La lingua
La posizione linguistica del veneziano medievale rispetto ai volgari dell'entroterra ha un nesso preciso con le vicende storiche che portarono all'insediamento lagunare, alla sua crescita e al suo sviluppo politico-economico. Sulle lagune, già abitate in età romana, persistette una latinità appartata, intatta rispetto a quell'influsso gallico che caratterizzò l'area padana occidentale (1). Quel nucleo (del quale non andrà esagerata la consistenza) fu ingrossato da emigrati provenienti nei primi decenni del VII secolo dalla terraferma orientale (Oderzo) a seguito della vittoriosa espansione longobarda. Quest'ultima non raggiunge la laguna, tanto che Venezia ha modo di svilupparsi, al riparo di una sempre più opportunistica fedeltà a Bisanzio, caratterizzandosi come potenza esclusivamente marittima; afferma poi la sua indipendenza politica e religiosa col trasferimento della sede ducale da Malamocco a Rialto (810) e l'avvento del culto di san Marco.
A tutto ciò corrisponde un'evoluzione dal latino al volgare nella quale non hanno interferito né il sostrato gallico, né il superstrato germanico, mentre ci sono tracce di un contatto a livello lessicale con la grecità bizantina; probabilmente poi, in rapporto con le immigrazioni di cui si è detto, fu vivo il nesso con la latinità friulana anche al livello fonomorfologico (2). Ma su quest'ultimo punto occorre intendersi: è verosimile pensare che nella laguna ci fossero isole con insediamenti linguisticamente diversificati, come ben mostrano soprattutto (ma non esclusivamente) i testi conservati di Lio Mazor (se ne parlerà nel volume successivo): all'interno di un tipo di volgare romanzo abbastanza omogeneo, il prevalere dell'una o dell'altra varietà si configura ai nostri occhi come frutto di un'evoluzione che porta il veneziano o a perdere, o a ridurre alcune caratteristiche di tipo ladino; ma con ogni probabilità non si tratta della stessa lingua che si evolve "sladinizzandosi" (del che non si saprebbe fornire una ragione), ma dell'affermarsi, dopo fasi di coesistenza, alternanza, contaminazione, di una varietà sulle altre. Se si parla di veneziano antico senza ulteriori specificazioni, è per semplicità espositiva, ma le cose stavano in modo ben più articolato, come capita sempre e dovunque: lo sapeva Dante che notava differenze tra i cittadini di parti diverse di una stessa città (Bologna: De vulgari El., I.IX.5), lo sanno gli studiosi moderni della variazione diacronica, diatopica, diastratica. Ciò premesso, la situazione di Venezia presenta caratteristiche eccezionali, sia per la frammentazione spaziale della comunità in isole anche molto distanti l'una dall'altra (e la lontana Burano ha ancor oggi tratti linguistici peculiari), sia perché al numero dei residenti, calcolabile tra XII e XIII secolo in settanta-ottantamila, si deve aggiungere qualche decina di migliaia di Veneziani in giro per i mari e nelle colonie. La composizione della popolazione di Venezia variava dunque frequentemente in conseguenza di rientri e partenze, un fatto, questo, che non può non aver avuto riflessi anche sul piano dell'alfabetizzazione e dell'uso linguistico (come insegnano fenomeni ben documentati in epoche più recenti). Inoltre, al pari e più di altre città medievali, Venezia era meta d'immigrazione dalla terraferma: utile a riequilibrare la preponderanza delle morti sulle nascite, la gente che arrivava consisteva certo anche in benestanti alla ricerca di lucrosi investimenti, ma soprattutto consisteva nelle vittime delle carestie, rispetto alle quali Venezia era protetta da un solido sistema di approvvigionamento via mare (3). Occorre immaginare dunque una comunità con cospicue frange linguisticamente disomogenee e perciò stesso estranee all'idea di caricare di valori simbolici la varietà predominante per farne un elemento di coscienza nazionale: tanto più che mancavano appigli nella storia più o meno leggendariamente colorita delle origini. Anzi, di una situazione variegata e complessa poi assestatasi ci sono riflessi espliciti nelle cronache antiche come l'Origo dove si assegna la fondazione di Malamocco ai Padovani e si giudica incomprensibile la lingua della gente di Jesolo (cui era vicino Lio Mazor) (4); significativo è inoltre che in un atto del 1090 sottoscritto da 127 persone ben 91 figurano col cognome, fatto che è spia dell'aggregarsi di gente di diversa origine (5). D'altra parte proprio l'onomastica di Venezia antica mostra quel carattere conservativo che è in generale contrassegno tipico del veneziano tra i dialetti veneti e settentrionali in genere. Già l'ampia diffusione del cognome a tutti i livelli sociali fin dal secolo IX testimonia una continuità con l'uso latino tardo che sembra confermata dai nomi romani di alcune antiche e potenti famiglie veneziane (Quirini, Venier, Valier rinviano a QUIRINUS, VENERIUS, VALERIUS) e dai numerosi derivati in -ANUS (Milian) e -ANTIUS (Soranzo), -ULUS (Orseolo), -ICUS (Gradenigo) (6). Rari sono i nomi di origine germanica, mentre è più sensibile la presenza greca che è documentata dal ricorrere del patronimico nella forma ϰατά + accusativo, tipo per altro ben presto abbandonato (7); attecchiscono invece nell'onomastica Sofia, Basegio (= Basilio), Tòdaro (= Teodoro), Pantalon (= Pantaleone), Marcuola (= Ermagora), Aponal (= Apollinare). Sono nomi di santi, e quindi di chiese e di luoghi, che, insieme a quelli dei profeti del Vecchio Testamento (San Geremia, San Giobbe, San Moisè, San Samuele, San Simeone detto "grande") sono molto caratteristici di Venezia e ne confermano l'isolamento (8). Ciò è vero, dal punto di vista della toponomastica cittadina, anche rispetto all'entroterra orientale, una volta accertato che San Stae (Sant'Eustacchio) e San Stin (Santo Stefano) non sono, come invece era parso all'Ascoli, "quasi due sacri gonfaloni, piantati sulla laguna or sono forse quattordici secoli, che ancora vi spieghino inalterati i primitivi colori" ladini; essi si producono per evoluzione fonetica all'interno del veneziano, senza ricorso al ladino: dal greco ΕὐοτάθιοϚ, attraverso una fase Stadi (ben attestata ancora in testi latini e volgari dal XII al XIV secolo almeno), si arriva a Stae, forma in cui alla sonorizzazione della occlusiva dentale sorda intervocalica segue il dileguo; d'altro lato è ugualmente normale la riduzione a Stin a partire da Stefanin, poi Stevanin e Steanin (9).
La crescita di Venezia come potenza marittima nel bacino orientale del Mediterraneo ha come conseguenza la penetrazione nel veneziano, e spesso tramite il veneziano in altri volgari italiani, di forestierismi: innanzi tutto una seconda ondata (dopo quella dipendente dal legame con Ravenna e l'Esarcato) di grecismi, riconoscibili questi ultimi perché intatti rispetto a mutamenti fonetici conclusisi prima della loro assunzione, per cui in messeta 'mediatore' da μεσίτηϚ l'occlusiva dentale sorda intervocalica t non diventa sonora; diversamente zago 'chierico' da διάϰοϚ, essendo entrato in precedenza, mostra sonorizzazione della occlusiva velare sorda intervocalica (10). Anche per quanto riguarda gli arabismi Venezia è stata collettore e tramite sia di parole diventate d'uso generale come arsenale, sia di molto materiale lessicale caduco perché formato dai nomi di pesi, misure, monete con cui avevano a che fare i suoi avventurosi mercanti (11).
I mercanti formavano comunità di residenti in punti strategici lungo le rotte commerciali; occupavano, come a San Giovanni d'Acri, interi quartieri, da soli o a fianco e in concorrenza con Pisani, Genovesi, Provenzali. Il veneziano dunque diventò presto, e certamente già prima della grande espansione del 1204, anche lingua coloniale; anzi si ebbero forme ovviamente diverse di veneziano coloniale a seconda del diverso tipo di ibridazione e se ne fece un uso scritto di cui restano pochi, ma significativi esempi (12). Venezia come porto di mare in cui risuonano diversi linguaggi, e quindi sede di contatto linguistico, data anche la presenza di consistenti comunità alloglotte, assumerà grande importanza solo più tardi, a partire dal Quattrocento. Quanto all'epoca precedente, merita d'esser ricordata la vicenda di rapida assimilazione di una famiglia emigrata dalla Linguadoca all'inizio del Duecento e dedita al commercio: ad un padre Raimondo de Niola che scrive, sul tergo di contratti di colleganza, regesti in provenzale, segue una figlia Guglielma che usa il veneziano tradendo solo qua e là la diversa madrelingua. L'adeguamento linguistico si accompagna al matrimonio con un Venier, col che dei de Niola a Venezia si perdono definitivamente le tracce ed essi vanno ad ingrossare le fila di una delle più grandi e ramificate casate veneziane (13). Proprio la presenza di famiglie forti d'un numero elevatissimo di membri provoca molto presto (già nel Duecento) l'uso di soprannomi con funzione distintiva, che portano ad una tipica struttura trimembre degli antroponimi veneziani. I soprannomi spesso prendono spunto, ovviamente, da caratteristiche fisiche o morali (Sanudo, Cavoduro, ecc.), ma spesso anche dipendono dall'attività commerciale e quindi dai viaggi, come nel caso di un Marco Michel dito Tataro, cioè 'Tartaro' o dei Navigaçoso dove il soprannome 'che naviga giù' diventò poi nome di una famiglia potente ad Andros e nell'Eubea (14). Anche qui si vede quanto la vocazione commerciale e marittima abbia influenzato la lingua di Venezia e non sarà dunque un caso se il primo testo conservato dove il latino tradisce nettamente la soggiacenza del volgare è per l'appunto un testo di carattere commerciale.
Si tratta di una piccolissima pergamena (appena cm 8,5 3 9,5 circa) scritta solo su un lato da una mano che, su base paleografica, è databile alla fine del XII secolo, cioè all'epoca in cui comincia la documentazione scritta (contratti, quietanze, obbligazioni, procure) del commercio veneziano (15):
1 Recordacione facio ego Petrus Co
2 rnario a vob(is) d(omi)no Petrus Mudacio
3 (et) a vob(is) d(omi)no Joh(ann)es Cornario q(uod) mi
4 to a d(omi)no Filipo Cornario patrem
5 meum caso mil(ia)r(a) iij (et) lib(ras) cccclj q(uod) e(st) pe
6 çe clxxxxiij (et) mil(ia)r(o) j de lana (et) lib(ras)
7 cccclxxij q(uod) e(st) stoire iiij (et) isto caso
8 (et) ista lana vadit i· la nave (m) d (e) d(omi)no
9 Marco Griti (et) d(omi)no pat(er) meus debet
10 pagare lo naulo at Venecia(m) (et) butiçe
11 le de vino ij.
Il promemoria (così si potrà tradurre recordacione) di Piero Corner è relativo alla spedizione, forse dalla Puglia, d'una partita di lana e di formaggio (più due botticelle di vino) al padre Filippo che sta a Venezia, usando come vettore la nave di Marco Griti, con noleggio a carico del destinatario. Sotto il velo leggero e discontinuo di un latino approssimativo traspare l'autentica struttura di un testo pensato e pronunciato (tra sé e sé o dettandolo ad uno scrivano, poco importa) in volgare; esso appartiene dunque a quel genere di prodotti in cui il passaggio dalla fase orale a quella scritta comporta l'acquisizione di una patina latineggiante; patina per altro facilmente eliminabile in caso di ritorno all'oralità, ad esempio leggendo il testo ad alta voce a persona interessata in quel traffico e capace d'intendere solo il volgare. La stesura di scritture di tal genere, per così dire ambivalenti, è naturale conseguenza di una situazione linguistica presente nella Romània già prima del secolo XII e rispetto alla quale Venezia non faceva certo eccezione: una situazione cioè di largamente diffusa diglossia senza bilinguismo (16). Proprio la pertinenza del volgare e del latino a distinte sfere funzionali e sociali, nonché l'assenza di una autonoma tradizione di scrittura del volgare, favorivano l'uso di forme di comunicazione in cui il passaggio dall'orale allo scritto e viceversa avveniva col contemporaneo slittamento da un registro linguistico all'altro. Ben si riconoscono nella recordacione costrutti del dialetto come facio [...> a vob(is) 2, mito a d(omi)no Filipo Cornario 4 e, ancor più caratteristico, isto caso (et) ista lana vadit 8, dove la desinenza latina singolare riflette l'identità normale nel veneziano (come anche altrove nell'Italia settentrionale), della terza plurale con la terza singolare, frutto di diversa evoluzione fonetica in alcune serie verbali e di successive generalizzazioni analogiche nelle altre (17). È evidente che in entrambi i casi basta poco per rimuovere la patina latina e trasformare isto 7 in sto, vadit 8 in va, e altrettanto si può dire per debet 9, per nomi propri come Petrus 1-2 e sequenze formulari come patrem meum 4-5, pat(er) meus 9. Viceversa caso 5-7, peçe 5, lana 6-8, stoire 7 (forma metatetica da storie, unità di misura), pagare 10, naulo 10, butiçele 10 compaiono già in forma interamente volgare, mentre il sintagma i· la nave(m) 8 presenta, pur nella sua brevità, una fedele rappresentazione del volgare nell'uso dell'articolo e nell'assimilazione con scempiamento tra n finale di in e l iniziale di la; contemporaneamente il restauro di una -m in navem risponde all'esigenza di un diverso registro della scripta.
Per quanto sommaria, questa analisi della recordacione dà l'idea di un tipo di scritture che preludono all'avvento di quelle interamente volgari; restando nell'ambito dei testi di carattere pratico (di solito più affidabili di altri come documenti linguistici) occorrerà arrivare alla metà del Duecento perché se ne incontrino alcuni scritti usando il veneziano. Allo stato attuale delle ricerche essi appaiono sorprendentemente tardi, pochi e diradati, tanto più se si tien conto del buono stato di conservazione e della ricchezza dei fondi archivistici duecenteschi, testimoni di un grado di sviluppo economico, politico e sociale che però non sembra aver dato impulso forte ed immediato all'uso scritto del volgare, né sul piano pratico, né, come si dirà in seguito, su quello letterario (18). Si ricordi infatti che non si può far conto sicuro sulla traduzione dall'arabo in veneziano del Pactum Soldani de Aleppo, databile intorno al 1207-1208, ma conservata dalle copie più tarde incluse nel Liber Albus e nei Libri Pactorum; per di più, proprio in quanto traduzione, questo testo presenta fenomeni interessantissimi, soprattutto dal punto di vista lessicale, ma molto idiosincratici e quindi poco rappresentativi di una più generale situazione linguistica agli inizi del Duecento nella città lagunare (19).
Stando così le cose, il più antico documento originale del volgare veneziano è datato 30 settembre 1253 e consiste in una designazione delle proprietà terriere dei fratelli Simeon e Nida Moro, veneziani, situate nella campagna di Ferrara (20). Si tratta di un testo abbastanza ampio, ma costruito su pochi moduli sintattici ad alta frequenza e inoltre ricco più di minuti toponimi che di lessico usuale. In proporzione è dunque più interessante la breve domanda di testamento inoltrata da Alessandro Novello nella primavera del 1281, che costituisce, a distanza di quasi trent'anni dal primo, il secondo antico testo veneziano sicuramente datato (21):
Eo Alesandro Novello sia fato mio testamento
et pregai Çan Flabenigo de sainta
Malgarita da far lo mio testamento
segondo ke li serà dado per Paxe mia
moglier scrito in j carta da mia
man e segelado dello anello.
Negli anni successivi la documentazione cresce senza soluzione di continuità e acquistando consistenza man mano che ci si avvicina alla fine del secolo. Ma già nelle poche righe di Alessandro si osservano elementi veneziani come la limitata caduta di vocali finali in Çan, far, moglier (dove è notevole anche la forma non nominativale del nome e la grafia gli per g palatale o i semiconsonantica) e man; tipico poi per la veste insieme grafica e fonetica il nome della moglie Paxe, cioè 'Pace', dove dall'occlusiva velare sorda latina C si è sviluppata, in posizione intervocalica davanti a vocale palatale, una sibilante sonora alla cui rappresentazione nella scripta veneziana è di norma adibito fin dalle origini il segno x (22). Anche il notaio Çan Flabenigo è designato in forma interamente volgare sia per il nome ` Giovanni', sia per il cognome dove si nota la conservazione del nesso Fl- e, come si è accennato in precedenza, un tipico suffisso -igo da -ICUS, con sonorizzazione dell'occlusiva sorda intervocalica. Questo stesso fenomeno si trova anche in segondo, dado, segelado, rispetto ai quali scrito e fato permettono di osservare come restino escluse le occlusive sorde prodotto di scempiamento (SCRIPTU > scritto > scrito), cioè risalenti ad una fase cronologica successiva alla sonorizzazione. Essendo lo scempiamento, come è ben noto, un tratto caratteristico del dialetto, si noteranno nel nostro breve testo Novello e anello con -ll-, grafia che, se interpretata quale corrispondente di una pronuncia diversa da -l- scempia, potrebbe essere antecedente dell'attuale articolazione dorsopalatale rilassata di -l-: la distinzione tra scempie e doppie si sarebbe conservata più a lungo per tale consonante, persistendo poi grazie anche al passaggio ad una articolazione palatale della geminata; con l'estendersi di tale articolazione alla scempia originaria l'opposizione infine sarebbe, tardi, scomparsa (23). Fa difficoltà a tale ipotesi il fatto che la scrizione doppia riguarda, nei testi antichi, non solo l, ma anche s di forma lunga ed f, cioè proprio quelle consonanti rappresentate da segni il cui tratteggio è caratterizzato da un'asta verticale. La presenza dello stesso fenomeno sotto forma di raddoppiamenti incongrui di quei segni grafici anche altrove (comprese zone estranee allo scempiamento) induce a pensare che forse convenga non andare oltre la constatazione di una particolarità d'esecuzione scrittoria (24). Davvero problematica è invece la forma sainta di isolata attestazione nel veneziano antico, dove sono in concorrenza il tipo santo e il tipo sento. Rispetto a quest'ultimo, sai- sembrerebbe rappresentare la prima fase dell'evoluzione, normale nella fonetica veneziana, di ài ad è, fase attestata anche nella stessa riga da pregai; normale non è però, a Venezia, saint- da SANCT-, cioè quell'evoluzione di CT ad it che diventa accettabile solo avvicinandosi all'area linguistica veneto-occidentale e lombarda. È probabile quindi che si tratti di una retroscrizione a partire da frequenti oscillazioni ai/e (per esempio nei perfetti tipo pagai/pagè, andai/andè, ecc.), o dell'occasionale influsso della scripta francoveneta, certo non ignota a qualche veneziano. Inoltre il nome Alessandro è raro a Venezia e può darsi dunque che, se sapessimo qualcosa di più su chi lo portava, valuteremmo meglio quel suo modo di scrivere (25). Ma, ammesso che si possa così sgomberare il campo da sainta, restano da spiegare, in altri testi, sento, senta, senti, sente e sen, per i quali si è recentemente pensato (associandoli ad anenti e a fenti) ad un coinvolgimento nell'estensione del morfema -ente a scapito di -ante, come ad esempio in mercadente 'mercante' (26).
Coevi o di poco anteriori a quello di Alessandro Novello (ma non datati) sono i più antichi testi dove è documentato il contatto tra veneziano e altri volgari a livello d'uso in ambienti mercantili. Si tratta dunque pur sempre, in larghissima misura, di antichi testi veneziani, ma anche degli incunaboli del veneziano coloniale. Come si è accennato, affiorano elementi provenzali (per esempio mio paire) in alcuni regesti attergati ad opera di Guglielma Venier, nata de Niola; ma è perfettamente veneziano quello risalente circa al sesto decennio del Duecento e vergato in una minuscola indifferenziata elementare, priva di legamenti, frutto di una ben scarsa abilità grafica (27):
Carta d (e) Maria Vener
de dona Agnese de
lib. l mugler de Stefano Vener pare
de mio sosero.
Nell'obbligazione in latino, sul lato carne della pergamena, Antolinus Curtulus de Torcello dichiara di aver ricevuto dalla sorella Agnese, moglie di Stefano Venier, cinquanta libbre di denari veneziani in colleganza e di impegnarsi alla resa, entro un anno, del capitale più tre quarti del guadagno. La successione di vari complementi con de si chiarisce dunque nel senso che la carta (obbligazione) è 'di' libbre cinquanta; originariamente era 'di'Agnese (beneficiaria, socia stans); era passata poi in mano 'di' Maria (una figlia?) ed ora di Guglielma, la quale, riferendosi a Stefano, lo qualifica come padre di suo suocero, cioè di Giovanni, padre a sua volta di Stefano jr., sposatosi appunto con Guglielma de Niola. Dal punto di vista linguistico tutto è perfettamente veneziano: caduta di -o, -e in Vener, mugler 'moglie' e invece conservazione in sosero 'suocero' e pare 'padre'; de 'di'; riduzione di -TR- ad -r- in pare; passaggio di C, intervocalica davanti a vocale palatale, ad s sonora in sosero; scempiamento in dona; ancor più di gli, la grafia gl per g palatale o per i semiconsonantica in mugler è ben attestata a Venezia.
Alla stessa mano è attribuibile anche l'attergato, più o meno coevo rispetto al precedente, ad un atto di donazione latino conservato a Padova, Archivio di Stato, Diplomatico b. 16 nr. 2222 e datato "anno ab incarnatione domini nostri Iesu Christi millesimo ducentessimo sexagesimo tercio mense decembre die undecimo intrante, indicione septima, Nigroponte", cioè nell'Eubea, che, a partire dal 1204, era possesso diretto della Repubblica. Come implica il riferimento a mio mario, il testo è scritto da una donna, identificabile appunto con Guglielma de Niola (28):
1 Q(u)esta sé donaçiun qe fese la mugler de sto Marco Ven[er>
2 a Çan Vener so figlo de la parte terça de la propi[e>
3 tae nostra come la dè a mio mar[io ………………………….>
4 Vener co' q(u)esto mio mario [……………………………….>
5 e nurigà sto son figlo ani xxiiij [………………………………>
6 la terça parte de sta casa q(e) era p(er) la […………………>.
Tratti veneziani immediatamente evidenti sono la caduta delle vocali finali ristretta a donaçiun, mugler, Çan, Vener; la caduta delle occlusive dentali intervocaliche in propietae, mario e davanti ad r in nurigà 'nutrì'; la forma mugler già incontrata nel testo precedente. Sullo sfondo di questi ed altri caratteri coerenti con la scripta veneziana duecentesca spiccano due anomalie: da un lato donaçiun (invece di donaçion) con un passaggio di o chiusa tonica ad u che probabilmente è infiltrazione dalla periferia lagunare orientale (Lio Mazor), dove il dialetto si differenziava da quello del centro per questa ed altre particolarità; dall'altro lato sta son 'suo' che invano si tenterebbe di ricondurre alle lagune o all'entroterra, trattandosi invece di forma provenzale, coesistente con so (nella seconda riga). Ma se non fosse che Guglielma è originaria dei dintorni di Agen e ha lasciato altre non equivoche scritture, sarebbe ovvio intendere son come francese, pensando al caso più cospicuo di ibridismo, che è quello franco-veneziano: esso ha nel bacino orientale del Mediterraneo, a partire circa dalla metà del Trecento, una abbondante documentazione, a verifica del fatto che "il cosiddetto francoveneto prima che fenomeno culturale e convenzione di genere letterario dev'esser stato una esperienza comunicativa nata nello scambio e nella convivenza fra Bisanzio, l'Arcipelago e la Terrasanta" (29).
Ancor più lontano, a Tabriz in Persia, ci porta un altro antico documento di contatti linguistici multipli quale è il testamento fatto il 10 dicembre 1263 dal mercante Piero Veglione venesiano, affidandone la stesura ad un pisano (30). Pisano risulta infatti il colorito linguistico dominante nel testo, dove tuttavia resistono forme veneziane (come quisti, dibia, dibio, soe, soi) accanto a francesismi come preste 'prete' e mostero 'chiesa', nonché numerose parole d'origine greca ed araba. Si tratta di un testo scritto in circostanze troppo particolari per poterlo ritenere fedele testimonianza dell'uso parlato: ma la colonia straniera, e in essa i Veneziani, doveva utilizzare, a Tabriz e altrove, forme miste, creolizzate, mescidate in diverse e instabili percentuali. Certo molto conta la mediazione di chi scrive, come mostra un testo che, presentando invece un veneziano pressoché intatto, ci conserva un frammento di vita di bordo su una nave zaratina noleggiata da mercanti veneziani tra i quali scoppia una lite. Lo scrivano di bordo, evidentemente anche lui veneziano, ci offre dunque il resoconto, con interessante riproduzione del parlato, di quella lite in merito all'opportunità di mantenere la rotta per Pisa, anche dopo l'arrivo di notizie sulla battaglia della Meloria (1284). La scrittura di bordo viene poi trascritta nei registri della cancelleria di Ragusa, competente a dirimere il contrasto, senza che vi si sovrapponga alcuna patina linguistica dalmatica (31).
Alla fine del secolo risale il manoscritto di Berlino, Deutsche Staatsbibliothek, Hamilton 390 (già Saibante) che ci ha conservato, alle cc. 98-113v, il primo testo letterario che si può considerare, nonostante qualche anomalia, dotato di veste linguistica prevalentemente veneziana: si tratta dei Proverbia quae dicuntur super natura feminarum, componimento moraleggiante e misogino, mutilo alla fine, in quartine monorime di alessandrini (metro del quale offre il primo esempio in Italia) per complessivi 756 versi (32). Quanto al contenuto, la tesi generale dell'autore è enunciata subito all'inizio:
Bona çent, entendetelo, perqué 'sto libro ai fato:
per le malvasie femene l'aio en rime trovato,
quele qe ver' li omini no tien complito pato;
cui plui ad elle servene, plui lo tien fol e mato.
È molto probabile che il codice berlinese conservi la copia tarda di un testo composto molto tempo prima della fine del Duecento, forse addirittura circa un secolo prima, come si è indotti a pensare per il fatto che nessuno degli esempi storici moderni è posteriore al 1152-1160. Ma, anche prescindendo da questo elemento, i Proverbia danno l'impressione complessiva di un testo arcaico e periferico per il genere stesso cui appartengono, per le modalità dell'esecuzione e per il nesso, come poi si dirà, con un analogo poemetto misogino francese del dodicesimo secolo. Coerente con tale impressione è un dato della tecnica versificatoria, cioè l'uso di far rimare e con i e o con u toniche: uso del tutto indipendente da quella che poi sarà la cosiddetta rima "siciliana" e invece collegabile a prassi tardoantiche e mediolatine (33). Nei Proverbia tale rima compare in 68 casi su 756 versi, cioè con una percentuale molto alta (tasere:splasere:dire:soffrire vv. 45-48, noritura:natura:pura:lavora vv. 421-424, ecc.).
Ma lo stesso codice tardoduecentesco portatore dei Proverbia appare finora, nella storia del libro medievale, un unicum: scritto in una gotica testuale di modulo piccolo e abbastanza tondeggiante, esso è privo di riscontri calzanti se confrontato col libro medievale italiano del medesimo periodo (34): a Venezia stessa niente è finora noto cui sia possibile accostarlo, e perciò la sua pertinenza veneziana resta affidata alle rose dei venti, che nella pagina iniziale sembrano rimandare ad un ambiente mercantile marinaresco, e al colorito linguistico prevalente in alcuni testi, tra i quali i Proverbia appunto (35). A proposito di questi ultimi, vien fatto di chiedersi poi se la loro venezianità linguistica sia imperfetta perché fu acquisita nel corso della tradizione, o invece perché, essendo originaria, fu oscurata dai copisti: una risposta, allo stato attuale della ricerca, è impossibile, perché manca un'analisi approfondita e comparata di tutti i testi del codice berlinese che è collettore anche dell'opera di autori lombardi come Uguccione da Lodi e Girardo Patecchio. Basti dunque accennare al fatto che creano difficoltà le forme con caduta di vocale finale estesa oltre le condizioni del veneziano (çent 'gente', plas 'piace', blanc 'bianco', quand 'quando', ecc.), l'esito lombardo di CT in noite 'notte', lero 'loro' femminile formato sul singolare lei, attestato in antico, e un po' ancor oggi, in zona lombarda. Accanto a questi fenomeni per così dire devianti, il tessuto linguistico dei Proverbia presenta un aspetto complessivamente veneziano, come appare dalla seconda persona singolare sigmatica as al v. 371 (ma s'ela pò savere que no as que te tola) e da altri tratti significativi, talvolta anche garantiti dalla rima, come la sibilante da -C- davanti a vocale palatale (cortese:represe:entese:fese vv. 9-12), lo scempiamento (doma:poma:soma:[⟨SUMMA>:Roma vv. 21-24), il dileguo delle occlusive dentali sorde intervocaliche (ençegnao:taiao vv. 93-94, dove la prima parola è un participio passato 'ingannato', in rima con un perfetto, 'tagliò'). Spiccano numerosi gallicismi dal punto di vista sintattico (la moier en dormando le crene li taiao v. 94 'la moglie gli [a Sansone> tagliò i capelli mentre dormiva') e lessicale, da drut e altri di larga diffusione nei testi antichi di varie regioni, a asdito dal francese esdit, a cogoci dal provenzale cogos 'cornuto'. Esistono casi di ancor più crudo adattamento del francese, come nei seguenti vv. 73-76, riprodotti secondo la lezione del manoscritto che è, come si vedrà, bisognoso di emendamento:
Molto tiegno per fole cui d'amar s'entromete:
asai veço de quili qe per amar caz'en dite;
ele prend sença rendere e li musardi abate:
però tiengno per fole qi en lero se mete.
Questi versi hanno un preciso riscontro nel poemetto francese antico Chastiemusart (esso pure in quartine monorime di alessandrini) ad una cui redazione l'autore dei Proverbia si è spesso ispirato, giungendo talvolta anche a riprodurlo fedelmente, come nel caso dei versi in questione, i quali nell'originale francese così suonano (36):
Ge di que cil sont fol qui d'amer s'entremetent;
assez en voi de çax qui por amor s'endetent.
Celes prennent sanz rendre qui les musars abetent;
pour ce tieng ge por fols cil qui le lor i metent.
Risulta dunque evidente che ai vv. 74-75 occorre restaurare dete 'debiti' e abete 'ingannano', cioè due francesismi che il copista del codice berlinese, o qualcun altro prima di lui, non ha inteso, almeno in questo punto, visto che abeto è correttamente documentato al v. 156 (37):
Così enganà a Pisa la muier ser Martino:
en testa li fe' ponere en la çambra un cortino,
e caçà fora lo druo q'er'ascos sot' un tino.
Per Dieu, questo fo abeto, molto nobel e fino.
Se il codice berlinese occupa, come si è accennato, un posto isolato nel panorama del libro medievale coevo, ciò dipende anche dal suo carattere eminentemente didattico risultante dalla compresenza di testi letterari volgari moralistico-edificanti e di testi latini (uno d'analoga ispirazione) dotati, a fronte, della versione in veneziano e quindi utilizzabili per esercizi scolastici di apprendimento del latino a partire dal volgare. Il codice si apre proprio con testo e traduzione del Cato, cioè dei proverbi del cosiddetto Dionisio Catone, operetta del terzo o quarto secolo di etica popolare, in coppie di esametri, che ebbe grande successo durante tutto il Medio Evo come libro di testo per le scuole, fu tradotta in varie lingue, dal provenzale all'anglonormanno, nonché, in Italia, nei volgari milanese di Bonvesin da la Riva e campano di Catenaccio d'Anagni (38). Come si vede dal seguente esempio, vengono proposti brevi segmenti latini funzionali ad un esercizio scolastico:
Dormi quod est satis Dorme ke sea bastevele
Serva ius iurandum Varda lo sagramento
Tempera de vino Tempra ti dal vino
Pugna pro patria Combate per lo to paese
Nil credideris Nient crederas tu
Temere. Matamentre.
Anche qui compare la seconda singolare sigmatica tipicamente veneziana (crederas tu, e poi ancora spessissimo, dato il carattere prescrittivo del testo: sis 'sii', staras 'starai', seras 'sarai', ecc.) e insieme un elemento deviante (nient). Tutto il resto è coerente con la fisionomia del dialetto lagunare: bastevele con -IBILIS > -evele; l'evoluzione di W- germanico a v- in varda 'guarda'; sagramento con sonorizzazione di -C- anche davanti ad R; matamentre con suffisso -mentre dovuto a rideterminazione di MENTE sulla serie avverbiale in -TER, tipo PRUDENTER, ecc.
Analogo discorso si può fare dal punto di vista linguistico per la traduzione della commedia elegiaca latina Pamphilus de amore (o Liber Pamphili o Pamphilus) (39), come già può vedersi dal distico iniziale:
Vulneror et clausum porto sub pectore telum,
Crescit et adsidue plaga dolorque michi.
reso con:
Eu Panfilo son enplagà e port lo lançon, çoè l'amor, serad en lo mieu pieto e cotidianamentre cresse a mi la plaga e lo dolore.
Si incontrano ancora una volta fenomeni pienamente veneziani come la caduta delle vocali finali in lançon e amor; il participio tronco enplagà (da enplagao) e, qui stesso e in plaga, la conservazione di PL; il suffisso avverbiale mentre; l'uso (costante) della forma aferetica dell'articolo maschile singolare lo ecc.; coesistono tuttavia le solite deviazioni rappresentate nel passo citato da pieto (da PECTUS, quindi con CT > it), la caduta della vocale finale anche in port e serad, nonché eu e mieu che sembrano di pertinenza lombarda piuttosto che veneta e veneziana. Si noterà anche, su un altro piano, la tendenza ad espandere la traduzione, dotandola di una certa autonomia, coll'esplicitazione del soggetto (Eu Panfilo) e colla glossa (çoè l'amor). Si tratta delle avvisaglie di una notevole differenza, confermata nel resto del testo, tra questa traduzione e quella pedestre del Cato: nel caso del Panfilo la qualità del prodotto è, senza dubbio, più alta e talvolta rivela l'intenzione palese di competere col testo latino quanto a livello letterario.
Soprattutto l'esercizio di traduzione che utilizza i Distica Catonis può essere visto nel contesto dell'attività, consistente e ben documentata nella Venezia duecentesca, dei maestri di scuola (40); è verosimile pensare che in questo ambiente l'uso scritto del volgare, anche se subalterno, fosse incrementato e nello stesso tempo sottoposto a forme di controllo e di regolarizzazione. Ma nonostante questo favorevole presupposto, per Venezia-città nel Duecento resta complessivamente scarso, come già si è accennato, il numero delle scritture volgari conservate, oltre che incerta l'autoctonia di alcune. Perdite ci saranno state, senza dubbio, ma essendo grande la quantità del materiale latino coevo conservato, è verosimile l'ipotesi di una produzione originariamente ristretta, di una sostanziale indifferenza della società veneziana verso le nuove potenzialità della scrittura in volgare: quasi che ci fosse ben altro cui pensare durante il secolo dell'egemonia nel bacino orientale del Mediterraneo, e poi della crisi prodotta dalla caduta dell'Impero latino d'Oriente. La prosperità economica non sembra aver favorito la formazione di una società letteraria che del nuovo strumento espressivo facesse la propria insegna, alimentando un circuito di produzione e consumo capace di lasciare tracce persistenti. Componimenti effimeri e occasionali saranno certo esistiti, come le coblas, chansons e chansonetes cantate, verosimilmente in volgare veneziano, dai rappresentanti degli artigiani quando fu eletto doge Lorenzo Tiepolo: ce lo racconta Martin da Canal (41), ma ce lo racconta in francese, con una scelta linguistica condizionata dall'intenzione di presentare Venezia al pubblico largamente francofono del Mediterraneo orientale; tuttavia è vero anche che, se tra il 1267 e il 1275 egli avesse voluto comporre Les estoires de Venise nel volgare materno, si sarebbe imbarcato in un'impresa temeraria e solitaria, avrebbe dovuto letteralmente inventare dal nulla, per quanto ne sappiamo, una prosa veneziana. Presumibilmente non avrebbe nemmeno avuto successo di pubblico: certo è che non ne ebbe il suo testo francese di cui sopravvive un unico manoscritto, residuo di una circolazione che fu minima, a quanto pare anche per il mutato orientamento del successore del doge Ranieri Zeno, committente dell'opera.
Certo faceva differenza allora, e l'avrebbe fatta in seguito, rispetto all'entroterra veneto, la mancanza di una committenza aristocratico-feudale, cioè l'assenza a Venezia di una corte, di un centro d'attrazione per letterati itineranti e di stimolo per le energie locali. Coerenti con questo stato di cose e tra loro solidali paiono alcuni fatti ben noti: Bartolomeo Zorzi diventa notevole poeta, in provenzale, durante il soggiorno nel carcere genovese, ma tornato libero a Venezia, lascia la poesia per l'attività, molto più utile ed apprezzata in quello Stato, di governatore a Corone. Ancora: che Le divisament dou monde sia stato scritto da Rusticiano in francese, non sorprende, perché Marco Polo, vissuto all'estero la maggior parte della vita, forse non padroneggiava più bene il veneziano; colpisce invece che la tradizione manoscritta testimoni un successo internazionale, ma non specificamente a Venezia, dove quel libro fu certo letto, ma forse, più che altro, usato come una utile pratica di mercatura. Notevole è infine il fatto che non è possibile associare il nome di Venezia ad un genere di largo consumo in tutta l'Italia settentrionale qual è la letteratura francoveneta. Infatti nessun codice di quei poemi reca contrassegni (linguistici o d'altro tipo) che lo localizzino in area lagunare, né si danno altre spie di un gusto letterario affermatosi altrove lasciando tracce, nell'onomastica, nei motivi iconografici ecc., almeno per tutto il Duecento (42).
1. Su Venezia "roccaforte di una latinità euganeo-italiana (o romanza orientale)", cf. Giacomo Devoto, Per la protostoria della Venezia Euganea, in Mélanges de philologie romane offerts à M. K. Michaëlsson, Göteborg 1952, pp. 86-97 (rist. in Id., Scritti minori, Firenze 1960, pp. 356-366). Coerente con tale valutazione sembra il risultato della ricerca di Wladimiro Dorigo, Venezia Origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, I-II, Milano 1983, che ravvisa tracce di centuriazione nel territorio lagunare, buona parte del quale era in età romana asciutto; l'espansione del mare tra quinto e dodicesimo secolo avrebbe provocato l'isolamento delle aree più elevate.
2. Sul nesso con i dialetti ladini si è discusso e si continua a discutere, da Graziadio Isaia Ascoli, Saggi ladini, "Archivio Glottologico Italiano", 1, 1873, pp. 448-473, a G. Devoto, Per la protostoria, fino al più agguerrito attuale sostenitore di quel nesso, Giovan Battista Pellegrini, del quale si veda, da ultimo, Venezia, la laguna e il litorale nell'interpretazione toponomastica, in AA.VV., La "Venetia" dall'antichità all'alto Medioevo, Roma 1988, pp. 21-44 (anche in Id., Ricerche di toponomastica veneta, Padova 1987, pp. 125-157). Quanto ai grecismi, cf. Manlio Cortelazzo, I più antichi prestiti bizantini nel veneziano, "Rivista di Studi Bizantini e Neoellenici", n. ser., 2-3, 1965-1966, pp. 181-183 e Id., L'influsso linguistico greco a Venezia, Bologna 1970.
3. Cf. Reinhold C. Mueller, Stranieri e culture straniere a Venezia. Aspetti economici e sociali, in Componenti storico-artistiche e culturali a Venezia nei secoli XIII e XIV, a cura di Michelangelo Muraro, Venezia 1981, pp. 75-77.
4. Origo civitatum Italiae seu Venetiarum (Chronicon Altinate et Chronicon Gradense), a cura di Roberto Cessi, Roma 1933 (Fonti per la storia d'Italia, 73): "Toti namque isti, quos per nomina recordatos habemus, qui de Eracliana Civitate nova et de Padua exierunt, in Metamauco et in Rivoalto habitare venerunt [...> fecerunt et constituerunt in insula, que Metamauco modo appellata est, per omnes platheas plurimas ecclesias pulcherrimas sive domos construxerunt in omni ornatu eorum [...>. Equilenses quidem de Wederço [= Oderzo> venerunt et in Equilo [= Jesolo> foris castellum habitaverunt [...> de alienis omnibus non sinebant eis aliquid interrogare, neque erat qui intellegeret locuciones eorum" (pp. 159-171).
5. Si tratta della cartula oblacionis con cui l'abate del monastero di San Giorgio Maggiore riceve dall'imperatore Alessio la donazione di beni in Costantinopoli, documento la cui validità è appunto garantita dalle sottoscrizioni autografe. L'edizione si trova in Vittorio Lazzarini, Scritti di paleografia e diplomatica, Padova 1969, pp. 158-182; ne ha illustrato l'importanza dal punto di vista linguistico Gianfranco Folena, Gli antichi nomi di persona e la storia civile di Venezia, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 129, 1970-1971, pp. 445-484 (rist. in Id., Culture e lingue nel Veneto medievale, Padova 1990, pp. 175-209), saggio fondamentale anche per quanto si dirà in seguito.
6. Già Ludovico Antonio Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevii, III, Mediolani 1740, col. 722 osservava: "saeculo Christi X et latius XI, latissime tandem XII cognomina ab Italis usurpari coepta fuisse [...>. Primi qui inter Italos cognominibus viam aperuisse videntur [...> Veneti fuere". Cf. G. Folena, Gli antichi nomi.
7. Per il tipo Basilius tribunus cata Tragamundo, cf. Giandomenico Serra, Antichi nomi e cognomi napoletani, veneziani e sardi d'origine o modulo greco-bizantino, "Filologia Romanza", 3, 1956, pp. 337-341.
8. Cf. Giuseppe Fiocco, Tradizioni orientali nella pietà veneziana, in Venezia e l'Oriente fra tardo Medioevo e Rinascimento, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1966, pp. 117-124.
9. L'affermazione di G.I. Ascoli, Saggi ladini, p. 465, è stata rettificata da Angelo Monteverdi, San Stae, "Archivio Glottologico Italiano", 22-23, 1929, pp. 465-470 (= Silloge linguistica dedicata alla memoria di Graziadio Isaia Ascoli nel primo centenario della nascita) e, per San Stin, da Alessandro Sepulcri, Etimologie venete, "Archivio Glottologico Italiano", 21, 1927, pp. 119-132, che sviluppa obiezioni avanzate già da Angelico Prati, Escursioni toponomastiche nel Veneto. II, "Revue de Dialectologie Romane", 6, 1914, p. 188 (pp. 139-188).
10. Cf. i lavori di Manlio Cortelazzo citt. alla n. 2 e Carlo Tagliavini, Storia di parole pagane e cristiane attraverso i tempi, Brescia 1963, pp. 283-286.
11. Cf. le pagine dedicate a Venezia in Giovan Battista Pellegrini, Gli arabismi nelle lingue neolatine, I-II, Brescia 1972.
12. Di "veneziano coloniale" in età moderna parlò probabilmente per primo Charles E. Bidwell, Colonial Venetian and Serbo-Croatian in the Eastern Adriatic. A Case Study of Languages in Contact, "General Linguistics", 7, 1967, pp. 14-30. Ha ripreso il tema, allargandolo in modo penetrante e suggestivo all'età medievale, Gianfranco Folena, Introduzione al veneziano "de là da mar", "Bollettino dell'Atlante Linguistico Mediterraneo", 10-12, 1968-1970, pp. 331-376 e Id., La Romània d'oltremare, in AA.VV., XIV Congresso internazionale di linguistica e filologia romanza. Napoli, 15-20 aprile 1974. Atti, I, Napoli 1976, pp. 399-406: entrambi rist. in Id., Culture e lingue, pp. 227-267 e 269-286 (da cui si cita).
13. Cf. Alfredo Stussi, Notizie dall'Egeo, in AA.VV., Romania et Slavia Adriatica. Festschrift für Žarko Muljačić, Hamburg 1987, pp. 341-349 e Id., Provenzali a Venezia, "Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa", ser. III, 18, 1988, pp. 947-960.
14. Cf. G. Folena, Gli antichi nomi e, per i Navigazoso, Karl Hopf, Veneto-Byzantinische Analekten, "Sitzungsberichte der k.k. Akademie der Wissenschaften in Wien, Philol.-hist. Klasse", 32, 1859, pp. 496-499 (pp. 365-528).
15. A.S.V., Miscellanea Stefani, busta n.n. provenienza ignota; pubblicato più d'una volta, ma in modo inesatto, a partire da Raimondo Morozzo della Rocca, Fonti per la storia del commercio veneziano conservate presso l'Archivio di Stato, "Giornale Economico. Periodico della Camera di Commercio, Industria e Agricoltura di Venezia", 39, 1954, p. 156 (con riproduzione fotografica), quel testo ha richiamato l'attenzione di vari studiosi, tra i quali Erich Auerbach, Literatursprache und Publikum in der lateinischen Spätantike und im Mittelalter, Bern 1958, p. 222 n. 111 (trad. it. Lingua letteraria e pubblico, Milano 1960, p. 265 n. 113). Riproduco qui l'ultima edizione, finalmente corretta, fornita da Alfredo Stussi, Antichi testi dialettali veneti, in Guida ai dialetti veneti, II, a cura di Manlio Cortelazzo, Padova 1980, p. 88 (pp. 85-100), cui rimando per ulteriore bibliografia. Coevi sono i primi Documenti del commercio veneziano nei secoli XI-XIII, I-II, a cura di Raimondo Morozzo della Rocca - Antonino Lombardo, Torino 1940.
16. Su questo tema cf. Helmut Lüdtke, Die Entstehung romanischer Schriftsprachen, "Vox Romanica", 23, 1964, pp. 3-21; Francesco Sabatini, Dalla "scripta latina rustica" alle "scriptae" romanze, "Studi Medievali", ser. III, 9, 1968, pp. 320-358 e Livio Petrucci, Il problema delle Origini e i più antichi testi italiani, in AA.VV., Storia della lingua italiana, III, Le altre lingue, a cura di Luca Serianni - Pietro Trifone, Torino 1994, pp. 5-73.
17. Diversamente da altri dialetti che hanno reagito, come mostra anche l'italiano, al livellamento, cf. Clemente Merlo, Gli italiani "amano", "dicono" e gli odierni dialetti umbro-romaneschi, "Studi Romanzi", 6, 1909, pp. 69-83.
18. Data tale situazione, una sistematica descrizione del dialetto antico è rinviata al volume successivo dove essa potrà fondarsi sui documenti trecenteschi, che sono di gran lunga più abbondanti. Qui ci si limita ad indicare volta a volta fenomeni caratterizzanti quando emergono nel corso dell'esame di singoli testi rappresentativi, a vari livelli, dell'uso scritto del veneziano nel secolo XIII.
19. Cf. le osservazioni di G. Folena, Introduzione al veneziano "de là da mar", pp. 253-254, che sottolinea, tra l'altro, la presenza in quel testo "problematico" di "caratteristiche linguistiche arcaiche difficilmente imitabili in una falsificazione". Tale è Venedego (Veneticus) nel senso di 'veneziano', denominazione "diffusa nel mondo orientale da Bisanzio (ΒενετιϰόϚ), che passa per questo tramite in molte lingue balcaniche". Ma la lingua del Pactum presenta anche "venature curiose di francese che non sembrano sorprendenti nel tempo e nel luogo del documento, p. es. tener nel significato feudale di 'possesso', 'impero', e plasir (che appartiene a un tipo che avrà fortuna nella lingua franca, appunto sabir)". L'edizione cui si faceva riferimento era quella di Gottlieb L.Fr. Tafel - Georg M. Thomas, Urkunden zur älteren Handels- und Staatsgeschichte der Republik Venedig mit besonderer Beziehung auf Byzanz und die Levante, II, Wien 1856, pp. 62-66, ma dopo i notevolissimi passi avanti compiuti da Gino Belloni - Marco Pozza, Il più antico documento in veneziano. Proposta di edizione, in Guida ai dialetti veneti, XII, a cura di Manlio Cortelazzo, Padova 1990, pp. 5-32 (il testo è nuovamente edito in I trattati con Aleppo 1207-1254, a cura di Marco Pozza, Venezia 1990, pp. 26-33).
20. Se ne veda l'edizione tra i Testi veneziani del Duecento e dei primi del Trecento, a cura di Alfredo Stussi, Pisa 1965, pp. 1-7 (nr. 1).
21. A.S.V., Cancelleria Inferiore, Notai, b. 77, Giovanni Flabenigo, nel cui registro era inserito il documento pergamenaceo di forma trapezoidale con le basi di cm 7 e 4 e il lato di cm 11, oggi irreperibile. La data della domanda di testamento si desume dalla nota di ricevimento che il notaio ha aggiunto sullo stesso lato della pergamena in basso: mcclxxxj mense maio die xiij exeunte indicione nona, dominus Alexander me rogavit lacere suum testamentum [...>. È il nr. 2 dei Testi veneziani, p. 7, dove sono indicate le precedenti edizioni.
22. Carlo Salvioni in una recensione (a Leone Donati, Fonetica, morfologia e lessico della Raccolta d'esempi in antico veneziano, Halle 1889) pubblicata nel "Giornale Storico della Letteratura Italiana", 15, 1890, p. 262 (pp. 257-272), osservava che "lo x dei nominativi latini lux ecc. [...> continua ad influire in modo speciale sulla grafia del -z- [da intendere: sibilante sonora> in quelle parole appunto che latinamente hanno il nom. in -x". L'ipotesi resta probabile, nonostante i dubbi manifestati dallo stesso Salvioni in un successivo lavoro: L'elemento volgare negli statuti latini di Brissago, Intragna e Melasco, "Bollettino Storico della Svizzera Italiana", 19, 1892, p. 6 (pp. 1-40).
23. L'ipotesi è stata sostenuta da Giovan Battista Pellegrini, La posizione del veronese antico, in AA.VV., Atti del Convegno di Studi "Dante e la cultura veneta", Firenze 1961, pp. 95-107 (saggio poi inglobato in Dialetti veneti antichi che è il secondo di Id., Studi di dialettologia e filologia veneta, Pisa 1977, pp. 33-88, a pp. 75-82).
24. Testi veneziani, p. XXX dell'Introduzione; e si aggiunga che "f, p, s con le aste spesso raddoppiate" sono segnalate in testi toscani duecenteschi da Luisa Miglio, L'altra metà della scrittura: scrivere il volgare (all'origine delle corsive mercantili), "Scrittura e Civiltà", 10, 1986, p. 103 (pp. 83-114).
25. Alla scripta francoveneta ha pensato Giovan Battista Pellegrini, Veneto ant. sent(o) 'santo', "Studi Mediolatini e Volgari", 27, 1980, p. 146 (pp. 139-162), rist. in Id., Dal vendico al veneto. Studi linguistici preromani e romanzi, Padova 1992, p. 235 (pp. 229-249).
26. Anche questa spiegazione è stata proposta da G.B. Pellegrini, Veneto ant. sent(o) 'santo', con argomenti ragionevoli, anche se la questione non si può considerare definitivamente chiusa, e infatti l'ha ripresa Witold Mańczak, Ancien vénitien "sent(o)