La lingua di Gentile
Si può parlare di Gentile filosofo del linguaggio? O quantomeno di una teoria linguistica riconoscibile all’interno del complesso corpus filosofico gentiliano? Le interpretazioni che nel tempo si sono stratificate sembrano orientate, nella loro varietà, verso una risposta negativa. La produzione gentiliana lascia del resto pochi dubbi, non disponiamo di un lavoro dedicato specificamente alla lingua o al linguaggio, né si può identificare, a rigore, un filone di riflessioni che convergono verso una proposta teorica organica. Le idee linguistiche di Gentile sembrano disperse in «una sorta di diaspora argomentativa» (Fabrizio 2008, p. 11), sia per quanto riguarda il piano più strettamente filosofico, ossia la definizione del ruolo del linguaggio nel sistema dell’attualismo, sia per quanto attiene agli altri scritti (De Mauro 1965, 19753, p. 114).
Si deve concludere, dunque, che il linguaggio, comunque lo si voglia intendere, sia marginale nel pensiero del filosofo? Che questa scelta rappresenti la spia di una complessiva irrilevanza del tema, per quanto riguarda sia il sistema filosofico sia le riflessioni dedicate all’analisi sociale e alle questioni civili – prima tra tutte, l’educazione?
Non è così, come per primi dichiarano gli interpreti appena richiamati. Sul piano strettamente teoretico, nell’arco della sua riflessione, Gentile non smette mai di considerare il linguaggio un problema di prima grandezza. Fin dallo scambio epistolare con Benedetto Croce, riflessione filosofica a due voci sulle forme espressive che precede l’uscita delle Tesi fondamentali di un’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1900), alle pagine postume di Genesi e struttura della società (1946), la convinzione che il linguaggio sia questione schiettamente filosofica, attraversa inalterata il travagliato iter gentiliano. Restano ferme soprattutto le conseguenze che discendono da quell’assunto, ossia che spetti alle categorie della filosofia – non agli strumenti della scienza o della tecnica – il compito di misurarsi con il linguaggio per chiarirne in modo rigoroso natura e funzione. La lingua, in parole più prossime alla prosa gentiliana, è un fatto dello spirito e solo la ricerca filosofica può indagarla in modo produttivo. Questo è il primo, delicato, passaggio da chiarire, quello che forse ha generato il maggior numero di fraintendimenti.
Analogamente a quanto è accaduto con la filosofia del linguaggio di Croce, le affermazioni sull’inadeguatezza degli studi linguistici – della grammatica e della logica – devono essere ricondotte entro questa prospettiva per essere comprese fino in fondo. Il riconoscimento della natura autentica del linguaggio è un obiettivo da perseguire contrastando i tentativi di fraintendimento e riduzione. L’obiettivo polemico, per dirla in una formula, è la linguistica, che riduce l’attività verbale a strumento, materia inerte, non la lingua. L’avversione per le scienze sperimentali non va dunque confusa con un’avversione per l’oggetto del quale può essere chiamata a occuparsi. La prospettiva piuttosto va rovesciata: è il riconoscimento del carattere creativo del linguaggio a collocarlo sul piano ideale o filosofico.
Le ragioni di questa sovrapposizione, e delle confusioni che ha generato, vanno cercate in direzioni diverse, senza smarrire però il contesto, ossia il fatto che il Novecento si chiude come il secolo del linguaggio. La Sprachliche Wende ha investito le scienze e la filosofia europea e ne ha condizionato in vario modo gli indirizzi, talvolta questo condizionamento si è tradotto in una contrapposizione tra i due piani, talvolta in feconda collaborazione. In Italia, dato il peso dell’influenza crociana, il radicamento e la diffusione della linguistica e delle sue articolazioni ha coinciso con la battaglia alle posizioni idealistiche, anche molto oltre quella stagione. Non è possibile qui affrontare un tema che supera evidentemente i confini della storiografia filosofica, resta il fatto che sul campo di quella battaglia sono rimaste diverse formulazioni semplificate e molte questioni aperte.
Ma qual è l’idea che ha Gentile del linguaggio? Procediamo per sottrazione, ossia provando a identificare ciò che la lingua non è – sottolineiamo infatti che lingua e linguaggio negli scritti gentiliani, come in quelli crociani, sostanzialmente coincidono.
Il linguaggio non è un insieme di segni; le parole non sono veicoli, unità biplanari dotate di una forma e un contenuto, riunite in codici soggetti a regole. La prospettiva di Gentile è radicalmente antisemiotica, ossia esclude qualunque forma di dualismo: «L’idea e la parola non sono due termini da accoppiare, bensì una cosa sola, o meglio un solo atto» (G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica, 1° vol., Pedagogia generale, 1913, 20125, p. 60). Il rifiuto del dualismo esprime la distanza rispetto a una visione strumentale del linguaggio, che porta a concepire le parole come segno – «Aliquid stat pro aliquo», secondo la nota definizione agostiniana – disconoscendone la natura creativa, ma soprattutto Gentile esclude l’esistenza di un piano della riflessione preesistente al linguaggio.
Per chiarire il punto è d’aiuto soffermarsi sull’area semantica alla quale Gentile attinge per le sue metafore: l’affermazione che la lingua sia «corpo» non va intesa solo come un’efficace formula retorica, che scarta rispetto alle soluzioni correnti. Si tratta invece di un’espressione funzionale a sottolineare il carattere concreto del pensiero, della verità che il pensiero, nella sua autonomia, esprime. L’attività verbale non è, dunque, un abito che si adatta e nemmeno una forma: le parole non possono rinviare ad altro che a loro stesse. Da questa concezione discendono corollari teoricamente rilevantissimi: una teoria della comprensione fondata sul carattere universale della lingua e una prospettiva sull’origine del linguaggio basata sull’irripetibilità dell’atto espressivo.
Il rifiuto di intrerpretare la lingua in chiave semiotica porta all’esclusione della possibilità di ricostruire sulla base delle forme un contenuto.
Se la parola è universale per la sua intrinseca necessità e quasi connaturale aderenza allo spirito che esprime, è anche chiaro che la parola non può esser segno né di cose né di momenti spirituali (p. 59).
Per dirla con Karl Wilhelm von Humboldt, è la comune umanità propria del logos a consentire l’intesa, la convergenza attraverso le lingue. Se dovessimo ricostruire sensi comuni sulla base di forme da essi disgiunte, dovremmo prima presumere di accordarci sulla rappresentazione che essi veicolano. Ma come si è visto, non è certo questo il modello di lingua al quale fa riferimento Gentile. È la consonanza spirituale a consentire la possibilità, propria di ciascun essere umano, di figurare il pensiero altrui.
E chi voglia intendere le parole, guai se le prende ad una ad una come il pensiero le mette insieme; guai se
deve cercarle nel vocabolario; guai se si ferma a considerarle nel loro suono, che è l’insieme di tanti suoni, o nella loro forma flessionale, e insomma per quel che esse sono in se stesse meccanicamente, private dell’anima che vibra nella sintesi del pensiero espresso. Il pensiero è pensabile a un patto; che sia pensare d’un pensante, e si scorga perciò nel flusso che emana dall’anima che pensa (G. Gentile, La filosofia dell’arte, 1931, 20122, pp. 197-98).
Le riflessioni sulla comprensione, non casualmente, vengono sviluppate nell’ambito di considerazioni sulla teoria dell’origine del linguaggio, tema nodale per tutto l’idealismo, che per Gentile acquisisce una curvatura particolare. Se il linguaggio accompagna il cammino umano, non ha senso porsi la domanda sulla sua prima comparsa. Le parole, le frasi, sono un unico atto espressivo, irripetibile, che nasce ogni volta nuovo.
Gli elementi fin qui richiamati convergono nel delineare un quadro teorico nel quale il linguaggio non gioca una ruolo marginale. Non s’incontra certamente una linguistica, nella filosofia di Gentile, ma una riflessione diffusa, consapevole del ruolo che il linguaggio ha nella vita umana. L’assenza di un approfondimento articolato non va in alcun modo equiparata a un’assenza di considerazione. Occorre cogliere invece le indicazioni che quei pensieri sparsi contengono: il rifiuto per l’approccio positivista, la decisa negazione di teorie fondate sullo studio delle partizioni – grammatiche e vocabolari – e l’altrettanto netta affermazione del primato della parole, non sono solo espressioni dello Zeitgeist idealista. Il punto di partenza è l’atto linguistico, sono le parole e le frasi pronunciate e scritte, come tali certamente irreplicabili ma ben inserite dentro una storia che, ponendo limiti, consente loro di acquisire una forma che le rende comunicabili e comprensibili. Questa è indubbiamente la lezione da cui partire per comprendere il ruolo che il linguaggio, come forma espressiva, svolge nel pensiero del filosofo.
Lo studio che presentiamo nelle prossime pagine si concentra, dunque, sulle parole. Abbiamo concentrato l’analisi su due testi chiave: Teoria generale dello spirito come atto puro (1916) e Genesi e struttura della società (1946). Con le cautele proprie di ogni semplificazione, abbiamo voluto analizzare testi rappresentativi delle due direttrici di ricerca gentiliana: il primo è esempio della scrittura filosofica volta alla composizione del sistema, il secondo di uno stile che si misura con la comunicazione dei temi legati all’analisi sociale e all’educazione. Partire dalle parole consente di mettere a fuoco i significati più ricorrenti, gli accostamenti e le opposizioni alla base delle scelte argomentative e comunicative compiute. L’osservazione dell’uso della lingua – per es. l’adesione o la rimessa in discussione rispetto a questo o quel determinato significato – sono un osservatorio di grande interesse per comprendere i riferimenti concettuali adottati dal filosofo. Ma più di ogni altra valutazione, considerate le finalità di questo saggio, tornare alla parole significa toccare con mano, come la comunicazione, la comprensione – la trasmissione del senso – siano posti come problemi e come, ogni volta, venga sciolto il nodo della loro soluzione.
Guardiamo dunque alle parole di Gentile servendoci delle possibilità offerte dall’analisi automatica dei testi: un trattamento della lingua che si avvale della statistica e della linguistica computazionale e che è quanto più utile a rilevare le scelte linguistiche operate dai parlanti nei contesti specifici quanto più si è disposti a interrogare e scavare nei testi, estraendone informazioni di primo ordine, a partire dalle unità lessicali, e di secondo ordine sulle modalità di organizzazione linguistica dei testi e sui loro contenuti.
I documenti in formato digitale sono il punto di partenza per la costituzione di un corpus, ma una collezione di testi, raccolta per una specifica analisi, richiede, oltre alle necessarie proprietà comuni di raggruppamento e di trattamento dei dati digitali, un criterio minimo di rappresentatività statistica del campione di lingua che intende descrivere. Ai fini di questa ricerca, non essendo a oggi disponibili in formato digitale le Opere complete di Gentile, abbiamo selezionato due scritti tra quelli già digitalizzati in grado di rappresentare, come anticipato, gli usi linguistici dell’autore sia sul versante della scrittura relativa alla sistematizzazione più propriamente filosofica, sia sul versante della scrittura relativa a un generale impegno politico e sociale. Sono dunque stati campionati integralmente la Teoria generale dello spirito come atto puro (d’ora in poi Teoria), nella quale i concetti fondamentali del nascente attualismo trovano una prima sistemazione complessiva nell’impianto filosofico di Gentile, e la Genesi e struttura della società (d’ora in poi Genesi), libro postumo nel quale la comunità degli uomini e la convivenza umana sono descritte nell’intreccio che lega insieme etica, logica e politica. La Teoria e la Genesi sono tipologie testuali specialistiche, benché diversamente caratterizzate. Tale diversità non impedisce di fornire un panorama dell’uso linguistico complessivo della scrittura gentiliana; al contrario permette di marcare più nettamente alcune differenze con cui vengono presentati e vissuti questi due universi di discorso.
Non si tratta di operare quella che Gentile avvertiva come una delle insidie del linguaggio, lasciandosi cioè «irretire nelle maglie del linguaggio meccanicisticamente analizzato» (G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, 1916, 20127, p. 25), ma esattamente al contrario valorizzare la dimensione individuale, contingente e creativa che, in termini saussuriani, la parole esercita sulla dimensione della langue per ricostruire un più generale quadro dell’uso della lingua in Gentile. Secondo le indicazioni del filosofo siciliano, la
parola, quale i grammatici la studiano (o piuttosto, credono studiarla), quasi membro per sé stante dell’organismo linguistico, suona viva e pregna del suo significato, nella funzione che le è essenziale, soltanto nel contesto di un discorso (G. Gentile, Sommario di pedagogia, 1° vol., cit., p. 56),
ed è proprio nel contesto di occorrenza che le parole vanno studiate, con la fondamentale consapevolezza dell’importanza che ogni accadimento linguistico ha per la lingua.
L’analisi automatica dei testi si basa, infatti, su due differenti tipologie di unità di analisi: le unità di testo (o unità lessicali) e le unità di contesto (o unità testuali), ciascuna pertinente al corrispondente oggetto di studio. Nell’analisi di tipo lessicale l’oggetto di studio è il lessico di un corpus, del quale fornisce una rappresentazione paradigmatica; si tratta di un’analisi di tipo verticale su insiemi di parole in cui ogni rappresentazione è fornita in maniera indipendente dallo sviluppo del discorso. Nell’analisi di tipo testuale l’oggetto di studio è il co-testo, cioè l’insieme di occorrenze nel concatenarsi e fluire delle parole in frasi lungo l’intera estensione del testo, secondo lo sviluppo del discorso; essa è in grado di restituire una rappresentazione sintagmatica del testo, sia localmente attraverso analisi di concordanze, sia globalmente attraverso analisi di co-occorrenze o rappresentazioni di entità di interesse di volta in volta definite. Elementi basilari in entrambi i casi sono le parole e le loro successioni nel testo, sia come singole occorrenze grafiche (in forma flessa), sia come lessemi (secondo la classica forma base di citazione, che comprende tutto l’insieme delle forme flessionali).
Attraverso queste tipologie di analisi, lo studio intende mettere anzitutto in evidenza nei testi le informazioni più significative per i due livelli di analisi, sotto il profilo di alcune caratteristiche scelte linguistiche attualizzate negli scritti di Gentile, e delle peculiarità dei concetti presenti nei testi in maniera evidente o latente, sottostante ai contenuti del testo.
Il corpus costituito dalla Teoria e dalla Genesi raccoglie in centinaia di pagine oltre 130.000 occorrenze di parole, che producono un vocabolario di circa 11.000 parole distinte. Fra queste, più di 6000, quindi più della metà, sono hapax, ovvero parole che occorrono un’unica volta all’interno di uno dei due testi. Escludendo le forme di tipo grammaticale e funzionali alla costruzione delle frasi (articoli, preposizioni, congiunzioni e verbi ausiliari), le prime venti forme grafiche più frequenti di ciascun testo sono riportate nella tabella 1.
Queste due liste di base colgono già alcune caratteristiche essenziali delle ricorrenze lessicali all’interno dei due testi, marcate dalle diverse frequenze di occorrenza di parole come «vita», «uomo», «Stato», «volere», «libertà», «natura», «volontà», «realtà». Inoltre, per alcune di queste forme, quali «uomo», «Stato» e «individuo», le differenze tracciate dalle frequenze possono essere un ottimo punto di partenza per interrogarsi sulla costante opera di ridefinizione messa in campo da Gentile e solitamente intesa come esempio di slittamento terminologico, tale, secondo alcuni, da rendere poco determinabile la griglia concettuale attraverso cui il filosofo presenta lessicalmente gli oggetti del proprio discorso, come un limite che scaturisce e, allo stesso tempo, è all’origine di una carenza di creatività linguistica nella proposta di Gentile (cfr. Natoli 1989; Amato 2011).
La frequenza di una parola, intesa come numero delle sue occorrenze all’interno di un corpus, è generalmente il primo dei criteri quantitativi disponibili per l’analisi dei testi. Come è noto, la frequenza mette bene in evidenza il dato statistico, che restituisce le parole grammaticali e le parole tema in cima agli elenchi di occorrenza. Altrettanto nota però, da un punto di vista linguistico, è la prevedibilità della forte presenza di questi elementi; nel primo caso perché sono funzionali alla costruzione delle frasi, nel secondo caso perché riproducono il focus degli argomenti di un corpus. Le parole inoltre più sono usate e frequenti, tanto più sono potenzialmente estensibili nel significato, proprio perché il loro utilizzo così intenso può nascondere usi e accezioni o funzioni differenti nelle maglie co-testuali delle numerose occorrenze. Volendo essere più precisi nel ponderare le parole secondo le occorrenze, è possibile considerare il loro uso all’interno del corpus. L’uso, infatti, si calcola attraverso un ridimensionamento delle frequenze assolute di una parola in funzione del suo grado di dispersione nelle varie parti del corpus. Si può ipotizzare infatti che un’unità lessicale sia tanto più usata quanto più è diffusa in ogni partizione del corpus (in ogni sub-testo), ossia in ogni raggruppamento di frammenti del corpus. Frammentando la collezione sulla base dei capitoli delle due opere, calcoliamo dunque la dispersione di ogni parola, intesa come forma grafica di occorrenza – la dispersione massima è indicata con valore 1, quella minima con valore 0 – e il relativo uso da parte di Gentile (moltiplicando la quantità di occorrenze di un’unità di testo per la dispersione, per cui se questa è pari a 1 non c’è ridimensionamento del peso delle occorrenze). Le prime venti forme grafiche più usate nel corpus di testi in esame sono riportate nella tabella 2.
Parole con altissimo indice di dispersione, come «mondo», «reale», «spirito», «realtà», «vita», «unità», «soggetto», «spirituale», «oggetto», «uomo», «esperienza» (o, fuori dalla tabella ma ancor più disperse, «pensare», «comune», «fondamentale», «cose»), possono allo stesso tempo essere parole tema, trasversali agli argomenti trattati nei singoli capitoli delle due opere, e forme suscettibili di assumere diversi significati o sfumature semantiche se scomposte nei loro usi concreti, soprattutto quando inglobate in locuzioni e formazioni più ampie di una singola parola.
Un riferimento generale sulla copertura del testo: con poco più di 2000 parole, intese come forme grafiche, la copertura del corpus raggiunge il 90% dell’intero testo; ovvero basterebbe il 20% del vocabolario estratto dal corpus per illustrare i contenuti delle due opere. Il dato è particolarmente evidente in Teoria, per cui basterebbero circa 1700 parole per coprire il 90% del testo, mentre è decisamente meno marcato in Genesi, per cui la percentuale richiesta raggiunge il 30% del vocabolario estratto dall’opera. In realtà, come abbiamo anticipato, non tutto si evince dalle frequenze e dalle parole più in mostra e proprio nel restante 10% potrebbero annidarsi molte delle originalità e delle entità più interessanti che possono ricorrere anche solo una o due volte nel testo, ma non per questo non essere fondamentali nell’interpretazione dello stesso.
Se si scorre l’elenco delle fonti della più grande opera lessicografica italiana, il GRADIT (Grande dizionario italiano dell’uso, a cura di T. De Mauro, 8 voll., 1999-2007), si scopre che sono ricondotte a Gentile una ventina di parole introdotte dal filosofo nell’uso linguistico italiano, tra le quali: «autoctisi», «desanctiano», «fisico-teologico», «irrazionato», «oggettivistico», «ontoteologia», «prepolitico», «soprastorico». Si tratta cioè di parole originali nella lingua di Gentile, introdotte o rese circolanti dal filosofo prima che i dizionari le annoverassero tra le proprie entrate e che successivamente sono state registrate nei repertori lessicali in uso della lingua italiana. L’analisi delle originalità insieme al linguaggio peculiare, ossia quel nucleo di vocabolario che misura la tipicità intrinseca sia positiva sia negativa di un testo, sono alcuni tra i primi strumenti usati in analisi automatica dei corpora ai fini dell’analisi del contenuto.
Si parla di linguaggio peculiare in riferimento alle porzioni di vocabolario che risultano sovra o sotto utilizzate rispetto all’atteso, cioè all’uso medio che le stesse parole hanno in un lessico di riferimento. La peculiarità di un testo è così ipotizzabile a partire dalle parole che i vocabolari in esame e di un lessico di riferimento hanno in comune, che risultino sovra o sotto utilizzate, ed esaminando le parole originali nei vocabolari sempre rispetto a un lessico di riferimento.
Per estrarre il linguaggio peculiare di Gentile abbiamo calcolato lo scarto d’uso delle singole forme grafiche rispetto a un lessico, l’Italiano standard, estratto dal corpus POLIF, un’ampia collezione di testi (stampa, discorsi parlamentari, documenti istituzionali, saggistica, letteratura, interviste, dialoghi) che raggruppa oltre quattro milioni di parole riconducibili a varietà di italiano scritto, scritto-parlato, parlato-scritto e parlato (Bolasco 2013, pp. 256-64). Le parole più tipiche estratte sono riportate nella tabella 3, per brevità si riportano le prime dieci forme sovrautilizzate e le prime dieci forme originali per ciascuna opera.
Fin da subito si osserva che, a meno di alcune forme peculiari per entrambe le fonti, ci troviamo di fronte a due universi lessicali ben distinti. Attraverso questo genere di analisi è possibile avere in poche decine di parole una rappresentazione sufficientemente efficace del fenomeno oggetto di studio, inteso come linguaggio peculiare di un autore o di un’opera. Per completare questa sezione, alle forme di intersezione con il lessico di riferimento vanno aggiunte le parole originali all’interno del corpus. Fra queste figurano, ancora, forme estremamente rappresentative dell’universo di discorso messo in opera all’interno dei due testi e che caratterizza, in maniera più generale, diversi aspetti della lingua di Gentile: «spazialità», «teoretica», «Dio», «non-Io», «immanenza», «subumano», «autoctisi»; tutte parole che pur rientrando nella lingua italiana non si ritrovano nel corpus che è stato alla base del campione di testi del lessico di riferimento.
Per rintracciare le principali azioni, in accezione linguistica, delineate da Gentile nei due testi, è interessante spostare il focus dell’analisi sui verbi peculiari. Per essi il confronto con il lessico di riferimento è fatto a livello non di singole forme bensì di lemmi. Nella tabella 4 sono riportati i primi dieci lessemi verbali che risultano sovrautilizzati nel corpus di testi gentiliani.
La differente informazione ricavabile dall’analisi dei verbi peculiari nella scrittura di Gentile, rispetto a quelli in assoluto più frequenti, è netta. I verbi più frequenti infatti sono funzionali alla costruzione delle frasi e allo scorrere del discorso, mettendo in evidenza una porzione relativamente piccola di informazioni. Al contrario, i verbi peculiari disvelano fin dai primi ranghi maggiori contenuti tematici, lasciando in secondo piano verbi più generici, e già da questa analisi iniziano ad affiorare tendenze legate alle sfumature espressive di Gentile e ai modi in cui, diversamente nei due testi, sono lessicalizzati le azioni e i processi legati all’attività verbale, all’attività riflessiva e all’azione.
Nel caso della Teoria portando in evidenza molti verbi legati all’attività filosofica, riflessiva, verba dicendi o che designano, generalmente, azioni linguistiche; nel caso della Genesi mostrando una tendenza all’agire più marcatamente messa in evidenza dai verbi legati alla ricca sfera del fare.
Se grazie alla tecnica contrastiva dello scarto fra due lessici siamo in grado di distinguere un testo comune da un testo filosofico, grazie all’analisi contrastiva e all’applicazione di un test statistico è possibile estrarre parole caratteristiche della Teoria rispetto alla Genesi e viceversa. Rispetto al lessico peculiare, con l’analisi della specificità si indaga l’uso caratteristico delle parole entro testi omogenei e, una volta estratte entro soglie di frequenza prestabilite, per contrasto, si verifica la probabilità di sovra-uso rispetto ad altri frammenti. Si tratta di poter dire se e quanto un’unità lessicale sia caratteristica o specifica di un sub-testo rispetto all’intero corpus, analogamente a quanto si è calcolato nel precedente paragrafo per la peculiarità di una forma rispetto a un lessico di riferimento sulla base di uno scarto standardizzato. Nella tabella 5 sono riportate le prime venti specificità positive per ciascuno dei due testi.
Le parole caratteristiche descrivono le specificità dei singoli testi rispetto al corpus d’analisi. Quando il numero di occorrenze di una parola (si pensi a «uomo», «Stato», «volere» o «politica» per la Genesi) supera largamente il valore atteso, la parola è caratteristica di quella parte (specificità positiva). Nel caso opposto, la bassa frequenza è un risultato ugualmente significativo, ovvero esisterà un motivo per cui la parola non è presente nel testo quanto ci si aspetterebbe; in tal caso la parola è anticaratteristica o rara, in quanto sotto-rappresentata (specificità negativa). Secondo l’indicazione dello stesso autore, gli orizzonti semantici del discorso di Gentile non vanno caricati di tecnicismo, ma (si pensi a «uomo» in relazione a «individuo» e «Stato», o a «realtà» in relazione a «storia» e «filosofia») occorre ricomporre la trama testuale e co-testuale che consente all’autore di esercitare tutto il gioco semantico concesso proprio nel sistema della langue alle attualizzazioni della parole, senza con questo nulla perdere dell’aspetto al tempo stesso storico e, perché no, creativo, personale dell’uso linguistico.
Per quanto circoscritta, come si è visto, l’analisi svolta mostra risultati di grande interesse, che meriterebbero riflessioni e approfondimenti ulteriori. Si possono trarre fin d’ora, tuttavia, alcune indicazioni significative, a partire dalle differenze registrate tra i due testi. Non meno rilevanti risultano altri due aspetti, ossia l’emergenza decisa di alcune parole tema, la modalità della loro ricorrenza, lo sforzo continuo di ridefinizione del loro significato.
La distanza linguistica tra i lavori presi in esame è segnata principalmente dall’area semantica dei verbi ricorrenti. In Teoria l’argomentazione è caratterizzata in maniera peculiare dai verbi legati all’area della riflessione – «pensare», «conoscere», «dire» –, in Genesi si affermano invece i verbi legati all’azione e al fare – «agire», «fare», «operare». Se andiamo a verificare la corrispondenza di tale articolazione sul terreno lessicale, escludendo le forme verbali, troviamo una conferma parziale; come abbiamo affermato più su, ci troviamo davanti a due universi lessicali ben distinti. In Teoria emergono i vocaboli legati alla ricerca filosofica – «realtà», «molteplicità», «storia», «concetto», «spazio», «filosofia», «metafisica» – rispetto all’altro volume, dove incontriamo invece forme come, «uomo», «Stato», «volere», «politica», «società», «vita». La distanza tra i due testi sotto il profilo linguistico sembra suggerire qualcosa di più di un Gentile dal duplice habitus intellettuale (Fabrizio 2008, p. 11), lo scarto sembra rinviare, infatti, anche all’asse diacronico, a una estensione dei nuclei tematici riconducibile allo sviluppo interno della riflessione, e ai problemi con i quali, volta per volta, questa è chiamata a misurarsi.
Ciò che risulta interessante rispetto alla diversa distribuzione delle parole esaminate, e che l’analisi di contesto ci ha consentito di osservare, è la coesione della loro ricorrenza e interdefinizione: sono lemmi che viaggiano, per così dire, in gruppo, richiamandosi continuamente. Non si tratta di una dispersione legata alla centralità della singola parola tema nell’economia dell’argomentazione, ma di uno sforzo di ridefinizione complessiva. L’occorrenza ripetuta del blocco «realtà», «pensiero», «natura», «molteplicità» – nel caso di Teoria – e di «uomo», «Stato», «vita», «società» – per Genesi – sembra essere specchio di una concentrazione strutturata, più che una ricorrenza obbligata. È come se l’occorrenza di ciascuna di esse richiamasse in blocco le altre, indipendentemente dal contesto. Non si è davanti solo a un linguaggio settoriale, allo specialismo filosofico: le parole richiamate hanno tutte una fortissima valenza semantica, il loro ricorrere in gruppo sembra rinviare, piuttosto, a una tensione con i concetti che ciascuna di esse richiama.
E veniamo, così, all’ultimo e forse al più importante dei nodi che l’analisi ci consegna, ossia il riconoscimento del problema del significato nelle lingue storico-naturali. Nelle parole di Croce:
Ogni vocabolo porta seco, in misura maggiore o minore, l’appicco a equivoci perché si aggira in questo basso mondo, che è pieno di tranelli; e la ricerca di vocaboli che impediscano assolutamente gli equivoci, di quel fissamento dei significati che è il sospiro di molte anime candide, riesce affatto vana, perché bisognerebbe anzitutto tarpare le ali allo spirito umano, fermarlo nella sua opera incessante, progressiva e rivoluzionaria (B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, 1909, 1996, p. 24).
A questa incertezza, e al parallelo rifiuto della lingua perfetta, concetto estraneo alla storia umana, Gentile risponde con un lavoro costante e sistematico di ridefinizione dei significati. Le parole, prese una a una, ma soprattutto nel contributo che, accostate le une alle altre, danno al senso di un testo, hanno un valore specifico del quale il filosofo ha piena consapevolezza. Il lavoro di precisazione delle singole accezioni, l’attenzione per le forme complesse, lo scarto rispetto allo standard linguistico, osservati nella ricerca rivelano fino in fondo questa tensione. La complessità dei testi, l’uso frequente di forme rare al limite del neologismo non sono indici di una trascuratezza del versante della comprensione. Piuttosto è vero il contrario: la consapevolezza della natura del linguaggio porta al lavoro costante e puntuale su di esso. La resa piena del senso che la parola, la frase e il testo sono chiamati a esprimere esige questo sforzo.
Il primato della parole, dell’atto linguistico ante litteram è il caso di dire, è il primato dell’istante enunciativo, che però trova il suo limite, la sua forma, come abbiamo scritto, nel flusso storico. Al di fuori di esso non c’è nulla che possa diventare comunicabile e comprensibile. Non è un caso che su questo terreno si sciolga anche l’articolazione e la distinzione concettuale lingua/linguaggio. La diversità delle lingue non è ostacolo alla comprensione in ragione dell’unità del logos, come il tempo è vinto dalla memoria che, attraverso le lingue, custodisce la cultura.
L’uomo che pensa parla. Parla non parole, ma concetti. Non si chiude in concetti segreti e ineffabili, che sarebbero immagini immediate e vuote parole; ma conversa con se stesso, discorre mentalmente; e perciò discorre pure cogli altri e instaura un mondo socievole, in cui tutto quello che è suo, che è lui, è di tutti: e ha virtù perciò di fondere e unificare ogni molteplicità empirica di esseri pensanti: i quali non pensano infatti se non parlano e parlando un linguaggio comune (G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, 1917-1923, 20123, p. 284).
Oltre le etichette e le partizioni disciplinari, la lingua in Gentile è un tema ben presente. Nella teoria come nella pratica, il filosofo mostra attenzione e consapevolezza del peso del linguaggio nella vita degli individui e delle comunità umane, rivelandosi fino in fondo figlio del suo tempo. Gli strumenti di cui oggi disponiamo mostrano, dunque, la necessità di riaprire il cantiere di una ricerca tutt’altro che conclusa, mentre risultano invece esaurite le ragioni che fino a oggi non lo hanno consentito. Le sorprese, come vediamo, potrebbero non essere poche.
T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Roma-Bari 1963, 200810, pp. 36-50 e 126-41.
T. De Mauro, Introduzione alla semantica, Roma-Bari 1965, 19753, pp. 103-26.
S. Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Torino 1989.
G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze 1995.
G. Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile, Bologna 1998.
F. Giuliani, Espressione ed ethos. Il linguaggio nella filosofia di Benedetto Croce, Bologna 2002.
B. de Giovanni, La filosofia e l’Europa moderna, Bologna 2004.
C. Fabrizio, Idee linguistiche e pratica della lingua in Giovanni Gentile, Pisa-Roma 2008.
A. Amato, L’etica oltre lo Stato. Filosofia e politica in Giovanni Gentile, Milano 2011.
S. Bolasco, L’analisi automatica dei testi. Fare ricerca con il text mining, Roma 2013.