La lingua
La proiezione marittima e commerciale della società veneziana durante il Duecento, per quanto assorbente, non basta da sola a spiegare il ritardo con cui il volgare si afferma nelle scritture letterarie. Anzi, in generale, ci si aspetterebbe un rapporto di tutt'altro tipo, come vien suggerito dal confronto con le città della Toscana, dove proprio lo sviluppo economico sembra aver favorito il diffondersi del nuovo mezzo espressivo. Un successo, quest'ultimo, cui diede decisivo contributo l'ambiente laico dei maestri di retorica e di diritto, i quali da Bologna influenzarono il notariato toscano, ma non quello veneziano che laico non era (1). A Venezia infatti continuava, e a lungo sarebbe continuato, il monopolio clericale della professione notarile, col che veniva a mancare un canale importante per la diffusione della cultura laica e volgare (2): in quella città senza corte non c'era posto per un notaro Giacomo, e nemmeno per un ser Brunetto (3). Inoltre la vicenda, già ricordata (4), di Bartolomeo Zorzi ha un valore emblematico, confermato da altre analoghe vicissitudini di letterati nei secoli successivi: spiccano, per la statura dei personaggi coinvolti, quelle di Pietro Bembo, Galileo Galilei e Carlo Goldoni (5). Bembo appunto nelle Prose metterà in bocca al fratello Carlo un giudizio molto negativo sulla lingua ("si veggono le toscane voci miglior suono avere, che non hanno le viniziane, più dolce, più vago, più ispedito, più vivo"), ma soprattutto sulla letteratura veneziana ("la nostra lingua, scrittor di prosa che si legga e tenga per mano ordinatamente, non ha ella alcuno; di verso, senza fallo, molti pochi") (6).
Eppure proprio i preti-notai ci forniscono già nel Duecento, ma soprattutto a partire dal Trecento, una documentazione del veneziano che, per il fatto stesso d'essere estranea a intenzioni letterarie, ha particolare interesse dal punto di vista linguistico. Succede infatti che spesso la minuta olografa o allografa fornita dal testatore in volgare venga autenticata, inglobandola nello strumento, senza tradurla: il testamento consta dunque, in successione, d'un protocollo latino, d'un dispositivo volgare, d'un escatocollo latino. L'affermarsi di tale struttura bilingue è senza dubbio favorito dal fatto che a Venezia non esistevano i notai come gruppo sociale caratterizzato dalla specifica funzione burocratica e portato quindi a elaborare regole di autodisciplina rigide anche dal punto di vista formale; si può immaginare infatti che il clero parrocchiale, esercitando in subordine la funzione notarile, vi avesse trasferito, pur nel rispetto dei principi generali, una tolleranza verso il volgare che derivava dalla quotidiana esperienza della cura d'anime. Cedole testamentarie, e in minor misura deposizioni e contratti (cioè altri testi d'àmbito giuridico), costituiscono la quasi totalità del corpus delle scritture di carattere pratico, di quelle cioè che meglio riflettono, a Venezia come in qualsiasi altro posto, l'uso linguistico comunicativo ordinario. Se poi il più antico testo veneziano in originale datato consiste in una descrizione di terre nel Ferrarese (7), si tratterà d'un'eccezione che conferma la regola, dato che non solo è da venire la conquista della Terraferma, ma lo stesso investimento immobiliare procede con lenta progressione ancora per tutto il Trecento. Ben si spiega dunque l'assenza dei libri di conti legati alla gestione di proprietà terriere, in varia combinazione con attività mercantili e bancarie, e più tardi spesso arricchiti, altrove, di ricordi personali e di ammaestramenti per la famiglia. Tutto ciò è normale a Firenze, ma non a Venezia, dove, se qualcosa del genere fosse esistito, probabilmente non sarebbe stato conservato in una casa-azienda cittadina, ma avrebbe accompagnato il mercante nei suoi lunghi viaggi marittimi, condividendone le peripezie (8).
Agli stessi rischi di accidentale distruzione erano esposte le pratiche di mercatura, ovvero, come si diceva a Venezia con parola d'origine araba, le tarife, indispensabili strumenti di lavoro per chi girava il Mediterraneo comprando e vendendo nelle diverse piazze commerciali (9). Inoltre questi libri erano costituzionalmente destinati a servire (e quindi a essere conservati) in quanto contenevano, su pesi, misure, cambi, informazioni aggiornate: è nota la lunga durata di tali informazioni e la loro stratificazione, nell'arco di vari decenni, in uno stesso manoscritto, ma a un certo punto una tarifa diventava inservibile e quindi da buttare. Di tal genere di vademecum si è conservato un esemplare notevolissimo, il cosiddetto Zibaldone da Canal, confezionato verosimilmente negli ultimi decenni del Trecento, e tuttavia contenente materiali che talvolta sembrano risalire addirittura alla fine del secolo precedente (10). Si tratta d'un manoscritto, forse acefalo, di 69 carte di cm 28 × 25; nelle prime 43 si trovano esercizi aritmetici e soprattutto notizie su consuetudini, pesi, misure, prezzi di numerosi porti mediterranei, nonché un manuale per riconoscere le spezie di buona qualità. Ma questo compagno di viaggio contiene (sempre in volgare veneziano) anche altri testi utili al mercante, o capaci di dargli giudiziosa ricreazione: le virtù del rosmarino, istruzioni su come praticare salassi, scongiuri, brani d'un romanzo di Tristano in prosa, il serventese dello Schiavo da Bari (Al nome de Dio è bon commençare) e quello del dio d'Amore (Alltissimo re pare de glloria) ecc. (11). Non manca dunque un po' di letteratura di consumo, né poteva mancare del tutto in ambiente veneziano, perché ai limiti strutturali della società e dello Stato faceva da contrappeso l'apertura internazionale della città, vero crogiuolo di lingue e di culture diverse, non esclusa quella toscana: è documentata la presenza di mercanti toscani già alla fine del Duecento, più o meno quando Lapo Gianni vi avrebbe rogato atti notarili (12); poi, dopo la riconquista ghibellina di Lucca nel 1314, esuli lucchesi introducono a Venezia l'industria serica (13). Più o meno nella stessa epoca arrivano sillogi poetiche toscane e ne inizia, ad opera di copisti locali, un processo di appropriazione linguistica che porterà, nell'arco più o meno d'un secolo, a testi originali riproducenti l'ibridismo preterintenzionale delle copie, tanto da rendere talvolta ardua, solo su base linguistica, la loro localizzazione. Tale ibridismo resta di solito entro i confini d'una "tonalità" illustre (14), ma non per questo esso è meno insidioso, come mostra il classico caso della rima, il cui potere dirimente rischia d'essere neutralizzato quando essa risulti perfetta sia restaurando, toscanamente, consonanti doppie, sia accettando come originarie le scempie (15). In questo processo di appropriazione Venezia, per i motivi su esposti, è più lenta della terraferma; eppure è assai significativo il fatto che tra i versi gnomico-popolareggianti aggiunti da mani mediotrecentesche in alcuni spazi rimasti vuoti nel Liber Comunis primus (il solenne registro delle deliberazioni del maggior consiglio), ce ne siano di Guinizelli, di Meo di Bugno e di Dante, nonché altri a lui attribuiti (16).
Dato tale sfondo, risulta un po' meno sorprendente il fatto che il primo imitatore di Dante nel Veneto sia proprio un veneziano, Giovanni Quirini (17). La sua è una resa senza colpo ferire alla supremazia, nell'alta letteratura, del toscano; dopodiché la lingua materna gli risulta disponibile per fini comici e parodici nella tenzone tridialettale della quale sono protagonisti (o sono fatti agire come protagonisti) lo stesso Quirini, Guercio da Montesanto e Liberale da San Pelagio (18). A questa modernizzazione della poesia in volgare si accompagna uno svecchiamento della letteratura in latino grazie all'influsso esercitato sulla cancelleria veneziana dagli umanisti padovani e poi dallo stesso Petrarca, tramite il doge Andrea Dandolo e il cancelliere Benintendi Ravignani (19). Se dunque Petrarca durante il suo più lungo soggiorno veneziano, tra il 1362 e il 1368, lavorò alla sistemazione definitiva e delle Familiari e del Canzoniere, poté farlo in una città dove erano avvenute significative aperture verso le forme linguistiche e letterarie ormai vincenti (20).
Attardata, come quasi dappertutto, resta la prosa volgare: del volgare veneziano si comincia a far uso nella storiografia d'argomento locale durante la seconda metà del Trecento, ma si tratta di prodotti modesti dove, iniziando dalla fondazione della città, si arriva agli eventi contemporanei con più o meno marcati intenti celebrativi; non solo mancano autori dalla spiccata personalità, ma spesso quelle cronache sono giunte a noi in copie tarde e rielaborate, poco utilizzabili dunque dal punto di vista linguistico, almeno fino a quando non se ne farà un accurato esame filologico e un'edizione criticamente fondata (21). Certo è tuttavia che, guardando anche ai testi in latino, dalla fine del Duecento si ha a Venezia un'abbondante produzione cronachistica e ciò avviene in non casuale concomitanza con l'allestimento da parte della Repubblica di grandi raccolte documentarie come i due libri dei Pacta, il Liber Albus e il Liber Blancus. In questi registri non mancano, eccezionalmente, copie di documenti in volgare ritenuti di particolare importanza, come le già ricordate (22) traduzioni dei trattati con Aleppo (23).
Notevole anche il caso di tre lettere ducali copiate nel registro delle lettere segrete del minor consiglio relative agli anni 1308-1310. Esse furono scritte in rapporto al fatto che dopo la caduta dell'Impero Latino d'Oriente (ἡ ῾Ρωμανία, secondo la denominazione greca) i Cavalieri di Malta avevano occupato Rodi e di qui, alla fine del 1308, sembravano minacciare gli equilibri in quell'area, più precisamente nella Romania bassa, come si designavano il Peloponneso, Creta (Crede 2.8), l'Arcipelago e l'Eubea; il doxe Pietro Gradenigo e il minor consiglio mettono in guardia il duca di Creta e il rettore della locale fortezza Χανιά (la Chanìa 2.7), il bailo dell'Eubea (Negropò 2.5, cioè Negroponte) e i castellani di Corone e Modone in Messenia; mandano loro soccorso tramite Zan de Varin e Nicolò Trivisan, ai quali danno istruzioni appunto con tre lettere in volgare, precisando che Zan dovrà rimanere a Modone e ess(er) ali nostri castellani 2.3 (cioè mettersi a loro disposizione), mentre Nicolò dovrà atte(n)der alo dito rector la vardia dela Chanìa 2.10-11, cioè assicurare, garantire al detto rettore l'esecuzione della sorveglianza. Nella terza lettera è nominato anche Mafeo Bon incaricato del trasporto di omeni; ai castellani di Corone e Modone viene richiesto (demandemo) di garantire (inguaiarte) la paga per due mesi ai soldati di cui il Trivisan già dispone (li toi homeni) e a q(ue)sti che v(en) de qua (cioè ai rinforzi provenienti da Venezia). E infatti in altre lettere recapitate a quei castellani si legge: "si videbitur vobis quod non sit necessarium ipsum [il legno col quale il Bon ha trasportato i rinforzi> retinere ultra suum terminum, remittatis ipsum lignum nobis. Si vero condiciones forent tales quod esset necessarium ipsum ultra suum terminum retinere, solvite pagam eidem". Quanto poi a furnirte a terça[ro>lo 3.3, forse gli omeni (tutti o in parte) portati dal Bon per affrontare il viaggio da Capodistria a Modone erano destinati, come si diceva, a "vogare ad terzarolos", dato che proprio all'inizio del Trecento le galere passano da biremi a triremi (24). Il tutto andrà fatto con sollicitudine 1.2 e, si ribadisce, viaçam(en)tre 3.5, cioè ῾velocemente' (25).
[I>
Nu Doxe cum lo n(ost)ro (Con)seio cometemo a ti discreto homo Çan de Varin che, cu(m) q(u)a(n)ta / sollicitudene tu pos, tu vadi a Cavo d'Istria e là toras lo discreto omo Nicolò Trivisan e de là intra(m)bi / ensembre andé, cu(m) tuto lo maor studio che vu poré, en chi a Modhon. E quando vu seré là, debié / avrir la letera n(ost)ra la qual (con)ten en man de vu entra(m)bi e faré quello che se (con)ten en ese. / Dat. ultimo novembr(is) VIIJe indic(ionis).
[2>
Ioh(ann)i de Va(r)ino (et) Nicolao Trivisano. /
Ecoti a vu comandemo p(er) nu e p(er) lo n(ost)ro (Con)seio che, siando vu çonti a Modon, tu Çane / debis remagnir ad Modon (e) ess(er) ali nostri castellani ala guardia de Mothon sì como / eli te ordenerà. Ali qual vu daré le nostre letere le qual nu li mandemo e quelle che // nu mandemo a Negropò e daréli cura çe LXXX furnide de colari e vanti, milliar(a) VJ / de falsado(r)i, milliar(a) VJ de quarelli usadi e ballestre L e libr. XV de spago da ballestra. E fato ço / tu Nicolò Trivisan va' viaçam(en)tre ala Chan(ìa) (e) p(re)séntate alo rector, alo qual tu daràs le nostre / letere che nu mandemo sì ad elio cho' alo ducha n(ostr)ro de Crede e daràs alo dito rector lo rema/gnante dele arme, çoè cura çe C furnide de colari (e) de vanti, ballestre L (e) libr. XV de // spago da ballestre, falsadori milliar(a) VJ (e) milliar(a) VJ de quarelli usadi. E debis atte(n)der alo / dito rector la vardia dela Chanìa (e) far sì co' ello te ordenerà. /
Dat. die ultimo nove(m)br(is).
[3>
Nicolao Trivisano. /
Cum ço sia che p(er) certi n(ost)ri fati ebia besogno che tu vadis in Romania cu(m) Can de / Varin, e p(er)çò nui te ma(n)demo omeni cu(m) Mafeo Bon p(er) furnirte a terça[ro>lo. Mandemo/te coma(n)dando che tu debis tor li diti homeni (e) furnirte (e) cu(m) lo dito Çane de Varin // ensembre andé viaçam(en)tre en chi a Motho(n) e là avrì la letera n(ost)ra che (con)te(n) in ma(n) d'entra(m)bi / e fa' quello ch'ella (con)ten. La paga nu demandemo p(er) li toi homeni p(er) inguaiarte ad / aver paga p(er) IJ mesi sì como q(ue)sti che ve(n) de qua. /
Dat. quo s(upra).
Significativo è il fatto che nello stesso registro ufficiale si susseguano queste lettere in volgare, indirizzate a meri esecutori, e quelle in latino da recapitare a castellani e rettori, cioè a persone di più alto livello socioculturale: i nostri Zan e Nicolò erano certo soldati capaci di missioni pericolose, e sapevano anche leggere, purché tuttavia si trattasse di qualcosa scritto nella loro lingua; di più non si poteva pretendere e occorreva che i governanti ne tenessero conto adottando all'occorrenza il canale comunicativo adeguato.
Il veneziano prosegue dunque l'occupazione di spazi sempre più ampi, ma soprattutto nelle scritture di carattere pratico, a riprova d'un alfabetismo volgare che per molteplici ragioni sembra aver avuto a Venezia notevole diffusione (26); in questa prospettiva si inserisce coerentemente il fatto che il veneziano arrivò, con frequenza e solennità uniche in Italia, a essere impiegato anche in scritture esposte (27). Notevole, se non altro per la data, è quella che si legge in basso a sinistra sull'ancona di San Donato nella basilica dei Santi Maria e Donato a Murano:
Corando
mcccx indi-
cion viii
in te(n)po de lo
5 nobele homo
miser Donato
Memo hono-
rado podestà de
Muran facta
10 fo questa an-
cona de miser
san Donado.
L'ancona, "intagliata in legno, a piani schiacciati che la policromia riduce quasi a pittura" (28), è di controversa attribuzione a Paolo Veneziano. Nella scritta è interessante, dal punto di vista grafico, la coesistenza della solita m gotica con quella alla greca di homo, miser due volte, Muran; dal punto di vista linguistico la densità dei tratti venezianamente pertinenti: la i protonica di miser, la e della preposizione de, la e postonica di nobele, lo scempiamento consonantico in Corando, miser, la sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche in honorado, Donado (ma anche Donato), la caduta di e e di o finali solo dopo nasale e dopo r (indicion, Muran, miser), la cosiddetta forma aferetica dell'articolo in de lo, il metaplasmo nel gerundio corando. Si tratta della più antica scrittura esposta veneziana conservatasi fino ai nostri giorni: infatti quella incisa sulla colonna d'infamia di Baiamonte Tiepolo (oggi nel deposito del Museo Correr) è commemorativa dell'evento del 1310, a distanza di mezzo secolo circa, quando cioè nel 1364 il senato ne decretò l'erezione:
[De Baia> m [onte fo>
questo tereno e mo
p(er) lo so iniquo tradime(n)to
sé po[s>to in chomu(n) p(er) altru[i>
5 [spav> ento e p(er) mostrar
[a tuti> senpre seno.
Più o meno alla stessa epoca va attribuita, sulla base dei caratteri grafici, l'iscrizione (che fu invece ritenuta antichissima) del cartiglio inserito nel fregio che orna in basso la parete esterna del Tesoro di San Marco (29):
L'om pò far e
die inpensar
e vega quel-
o che li pò in-
chontrar.
La produzione di epigrafi volgari subisce un'impennata, proprio intorno alla metà del Trecento, per iniziativa delle Scuole, molte delle quali erano non solo confraternite religiose di laici, ma anche Arti; ben si capisce dunque l'uso del volgare in scritture esposte celebrative, dato il livello sociale medio-basso di quei tintori, orafi, calzolai, sarti, ecc. che le avrebbero lette o se le sarebbero fatte leggere: il contatto linguistico immediato li avrebbe gratificati e confermati nell'adesione fedele e operosa a un'organizzazione pia, ricca e soccorrevole (30). Fra tali iscrizioni spicca quella della lunetta soprastante una porta murata nel chiostro della Scuola Grande di Santa Maria della Carità; di cm 231 alla base e alta cm 99, sormontata da due angeli che reggono l'insegna della Scuola fino a un'altezza complessiva di cm 164, presenta una vera e propria breve cronaca della tragica peste e del terremoto del 25 gennaio 1348 (1347 m.v.). Si tratta d'una prosa narrativa ben costruita e non priva di tensione drammatica, dove ricorre il motivo dei vincoli familiari infranti, come nell'introduzione alla prima giornata del Decameron, per suggestione d'un passo dell'Historia Langobardorum di Paolo Diacono relativo a una pestilenza durante l'impero di Giustiniano. La scrittura, con lettere in rilievo e dorate, è una maiuscola gotica in cui sono frequenti i nessi tra lettere vicine; si nota anche la forma minuscola della h (inserita comunque nello schema bilineare) e onciale della d (ottenuta dotando di asticciola orizzontale filettata una o), nonché la coesistenza della v capitale ad angolo con quella mistilinea. Pochi gli errori: que[s>to 6 e g[l>oria 17 presentano omissione di lettere (restituite tra quadre, così come in con[du>ga 18 le due illeggibili per deterioramento della pietra), certo già mancanti nella traccia preparatoria; e da una traccia male interpretata potrebbe anche dipendere nasio(n) 7, là dove per il senso parrebbe meglio pasio(n) ῾sofferenze': dato l'identico tratto verticale diritto a sinistra, un occhiello non ben chiuso della p avrebbe potuto essere preso per il tratto sinuoso a destra di una n. Ad analogo errore si dovrà forse pensare anche per mortilitad(e) 6 rispetto a mortalitad(e) 10, perché a in legamento con l si prestava a essere letta come i seguita da 1. Il tutto rientra nei margini di tolleranza per tali manufatti, tanto più che nelle iscrizioni in rilievo, ben più che in quelle incise, l'errore grafico, una volta asportato lo strato di pietra, rischia d'essere irrimediabile.
nome de Dio eterno e d(e)la biada vergene Maria. In l'ano dela
Incarnacion / del nostro Signor Miser Ie(su)m Cr(ist)o MCCCXLVII
a dì XXV de çener, lo / dì dela co(n)versio(n) d(e) S(en) Polo cerca
ora d(e) bespero fo gran taramoto i(n) Veniexia e q/uasi p(er) tuto el
mo(n)do e ca çè molte cime de canpanili e case e camini e la glesia de
5 // Se(n) Baseio e fo sì gran spave(n)to che quaxi tuta la çe(n)te pensa-
va d(e) morir e no st(e)te / la tera de tremar cerca dì XL e può driedo
que[s>to come(n)çà una gran mortilitad(e) / e moria la çe(n)te d(e)
diverse malatie e nasio(n). Alguni spudava sangue p(er) la boca e âl-
guni / vegniva glanduxe soto li scaii e ale lençene e âlguni vegnia lo
mal del carbo(n) p(er) le carne e pa/reva che q(ue)sti mali se piase
l'un da l'oltro, çoè li sani dal'infermi (et) era la çe(n)te i(n) tanto
10 spav//e(n)to che 'l pare no voleva andar dal fio, né 'l fio dal pare
e durà q(ue)sta mortalitade cerca mexi / VI e sì se diseva comuna-
me(n)tre ch'el iera morto be(n) le do parte d(e) la çe(n)te d(e) Venie-
xia et i(n) q(ue)sto te(n)/po se trovà eser vardia(n) d(e) q(ue)sta Sco-
la miser Piero Trivisa(n) d(e) Barbaria e vivè cerca mexi II e morì
/ ello e cerca X di soi (con)pagni e co(n) plu de CCC de q(ue)li d(e)
q(ue)sta Scola e fo la Scola in gran derota e / può a dì XX d(e) çugno
fo fato vardian miser Iacomo Bon dala Çudecha. Ancora in questo
15 ano // ave li fedel cristiani una grandisima garcia da miser lo Papa,
che in çascaduna parte / ch'eli moria contriti deli soi pecadi, dal dì
dela Asension de Cristo infina al dì de / Senta Maria Madalena, sença
pena andese ala g[l>oria de vita eterna ala qual sì nde / con[du>ga lo
onipote(n)te Dio, Pare e Fiol Sp(i)ri(t)o S(an)c(t)o, lo qual vive e re-
gna in s(e)c(u)la s(e)c(u)lor(um), amen.
Mentre per un'analisi fono-morfologica vale il quadro d'insieme fornito infra, si noti alla riga 8 il lessico relativo alle manifestazioni della peste: a parte lo mal del carbo(n) ῾carbonchio', spiccano le glanduxe ῾bubboni', gli scaii ῾ascelle' e soprattutto le lençene ῾gli inguini', notevole per la femminizzazione del neutro e per la concrezione dell'articolo, come, tra l'altro, nel friulano lènzit (31). Infine, quanto all'uso del volgare in scritture esposte, ancora un episodio pare significativo: si tratta della carta lapidaria, murata nella loggia interna del palazzo Ducale, che contiene il volgarizzamento della lettera pontificia con la quale Urbano V da Avignone aveva concesso, nel 1362, un anno e quaranta giorni di indulgenza a chi avesse visitato, in quel palazzo, la cappella di San Nicolò e recato elemosine ai carcerati dell'attigua prigione detta Toresele. Documento solenne dunque e per il mittente e per il luogo ove era esposto, eseguito col particolare impegno richiesto dalla scultura, anche in questo caso, di lettere in rilievo; tanto più dunque colpisce che la traduzione risulti almeno in un punto (righe 3-9) inadeguata alla complessa sintassi dell'originale latino; e che la stessa esecuzione del manufatto sia stata mal programmata, è rivelato dal dilatarsi nelle ultime righe dello spazio tra le parole e dalla mancanza di segni d'abbreviazione, come se l'esecutore si fosse trovato di fronte a un non preventivato eccesso di spazio (32).
† Urban vescovo servo deli servi de Dio a tuti li fedeli
de Cristo che lle prexente letere vederà saludemo co(n)
la apostolicha benedicion. Lo splandor dela paternal
gloria, lo qual per la soa ineffabele claritade inlumin-
5 a el mondo, cum çò sia chosa che li pietosi vodi deli fed-
eli sperando dela clementissima maiestade de quello,
in quela fiada grandemente con benigno olturio el li
receverà e per la devota hu(m)ilitade d(e) quelli, per li prie-
gi e mieriti deli Senti, quelli serà aidadi. Desiderando
10 adonqua che lla chapella metuda in lo pallno delo
Doxe de Veniesia in honor e nome de Sen Nicholò, i(n) la qu-
al, sì como nu avemo intendudo, de messe (et) d(e) oltri devini
officii solemni continuamente sia celebradi e con
convegnivelle honori continuada, e a ço che li fedeli
15 de Cristo plu volentiera per chasion de devocion al-
o dito luogo vada, in lo qual luogo plu ubertosament-
e de cellestial don de gracia eli se vega satisfati, de-
la misericordia delo omnipotente Dio e deli biadi Apos-
toli Sen Piero e Sen Polo e per l'aotoritade de queli a nu
20 conceduda, a tuti veramente pentidi e confessi, li qual
anderà in la festa dela Nativitade e dela Circoncisi-
on, dela Epiphania, dela Resurecion del corpo d[e> Cri-
sto, eciamdio le quatro principal feste dela biada
Vergene Maria e delo dito Sen Nicolò, e la dita cha-
25 pela visiterà devotamente e per sostentacion de-
li puoveri prisonieri detegnudi in le charcere
delo dito palaço deli beni che Dio li à dadi pietoxe
helemuosene eli darà, un anno e quaranta dì de-
le inçunte penetencie per çascaduna de q-
30 ueste feste, li dì li quali la dita chape-
la elli visiterà et helemuosena eli
darà sì chome dito, miserichordievole-
mente mo lasemo. Dado in Vignon VII i-
di de mago l'ano primo delo nostro Pon-
35 tifichado. Amen.
Come già detto poc'anzi, quest'uso abbondante del volgare nelle scritture esposte è caratteristico di Venezia e a rendersene conto serve ottimamente il confronto con Genova e soprattutto con Napoli, città quest'ultima dove nel Trecento si ha esuberante produzione epigrafica, quasi tutta però in latino, certo per effetto d'una committenza aristocratica e cortese ben diversa da quella veneziana. Tarda invece a Venezia l'ingresso del volgare negli atti pubblici dei vari organi statali e, dopo avvisaglie quattrocentesche, esso acquisterà consistenza solo all'inizio del Cinquecento, cioè con un cospicuo distacco rispetto, per esempio, a Milano e a Firenze. Un ritardo globale, quello veneziano, che ha tuttavia una sua interna articolazione, perché è stato mostrato, ad esempio, che la quarantia criminale mantiene in vita l'uso del latino più nelle sue sentenze che nell'attività legislativa (33). In questo contesto spiccano dunque le eccezioni rappresentate da due brevissimi capitolari per la milizia cittadina di poco posteriori al 1318 e dal capitolare degli ufficiali sopra Rialto volgarizzato (pare) intorno al 1348 (34). Eccezioni le quali, come nel caso delle tre lettere segrete prima esaminate, si possono almeno in parte spiegare con la necessità di farsi intendere anche da destinatari certamente privi di dimestichezza col latino, come gli uomini d'arme e come tutta la variegata folla dei trafficanti nel centro commerciale che si sviluppava sulla sponda destra del Canal Grande intorno alle chiese di San Giacomo, di San Matteo e di San Giovanni Elemosinario.
Precisatine così i limiti e le caratteristiche, coi primi decenni del Trecento la documentazione comincia a essere abbondante, e consente quindi di delineare in maniera soddisfacente, su base fono-morfologica, la fisionomia linguistica del volgare di Venezia (35). Il veneziano ha una posizione particolare all'interno dei dialetti veneti e padani centro-orientali in genere, con i quali peraltro condivide vari caratteri anche a prima impressione evidenti: sonorizzazione (e talvolta successivo dileguo) delle occlusive sorde intervocaliche; scempiamento consonantico; caduta variamente estesa delle vocali atone finali; evoluzione delle occlusive velari latine seguite da vocale palatale ad affricate dentali e a sibilanti; nella coniugazione verbale, identità della terza plurale con la terza singolare; progressiva eliminazione del passato remoto ecc. Ad altri fenomeni in largo senso romanzo-occidentali il veneziano partecipa a suo modo, come si vedrà a proposito della conservazione di -s.
Le vocali toniche chiuse e (da I breve ed E lunga), o (da U breve ed O lunga) in generale sono mantenute, cioè non si chiudono ulteriormente per metafonesi da -i: dubbia essendo l'interpretazione di dibiti (su forme arizotoniche come dibitori?) e di munesi (stante l'alta frequenza di munega, -e, tipo diventato poi esclusivo), restano soltanto pronomi come nui ῾noi', vui ῾voi', ili e isi ῾essi', quili ῾quelli' e voci del passato remoto come fisi ⟨ FECI, contro fese ⟨ FECIT, spisi contro spese, tini contro tene, tuli contro tole, vini contro vene. In questi verbi sembra presente una doppia determinazione morfologica, tematica e desinenziale, che potrebbe far pensare, ma non necessariamente, a una fase arcaica di indebolimento delle vocali finali fronteggiato conservando la distinzione delle toniche precedentemente prodotta da quelle medesime vocali finali. Rimangono intatte anche la e chiusa davanti a n palatale da NJ, l palatale, n più occlusiva velare etimologica (maregna, conseglo, vençer, strençer, lengua) e la o chiusa davanti a N più occlusiva velare sonora etimologica (açonça ῾aggiungano', longo).
Nei testi documentari più antichi manca quasi del tutto il dittongamento delle toniche e aperta da E breve e o aperta da O breve. In particolare, circa fino a tutto il secondo decennio del Trecento manca documentazione per uò, mentre le poche forme con iè sono in genere accompagnate dal doppione con vocale intatta: contien e conten, diè ⟨DEDIT e dè, diesemo ⟨DECIMU e desemo, miei e mei, Piero e Pero, vien e ven. Questo quadro d'insieme va parzialmente rettificato alla luce della Legenda de Santo Stady, la quale, conservata in un manoscritto datato 1321, presenta già accanto a iera, misier, piera, fuogo, muodo, anche sdruccioli come miedigo, piegore, puovolo e perfino puovero e puocho, cioè l'estensione del dittongo anche a o proveniente da AU (36). Non tragga però in inganno la Cronica deli imperadori, che è sì testo datato 1301, ma conservato in copia della prima metà del Quattrocento: con ciò si spiega l'esuberante presenza del dittongamento, compresi sdruccioli (lievore, piegore) e forme con o da AU (puoco e puovri ῾poveri') (37).
Per quanto riguarda il vocalismo atono non finale, è notevole la tendenza all'apertura della i sia postonica (anema, femene, lemosena, munega, nobele, simele, utele), sia protonica (menor, segnor, senestri, vertù). Quando sono implicati prefissi, si ha per lo più des- (desmontado, despartido, desposto) e in- (inpento, inpensar, inpensieri). Si ha sincope della e di rado e solo tra dentale e erre: a parte ovra e povri, si tratta degli infiniti originariamente sdruccioli metre, vendre, entendre, rendre, scrivre (coesistenti col tipo meter).
Rispetto ad altre zone dell'Italia settentrionale e del Veneto stesso, a Venezia le vocali finali sono soggette a dileguo in misura modesta (38); il fenomeno, ben definito fin dalla documentazione due-trecentesca, riguarda -e e -o solo dopo consonanti semplici che non derivino da precedenti doppie o da gruppi consonantici. A questa restrizione fonetica se ne aggiunge una morfologica, in quanto è esclusa la caduta di -e da -AE, cioè d'una desinenza marcata. Fatte queste premesse, cade -e dopo n, l, r in parole piane (anche sdrucciole, purché si tratti di infiniti); cade -o dopo n in parole piane e dopo l ed r limitatamente ai suffissi tonici -ol, -er. Si ha quindi ben ⟨BENE, sol ⟨SOLEM, mar ⟨MARE, meter ⟨MITTERE, ma bone ⟨BONAE, sole ⟨SOLAE, dure ⟨DURAE, pele ⟨PELLEM, core ⟨CURRIT, mare ⟨MATREM (39), pevere ⟨*PIPEREM; si ha piovan ⟨PLEBANUM, vin ⟨ VINUM, ma ano ⟨ANNUM, àseno ⟨ASINUM; si ha noder ⟨NOTAIRUM ⟨*NOTARIUM, fiol ⟨FILIÒLUM, ma fero ⟨FERRUM, parvero ⟨*PAPYREUM, nolo ⟨NAULUM, molo ⟨*MOLLUM, sòsero ⟨SOCERUM, Orséolo ⟨ORSEOLUM.
A séguito del frequente dileguo dell'occlusiva dentale sonora -d- (vedi oltre), si creano, in posizione finale, alcune sequenze di vocale tonica + vocale atona dotate di valore caratterizzante. Mentre infatti, per esempio, nel padovano -ào passa ad -ò e -àe passa ad -è (si ricordino mercò e bontè citati da Dante, De vulgari Eloquentia, I XIV 5), il veneziano è conservatore e ammette, per quelle stesse sequenze, solo l'alternanza tra forma integra e forma tronca: dao e dà ῾dato', trovao e trovà, caritae e carità, mitae e mità, utilitae e utilità ecc. Intatti, quanto al resto, il tipo venduo, vendui, vendua, vendue e i vari amalai, pagai, varnii ῾guarniti', ecc.
Come morfema verbale, -ài ⟨ -ATIS è ridotto a -é nella seconda plurale del presente indicativo (andé ῾andate', acordé ῾accordate') e del presente congiuntivo scrivé (῾scriviate', tigné ῾teniate', habié ῾abbiate') (40). Si tratta, a parte il grado di apertura probabilmente diverso, dello stesso esito di -ài d'altra origine, e cioè da -AVI della prima singolare dei passati remoti lasè ῾lasciai', pagè ῾pagai', domandè ῾domandai', nonché della prima singolare di ῾sapere' sé ⟨ SAI(0) ῾so', (accanto a sai) e di ῾avere' è ⟨AI(O) ῾ho' accanto ad ài. Notevole la frequenza di quest'ultima forma, in quanto assume la funzione di desinenza del futuro: pagarè ῾pagherò', tenirè ῾terrò', rescoderè ῾riscuoterò'. Per completare il quadro, si ricordi che la medesima riduzione riguarda -ài d'altra origine in sega ⟨*SAIPA ⟨SAPIAT, asè ῾assai', mè ῾mai' e, data posizione non finale, eba ῾abbia' (accanto ad aiba e abia), bella ῾balia', pledo ⟨PLA(C)ITUM (41). Infine armer, noder, ener, ecc. mostrano che la riduzione ài > è riguarda anche l'evoluzione del suffisso -ARIUS che a Venezia passa dunque attraverso una fase metatetica -AIRU, diversamente dal padovano, caratterizzato a sua volta da un singolare -ARU rifatto sul plurale -ARI ⟨ -ARII (e quindi armaro, nodaro, çenaro).
Più complesso è il quadro degli esiti di AU: la persistenza di forme conservative (auro, thesauro, causa e caosa, ecc.) può essere non solo dovuta a latinismo, ma favorita dal contemporaneo coesistere di au e di o in corrispondenza di A+ L+ consonante dentale (cioè di autro e otro). La velarizzazione di L in tale posizione ha avuto gradi diversi, forse in rapporto con varietà diastratiche del veneziano: completata, ha dato luogo a u (autro, autar ῾altare', ecc.); interrotta, ha prodotto forme di compromesso (aultro, aultar), con possibilità, in entrambi i casi, di chiusura au > o (oltro, otro, oltar). Sono inoltre coinvolte forme con AU originario come mostrano colsa, laldo, aldo, olde, olsa e, in posizione atona, galdimento, aldì, coltela, laldada, alturio ⟨ *AUTORIUM (una o da AU + consonante dentale viene interpretata come o da A+ L+ consonante dentale) (42). Di questa situazione variegata e instabile poco è rimasto nel veneziano moderno dove una progressiva restaurazione porta al predominio del tipo Rialto (eliminando il concorrente Riolto), salvo modesti residui che, per restare nella toponomastica cittadina, si possono esemplificare con San Boldo ῾Sant'Ubaldo'.
Quanto al consonantismo, il veneziano mostra chiaramente che la sonorizzazione s'era conclusa prima dello scempiamento, in quanto essa riguarda solo le consonanti originariamente semplici, e quindi, per esempio, non una t ⟨ tt ⟨ CT come quella di fato ⟨ FACTUM. Dello scempiamento non mette conto di fornire esempi, ma si avverta che, ovviamente, la sua rappresentazione grafica è spesso incostante e soggetta a ipercorrezione per influenza di scritture innanzi tutto latine, ma ormai, almeno in qualche ambiente, anche toscane (43).
La -b- derivata da P intervocalica o tra vocale ed erre (anche in séguito a sincope) condivide l'esito fricativo di -b- da -B- primaria, come mostrano avril, cavo, lovo, ovra, povolo, savon accanto a bever, cavra, fevra , plovan. La -d- corrispondente a D o a T intervocaliche oscilla tra conservazione e dileguo: àmeda e àmea (o àmia) ῾zia', benedeta e beneta, marido e mario (in rapporto al gruppo vocalico finale per cui cf. sopra). Tra vocale ed erre prevale il dileguo: abitarise ῾abitatrice', defensarise, pare, mare, nurigar. Spesso nelle parole interessate dall'indebolimento della -d- compare, ancora nel primo Trecento, il digramma dh (e più raramente th), tipico della scripta italiana settentrionale duecentesca (44): contradha, dadho, dodhexe, fiadhe, nevodhi, ordenadho, redhi. Per l'occlusiva velare sonorizzata: algun (da *ALICUNIS), degolado, digo, domenega, fogo, lagremar, nurigar, pegora, sagramento, segondo, çogo. Le stesse occlusive sorda e sonora davanti a E e a I passano ad affricate dentali (çentura, çenogloni, vençer, spençer, çente) e ulteriormente, data la posizione intervocalica, a sibilante (si noti infatti l'opposizione tra çento e duxento, trexento, ecc.): abitarise, amisi ῾amici', càlexe ῾calice', Croxe, dexe ῾dieci', dise ῾dice', dodhexe, doxe ῾doge', luxe, noxe ῾noce', voxe, çùdesi. Si tratta ovviamente di sibilante sonora (rappresentata spesso da χ (45)), ma nel tipo amisi a questo esito popolare si accompagnò presto un doppione semidotto con la sorda, destinato in progresso di tempo a prevalere: notevole dunque l'alternanza, dato un singolare inimigo, tra inimisi e inimici nel giro di poche righe d'un testo collocabile entro la prima metà del Trecento (46):
Et inperço nui dovemo pregare lo Sengnor per li nostri inimisi. Et tuti quilli, che volono essere discipli de Christo sì lo dé pregare, ch'elo perdona a li soi inimici. Ma tuti fa puro lo contrario, che s'illi no pono aucidere né ferire cum gladio lo so inimigo, illi lo blastema c sì lo maledise en le soe oracione e prega dio che lo destruga.
Quanto a J e ai gruppi formati da consonante più J, basti un accenno all'esito in affricata dentale presente in çogo ⟨IOCUM, çorno ⟨DIURNUM, neça ⟨NEPTIA; maggior attenzione merita LJ il cui esito semiconsonantico sembra essersi ben presto sviluppato in affricata palatale sonora, con la quale coesiste dando luogo a doppioni del tipo Baseio / Baseglo ⟨BASILIUM, muier / muger ⟨MULIÉREM (47). Spesso nella rappresentazione di tale g palatale si alternano grafie varie e incostanti (molger, mogler, molgler, ecc.): si tratta d'un fonema che, come il parallelo sordo, ha più d'una rappresentazione nella scripta veneziana antica, risalga esso a LJ o a CL e GL. Anche in quest'ultimo caso l'esito affricato palatale sordo o sonoro è affidato a grafie oscillanti, di interpretazione non sempre sicura: da quelle conservative di Canareglo (oggi solo Canaregio, sestiere veneziano, da CANALICLUM sincopato per CANALICULUM), clodi ῾chiodi', clave ῾chiave', odi, orecla, veclo, glaza, ai vari chiaro, oglo ῾occhio', otchi, vetchio, vetgio, veglo, veglio, veio, ad alternanze, in posizione almeno originariamente intervocalica, come clesia / glesia / gesia (oggi solo cesa con la sorda) (48). Più semplice il quadro degli esiti degli altri gruppi di consonante + L, oscillanti tra la conservazione (solo grafica?) in blancha, flama, florini, Flordelise, plu, plase, pleno, plovan, ainplido, conpla, dopleri e la soluzione (meno frequente) attestata da più, compiti (49).
Caratteristico del veneziano è infine il trattamento di parole germaniche inizianti con W, che dà luogo a v senza eccezioni: visa ῾guisa', vadagno ῾guadagno', vera ῾guerra', vardar ῾guardare'.
Nel campo della morfologia nominale si notano caligo ῾nebbia' e nevo dal nominativo, soror, marmore, sartor, muier, compagnon dall'obliquo. Comuni nell'Italia settentrionale sono i femminili la flor, la late, la lume, la mar (talvolta), la sangue. Notevole è la -i del singolare in ladi ῾lato' e fondi ῾fondo', generatasi probabilmente in espressioni avverbiali come da ladi, a fondi modellate su davanti, tardi, ecc. (50). Hanno plurale in -e anche femminili della terza classe come vertude, citade, leze, rede, parte, confine e aggettivi come nobele femene, chosse notabele.
Ben vivo per il pronome soggetto è l'uso delle forme nominativali eo e tu che cederanno più tardi a quelle dell'obliquo mi e ti. Notevole nella coniugazione interrogativa, accanto al tipo estu? la variante enclitica u per vu: cognoséu, laséu, ecc. (51). Alla variante forte dell'articolo (lo), caratteristica del veneziano più antico, comincia ad accompagnarsi el, almeno dalla metà del Trecento (52).
Nella morfologia verbale si produce, come s'è accennato, l'identificazione della terza plurale con la terza singolare, per ragioni in prima istanza fonetiche, date coppie come AMA(T) / AMA(NT); segue il livellamento analogico quando mancano i presupposti di simile convergenza (EST / SUNT per es.). Tuttavia sono anche documentate in antico sopravvivenze dell'esito di SUNT nonché tracce di una sua forza d'attrazione analogica che, per quanto destinata a soccombere, determina sporadiche terze plurali in -n quali disen, fan, fun ῾furono', vadan, ecc.: un fenomeno comune anche ad altre aree dove pur si arriverà alla totale coincidenza di terza singolare e terza plurale (53).
Alla morfologia verbale appartiene uno dei tratti più individualizzanti del veneziano, cioè la seconda persona singolare con -s conservata (che resta ancor oggi solo se protetta da pronome enclitico in interrogazione: vustu? ῾vuoi tu?'): estu ῾tu sei', debis ῾che tu debba', metis nei Testi veneziani. Si tratta di un sicuro contrassegno di venezianità che tuttavia non capita frequentemente d'incontrare nelle fonti documentarie perché non è qui frequente l'uso della seconda persona singolare (54). Merita dunque di tener conto del fatto che nel sonetto veneziano della tenzone tridialettale conservata nel Canzoniere Colombino di Niccolò de' Rossi sono attestate le seguenti forme: averàs ῾avrai', sis ῾sei' e ῾sii', fas ῾fai', pos ῾puoi', seràs ῾sarai', stas ῾stai', e inoltre afrontis, apontis, contis, montis, vadagnis ῾guadagni'. Questo secondo gruppo è notevole sia perché, tranne vadagnis, si tratta di forme tutte esposte in rima, sia perché i verbi appartengono alla prima coniugazione: vi si manifesta dunque quello stesso livellamento analogico sulla seconda singolare della quarta che è largamente diffuso nei volgari italiani, nonché presente nella lingua nazionale (55).
Nomi con plurale sigmatico, pur avendo ben maggiori possibilità di ricorrere, non ricorrono mai e quindi non costituiscono uno dei caratteri del veneziano antico, contrariamente a quanto è stato sostenuto pochi anni fa (56), basandosi però con eccessiva fiducia su un solo esempio, il quale per di più, una volta ispezionato l'originale, si rivela inesistente, cioè dovuto a erronea trascrizione (57): nel presunto li presis infatti la -s è stata cancellata con due lineette verticali, correttive d'un'incipiente banalissima dittografia sillabica.
Altri fenomeni di minore, ma non trascurabile forza caratterizzante sono la presenza d'una terza singolare/plurale di ῾essere' xé (o sé) la cui sibilante sonora iniziale nasce, con ogni probabilità, in fonetica di frase, cioè a partire da sequenze come es(t) elo dove la s diventata intervocalica e dunque sonorizzatasi può comparire, per aferesi, all'inizio: esélo > sélo, da cui elo sé (58). Tipici conguagli analogici all'interno della coniugazione sono, oltre a quanto già visto, quelli che portano, dato son ⟨SUM, a don ῾do', ston ῾sto', von ῾vado' (59); dato digo ⟨DICO a digé accanto a disé ῾dite'; dato veço ⟨ *VIDJO ⟨VIDEO, a leço ῾scelgo' e creço ῾credo'. Più rilevante valore differenziale ha la generalizzazione del morfema di prima plurale -emo dovuta alla forza trainante di avemo, da cui semo ῾siamo' (come, viceversa, a Padova, aóm modellato su som ⟨SUMUS) e poi (con esclusione dei verbi in -ir) demo ῾diamo', volemo ῾vogliamo' ecc.; parabola discendente comincia a presentare (senza per altro venir meno) l'uso generalizzato di -ando nel gerundio: abiando ῾avendo', batando ῾battendo', corando, creçando, cognosando, digando ῾dicendo', entendando, façando, partando, possando, sapiando, siando ῾essendo', temando, tignando, vegnando ῾venendo', vefando ῾vedendo' (60); e nella varietà tematica qui presente ha particolare rilievo il tipo rappresentato in digando per la sua estensione a dagando ῾dando', redugando, ῾riducendo', stagando ῾stando', negando ῾vedendo'.
La già ricordata forma è ⟨ai ⟨AIO, ancora vitale in tutto il Trecento, sia da sola, sia come componente desinenziale del futuro, comincerà solo nel Quattrocento a cedere ad ò. Scompare invece in età moderna il perfetto ed è un elemento caratteristico del dialetto attuale, nonché dell'italiano regionale nel Veneto, l'uso generalizzato del passato prossimo (61); ma nel Trecento, e poi ancora abbastanza a lungo, sono attestate forme del perfetto debole con prime singolari come pregai / pregè e aldì ῾udii'; terze come lasà, prestà, vendè, morì; forme del perfetto forte di prima come disi, fisi ῾feci', stete ῾stetti', tini ῾tenni', tuli ῾portai' e di terza come dise, duse, fese, tole. Spiccano le prime plurali avessemo (al sing. avi), fosemo (al singolare coesistono fui, fu e fo), andasemo, tegnesemo, vegnisemo, vendesemo, çurasemo.
Pur rinunciando a una trattazione esauriente, meritano ancora menzione: il condizionale, con coesistenza del più frequente tipo infinito + HABUI (devrave, mostrerave, vorave) e infinito + HABEBAM (deveria, farla, voria); il participio, dove accanto ad abbondanti forme deboli (già segnalate a proposito del dileguo di -d-), si hanno forme forti come confeso, creto ῾creduto', resposo e alternanze come tolleti / tolti; sembrano rare le tracce nei testi trecenteschi di forme forti in -esto (come credesto, movesto, volesto) che compariranno piuttosto in manoscritti veneziani quattrocenteschi e avranno una notevole fortuna soprattutto con l'età di Andrea Calmo, la cui opera appunto ne offre buona documentazione (62); per la formazione del passivo, eser è usato nei testi documentari molto più spesso non solo di vignir, ma anche di fir, la cui frequenza altrove è tuttavia cospicua (63): lo pecado che fi dita cupiditade, lo bo e lo aseno fi menado a la beccaria, el no possea fir curado, vegandose la simia prendere e fir tinuda entro li laçi ecc.
Infine, per quanto riguarda la sintassi, il veneziano condivide alcuni tratti caratteristici in antico di gran parte dei volgari italiani (64). Limitatamente alla posizione dei clitici, si nota il rispetto della cosiddetta legge di Tobler e Mussafia soprattutto nel tipo Elo se dise / Disese (65), la proclisi ai verbi a ristrutturazione (no me la volse dar, ela te possa chaçar se ela se volere maridar; e sì li començà a dire, tuti li oxelli la començà a guardare), l'ordine accusativo più dativo in pregando la vergene Maria che lo li rendese.
Che all'interno della città di Venezia coesistessero già nel tardo medio evo varietà dello stesso volgare connotate diversamente dal punto di vista diatopico e diastratico, è cosa ovvia, ma documentata solo più tardi, soprattutto grazie all'uso riflesso di tali varietà in sede letteraria. Per la parlata della zona periferica di San Nicolò dei Mendicoli abbiamo qualche sonetto della fine del Quattrocento (66) e la coeva testimonianza di Marin Sanudo: "è una contrà in Venetia dove non stanno se non peschatori chiamata San Nicolò, et ancora questi tengono un certo parlar venetian antico chiamato nicoloto" (67). Si aggiunga che molte delle varianti fono-morfologiche sopra illustrate sono nel Trecento, con ogni probabilità, varianti libere; ma in séguito esse assumeranno connotazioni diastratiche e diatopiche delle quali ci informa, per esempio, il siciliano Caio Caloiro Ponzio nel poemetto In honorem Venetorum dove dei Veneziani si dice: "Vero è che hanno alcuni lor diftonghi / nello parlare e diceno portao / per dir portato e donato, donao, / e questo dir tant'ao mi spiace assai; / l'altri paroli, se pur tu non vai / a San Baseio e per San Nicolò, / ti piacirà gli accenti e 'l parlar so" (68).
Si è già accennato (69) ad antiche testimonianze indirette del fatto che col tipo linguistico prettamente veneziano coesistevano nello spazio lagunare varietà anche sensibilmente diverse, come doveva essere quella di Jesolo. Vicino a Jesolo era Lio Mazor, un centro urbano oggi scomparso (ma il toponimo resta), del quale si conservano documenti trecenteschi in volgare straordinariamente importanti, costituiti dagli Atti del locale podestà (70): si tratta dei verbali datati 1312-1313 relativi a risse e furti con escussione di testimoni e imputati le cui frasi dette o riportate sono citate conservandone la fortissima carica espressiva sul piano sintattico e lessicale (71). Ma a parte queste ragioni generali di interesse, è lo stesso tipo linguistico così documentato che merita attenzione in quanto si differenzia sensibilmente dal veneziano. Nell'antico lidense, che pare prossimo ai dialetti della terraferma nordorientale, si notano, a differenza del veneziano appunto, la caduta di -o e di -e anche dopo sibilante ed occlusiva (ados ῾addosso', nas ῾naso', content ῾contento', trop ῾troppo', part ῾parte'); il passaggio di o tonica chiusa ad u davanti a nasale (casun ῾cagione', spuntun ῾spuntone'); l'evoluzione di au ad ou (pouco ῾poco', couse ῾cose'). È notevole anche il fatto che, pur dandosi -s per caduta della vocale finale, le seconde singolari del verbo, assai frequenti, siano in minima parte sigmatiche.
Quanto ad altre antiche varietà linguistiche lagunari, niente si può dire per Chioggia, nonostante che lo stesso editore dei testi di Lio Mazor avesse allestito un volumetto gemello, pubblicando tuttavia copie tarde ed infide, non originali (72). Cinquecentesca soltanto è la documentazione relativa alle isole di Burano e di Mazzorbo, affidata soprattutto a due lettere (numeri sette e ventinove del terzo libro) di Andrea Calmo (73): già è notevole che mentre nelle lettere veneziane viene usato l'articolo singolare el, pl. i, in quelle dove si imita il parlare di Mazzorbo e di Burano compaiono lo, li a testimoniare la conservazione in periferia d'un tratto un tempo proprio anche del centro realtino; spicca poi, come fenomeno caratterizzante, la caduta di -r negli infiniti, tipo scrive e governà (74). Quindi la presenza di entrà, runpe e braì nella già citata Legenda de Santo Stady (75) e di acrese nell'epigrafe funeraria che orna il sarcofago di Simon Dandolo nella chiesa dei Frari (Anno mccclx prima die iulii. Sepultura domini Simon Dandolo amador de iustisia e disiroso de acrese el ben chomum †) si giustificherà semplicemente pensando a un amanuense e a un lapicida (o ordinatore) provenienti dalla periferia lagunare. Ritenere che la caduta di -r fosse organica al veneziano significherebbe mettere sullo stesso piano sporadiche attestazioni (e per ciò stesso suscettibili di spiegazione ad hoc) e migliaia di attestazioni di segno contrario. Si tratterebbe insomma d'un'ipotesi non economica come quella di chi vede in chian ῾cane' nel trattato De regimine rectoris di fra Paolino una prova del verificarsi nel veneziano della palatalizzazione dell'occlusiva velare sorda davanti ad A: nel veneziano, si sostiene, non, come sarebbe ovvio, nell'idioletto dell'amanuense quattrocentesco d'un codice (per altro perduto) il quale sarà stato, come è normale, collettore di varianti formali depositate da altri, chissà quanti e chissà quali, precedenti copisti (76). In generale, già nel caso prima citato dell'inesistente li presis, avrebbe dovuto consigliare cautela il fatto, davvero singolare, che le prove documentarie d'un nesso originario del veneziano antico coi volgari dell'entroterra nordorientale emergerebbero solo in scritture del tardo Tre e del Quattrocento (77). Inoltre: a Venezia, già alla fine del Duecento, arrivavano numerosi immigrati dal contado circumlagunare; l'acqua non ostacolava, anzi favoriva la mobilità delle persone tra le isole (spesso così diverse linguisticamente) e il centro realtino; lo sviluppo del commercio marittimo faceva risuonare nel porto lingue diverse, dalle varietà romanze, al greco, all'arabo (78). Dato tale contesto storico e sociale è ovvio pensare che a Venezia fossero attivi artigiani forestieri, inclusi lapicidi e amanuensi, e che quest'ultimi nella loro attività potessero incorrere in preterintenzionali deviazioni dalla norma linguistica del centro cittadino. Si aggiunga infine che l'impatto dell'immigrazione dovette essere particolarmente forte nella seconda metà del Trecento quando, a séguito della peste del 1348, la popolazione veneziana, più o meno dimezzata, era scesa a cinquanta-sessantamila anime (79).
A tale quadro di riferimento storico e sociale bisogna dunque rifarsi per intendere i coevi documenti del volgare, soprattutto se essi sembrano fornire testimonianze contraddittorie. Evasivo è invece, per lo più, il ricorso, quando i conti non tornano, alla preistoria della città e alle molteplici ondate di profughi linguisticamente diversi; ricorso che spesso si accompagna alla tendenza a trattare il veneziano del Due-Trecento come una Restsprache nella quale, mancando significative differenze di frequenza, tutti i fenomeni avrebbero uguale diritto di cittadinanza. Ma altro è il ben documentato sistema linguistico di una comunità, altro è, salvo contraria prova, l'occasionale deviazione offerta da un singolo testo: se ciò è vero, il volgare tardomedievale di Venezia è riconducibile a un'originaria appartata latinità realtina, circondata, ma non organicamente contaminata, dalle contigue varietà lagunari connesse a stanziamenti sopraggiunti in séguito da varie zone dell'entroterra.
1. Cf. John Kenneth Hyde, Some Uses of Literacy in Venice and Florence in the Thirteenth and Fourteenth Centuries, "Transactions of the Royal Historical Society", ser. V, 29, 1979, pp. 109-128, rist. in Id., Literacy and Its Uses. Studies on Late Medieval Italy, a cura di Daniel Waley, Manchester - New York 1993, pp. 112-135.
2. Sui preti-notai veneziani si veda, per le origini, Attilio Bartoli Langeli, Documentazione e notariato, in Storia di Venezia, I, Origini - Età ducale, a cura di Lellia Cracco Ruggini-Massimiliano Pavan e Giorgio Cracco-Gherardo Ortalli, Roma 1992, pp. 858-860 (pp. 847-864); quanto alla lunga durata del fenomeno, Giorgio Cracco, "Relinquere laicis que laicorum sunt". Un intervento di Eugenio IV contro i preti-notai di Venezia, "Bollettino dell'Istituto per la Storia della Società e dello Stato Veneziano", 3, 1961, pp. 179-189, e Marco Folin, Procedure testamentarie e alfabetismo a Venezia nel Quattrocento, "Scrittura e Civiltà", 14, 1990, pp. 243-270.
3. Manca del pari una letteratura religiosa o moraleggiante in linea con i duecenteschi Proverbia: duecenteschi anche quanto alla composizione, poiché l'ipotesi d'un originale anteriore (Alfredo Stussi, La lingua, in Storia di Venezia, II, L'età del comune, a cura di Giorgio Cracco-Gherardo Ortalli, Roma 1995, pp. 791-795 [pp. 783-801>) sembra ormai da accantonare in base ai persuasivi argomenti portati da Simonetta Bianchini, L'alta marqesana qe fo de Monferato, "Cultura Neolatina", 46, 1986, pp. 9-16.
4. A. Stussi, La lingua, in Storia di Venezia, II, p. 798.
5. Già Albertino Mussato, a proposito della "Adriacis dominantem fluctibus urbem", aveva scritto che "premia Castalio sunt ibi nulla deo [...> et Mecenatem non habet ulla domus": per l'attribuzione del carme cf. Guido Billanovich, Il preumanesimo padovano, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 2, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 53-56 (pp. 19-110). Il testo è ancora quello fornito da Luigi Padrin, Lupati de Lupatis, Bovetini de Bovetinis - Albertini Mussati necnon Jamboni Andreae de Favafuschis carmina quaedam ex codice veneto nunc primum edita, Padova 1887, pp. 26-27.
6. Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, libro I, XV, in Prose e rime, a cura di Carlo Dionisotti, Torino 1971, pp. 111-112.
7. Testi veneziani del Duecento e dei primi del Trecento, a cura di Alfredo Stussi, Pisa 1965, pp. 1-7 (un facsimile è in Id., La lingua, in Storia di Venezia, II, p. 789).
8. Probabilmente per analoghi motivi si sono conservati solo manuali di conversazione utili ai traffici terrestri che facevano capo al fondaco dei Tedeschi; qui all'inizio del Quattrocento un maistro Zorzi, cioè Giorgio da Norimberga, veneziano di adozione, trascrisse e rielaborò testi di quel genere provenienti per lo più da Verona: cf. Vocabolari Veneto-Tedeschi del secolo XV, a cura di Alda Rossebastiano Bart, Savigliano 1983, e I "Dialoghi" di Giorgio da Norimberga. Redazione veneziana, versione toscana, adattamento padovano, a cura di Ead., Savigliano 1984.
9. "Si può pensare in via d'ipotesi (un'ipotesi, tuttavia, non infondata), che i mercanti di Venezia avessero più pronte e sott'occhio delle ῾notizie' o ῾informazioni' arabe, come dimostrerebbe la stessa circoscritta denominazione di tariffa, che appare in testa a queste raccolte con il suo significato originario, primizia nelle parlate italiane", scrive Manlio Cortelazzo, La cultura mercantile e marinaresca, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 1, Dalle origini al Trecento, Vicenza 1976, p. 673 (pp. 671-691).
10. Zibaldone da Canal. Manoscritto mercantile del sec. XIV, a cura di Alfredo Stussi (con studi di Frederic C. Lane, Thomas E. Marston, Oystein Ore), Venezia 1967. Si tratta dell'attuale ms. 327 della Beinecke Rare Book and Manuscript Library della Yale University di New Haven, su cui cf. da ultimo Warren van Egmond, Practical Mathematics in the Italian Renaissance: a Catalogue of Italian Abbacus Manuscripts and Printed Books to 1600, Firenze 1980, pp. 249-251 e Merchant Culture in Fourteenth Century Venice. The Zibaldone da Canal, tradotto con introduzione e note di John E. Dotson, Binghamton 1994. Coevo o di poco più tardo è il manoscritto che conserva la Tarifa zoè noticia dy pexi e mexure di luogi e tere che s'adovra marcadantia per el mondo, Venezia 1925. Sulla tipologia di tali testi mercantili cf. Ugo Tucci, Tariffe veneziane e libri toscani di mercatura, "Studi Veneziani", 10, 1968, pp. 65-108.
11. Interessante la presenza dei frammenti tristaniani, a conferma d'una qualche tarda fortuna presso il pubblico veneziano se non della lirica provenzale, certo dei romanzi francesi, tra i quali innanzi tutto il Tristan, ma anche la Queste del Saint Graal. Cf. l'Introduzione di Aulo Donadello a Il libro di messer Tristano ("Tristano veneto"), Venezia 1994, pp. 16-18, e Jole M. Ruggieri, Versioni italiane della "Queste del Saint Graal", "Archivum Romanicum", 20, 1937, pp. 471-486.
12. Il condizionale è d'obbligo dopo che è stata messa in dubbio l'identificazione del notaio-poeta col Lapo Gianni attivo a Venezia: cf. Guido Zaccagnini, Notizie ed appunti per la storia letteraria del secolo XIV, IV, Rimatori toscani a Bologna. Lapo Gianni, "Giornale Storico della Letteratura Italiana", 66, 1915, pp. 342-346 (pp. 309-355).
13. Da ultimo Luca Mola, La comunità dei lucchesi a Venezia. Immigrazione e industria della seta nel tardo medioevo, Venezia 1994; su questo tema aveva avviato gli studi monsignor Telesforo Bini, editore anche di Lettere mercantili del 1375, mandate da Lucchesi residenti in Venezia a Giusfredi Cenami, "Atti della I. e R. Accademia Lucchese di Scienze, Lettere ed Arti", 16, 1857, pp. 129-175, interessanti sia per il contenuto (incluse notizie curiose, come: "al presente giovane veneziane hanno cominciato vestire alla fiorentina"), sia perché presentano tracce di influsso linguistico veneziano (ve per vi, me per mi, seda per seta, alguno per alcuno ecc.), come ha segnalato Arrigo Castellani, Saggi di filologia e linguistica italiana e romanza, I, Roma 1980, p. 287.
14. Così si esprimeva Contini nella "perizia" allegata da Domenico De Robertis, Il canzoniere escorialense e la tradizione "veneziana" delle rime dello Stil Novo, Torino 1954, pp. 19-20 (Supplemento nr. 27 al "Giornale Storico della Letteratura Italiana.").
15. In un sonetto di Nicolò Quirini (il nr. 5 dell'edizione Brugnolo citata più avanti alla nota 17), per esempio, spiritelo rima con bello, e fin qui non si può sapere se il poeta si attiene al suo sistema fonetico o a quello dei modelli toscani cui si ispira; decisiva è la terza parola in rima, acelo cioè ῾celo', la quale, avendo comunque elle foneticamente scempia, chiarisce che tale è la elle nelle due parole precedenti, cioè che esse sono usate in forma veneta.
16. Salomone Morpurgo, recensione a Le rime dei poeti bolognesi del secolo XIII, a cura di Tommaso Casini, Bologna 1881, "Giornale di Filologia Romanza", 4, 1883, nrr. 3-4, pp. 204-205 n. 3 (pp. 202-206), e, da ultimo, Giancarlo Savino, Il sonetto di noia del pistoiese Meo di Bugno, "Studi di Filologia Italiana", 39, 1981, pp. 23-28. Qualche altro analogo reperto dal Liber Comunis secundus è segnalato in Giovanni Monticolo, Poesie latine del principio del secolo XIV nel codice 277 ex Brera del R. Archivio di Stato di Venezia, "Il Propugnatore", n. ser., 3, 1890, pp. 247-248 (pp. 244-303); un'edizione complessiva, ma inadeguata, apprestò Angelo Gualandi, Accenni alle origini della lingua e della poesia italiana, e di alcuni rimatori e prosatori in lingua volgare bolognesi e veneziani dei secoli XIII e XIV. Con appendice di documenti, osservazioni, e tavola: spigolature dagli archivi di stato di Bologna e Venezia, Bologna 1885.
17. Cf. Gianfranco Folena, Il primo imitatore veneto di Dante, Giovanni Quirini, in AA.VV., Dante e la cultura veneta. Atti del convegno di studi, Firenze 1966, pp. 395-421, rist. in Id., Culture e lingue nel Veneto medievale, Padova 1990, pp. 309-335. A modelli predanteschi sono sostanzialmente ispirate le rime di un altro Quirini, Nicolò, attivo un po' prima di Giovanni e in stretto rapporto con gli ambienti toscaneggianti della terraferma (Treviso soprattutto), a séguito dell'esilio cui fu condannato per il suo coinvolgimento nella congiura di Baiamonte Tiepolo: cf. Furio Brugnolo, Le rime di Nicolò Quirini. "Cultura Neolatina", 40, 1980, pp. 261-280.
18. Cf. Id., La tenzone tridialettale del Canzoniere Colombino di Nicolò de' Rossi. Appunti di lettura, "Quaderni Veneti", 3, 1986, pp. 41-83; Giorgio Padoan, Per l'identificazione di Giannino Quirini amico e imitatore di Dante, ibid., 10, 1989, pp. 45-73.
19. Si veda la densa sintesi di Luciano Gargan, Il preumanesimo a Vicenza, Treviso e Venezia, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 2, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 142-170.
20. Val la pena di ricordare che verso la fine del secolo proprio il veneziano Giovanni Girolamo Nadal darà testimonianza, nel canto VII del libro IV della Leandreride, d'un'ampia conoscenza dei poeti toscani: cf. Roberta Meneghel, La "Leandride" di Giovanni Girolamo Nadal, "Italia Medioevale e Umanistica", 16, 1973, pp. 163-178; Lino Lazzarini, Nuovi documenti su Giovanni Gerolamo Nadal e la "Leandreide", in AA.VV., Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, II, Boccaccio e dintorni, Firenze 1983, pp. 377-404; Emilio Lippi, Per l'edizione critica della "Leandreride" di Giovanni Girolamo Nadal. La tradizione e sua classificazione, "Quaderni Veneti", 8, 1988, pp. 7-33; Id., Un capitolo della fortuna della "Comedìa" a Venezia: la "Leandreride" del Nadal, ibid., 12, 1990, pp. 153-190.
21. Cf. Silvana Collodo, Temi e caratteri della cronachistica veneziana in volgare del Tre-Quattrocento (Enrico Dandolo, "Studi Veneziani", 9, 1967, pp. 127-151. Antonio Carile, La cronachistica veneziana (secoli XIII-XVI) di fronte alla spartizione della Romania nel 1204, Firenze 1969, pp. 10-11, attribuisce alla fine del Trecento il codice Correr 1499 e l'Ambrosiano H. 85 inf. (con la cronaca di Enrico Dandolo), ma, in mancanza d'una articolata dimostrazione, converrà astenersi dal farvi riferimento.
22. A. Stussi, La lingua, in Storia di Venezia, II, pp. 787-788.
23. I trattati con Aleppo 1207-1254, a cura di Marco Pozza, Venezia 1990; Gino Belloni - Marco Pozza, Il più antico documento in veneziano. Proposta di edizione, in Guida ai dialetti veneti, XII, a cura di Manlio Cortelazzo, Padova 1990, pp. 5-32. La formazione di serie regolari di registri ebbe impulso decisivo, alla fine del Duecento, da parte del doge Giovanni Dandolo, come ben mostra Marco Pozza, La cancelleria, in Storia di Venezia, II, L'età del comune, a cura di Giorgio Cracco-Gherardo Ortalli, Roma 1995, pp. 349-369.
24. Cf. Maurice Aymard, La leva marittima, in Storia di Venezia, Temi, Il Mare, a cura di Alberto Tenenti-Ugo Tucci, Roma 1991, p. 438 (pp. 435-479); Frederic C. Lane, Le navi di Venezia fra i secoli XIII e XVI, Torino 1983, pp. 45-47; per l'edizione delle tre lettere, Alfredo Stussi, Venezia 1309, in AA.VV., Italiano e dialetti nel tempo: saggi di grammatica per Giulio C. Lepschy, Roma 1996, pp. 341-349.
25. Si tratta della combinazione di VIVACIUS e di MENTE diventato mero suffisso avverbiale, qui nella forma -mentre caratteristica del veneziano.
26. Cf. in generale Gherardo Ortalli, Scuole e maestri tra Medioevo e Rinascimento. Il caso veneziano, Bologna 1996.
27. Un panorama complessivo è tracciato da Alfredo Stussi, Epigrafi medievali in volgare dell'Italia settentrionale e della Toscana, in "Visibile parlare". Le scritture esposte nei volgari italiani dal Medioevo al Rinascimento, a cura di Claudio Ciociola, Napoli 1996, pp. 149-175.
28. Pietro Toesca, Il Trecento, Torino 1951, p. 402.
29. Notevole, dal punto di vista linguistico, inpensar con una prefissazione particolarmente frequente a Venezia: Carlo Salvioni, pubblicando La storia di Apollonio di Tiro. Versione tosco-veneziana della metà del sec. XIV, Bellinzona 1889, p. VIII (per Nozze Solerti - Saggini), segnalava che una seconda mano era intervenuta sul manoscritto per eliminare i tratti veneziani più cospicui, e tra questi appunto la in di inpensar; cf. inoltre enpensare, indormençarse, inodiare, inpintimento, inplagare ecc. in Trattati religiosi e libro de li exempli in antico dialetto veneziano, a cura di Giacomo Ulrich, Bologna 1891, pp. 167-169; impensare, impentire, infenzando ῾fingendo', ingualizare ῾eguagliare' ecc. nell'Esopo veneto, a cura di Vittore Branca (con uno studio linguistico di Giovan Battista Pellegrini), Padova 1992, p. XXII, ecc. Il contenuto dell'iscrizione, sintomatico anche per il luogo ove fu posta, è ispirato dalla stessa filosofia perenne popolareggiante che presiede, come si è già accennato, alla scelta dei versi volgari scribacchiati nel Liber Comunis primus, nonché, soprattutto, ad un gustoso ammonimento che li accompagna nell'angolo superiore destro di c. 103v: Chi ben beve ben dorme. Chi ben dorme mal no pensa. Chi mal no pe(n)sa mal no fa. Chi mal no fa i(n) paradiso va. Ora ben bevé, che paradiso averé.
30. Diversamente stanno le cose per i Capitolari: basandosi sulla meritoria raccolta di Giovanni Monticolo - Enrico Besta, I Capitolari delle Arti Veneziane sottoposte alla Giustizia e poi alla Giustizia Vecchia dalle origini al MCCCXXX, Roma 1896-1914, sembra che per avere stesure, o anche solo addizioni, in volgare occorra arrivare al Quattrocento; ma su questi e su altri Capitolari varrebbe la pena di fare rigorosi accertamenti filologici.
31. Cf. Alfredo Stussi, ...lo dì dela co(n)versio(n) d(e) s(en) Polo cerca ora d(e) bespero fo gran taramoto i(n) Veniexia..., Pisa 1993. Per un altro esempio di solenne epigrafe in volgare commissionata da una Scuola cf. Id., Due epigrafi della Scuola Grande di San Giovanni Evangelista a Venezia, in AA.VV., Da una riva e dall'altra. Studi in onore di Antonio D'Andrea, Firenze 1995, pp. 189-196.
32. Cf. Id., La carta lapidaria di Urbano V, in AA.VV., Scritti linguistici e filologici in onore di Tristano Bolelli, Pisa 1995, pp. 483-491.
33. Cf. Paolo Frassòn, Tra volgare e latino: aspetti della ricerca di una propria identità da parte di magistrature e cancelleria a Venezia (Secc. XV-XVI), in Stato società e giustizia nella Repubblica Veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, I, Roma 1980, pp. 577-615. Si vedano anche le riflessioni di Manlio Cortelazzo, Il veneziano lingua ufficiale della Repubblica?, in Guida ai dialetti veneti, IV, a cura di Id., Padova 1982, pp. 59-73.
34. Cf., rispettivamente, Gino Belloni - Marco Pozza, Sei testi veneti antichi, Roma 1987, pp. 77-93, e Il Capitolare degli Ufficiali sopra Rialto, a cura di Alessandra Princivalli (con uno studio di Ead. e un saggio introduttivo di Gherardo Ortalli), Milano 1993.
35. Gli esempi d'ora innanzi citati senza indicazione della loro provenienza sono tratti prevalentemente dai Testi veneziani (utilizzati col fondamentale ausilio offerto da Mario Alinei, Spogli elettronici dell'italiano delle Origini e del Duecento. II: Forme. 17: Prose Veneziane - Ed. A. Stussi, Bologna 1973), dai Trattati religiosi e libro de li exempli e da Maria Antonietta Grignani, "Navigatio Sancti Brendani": glossario per la tradizione veneta dei volgarizzamenti, "Studi di Lessicografia Italiana", 2, 1980, pp. 101-138. Per uno schizzo del veneziano insieme agli altri volgari veneti antichi si tenga presente Michele A. Cortelazzo - Ivano Paccagnella, Il Veneto, in L'italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali, a cura di Francesco Bruni, Torino 1992, pp. 220-281; Piera Tomasoni, Veneto, in Storia della lingua italiana, III, Le altre lingue, a cura di Luca Serianni - Pietro Trifone, Torino 1994, pp. 212-240, e Alfredo Stussi, Venezien, in Lexikon der Romanistischen Linguistik, a cura di Günter Holtus - Michael Metzeltin - Christian Schmitt, II/2, Tübingen 1995, pp. 124-134.
36. Angelo Monteverdi, La legenda de Santo Stady di Franceschino Grioni, "Studj Romanzi", 20, 1930, pp. 1-198.
37. Graziadio Isaia Ascoli, Annotazioni dialettologiche alla ῾Cronica deli imperadori romani', "Archivio Glottologico Italiano", 3, 1874, pp. 244-284, aveva avvertito del ringiovanimento del testo segnalando per esempio la presenza del suffisso avverbiale -mente, non già -mentre che era stato tipico del veneziano più arcaico (cf. qui sopra nota 25). Assai più tardo (ma non ancora ben definito) è il passaggio uò > iò dopo coronale che persiste nel veneziano moderno in un numero limitato di parole, come niora ῾nuora', siola ῾suola' e nel tipo -iòl di frutariol ῾fruttivendolo', ninsiol ῾lenzuolo' ecc., per cui (oltre a Gerhard Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Torino 1966-1969, § 115) cf. Leone Luzzatto, Vocalismo del dialetto moderno delle città di Venezia e di Padova, "L'Ateneo Veneto", ser. XIV, 1, 1890, p. 620 (pp. 613-630); Theodor Gartner, IO aus UO in Venetien, "Zeitschrift für Romanische Philologie", 16, 1892, pp. 174-182; Edwin H. Tuttle, Etimolojic [sic> Notes, "The Romanic Review", 6, 1915, p. 345 (pp. 343-345); Giovanni Mafera, Profilo fonetico-morfologico dei dialetti da Venezia a Belluno, "L'Italia Dialettale", 22, 1957-1958, p. 148 (pp. 131-184); John Trumper - Maria Teresa Vigolo, Il Veneto Centrale. Problemi di classificazione dialettale e di fitonimia, Padova 1995, p. 10. I più antichi esempi a me noti sono: mozenighi gniovi ῾mocenighi nuovi' (una moneta veneziana) in La veniexiana. Commedia di anonimo veneziano del Cinquecento, a cura di Giorgio Padoan, Padova 1976, p. 105 e grisiole ῾graticci', niove, niovo, siole, zioba ῾giovedì', ziova ῾giova' in Andrea Calmo, Lettere, a cura di Vittorio Rossi, Torino 1888, p. CXXXVI.
38. Sulla necessità di distinguere, nella regione veneta, zona da zona è sempre valida l'"esortazione" di Angelico Prati, I troncamenti nel veneto e un'esortazione agli studiosi, "Bulletin de Dialectologie Romane", 6, 1914, pp. 89-97.
39. Si noti che accanto a mare e a pare