza relativa8. Anzi, il Movimento popolare – attraverso il settimanale Il Sabato – sembra schierarsi contro la possibilità che il cattolicesimo cerchi un dialogo con le altre forze laiche intorno a un nucleo di valori condivisi, poiché tale dialogo appare «il tentativo di uno svuotamento, tranquillo e pienamente consensuale, della presenza dei cattolici nella società»9.
Dietro l’angolo, il Movimento popolare scorge la possibilità di ridefinire la presenza cattolica in politica entro le coordinate di una nuova ‘sacralizzazione’ fondata sul ruolo dominante dei principi cristiani, branditi come l’unica via per evitare l’evaporazione di una presenza ridotta a «collezione di sigle vuote», anticamera di una vera e propria «silenziosa estinzione» del cattolicesimo10.
D’altra parte, l’ampio fronte concordatario sembra messo in crisi, sul finire degli anni Ottanta, da un dibattito politico solo in parte segnato dal problema relativo alla curricolarità dell’ora di religione cattolica nelle scuole pubbliche11. La sentenza n. 203/1989 della Corte costituzionale, oltre ad avere segnato l’assurgere della laicità al rango di principio supremo della Corte costituzionale, determina uno scontro politico tra Pci e Dc/Psi sulla questione del Concordato, tanto che La Civiltà Cattolica si esprime sul tema ravvisando una vera e propria mutazione genetica del Partito comunista, divenuto – secondo la rivista dei gesuiti – un partito socialdemocratico di tipo occidentale soggetto a una deriva laicista-radicale diretta alla piena legittimazione dell’aborto e al superamento del regime pattizio12 (peraltro già ampiamente contestato, a sinistra, dagli intellettuali di Carta ‘89).
In realtà, sotto più di un punto di vista, la citata sentenza dei giudici della Consulta chiude definitivamente la porta al vecchio costantinismo, aprendo però, sia pur inconsapevolmente, spazi insospettabili per una nuova presenza della religione sulla scena politica.
Stabilendo con grande enfasi la collocazione della laicità al vertice supremo del sistema delle fonti dell’ordinamento italiano – collocazione peraltro discutibile, poiché essa sembra frutto di una costruzione teorica diretta a gerarchizzare le disposizioni costituzionali in modo non rispondente alla volontà del costituente – la Corte costituzionale declina le conseguenze giuridiche di tale principio in maniera piuttosto laconica e disorganica. Da un lato, infatti, afferma la sussistenza dell’obbligo, gravante sui poteri pubblici, di tutelare la libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale; dall’altro, però, di fatto rinunzia a specificare la concreta portata di tale principio e a definirne organicamente contenuto e limiti13.
Principia così un evidente cortocircuito tra giurisprudenza, legislatore e dottrina. I giudici tentano di concretizzare nello specifico il principio di laicità secondo coordinate di riferimento sempre più eterogenee, tanto che nel 2006 il Consiglio di Stato giungerà a legittimare la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche, asserendo la capacità ontologica del simbolo cristiano di rappresentare iconograficamente la laicità dello Stato14. Il parlamento, per i motivi che tra poco vedremo, rinunzierà a dare attuazione normativa al suddetto principio: anzi, nel corso della sua attività legislativa finirà progressivamente per svuotarne il contenuto, stretto tra esigenze di consenso politico e ridefinizione di un’identità spirituale della Repubblica. La dottrina, per sua parte, inizierà un’opera di aggettivazione della laicità (con il passare del tempo, essa diverrà sana, aperta, relativa, cristiana, etc.)15, che naturalmente finirà per indebolirne l’assetto semantico, aprendo anche la strada a una radicalizzazione di teorie ostili alla presenza della dimensione religiosa nella sfera pubblica.
Naturalmente il potente ritorno della religione all’interno della sfera della politica che caratterizza gli anni Ottanta del XX secolo non è un fenomeno solo italiano: esso riguarda aree geopolitiche ben più vaste, e si manifesta con modalità diverse in ciascuna di esse.
In Europa occidentale va ricordato l’avvio – nel Consiglio europeo di Milano del 1985 – del processo che avrebbe portato all’Atto unico europeo: si tratta della prima tappa di quello che allora appare il promettente e fulgido processo di creazione di un ordinamento sovranazionale continentale dotato di piena sovranità e che, nel tempo, costituirà poi un baluardo sempre più forte contro le discriminazioni fondate sulla religione. In effetti, già da alcuni anni la prospettiva di ‘europeizzazione’ della dimensione internazionale di tutela della libertà religiosa – formalmente già esistente in virtù dell’art. 9 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ma sino ad allora assai poco capace di incidere sulle dinamiche degli ordinamenti nazionali anche in virtù di una ‘prudente’ giurisprudenza della Corte di Strasburgo16 – pareva destinata a cancellare ogni forma di sacralizzazione della politica e di alleanza fra trono e altare. L’inclusione del diritto di libertà religiosa tra i diritti riconosciuti e protetti in ambito comunitario – operata dalla Corte di giustizia delle Comunità europee con la sentenza del 27 ottobre 1976 causa 130-75 – non poteva non prefigurare la definizione di un quadro giuridico capace di garantire, anche a livello comunitario, pari dignità a tutte le visioni del mondo e di tutelare pienamente l’uguaglianza senza distinzione di religione, abbandonando ogni tentazione confessionista e definendo invece la laicità come principio cardine della nuova Europa17. In quest’ottica, sia pure con una certa prudenza, è possibile (ri)leggere la politica di dialogo di John Major nei confronti del Sinn Fein; politica che appare quale il tentativo di trovare una soluzione tutto sommato pragmatica e ‘laica’ ai Troubles nordirlandesi, atta a portare – anche prima del Good Friday Agreement – il focus della questione sul diritto di autodeterminazione del popolo irlandese, e di enfatizzare la necessità di giungere a una riconciliazione nazionale nel rispetto (e nel superamento) delle differenze.
Quella stagione portava, però, già dentro di sé l’immagine di un suo profondo ridimensionamento. La figura di Lech Wałęsa che inneggia alla vittoria nei cantieri navali di Gdansk proietta la potente ombra di Giovanni Paolo II, del suo «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!»18. Vent’anni di Ostpolitik condotta secondo le regole del ‘martirio della pazienza’19 sfoceranno in una clamorosa prova di forza del cattolicesimo politico, che si dimostrerà capace di partecipare, con un ruolo non certo secondario al processo di dissoluzione dei regimi comunisti europei, il quale a sua volta aprirà, nell’orizzonte geopolitico dell’Europa orientale, spazi enormi di prestigio e di autorità alla Chiesa ortodossa20.
Il crollo della cortina di ferro condurrà – con modalità diverse e in tempi non sempre coincidenti – Stati come la Polonia, l’Ungheria e la Slovacchia a enfatizzare un riconoscimento delle loro radici cristiane all’interno delle Carte costituzionali e, più in generale, diversi ordinamenti dell’Europa orientale a prevedere un regime giuridico di favore per la Chiesa (o le Chiese) di maggioranza. Si manifesta in tal modo a poco a poco quella forma di presenza pubblica delle religioni, con il ruolo di centri transnazionali d’identità, che in qualche modo appare costituire una linea di tendenza oggi comune, sia pure con diverse peculiarità, a tutto il continente europeo: linea di tendenza che identifica nella religione (o nelle religioni) storicamente radicata nel territorio un serbatoio e un vettore di valori prepolitici e pregiuridici capaci di illuminare il patto costituzionale e di dare alla nazione una sua identità. La visione del cristianesimo come lex terrae, come nomos capace di scaturire dal legame comunitario che vincola il popolo, da un lato rischia di portare a un’evidente deriva della religione in senso nazionalistico, dall’altro rivela l’estrema debolezza delle metanarrazioni laiche su cui si è fondata la rinascita del continente dopo la catastrofe del secondo conflitto mondiale.
Paradigma estremo del cortocircuito identitario scatenato dalle religioni diventa così la guerra nella ex-Iugoslavia: un conflitto nel quale, come nota Enzo Pace21, la dimensione religiosa emerge solo quando viene messo in discussione il ruolo della Serbia nello scacchiere balcanico attraverso il recupero di una memoria storica strettamente avvinta alla (se non addirittura rianimata dalla) appartenenza a una determinata tradizione religiosa. Ma pur entro dimensioni lontane dalla carneficina balcanica, l’emersione della religione come elemento d’identità attraverserà come una lama altri grandi processi istituzionali che interessano l’Europa all’alba dell’ultimo decennio del secolo. In effetti, il crollo del muro di Berlino porta non pochi Länder della Germania riunificata a riscrivere le loro Costituzioni con un richiamo a Dio o alla cristianità (e questo, in paesi a bassa pratica religiosa, induce a riflettere)22; allo stesso modo, il mancato disestablishment delle Chiese di Stato in Inghilterra, Norvegia e Danimarca (oltre al complesso e non del tutto riuscito disestablishment della Chiesa di Svezia23) pare testimoniare la volontà politica di perpetuare un sistema di rapporti che – alla luce dell’evidente calo della pratica religiosa nei paesi nordici – si può spiegare solo con l’enfatizzazione di un pubblico interesse alla riaffermazione di un’identità religiosa nazionale.
Questo processo si svilupperà, potremmo dire ‘per trascinamento’, fino a determinare la querelle tedesca sull’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche: esposizione prevista in Baviera dal paragrafo 13.1.3 del Regolamento scolastico del 1983 (Volksschulordnung), poi dichiarato incostituzionale dal Bundesverfassungsgericht con sentenza del 13 maggio 1995. Ciò che più colpisce del Kruzifixfall tedesco non è peraltro né la decisione del Tribunale costituzionale24, né la legge bavarese successiva a tale sentenza (grazie alla quale il crocifisso torna nelle aule a condizione che la sua presenza non sia contestata, con validi motivi, dagli alunni), quanto piuttosto il diffuso sentimento popolare – espresso anche in manifestazioni pubbliche – a favore del mantenimento del simbolo cristiano nella scuola. Il corpo sociale, reagendo con insospettabile determinazione alla rimozione di un elemento percepito come rappresentazione dotata di significato (non solo confessionale, ma altresì) storico e tradizionale, pare confermare il carattere (anche) identitario del cristianesimo in un’età contraddistinta dal forte calo della pratica religiosa25.
Invero, l’idea di un cristianesimo capace di alimentare con i suoi valori la politica di uno Stato religiosamente neutrale era già ben presente nella riflessione di un protagonista della politica europea di fine secolo, Helmut Kohl. Egli governerà la Germania (e il processo di riunificazione) convinto che la tradizione liberale, la quale comprende in sé i «valori fondamentali di libertà, solidarietà, giustizia e pone a base della sua visione del mondo la dignità dell’uomo e i diritti fondamentali», riposi in ultima analisi sul cristianesimo26, e che lo Stato rappresenti una comunità in cui le generazioni si tramandano i principi cristiani su cui si fonda la pacifica convivenza27.
Questo virtuoso e ininterrotto circuito che sostiene il rapporto tra religione e identità nazionale si alimenta anche del prodotto delle politiche di ius publicum ecclesiasticum della Santa Sede, le quali sono sempre più attente – nel ventennio che porta al termine del XX secolo – a costruire una sana cooperatio con gli ordinamenti secolari secondo le modalità espresse dal n. 76 di Gaudium et spes. Lo sviluppo di tali politiche da un lato comporta un evidente aumento dell’attività diplomatica e della pratica concordataria, dall’altro produce una straordinaria attenzione del magistero al tema dei diritti umani e della loro protezione all’interno dei sistemi giuridici nazionali.
La nuova politica internazionale di Giovanni Paolo II per un verso si traduce nella smentita di quella tendenza che vedeva nei documenti del concilio Vaticano II un segno del tramonto dello strumento concordatario, mentre per l’altro produce una vera e propria nouvelle coopération diretta alla tutela della libertà ecclesiastica e della libertà religiosa dei cattolici in un quadro tendenzialmente laico e pluralistico, in cui non solo si moltiplicano le res considerate mixtae, ma viene altresì enfatizzato il ruolo storico-culturale del cattolicesimo nei processi di costruzione dell’identità nazionale. A questo proposito, Andrea Riccardi parla di «teologia delle nazioni» di Karol Wojtyla: una teologia della storia che vede il cammino dell’uomo alimentato e sostenuto da quel patrimonio di cultura e di religiosità che costituisce l’identità del suo popolo28.
In tale teologia delle nazioni un ruolo di primissimo piano è svolto dalla tutela dei diritti umani, intesi sia nella loro accezione di diritti dell’individuo, e come tali strumenti di affermazione e di rispetto della dignità umana, sia nella loro accezione di diritti delle nazioni, tra cui figurano il diritto all’esistenza, il diritto alla propria lingua e alla propria cultura, il diritto dei popoli alla propria sovranità spirituale e al rispetto delle proprie tradizioni29.
Paradossalmente, questa teologia delle nazioni è sposata anche dalla Francia, in cui la fine del secolo è segnata dalla querelle in merito alla neutralizzazione dello spazio pubblico (prima di tutto) dall’hijab indossato dalle studentesse di religione islamica: e può, in questo caso, ben parlarsi di teologia della laicità, poiché la politica francese tende a una ‘sacralizzazione’ sempre più marcata di tale principio, che finirà, all’inizio del XXI secolo, per costituire una base legale sufficiente a limitare fortemente ogni presenza di simbologie confessionali nella piazza pubblica30.
Fuori dei confini europei, il processo di ritorno della religione nella sfera della politica, pur ponendosi in una prospettiva diversa dalle coordinate del costantinismo (che peraltro, nella sua accezione comunemente utilizzata dalle scienze politologiche, non può che essere limitata al panorama europeo), si sviluppa in primo luogo entro nuove ambizioni teocratiche: ambizioni polarizzate intorno al ruolo della religione come strumento di salvezza, cui deve conformarsi tutto l’agire politico, e come unica misura ragionevole che il legislatore può utilizzare per delimitare la liceità dell’agire umano. In quest’ottica, la politica diventa espressione della vita religiosa e tende alla costruzione di una città terrena fondata sulla parola di Dio e non su un patto tra cittadini che hanno diverse visioni del mondo: e la lotta politica (anche armata) serve a cancellare l’empietà di governi che si fondano su valori profani incompatibili con la legge eterna. La vittoria di Ruhollah Mosavi Khomeini in Iran è, in certo senso, il punto di svolta di un’offensiva, potente e articolata, che alcuni movimenti islamici lanciano per sovvertire l’ordine politico regnante in complessi contesti geopolitici. In Libano si registra la nascita di Hezbollah, partito che irrompe in una scena in cui la conflittualità era stata, sino ad allora, solo limitatamente riconducibile a questioni religiose31; in Egitto si costituisce la jihad islamica, che dopo avere organizzato ed eseguito l’omicidio del presidente Anwar al-Sadat, combatte con la sua ala militarista condotta da Ayman al Zawahiri; in Pakistan, nella seconda metà degli anni Ottanta del XX secolo, cominciano a sorgere i primi campi di addestramento per mujahedin organizzati da Abu Ubaidah Al-Banshiri: campi che prenderanno il nome di al-Qa’ida e che segneranno indelebilmente la lotta partigiana per la liberazione dell’Afghanistan dai sovietici, orientandola nel segno dell’integralismo islamico. Nel 1987 nasce Hamas, movimento strettamente legato ai Fratelli Musulmani, che ha per statuto l’obiettivo di distruggere lo Stato di Israele e di sostituirlo con uno Stato islamico palestinese, cui si affiancherà nel 2007, su posizioni ancora più radicali, Jaljalat32.
In realtà, come ampiamente messo in evidenza33, il risveglio islamico, che declina nel segno del fondamentalismo le relazioni tra religione, diritto e politica nel Medio Oriente di fine Novecento, affonda le sue radici in un processo iniziato già negli anni Venti del secolo breve e dominato dalla Fratellanza musulmana, fondata sui valori del nazionalismo islamico e dell’impossibilità di concepire una separazione tra religione e politica. In un certo senso, si deve a una sorta di ‘fallito costantinismo’ (si perdonerà qui l’uso non tecnico del termine) – tentato nei confronti dell’islam egiziano, che negli obiettivi del nazionalismo arabo nasseriano doveva essere ‘laicizzato’ e ricondotto al controllo del potere statale – l’ascesa di Sayyid Qutb, pensatore di straordinaria rilevanza per comprendere l’islam contemporaneo, e della sua teoria della ‘rottura’ con la politica secolarizzata incapace di realizzare compiutamente e dettagliatamente il dominio della religione all’interno delle istituzioni e del corpo sociale34.
La riconquista della sfera pubblica operata dalle religioni nel contesto geopolitico e cronologico appena descritto spinge Gilles Kepel a scrivere un volume di straordinario successo, intitolato La revanche de Dieu, nel quale il politologo francese segnala la fine della secolarizzazione e descrive le religioni come metanarrazioni idonee a intercettare la domanda di senso e il rigetto della modernità che coinvolgono, anche in contesti geografici profondamente diversi, un numero sempre crescente di uomini e donne desideroso di tornare a sacralizzare l’esperienza politica35.
Le idee di Kepel appaiono confermate sia in Estremo Oriente sia in Africa, in un incedere di eventi e teorie politiche sempre più dominate dall’elemento religioso, letto non solo in chiave identitaria e soteriologica, ma anche nella sua qualità di significante della stessa esistenza terrena. Paradigmatiche le esperienze dello Sri Lanka (dove, per utilizzare le parole di Enzo Pace, «la religione non comunica più conciliazione, ma spartizione, del cuore e della terra»)36 e del Rwanda, in cui invece la religione (cattolica) ha svolto una funzione chiave nel processo di costruzione d’identità del paese, legittimando una minoranza (i tutsi) allo svolgimento di un ruolo elitario nella costruzione della classe politica (si è così aperto un vero e proprio cortocircuito etnico-identitario sfociato, infine, nel genocidio del 1990-1994). E naturalmente va ricondotta a un’opera di risacralizzazione della politica anche lo sviluppo militante (non tanto la nascita, avvenuta già negli anni Venti del XX secolo) dell’Hindutva, ideologia nazionalista, che, fondandosi sull’idea dell’induismo come elemento fondamentale per la costruzione dell’identità nazionale indiana, ha contribuito in modo rilevante alla ridefinizione dei rapporti tra maggioranze e minoranze (etniche, culturali e religiose) in diverse aree del subcontinente indiano37. L’Hindutva finirà poi per mettere radici piuttosto salde nel Rashtriya Swayamisevak Sangh, gruppo paramilitare che risulterà coinvolto negli episodi di violenza avvenuti prima nella regione del Gujarat e successivamente in quella dell’Orissa.
Tutto ciò che si è sinora argomentato in merito al potente reingresso della religione nella sfera politica vale, sia pure con significative peculiarità, anche per gli Stati Uniti.
Tutti i presidenti degli Stati Uniti d’America, dal 1952 al 1981, hanno più o meno enfatizzato il legame tra nazione e religione, pur nel sostanziale rispetto del muro di separazione tra Chiese e Stato e della libertà di religione e di espressione. Questo legame è indubbiamente frutto di un rapporto fra trascendenza, politica e società fondato su quella che Norbert R. Bellah chiama «religione civile», definita «non come una forma di autoadorazione della nazione, ma come subordinazione della nazione a principi etici che la trascendono e di fronte ai quali essa deve essere giudicata»38. La religione civile americana comporta: 1. un sistema di valori e d’ideali supremi condivisi (quali quelli della democrazia e della libertà); 2. la credenza che gli Stati Uniti siano una nazione benedetta da Dio, sorta sulla base di un disegno della Divina Provvidenza con la missione di difendere e diffondere nel mondo la democrazia; 3. la caratterizzazione del dio di riferimento come Creatore, il quale non si identifica con alcuna divinità adorata in una determinata, specifica credenza di religione.
Il legame tra religione (civile) e politica ha attraversato alterne fasi nel trentennio anteriore all’elezione di Ronald Reagan. Dwight H. Eisenhower non solo pronuncia – nel primo discorso di insediamento – una preghiera a Dio scritta da lui stesso, ma promulga altresì la legge n. 84-85139, grazie alla quale la frase «In God We Trust» viene adottata ufficialmente come motto nazionale.
Le presidenze di John F. Kennedy e Lyndon B. Johnson sono, come è noto, segnate da un clima di apparente secolarizzazione della politica. Kennedy (primo cattolico romano a essere eletto presidente) pronunzia, il 12 settembre 1960, un discorso in cui si professa convinto della necessità di una separazione assoluta tra Stato e Chiese, capace di garantire pienamente il principio di uguaglianza senza distinzione di religione, fondata sul presupposto che «no Catholic prelate would tell the President (should he be Catholic) how to act, and no Protestant minister would tell his parishioners for whom to vote». Per Kennedy la separazione assoluta si traduce in un assetto giuridico-istituzionale in cui «no church or church school is granted any public funds or political preference, and where no man is denied public office merely because his religion differs from the President who might appoint him or the people who might elect him»40. Johnson riprende ed enfatizza tali concetti in un discorso al Congresso del 16 marzo 196541. Gli anni Sessanta del XX secolo sono peraltro segnati da una giurisprudenza della Corte suprema fortemente tesa a garantire la libertà di religione e la separazione tra Stato e Chiesa attraverso la neutralizzazione confessionale dello spazio pubblico: ricorderemo la sentenza Engel vs. Vitale42, che sancisce l’incostituzionalità della preghiera scolastica, e la sentenza Abington School District vs. Edward Schempp43, la quale ritiene illegittima la previsione di ore di lezione dedicate alla lettura della Bibbia.
La fine della guerra del Vietnam, l’aggravarsi della Guerra fredda e la nascita di una nuova mentalità – antitetica tanto al maccartismo quanto al perbenismo borghese Wasp – caratterizzano il tornante tra Sixties e Seventies; in questo contesto, giudici e politici enfatizzano solo in parte il richiamo alla religione come elemento d’identità sia durante la presidenza di Richard Nixon sia durante quella di Gerald Ford. In quegli anni si registrano inoltre due fondamentali sentenze della Corte Suprema, capaci di spingere il separatismo fino a sancire l’illegittimità di qualunque atto legislativo capace di promuovere una religione ovvero di creare un legame eccessivo con la religione (Lemon vs. Kurtzman, 1971)44 e di leggi dirette a vietare l’aborto prima che il feto possa vivere autonomamente fuori dell’utero materno o quando la vita della madre possa essere in pericolo (Roe vs. Wade, 1973)45. Sembra dunque confermarsi una netta desacralizzazione della politica e allo stesso tempo una tutela della libertà religiosa intesa come libertà di professare (o non professare) la propria religione e di porre (o non porre) in essere atti di culto in uno spazio pubblico confessionalmente neutro.
Anche Jimmy Carter, democratico e fervente battista, arrivato alla presidenza grazie al voto di cristiani tradizionalmente schierati con i repubblicani, si mantiene tendenzialmente fedele a una certa sobrietà nel richiamo a valori religiosi per legittimare la sua azione politica.
È Ronald Reagan a rimodellare in modo deciso il rapporto tra politica e religione negli Stati Uniti. Il discorso dell’8 marzo 1983, nel quale il quarantesimo presidente definisce l’Unione Sovietica un vero e proprio «impero del male», ha l’effetto di (ri)caricare tutto l’assetto delle relazioni internazionali degli Stati Uniti di un forte manicheismo valoriale fondato sulla fede in Dio46. Credere in Dio, per Reagan, costituisce uno degli elementi fondanti della cultura occidentale, che deve essere difeso contro l’ateismo marxista con tutte le forze politiche e militari che siano necessarie. Reagan conferma la volontà di tutelare il teismo e i valori religiosi della nazione come patrimonio comune di tutti gli americani con la nomina di diversi giudici conservatori all’interno della Corte Suprema47.
Le successive presidenze – ovvero quella di George Bush Sr. e di Bill Clinton – segneranno un tornante fondamentale nelle pieghe della storia contemporanea. Caduto ‘l’impero del male’ sotto il suo stesso peso, la politica estera americana si spingerà verso un impegno sempre più forte per garantire la pace e i diritti umani in (alcune) zone del globo non caratterizzate dall’ateismo militante, ma dalla dominanza (o perlomeno dalla forte presenza) dell’islam. Questo impegno, che sarà in parte militare (come in Iraq o in Kosovo), genererà, per quanto di nostro interesse, l’assunzione – da parte degli Stati Uniti – del ruolo di potenza garante di una serie di diritti e libertà ritenute fondamentali, senza ricorrere alla mediazione di organismi sovranazionali48. Se dunque fino alla prima guerra del Golfo la lotta per il riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali è stata condotta dalla comunità internazionale, senza che una singola nazione potesse esercitare una vera e propria egemonia, può dirsi che, dall’ultimo decennio del secolo scorso, il mutato quadro geopolitico ha aperto la strada a una ‘seconda fase’ della lotta per il riconoscimento dei diritti derivanti dalle quattro libertà rooseveltiane.
Tale seconda fase pare caratterizzata da alcune peculiarità: 1. unilateralismo nell’individuazione del contenuto dei diritti fondamentali; 2. sussistenza di una connessione indiscutibile tra democrazia e rispetto dei diritti fondamentali; 3. utilizzo dello strumento bellico per reprimere le più gravi violazioni dei diritti fondamentali.
Questa fase della lotta per la tutela dei diritti fondamentali – con le implicazioni che essa comporta in relazione al dovere di non ingerenza gravante su tutti i membri della comunità internazionale – ha per oggetto anche il diritto di libertà religiosa. Tale libertà sembra anzi giocare un ruolo cardine nel passaggio storico che ha portato gli Stati Uniti a esercitare il ruolo di supremi garanti dei diritti umani. Il provvedimento chiave che ha consentito agli Stati Uniti di spostare (almeno in parte) su di sé l’asse di tutela sovranazionale del diritto di libertà religiosa è rappresentato dall’International religious freedom act adottato dal Congresso e firmato dal presidente Clinton nel 1998 (Irfa).
L’Irfa – oltre a proclamare che il rispetto della libertà religiosa ovunque nel mondo costituisce uno degli obiettivi della politica estera americana – prevede la creazione di una serie di organismi che hanno lo scopo di monitorare il rispetto di tale libertà nei vari ordinamenti. In sostanza, la norma trasla l’art. 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dalla categoria del soft law a quella dell’hard law: attraverso tale traslazione, gli Stati Uniti si fanno garanti del pieno rispetto ovunque nel mondo di tutte le facoltà connesse al suddetto art. 18, prevedendo una serie di sanzioni di carattere sia diplomatico sia economico.
Sarebbe a questo punto opportuno verificare l’impatto indiretto dell’Irfa sull’ordinamento internazionale. In questa prospettiva, lo studioso dovrebbe chiarire in primo luogo se l’Irfa stia realmente contribuendo alla distruzione di quel ‘relativismo’ culturale e giuridico – sommariamente riconducibile alle posizioni espresse da Melville Herskovits49 – che sottoponeva, di fatto, la Dichiarazione universale a una potenziale decostruzione, in quanto espressione dell’egemonia politico-diplomatica e culturale rappresentata all’interno dell’Onu dai paesi occidentali50. Si apre inoltre una riflessione sulla possibilità che il diritto di libertà religiosa – inteso nell’accezione accolta dall’Irfa – possa assumere il ruolo di ‘parametro’ fondamentale secondo cui gli Usa possano valutare se un determinato Stato debba essere annoverato nella categoria dei rogue States. In quest’ottica è del tutto evidente che la questione intorno alla libertà religiosa potrebbe assumere una posizione fondamentale all’interno degli equilibri geopolitici internazionali. La garanzia della libertà di religione – in altre parole – dovrebbe essere considerata non più solo come un diritto inviolabile di ogni individuo, ma anche (e soprattutto) come un elemento necessario (anche se non sufficiente) per far rientrare uno Stato nel gruppo di quelli ‘non devianti’ rispetto ai parametri di quell’ordine mondiale che oggi gli Usa ritengono una priorità fondamentale della loro politica estera.
In Centro e Sudamerica, dopo l’omicidio di Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, a opera dei paramilitari di Roberto D’Abuisson, la Chiesa cattolica aveva potuto pienamente accreditarsi come una forza sociale anticostantiniana capace di denunciare l’oppressione e le disuguaglianze prodotte da molti regimi nazionali. Tuttavia la ‘teologia della liberazione’, che potremmo interpretare come una sorta di ‘controcostantinismo ideologico’ fondato sull’impegno della speculazione teologica per garantire la ‘liberazione integrale’ dell’uomo anche dai regimi politici diretti a opprimere l’individuo, a non realizzare l’uguaglianza sociale e a negare la democrazia, viene esplicitamente accusata da due documenti della Congregazione per la dottrina della fede (istruzioni Libertatis nuntius del 1984 e Libertatis conscientia del 1986) di accettare la metodologia di analisi marxista dei rapporti tra capitale e lavoro e di ridurre il cristianesimo a un semplice messianismo temporale. Questo evento, che pure costringe a un ripensamento delle loro idee non pochi teologi latinoamericani, non impedisce un rinnovato sforzo delle Chiese dell’America Centrale e Meridionale in favore dei poveri, degli esclusi, degli indios. L’esperienza del seminario di studio Il futuro della riflessione teologica in America latina ha aperto le dinamiche di analisi di studio della teologia politica alla società civile (piuttosto che allo Stato) e alla ricerca di un modello di economia a misura d’uomo51.
Tornando a porre l’obiettivo sull’Italia, la tendenza alla costruzione di una forte presenza dialogica della Chiesa cattolica nella sfera pubblica è rafforzata da due momenti che attraversano come lame il tornante storico tra XX e XXI secolo: il nuovo assetto politico instauratosi in Italia tra il 1992 e il 1994 e gli eventi dell’11 settembre 2001.
Lo scandalo di ‘Tangentopoli’, l’indagine di ‘Mani pulite’ e l’introduzione di un sistema elettorale (tendenzialmente) maggioritario portano a ricomporre un quadro politico in cui l’elettorato cattolico si trova – dopo la scissione che scuote il Partito popolare italiano, erede diretto della Dc – completamente privo di un partito unico di riferimento.
Dalle ceneri della Dc e del Ppi la presenza cattolica in politica risorge peraltro più forte di prima, un po’ per la capacità dei cattolici suddivisi nei due nuovi schieramenti (centro-destra e centro-sinistra) di condizionare – in modo più o meno intenso – alcune scelte su tematiche prese in considerazione dal magistero ecclesiastico, un po’ per l’azione diretta delle gerarchie della Cei e di alcuni intellettuali d’area, i quali danno vita al fenomeno che chiameremo – per utilizzare la felice e fortunata espressione di Sandro Magister – della «Chiesa extraparlamentare»52. Fenomeno, quello appena nominato, caratterizzato da una precisa strategia in forza della quale la società civile deve riconquistare il primato sulla politica e i partiti attraverso l’elaborazione di un ‘progetto culturale’ autonomo e nello stesso tempo attentissimo a dettare l’agenda e i contenuti del dibattito pubblico sulla bioetica, sulla famiglia, sulla sussidiarietà, sulla scuola.
La visione di un rinnovato impegno sociopolitico diretto della Chiesa cattolica italiana è chiaramente ispirata dalla linea pastorale che emerge al termine del II Convegno ecclesiale nazionale (Loreto, 1985), ma come correttamente nota Gaetano Quagliariello tale impegno va contestualizzato (e relativizzato) tenendo conto delle nuove sfide che, secondo Giovanni Paolo II la caduta del comunismo pone alla Chiesa mondiale. È infatti assai chiaro che il nuovo avversario che si profila all’interno delle società è il materialismo secolarista, cui fa da pendant il relativismo culturale, capace di mettere in discussione i valori della tradizione cristiana sui quali si fondano non poche nazioni, non ultima l’Italia53.
La presenza pubblica della Chiesa, quantomeno nella strategia di fine secolo, non è più fondata sulla difesa del privilegio istituzionale o del confessionismo di Stato, ma diventa espressione di un progetto culturale più alto, diretto alla difesa dello splendore della Verità contro la disgregazione dei principi dell’etica naturale prodotta da ideologie condiscendenti verso orientamenti culturali diretti a sfociare nel relativismo etico. La Congregazione per la dottrina della fede esplicita questa posizione in una nota dottrinale del 24 novembre 2002, nella quale – tra le esigenze etiche irrinunciabili che cattolici impegnati in politica devono difendere integralmente – si ricordano: 1. la difesa del diritto primario alla vita, a partire dal suo concepimento fino al suo termine naturale, e dell’embrione umano; 2. la tutela e la promozione della famiglia, fondata sul matrimonio monogamico tra persone di sesso diverso; 3. la garanzia della libertà di educazione ai genitori per i propri figli; 4. la tutela sociale dei minori e la liberazione delle vittime dalla schiavitù; 5. la difesa del diritto alla libertà religiosa; 6. lo sviluppo di un’economia che sia al servizio della persona e del bene comune, nel rispetto della giustizia sociale, del principio di solidarietà umana e di quello di sussidiarietà. Si tratta di beni/valori fortemente radicati nella dottrina sociale della Chiesa, che si ritengono ‘non negoziabili’, ovvero sottratti alla possibilità di essere, in tutto o in parte, sacrificati sull’altare dell’interesse politico generale.
A questo impegno ‘extraparlamentare’ dei cattolici italiani si aggiunge l’esplicito richiamo ai valori cristiani operato da alcuni partiti rappresentati in parlamento come fonte di ispirazione per la loro azione politica. Se la XIII legislatura vede, quale momento emblematico di tale dialogo tra partiti e gerarchie cattoliche, la promulgazione della legge 10 marzo 2000, n. 62 (cosiddetta Legge sulla parità scolastica), la XIV legislatura sarà ancora più attenta a offrire risposte non contrastanti con il magistero ecclesiastico ai problemi sollevati da tematiche quali l’aborto, la fecondazione artificiale, le questioni bioetiche, i finanziamenti alle scuole cattoliche, la tutela della famiglia fondata sul matrimonio, lo Stato sociale, la politica internazionale54. Non si può invece dire che la politica riservi la medesima attenzione nei confronti dell’attuazione del quadro costituzionale in tema di uguale libertà delle confessioni. La stagione delle intese sembra tornare ad avere un sussulto nel 2000, quando lo Stato firmerà gli accordi previsti dall’art. 8, III comma della Costituzione con l’Unione buddhista italiana e la congregazione dei Testimoni di Geova: tali intese non saranno tuttavia mai portate in parlamento per essere approvate con legge, mentre anche il cammino del disegno di legge sulla libertà religiosa (che dovrebbe sostituire l’obsoleta legge n. 1159/1929) si arena più volte senza giungere a un approdo.
Il quadro sarà reso ancora più complesso dai tragici eventi dell’11 settembre 2001. L’attacco all’America portato dai qaedisti in esecuzione della dichiarazione di jihad contro ‘Ebrei e Crociati’ emessa dal Fronte mondiale islamico di Osama Bin Laden e pubblicata su al-Quds al-Arabi del 23 febbraio 1998 accende all’improvviso i riflettori di tutti i mass media mondiali sul terrorismo islamico jihadista. A partire da questo momento prende corpo una notevole enfatizzazione della questione delle ‘radici cristiane’: matura infatti il frutto di una nuovo capitolo della teologia delle nazioni, il quale pone la visione giovanneo-paolina della storia dei popoli intesa come storia del loro rapporto tra Rivelazione e cultura a stretto contatto con la teoria huntingtoniana dello «scontro di civiltà»55. Quest’ultima teoria – lo si dica subito, a scanso di equivoci – non viene appoggiata dalla Santa Sede, la quale mantiene invece salda l’attenzione sulla necessità di un dialogo tra le religioni, come testimoniato dall’incontro di Assisi del 24 gennaio 2002; il pessimismo geoculturale huntigtoniano tuttavia influenza in modo piuttosto evidente il dibattito sul ruolo delle religioni all’alba del terzo millennio, poiché si sviluppa tra un numero sempre più vasto di intellettuali l’idea che il radicalismo islamico abbia lanciato una vera e propria guerra di civiltà contro l’Occidente e i valori, di matrice giudaico-cristiana, su cui esso si fonda.
Si fa dunque strada l’idea che l’Occidente debba reagire riconoscendo e sostenendo il ruolo del cristianesimo come vettore e custode dei valori che rappresentano le radici della sua civiltà, e taluno si spinge a sostenere l’inferiorità della cultura islamica rispetto a quella fondata sulla tradizione evangelica o addirittura l’esistenza di una cospirazione anticristiana diretta a svuotare l’Europa delle sue matrici religiose e a generare una vera e propria dhimmitudine dei popoli europei nei confronti dell’islam56.
Uno dei momenti più intensi di questa rielaborazione culturale della tradizione religiosa dominante è certamente costituito dal dialogo tra Joseph Ratzinger (allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede) da una parte e Marcello Pera (allora presidente del Senato della Repubblica italiana) e Jürgen Habermas dall’altra. Questo dialogo, che si svolge in diversi momenti e con differenti modalità, e non coinvolge mai contemporaneamente tutti gli attori, ruotando principalmente intorno alla figura del cardinale cattolico, porta a un ampio dibattito culturale sui rischi del relativismo e del decostruzionismo – considerati una sorta di cavallo di Troia per permettere all’islamismo radicale di scardinare i valori su cui si fonda l’Occidente – di fronte ai quali Pera propone esplicitamente la creazione di una sorta di ‘religione civile cristiana’ in cui credano anche i non credenti, diretta alla tutela di alcuni principi etici fondamentali nella sfera pubblica57. Ratzinger mostra di aderire a questa tesi formulando, in una conferenza svoltasi a Subiaco, la seguente proposta:
Anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse. Questo è il consiglio che già B. Pascal dava agli amici non credenti; è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno58.
È evidente, nelle parole del cardinale che di lì a poco sarebbe diventato papa con il nome di Benedetto XVI, una rivoluzione copernicana rispetto al vecchio costantinismo. La Chiesa cattolica non chiede allo Stato (riconoscimento, privilegi, etc.), ma invita lo Stato a riflettere su quanto il riconoscimento delle radici cristiane e l’accettazione della presenza di un principio morale immutabile ed eterno, creatore di una legge etica valida per tutti, possano costituire il fondamento della tradizione culturale occidentale e la salvaguardia dei valori su cui essa si fonda. D’altra parte Habermas, molto più cauto nell’individuare nel cristianesimo una grammatica ideale comune valida per tutto l’Occidente, deve affermare – come correttamente nota Massimo Rosati59 – che «il potente reingresso delle religioni nella sfera pubblica costringe a rigettare l’idea di una laicità di combattimento che intenda estromettere la religione dal dibattito politico», dal momento che «la presenza di milioni di praticanti che rigettano le abitudini etiche del mondo secolarizzato è un fattore costitutivo del pluralismo morale delle nostre società»60. Secondo Habermas, pertanto, il rapporto tra libertà religiosa e laicità si sviluppa attraverso il processo di costruzione di un linguaggio comune, che consenta una reciproca comprensione e un reciproco rispetto, e ciò comporta, ancora una volta, l’accettazione della religione come lievito della società e dei processi di produzione del diritto a prescindere da ogni costantinismo.
L’effetto degli eventi dell’11 settembre è, naturalmente, planetario: esso trasforma le relazioni internazionali, e condiziona addirittura il percorso del costituzionalismo, determinando una certa compressione dei diritti fondamentali all’interno degli ordinamenti liberal-democratici in nome della necessità di preservare la sicurezza pubblica61.
Il bersaglio principale dell’operazione militare Enduring Freedom, con la quale gli Stati Uniti (con la collaborazione del Regno Unito) reagiscono all’attacco dell’11 settembre (la Nato collabora solo all’operazione Isaf) è rappresentato dal governo afghano dei Taliban, in carica dal settembre 1996, accusato di aver fornito aiuto e copertura ai militanti qaedisti coinvolti, come mandanti ed esecutori, nell’attacco. E se il presidente americano George W. Bush si rifiuterà sempre di caricare di significati religiosi l’operazione Enduring Freedom, è chiaro a tutti che essa è diretta contro un gruppo che si fonda su un’ideologia teocratica islamista e che ha imposto a tutta la popolazione afghana un rigidissimo rispetto della Sharia interpretata in modo profondamente illiberale.
Gli Stati Uniti vivono, con George W. Bush, un intenso periodo di risacralizzazione della politica: come mostra Emilio Gentile, tutta l’iconografia che il presidente – cristiano rinato – adotta per ricompattare la nazione, scossa e turbata dal primo attacco bellico subìto sul suo territorio è profondamente intrisa di significanti religiosi62. Anche se George W. Bush – come già accennato – respinge con chiarezza l’idea che l’operazione Enduring Freedom e il successivo Patriot Act (legge diretta a combattere il terrorismo sul territorio statunitense) rappresentino atti e provvedimenti contro l’islam (definito dallo stesso presidente «religione di pace»), è evidente che la sua politica si volge progressivamente verso una demonizzazione del cosiddetto ‘asse del terrore’ che costituisce anima e supporto del terrorismo (Corea del Nord-Iran-Iraq) e una santificazione del ruolo degli Stati Uniti d’America, nazione fondata sui valori universali di libertà e di rispetto dei diritti individuali.
Il teologo Robert Jewett e il filosofo John Schelton Lawrence parleranno – a proposito di questa visione della politica internazionale – di «nazionalismo zelota», fondato sulla pretesa di redimere il mondo distruggendo i nemici, opportunamente demonizzati, secondo chiavi retoriche quali la mistica della violenza, l’ossessione della vittoria e il culto dei simboli nazionali63. A questa ‘teologia politica’ Jewett e Lawrence oppongono il «nazionalismo profetico», che evita di assumere atteggiamenti manichei e sviluppa invece la valorizzazione dei riferimenti ideologico-culturali di una nazione attraverso il dialogo e la partecipazione politica delle minoranze64.
Il primo e il secondo mandato di Bush vedranno il ‘nazionalismo zelota’ del presidente scorrere parallelo rispetto al fiume del neoconservatorismo americano, corrente di pensiero che vede intellettuali come Michael Nowak, John Neuhaus, Mary Ann Glendon e George Weigel rilanciare l’idea che il muro di separazione costruito dal primo emendamento non sia uno strumento diretto a creare una ‘nuda piazza pubblica’ e che i valori giudaico-cristiani siano un punto di riferimento politico essenziale per garantire alla civiltà occidentale e alla dignità dell’uomo un pieno e armonico sviluppo. Gli argomenti neocon saranno ripresi in Italia da intellettuali di diversa estrazione (Giuliano Ferrara, Joseph Halevi Horowitz Weiler) e con toni diretti talora all’enfatizzazione della teoria della futura dhimmitudine dei cristiani nei confronti dell’islam (Oriana Fallaci).
Il ‘nazionalismo zelota’ di Bush resisterà all’attacco del Democrat John Kerry sferrato in occasione delle presidenziali del 2004, ma verrà archiviato nel 2008, quando il candidato repubblicano John McCain verrà sconfitto da Barack Obama. Quest’ultimo dimostrerà da subito un profondo mutamento di prospettiva nei rapporti tra religione e politica: tanto che, durante la cerimonia per il suo insediamento, non verrà eseguita la celebre God bless America di Irving Berlin ma This Land is your Land di Woody Guthrie, gridata dalle voci liberal di Pete Seeger, Bruce Springsteen e Arlo Guthrie. Lo stesso Obama pronunzierà, il 4 giugno 2009 all’Università del Cairo, un discorso in cui è fortissima l’idea che, per la sua visione politica, mai la religione potrà dar vita a un ‘nazionalismo zelota’65.
In Europa, l’‘onda lunga’ del fattore 11 settembre si svilupperà secondo tre direttrici: 1. da un punto di vista sociale, si assiste a una crescita dell’islamofobia, termine utilizzato per indicare l’ostilità infondata nei confronti dell’islam e le conseguenze pratiche che essa comporta. Tale ostilità non è generalmente giustificata dall’esistenza oggettiva di un pericolo, bensì dalla sua percezione dell’islam in termini di minaccia all’integrità e all’identità di un gruppo primario fondato su legami ideologici o confessionali diversi. L’atteggiamento islamofobico – generalmente determinato da stereotipi e pregiudizi sull’islam (immaginato come un credo granitico, statico, immune a qualsiasi mutamento e separato ermeticamente dalle altre religioni e culture con cui non viene riconosciuto alcun elemento in comune, strettamente legato al terrorismo e a tutti i valori su cui si fondano le società occidentali) – viene cavalcato da partiti e movimenti, che fanno di un’aperta ostilità alla cultura islamica (e dunque anche a politiche immigratorie non restrittive) un manifesto della loro attività politica66. Il divieto di costruire minareti in Svizzera, la complessità di edificare moschee in Austria (per motivi giuridici) e in Italia (per motivi sociopolitici), il successo di movimenti politici di estrema destra che identificano nell’islam un credo ostile sono allo stesso tempo effetto dell’islamofobia e causa del suo continuo aumento. Si è peraltro recentemente aperto un dibattito anche sulla cosiddetta ‘cristianofobia’, ovvero su leggi e prassi amministrative dirette a limitare la libertà di culto e di espressione dei cristiani67; 2. da un punto di vista politologico, la discussione si è polarizzata intorno al mancato inserimento di un richiamo alle ‘radici cristiane dell’Europa’ nel progetto di Costituzione europea. Tale mancata menzione porterà Giovanni Paolo II a una durissima reprimenda contro le istituzioni europee, le quali paiono lontane non solo da ogni forma di costantinismo, ma anche dal riconoscimento di un valore particolare del cristianesimo nel processo di formazione della nuova Europa:
Non posso nascondere la mia delusione per il fatto che non sia stato inserito nel testo della Carta neppure un riferimento a Dio [...]. Non si può dimenticare che fu la negazione di Dio e dei suoi comandamenti a creare, nel secolo passato, la tirannide degli idoli, espressa nella glorificazione di una razza, di una classe, dello stato, della nazione, del partito, in luogo del Dio vivo e vero. È proprio alla luce delle sventure riversatesi sul ventesimo secolo che si comprende come i diritti di Dio e dell’uomo s’affermino o cadano insieme68.
Le tematiche qui sostenute da Giovanni Paolo II saranno poi riprese da Benedetto XVI, il quale nella sua celebre (e discussa) lectio magistralis di Ratisbona riporterà l’attenzione sul fatto che la comprensione che hanno i cristiani di Dio come Logos rimane fondamentale per definire la storia e la cultura dell’Europa, e nello stesso tempo per ribadire che solo con la ragione è possibile scoprire quella legge naturale capace di costituire ‘la grammatica della vita sociale’ e – di conseguenza – di individuare verità condivise tra i diversi attori della società. Ancora una volta il papa respinge l’idea di un cattolicesimo privilegiato e rilancia l’idea di un dialogo tra religioni e visioni del mondo fondato sulla ragione; 3. da un punto di vista strettamente giuridico, l’alba del nuovo secolo ha condotto le istituzioni europee a inserire nell’art. 17 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea un’istituzionalizzazione del dialogo con le Chiese che però appare lontanissima da qualunque tentazione costantiniana. Tale dialogo deve essere, infatti, condotto secondo i canoni assiologici elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di laicità, considerata parte di quella ‘tradizione costituzionale comune’ degli Stati membri dell’Unione europea. La laicità – dapprima definita come una risultante del combinato disposto delle norme della Convenzione di Roma dirette a garantire il rispetto della libertà religiosa individuale e di quelle dei Trattati di Maastricht e Amsterdam dirette a combattere la discriminazione fondata sul credo69 – viene progressivamente a connotarsi come concetto giuridico autonomo, come principio sovranazionale patrimonio del costituzionalismo europeo, dotato di funzione parametrica rispetto alle norme degli Stati che hanno ratificato la Convenzione di Roma. E tale principio non implica solo, in via generale, il diritto di ogni Stato membro del Consiglio d’Europa di strutturare liberamente e senza imposizioni l’assetto dei rapporti con le confessioni religiose presenti sul territorio, ma anche: a. la necessità che il diritto ecclesiastico degli ordinamenti europei non favorisca nessuna delle religioni o delle Weltanschauungen presenti sul territorio, astenendosi da ogni presa di posizione capace di favorire o di avversare una o più confessioni. Viene perciò a manifestarsi inequivocabilmente l’impossibilità per gli Stati membri del Consiglio d’Europa di strutturare il loro modello di rapporti tra e con le comunità religiose secondo forme di neocostantinismo, di confessionismo sostanziale o di giurisdizionalismo; b. la necessità che gli Stati membri del Consiglio d’Europa sappiano garantire – attraverso la propria legislazione – il pluralismo ideologico e confessionale. Ciò non implica solo che essi debbano costituirsi come democrazie partecipative basate su libere elezioni, ma anche che essi concedano spazio – a ogni fedele/infedele – per esprimere i propri valori all’interno di un ‘progetto di vita’ individuale o comunitario e di strutturare gruppi sociali che portino tali valori ad assurgere al rango di principi giuridici di riferimento. Ciò – beninteso – nel rispetto di altri principi/valori espressi dalla Convenzione di Roma ritenuti inderogabili o assiologicamente sovraordinati; 3. la necessità che gli Stati membri del Consiglio d’Europa sappiano garantire efficacemente il principio di uguaglianza anche attraverso normative specifiche dirette a reprimere la discriminazione fondata (rectius: trattamenti diversificati privi di ragionevole giustificazione basati) su motivazioni di ordine religioso; 4. la necessità che gli Stati membri del Consiglio d’Europa promuovano il dialogo interreligioso e adottino le iniziative più opportune per garantire la tolleranza tra i diversi gruppi confessionali.
L’orizzonte europeo è pertanto segnato dalla negazione di legittimità non solo di qualunque dimensione ‘zelota’ del ruolo della religione quale strumento di identità, ma anche di qualunque forma di costantinismo esclusivo ed escludente, che apra la strada a una dicotomizzazione tra religioni (o visioni del mondo) ‘buone’ e religioni (o visioni del mondo) ‘cattive’. Gli organismi europei si volgano piuttosto verso l’enfatizzazione del riconoscimento del ruolo sociale e culturale della religione nel rispetto del dialogo interreligioso, ovvero – per utilizzare le parole della Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite nr. A/RES/65/5 del 20 ottobre 2010 – dell’interazione e della discussione tra i rappresentanti di differenti gruppi confessionali finalizzata alla costruzione della pace, della reciproca comprensione e della mutua tolleranza. Il dialogo interreligioso – unitamente al dialogo interculturale – è considerato una pratica fondamentale per «dare un contributo significativo allo sviluppo di una società libera, ordinata e coesa», che sappia «superare l’estremismo filosofico e religioso, gli stereotipi e i pregiudizi, l’ignoranza e l’indifferenza, l’intolleranza e l’ostilità, che anche nel passato recente sono stati causa di tragici conflitti e di spargimento di sangue»70. L’idea forte che emerge da questa posizione è che la prospettiva dei rapporti tra culture e religioni diverse intesa nell’ottica del Clash of Civilization sia frutto di idee non supportate da una conoscenza razionale e da una coscienza critica delle diversità esistenti nella società plurale71. L’auspicio è dunque che si passi definitivamente dal costantinismo all’interazione e alla discussione tra i rappresentanti di differenti gruppi confessionali finalizzata alla costruzione della pace, della reciproca comprensione e della mutua tolleranza: perché in futuro possano essere le stesse comunità religiose a promuovere attivamente la libertà religiosa, la democrazia e il primato del diritto.
1 Per una bibliografia sugli argomenti trattati si vedano: M.-D. Chenu, La fin de l’ère constantinienne, in Un concile pour notre temps, éd. par J.P. Dubois-Dumée, J. de Broucker, R. Voillaume et al., Paris 1961, pp. 59-87; G. Ruggieri, Una nuova pace costantiniana? Religione e politica negli anni ‘80, Casale Monferrato 1985; Id., Una nuova pace costantiniana?, ivi, pp. 13-27; D. Menozzi, Tra vecchio e nuovo costantinismo. Il dibattito intorno al mondo cattolico, ivi, pp. 28-39; G. Zizola, L’uso delle istanze religiose nel mondo politico italiano, ivi, pp. 78-113; B. Andreatta, Intervento alla Tavola Rotonda, ivi, pp. 203-205; C. Cardia, Karol Wojtyła, Vittoria e tramonto, Roma 1994; F. D’Agostino, Rapporto tra legge morale e legge civile, in Commento interdisciplinare alla «Evangelium Vitae», a cura di R. Lucas Lucas, E. Sgreccia, Città del Vaticano 1997, pp. 493-500; C. Cardia, Anno Duemila. Primordi della storia, Milano, 1999; S. Magister, Chiesa extraparlamentare, Napoli 2001; J.H.H. Weiler, Un’Europa cristiana. Un saggio esplorativo, Milano 2003; M. Campanini, Islam e politica, Bologna 2003; M. Juergensmeyer, Terror in the Mind of God. The Global Rise of Religious Violence, Berkeley 20033; E. Pace, Perché le religioni scendono in guerra?, Roma-Bari 2004; M. Pera, J. Ratzinger, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, Islam, Milano 2004; A. Melloni, Chiesa madre, chiesa matrigna, Torino 2004; R. Inglehart, P. Norris, Sacred and Secular. Religion and Politics Worldwide, Cambridge 2004; C. Ruini, Nuovi segni dei tempi. Le sorti della fede nell’età dei mutamenti, Milano 2005; Liberalismo, cristianesimo e laicità, Atti del convegno (Roma 10 dicembre 2004), a cura di G. Quagliariello, Milano 2005; J. Habermas, J. Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, Venezia 2005; J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Siena 2005; F. Felice, Neocon e teocon. Il ruolo della religione nella vita pubblica statunitense, Soveria Mannelli 2006; G. Quagliariello, Cattolici pacifisti teocon. Chiesa e politica in Italia dopo la caduta del muro, Milano 2006; J. Habermas, Tra scienza e fede, Roma-Bari, 2006; E. Gentile, La democrazia di Dio. La religione americana nell’impero del terrore, Roma-Bari 2006; G.E. Rusconi, Non abusare di Dio. Per un’etica laica, Milano 2007; P. Picozza, Religione, cultura e diritto tra globale e locale, a cura di G. Rivetti, Milano 2007; S. Ferrari, Tra geo-diritti e teo-diritti. Riflessioni sulle religioni come centri transnazionali di identità, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1 (2007), pp. 3-4; L. Gerosa, R. Fisichella, R. Aluffi Beck-Peccoz et al., Politica senza religione? Laicità dello Stato, appartenenze religiose e ordinamento giuridico, Lugano 2008; L. Berger, G. Davie, E. Fokas, Religious America, Secular Europe?, London 2008; Stato e Chiesa in Italia. Le radici di una svolta, Atti del Convegno della Fondazione Michele Pellegrino (Torino 23 novembre 2007), a cura di F. Traniello, F. Bolgiani, F. Margiotta Broglio, Bologna 2009; G. Filoramo, Il sacro e il potere. Il caso cristiano, Torino 2009; Diritti umani e libertà religiosa, a cura di V. Possenti, Soveria Mannelli 2010.
2 Cfr. G. Casuscelli, Post-confessionismo e transizione. I problemi del Diritto ecclesiastico nella attuale esperienza giuridica, Milano 1984, pp. 63 segg.
3 Cfr. B. Craxi, Discorso a conclusione del dibattito per la ratifica degli Accordi di Villa Madama (Camera dei deputati 20 marzo 1985), in La grande riforma del Concordato, a cura di G. Acquaviva, Venezia 2006, pp. 177 segg.
4 Cfr. E. Vitali, Legislatio libertatis e prospettazioni sociologiche nella recente dottrina ecclesiasticistica, in Id., Scritti di diritto ecclesiastico e canonico, Milano 2012, pp. 3-44.
5 Cfr. E. Vitali, Giurisdizione ecclesiastica in materia matrimoniale e principi supremi dell’ordinamento costituzionale (2007), in Id., Scritti di diritto ecclesiastico e canonico, cit., pp. 404-407.
6 G. Casuscelli, S. Domianello, s.v. Intese con le confessioni religiose diverse dalla cattolica, in Digesto delle discipline pubblicistiche: diritto costituzionale, diritto amministrativo, diritto regionale, diritto internazionale, diritto comunitario, diritto ecclesiastico, diritto canonico, diritto pubblico comparato, VIII, Torino 1993, pp. 518-543.
7 Cfr. Giudicare la politica, Il Sabato, 18 ottobre 1986, p. 3.
8 Cfr. I cattolici e i due poli, Il Sabato, 11 giugno 1988, p. 3.
9 Così La malattia nichilista, Il Sabato, 24 ottobre 1987, p. 3.
10 Così Lech il paleocattolico, Il Sabato, 26 maggio 1990, p. 3.
11 Cfr. N. Colaianni, Il principio supremo di laicità dello Stato e l’insegnamento della religione cattolica, in Il Foro italiano, 114 (1989), cc. 1333-1342.
12 G. De Rosa, Il nuovo corso del comunismo italiano: il XVIII Congresso nazionale del Pci, in La Civiltà Cattolica, 3332 (1989), pp. 175 segg.
13 Cfr. S. Prisco, s.v. Laicità, in Dizionario di diritto pubblico, a cura di S. Cassese, IV, Milano 2006, pp. 3335 segg.
14 Consiglio di Stato, sentenza n. 556 del 13 febbraio 2006.
15 Cfr. N. Fiorita, L’insostenibile leggerezza della laicità italiana, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, (2011), http://www.statoechiese.it/index.php? option= com_content&task=view&id=460 (20 mar. 2013).
16 Cfr. Diritto e religione in Europa. Rapporto sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di libertà religiosa, a cura di R. Mazzola, Bologna 2012.
17 Cfr. M. Ventura, La laicità dell’Unione Europea. Diritti, mercato, religione, Torino 2001, pp. 17-53.
18 «Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa cosa è dentro l’uomo. Solo lui lo sa!». Così Giovanni Paolo II, Omelia di domenica 22 ottobre 1978 per l’inizio del pontificato, cfr. http://www. vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/1978/documents/hf_jp-ii_spe_19781022_inizio-pontificato_it.html (20 mar. 2013).
19 Cfr. A. Casaroli, Il martirio della pazienza. La Santa Sede e i Paesi comunisti (1963-1989), Torino 2000.
20 Sul passaggio dal comunismo ateo e dalla negazione della libertà religiosa a una rinnovata ‘sinfonia’ tra Stato e Chiesa di maggioranza cfr. G. Codevilla, Ortodossia e diritti umani in Russia. Nuovo legame tra religione e politica, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, febbraio 2009, pp. 1-23, consultabile anche on line http://www.statoechiese.it/images/stories/2009.2/ codevilla_ortodossiam.pdf (20 mar. 2103); G. Barberini, La libertà religiosa nell’Europa centro-orientale, in ivi, aprile 2009, consultabile on line http://www.statoechiese.it/images/stories/2009.4/barberini_statom.pdf (20 mar. 2013); G. Cimbalo, Religione e diritti umani nelle società in transizione dell’Est Europa, in ivi, febbraio 2009, consultabile on line http://www.statoechiese.it/images/stories/2009.2/ cimbalo_religione2.pdf (20 mar. 2013). Tutti i sopracitati articoli si trovano anche in Diritti umani e libertà religiosa, cit., rispettivamente alle pp. 87-115, 117-135, 137-164.
21 E. Pace, Perché le religioni scendono in guerra?, cit., pp. 49-81.
22 Sulla prospettiva della nominatio Dei nelle Carte fondamentali tedesche come esaltazione della tradizionale appartenenza del popolo tedesco al cristianesimo, cfr. R. Spaemann, Sittliche Normen und Rechtsordnung, in Das christliche Freiheitsverständnis in seiner Bedeutung für die staatliche Rechtsordnung, hrsg. von R. Spaemann, H.J. Pottmeyer, M. Heckel, Münster 1996, p. 17.
23 Cfr. G. Scala, Recenti mutamenti nelle relazioni tra Stato e confessioni religiose nel nord Europa. Due case studies: Svezia e Norvegia, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 17 (2009), pp. 339-364.
24 Il Tribunale costituzionale, schierandosi apertamente contro la teoria che vede nel crocifisso un simbolo ‘culturale’ accettabile da tutti i membri della comunità scolastica, giunge ad affermare che «es wäre eine dem Selbstverständnis des Christentums und der christlichen Kirchen zuwiderlaufende Profanisierung des Kreuzes, wenn man es, wie in den angegriffenen Entscheidungen, als bloßen Ausdruck abendländischer Tradition oder als kultisches Zeichen ohne spezifischen Glaubensbezug ansehen wollte», cfr. Bundesverfassungsgericht, 93,1 del 16 maggio 1995, in http://www.servat.unibe.ch/dfr/bv093001.html (20 mar. 2013).
25 Cfr. H. Lübbe, Zivilreligion und der “Kruzifix-Beschluß” des Bundesverfassungsgerichts, in Der Streit um das Kreuz in der Schule. Zur religiös-weltanschaulichen Neutralität des Staates, hrsg. von W. Brugger, S. Huster, Baden-Baden 1998, pp. 237 segg.
26 H. Kohl, Koalition der Mitte: für eine Politik der Erneuerung, in Bulletin, n. 93, Bonn, 14. Oktober 1982, pp. 853-868.
27 Cfr. C. Wicke, The Catholic Nationalist: Rethinking Kohl’s Notion of Germany, in Nebula, 7 (2010), p. 148.
28 Cfr. A. Riccardi, Giovanni Paolo II. La biografia, Cinisello Balsamo 2011, pp. 337 segg.
29 Cfr. G. Dalla Torre, Dio e Cesare. Paradigmi cristiani della modernità, Roma 2008, pp. 71 segg.
30 Cfr. P. Cavana, I segni della discordia: laicità e simboli religiosi in Francia, Torino 2004.
31 A.R. Norton, Hezbollah: a Short History, Princeton 2007.
32 J. Fighel, Hamas and Global Jihad: the Islamization of the Palestinian Cause, in Circunstancia, 18 (2009), consultabile on line: http://www.ortegaygasset.edu/fog/ver/800/circunstancia/ano-vii--n-18--enero-2009/ensayos/hamas-and-global-jihad-the-islamization-of-the-palestinian-cause (20 mar. 2013).
33 Cfr. I Fratelli Musulmani nel mondo contemporaneo, a cura di M. Campanini, K. Mezran, Torino 2010.
34 Cfr. R. Guolo, L’Islam è compatibile con la democrazia?, Roma-Bari 2007.
35 G. Kepel, La revanche de Dieu. Chrétiens, juifs et musulmans à la reconquête du monde, Paris 1991.
36 E. Pace, Perché le religioni scendono in guerra?, cit., p. 21.
37 J. Sharma, Hindutva. Exploring The Idea of Hindu Nationalism, New Dehli 2004.
38 R.N. Bellah, Beyond Belief. Essays on Religion in a Post Traditional World, New York 1970, p. 171.
39 Public Law 84-851 to Establish a National Motto of the United States, Enacted July 30, 1956.
40 Address of Senator J.F. Kennedy to the Greater Houston Ministerial Association, September 12, 1960, in http://www.jfklibrary.org/Asset-Viewer/ALL6YE BJMEKYGMCntnSCvg.aspx (20 mar. 2013).
41 President Lyndon B. Johnson’s Special Message to the Congress, March 15, 1965, in http://www.lbjlib. utexas.edu/johnson/archives.hom/speeches.hom/650315.asp (20 mar. 2013).
42 Supreme Court, 370 U.S. 421 (1962).
43 Supreme Court, 374 U.S. 203 (1963).
44 Supreme Court, 403 U.S. 602 (1971).
45 Supreme Court, 410 U.S. 113 (1973).
46 R. Reagan, Remarks at the Annual Convention of the National Association of Evangelicals in Orlando, Florida, March 8, 1983, in http://www.reagan.utexas. edu/archives/speeches/1983/30883b.htm (20 mar. 2013).
47 Tra i quali Antonin Scalia. Cfr. E. Chemerinsky, The Jurisprudence of Justice Scalia: A Critical Appraisal, in University of Hawai’i Law Review, 2000, pp. 385-401.
48 Cfr. M. Byers, G. Nolte, United States Hegemony and the Foundations of International Law, Cambridge 2003; I. Johnstone, US-UN Relations after Iraq: the End of the World (Order) As We Know It?, in European Journal of International Law, 15 (2004), pp. 813-838, consultabile anche on line: http://www.ejil.org/pdfs/15/4/380.pdf (20 mar. 2013)
49 M.J. Herskovits, Statement on Human Rights, in American Anthropologist, 49 (1947), pp. 539-543.
50 Cfr. sul tema F. Tedesco, Diritti umani e relativismo, Roma-Bari 2009.
51 Così F. Mastrofini, Geopolitica della Chiesa cattolica, Roma-Bari 2006, p. 66.
52 S. Magister, Chiesa extraparlamentare, cit.
53 G. Quagliariello, Cattolici pacifisti teocon, cit.
54 La XIV legislatura sarà così attenta a onorare il patto del 2001 che – al suo compimento, nel 2006 – il ministro Sandro Bondi provvede a inviare a tutti i parroci italiani un opuscolo (I frutti e l’albero. Cinque anni di governo Berlusconi letti alla luce della dottrina sociale della Chiesa, a cura di F. Garagnani, A. Palmieri, s.l., s.d., ma 2006) diretto a documentare «come il governo abbia preso a cuore la libertà della persona, la promozione della famiglia e della vita, il principio di sussidiarietà e di solidarietà. A cominciare dalla legge sulla procreazione assistita e dal nostro impegno a difesa della legge approvata dal governo e che la sinistra ha cercato di abrogare per mezzo di un referendum».
55 Cfr. S. Huntigton, The Clash of Civilizations and the Remaking of World, New York 1996, pp. 12-42.
56 B. Ye’Or, Eurabia. Come l’Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, anti-semita, Torino 2007.
57 M. Pera, Lettera a Joseph Ratzinger, in M. Pera, J. Ratzinger, Senza radici, cit., pp. 73-95.
58 J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, cit., p. 62-63.
59 M. Rosati, Postfazione a J. Habermas, J. Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, Venezia 2005, pp. 85 segg.
60 Ibidem.
61 Cfr. R. Mazzola, La convivenza delle regole. Diritto, sicurezza e organizzazioni religiose, Milano 2005.
62 E. Gentile, La democrazia di Dio. La religione americana nell’impero del terrore, cit.
63 R. Jewett, J.S. Lawrence, Captain America and the Crusade against Evil: the Dilemma of Zealous Nationalism, Grand Rapids 2003, pp. 1-312.
64 Ivi, pp. 313 segg.
65 Cfr. http://www.whitehouse.gov/the_press_office/Remarks-by-the-President-at-Cairo-University-6-04-09/ (20 mar. 2013).
66 M. Massari, Islamofobia. La paura e l’islam, Roma-Bari 2006.
67 Cfr. http://vaticaninsider.lastampa.it/homepage/nel-mondo/dettaglio-articolo/articolo/intolleranza-cristiani-christians-cristianos-intolerancia-intollerance-13696/ (20 mar. 2013).
68 Giovanni Paolo II, Messaggio del Santo Padre al card. Antonio María Javierre Ortas in occasione del convegno per il 1200° anniversario dell’incoronazione imperiale di Carlo Magno, 12 dicembre 2000, in http://press.catholica.va/news_services/bulletin/news/8276.php?index=8276&po_date=16.12.2000&lang=it (20 mar. 2013).
69 Da cui derivano direttamente le direttive 2000/43 e 2000/78.
70 Dichiarazione sul dialogo interreligioso e sulla coesione sociale, adottata dai ministri dell’interno nella Conferenza di Roma dell’ottobre 2003 e fatta propria dal Consiglio europeo (Consiglio europeo di Bruxelles 12 e 13 Dicembre 2003, Conclusioni della Presidenza, doc. 5381/04).
71 Dichiarazione del Forum del Volga, Nižnij Novgorod 7-9 settembre 2006, consultabile anche on line: http://www.centrodirittiumani.unipd.it/XVIII/ g2/g2_g000009.pdf.