Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La linguistica del XIX secolo ruota attorno a due princìpi fondamentali: il mutamento delle lingue nel corso della storia e l’origine comune di forme linguistiche distanti nel tempo e nello spazio. Diffuse grazie allo spirito evangelizzatore del cristianesimo e al frantumarsi dell’unità linguistica latina, queste idee spingono a ricercare radici comuni delle lingue e a tentarne un raggruppamento sistematico. Le indagini di Jones, alla fine del Settecento, aprono la via allo studio comparativo del sanscrito, del greco e del latino, giungendo a individuare una lingua madre originaria che sarà detta “indoeuropea”. L’opera di Grimm e Rask fisserà i canoni della linguistica, che dalla prima metà dell’Ottocento si delinea come scienza autonoma del linguaggio. Una disciplina che si muoverà, nel XIX secolo, tra il rigore dell’indagine storica e alcune strumentalizzazioni ideologiche.
L’eredità del mondo classico
Nell’antica tradizione culturale greca e latina ci sono sparse tracce di due idee che possiamo considerare acquisizioni definitive della linguistica dell’Ottocento. La prima è l’idea che tutte le lingue sono soggette a cambiare attraverso il tempo. La seconda è che lingue diverse, anche lontane nello spazio e nel tempo della loro documentazione, possano avere una genesi comune. Nell’antichità greca e romana il quadro culturale complessivo (mancanza di interesse intellettuale per le lingue dei “barbari”, assenza di adeguati strumenti filologici) non era favorevole all’accettazione e sviluppo di queste idee. Soltanto una corrente minoritaria, quella di Epicuro e dei suoi seguaci, le fece proprie e cercò di affermarle in funzione del riconoscimento della pari dignità e relatività delle culture e di un’audace visione evolutiva della specie umana. Se ne fece eco un grande Epicuri de grege porcus, Orazio. Furono necessari profondi mutamenti dell’orizzonte spirituale perché le due idee potessero trovare accoglienza. Due di essi occorre ricordare. Anzitutto lo spirito della Pentecoste con la spinta evangelizzatrice del cristianesimo creò quel rispetto e attenzione per le lingue degli altri che era mancato nel mondo classico non cristiano, tranne negli epicurei (e che è rimasta una caratteristica saliente delle chiese cristiane). Inoltre, il frangersi della latinità in tradizioni linguistiche differenziate sotto gli occhi e nella piena consapevolezza delle classi colte europee rese disponibile un materiale certo, evidente, del mutamento linguistico e della parentela genetica di lingue diverse. L’Europa linguistica delle Derivationes di Uguccione e del De vulgari eloquentia di Dante comincia ad avere i tratti poi disegnati e fissati dalla linguistica moderna.
La vicenda del passaggio dal latino unitario alle diverse parlate neolatine o romanze offrì un modello che nel corso dei secoli consentì di cominciare a inquadrare e dominare la messe crescente di notizie e descrizioni di lingue diverse. La grande varietà di lingue si lasciava almeno in parte ridurre, in quanto le moltissime lingue si rivelavano riconducibili a un più ristretto numero di famiglie di lingue imparentate, affini per genesi, e dietro ciascuna famiglia si intravedeva una lingua madre unica da cui, come dal latino erano nate le svariate lingue romanze, rampollano molte lingue diverse.
Il dibattito settecentesco
Nei primi anni del Settecento nella sua ultima opera (edita postuma solo mezzo secolo dopo), i Nouveaux essais sur l’entendement humain, il grande filosofo tedesco Leibniz, filosofo, ma anche ingegnere, fondatore della moderna logica simbolica, matematico e filologo insigne, promotore di indagini sulle lingue del mondo, disegna (libro III, cap. 2) un quadro già attendibile di questi raggruppamenti di lingue disparate in un numero più ristretto di famiglie: le lingue derivate dal latino, le lingue germaniche, le slave, le celtiche, le lingue che oggi diciamo ugrofinniche (ungherese, finnico), le lingue che oggi diciamo semitiche (arabo, ebraico, punico) ecc. I tempi si erano fatti maturi perché le ripetute e sparse osservazioni sulle somiglianze tra il sanscrito, antica lingua classica della lontana India, e le lingue classiche e moderne d’Europa dessero luogo allo studio sistematico della parentela tra lingue lontane nel tempo e nello spazio, lingue anche assai diverse tra di loro, ma unite dalla filiazione da un’unica lingua comune originaria.
Da Leibniz la cultura tedesca del tempo trasse impulso a raccogliere, interpretare, approfondire lo studio delle lingue del gruppo germanico, a maturare i metodi di descrizione delle lingue di lì a breve preziosi, a costruire repertori delle lingue del mondo allora note: è il cammino di Johann Christoph Adelung che sbocca nella vasta opera Mithridates oder allgemeine Sprachenkunde, pubblicata postuma a cura di Johann Severin Vater (4 voll., 1806-17). In questi studi e in generale negli studi storici europei, da Simonde de Sismondi ad Alexis de Tocqueville, si affermava intanto la convinzione che la Vergleichung, la comparazione, fosse la chiave metodologica per penetrare e comprendere nella loro specificità epoche, fenomeni, vicende storiche lontane. Banditore di questa convinzione fu, portandovi tutta la vasta esperienza della sua cultura storica, giuridica, filologica, traduttologica, Wilhelm von Humboldt.
Sanscrito e lingua indoeuropea
I tempi erano maturi perché “la mela di Newton” cadesse su teste pronte a intendere il fenomeno (era già caduta a volte nei secoli precedenti, ma, come succede, senza risultati). L’impero britannico si era esteso all’India conquistandola. Un alto funzionario britannico, magistrato alla suprema corte di Calcutta, sir William Jones, già conoscitore profondo delle lingue classiche, del persiano e di altre numerose lingue orientali, fondatore della Royal Asiatic Society of Bengala, fu attratto dalla constatazione delle molte consonanze, non isolate, ma sistematiche, tra l’antica lingua sacra dell’India, il sanscrito, e le lingue europee classiche e moderne. Dalla constatazione nacque l’ipotesi lanciata nel discorso inaugurale dell’anno accademico della Asiatic Society il 2 febbraio 1786:
“La lingua sanscrita, quale che sia la sua antichità, è una lingua di struttura meravigliosa, più perfetta del greco, più copiosa del latino, e più squisitamente raffinata di ambedue, nonostante abbia con entrambe un’affinità più forte, sia nelle radici dei verbi sia nelle forme della grammatica, di quanto probabilmente non sarebbe potuto accadere per puro caso; così forte, infatti, che nessun filologo potrebbe indagarle tutt’e tre senza credere che esse siano sorte da qualche fonte comune, che, forse, non esiste più. Per una ragione simile, anche se non altrettanto forte, si deve supporre che sia il gotico sia il celtico, sebbene mescolati con idiomi molto differenti, abbiano avuto la stessa origine del sanscrito e che l’antico persiano potrebbe essere aggiunto alla medesima famiglia”.
Il paradigma latino-lingue neolatine si estendeva così a una vasta famiglia, dispersa dalle aree celtiche delle isole britanniche all’India, dalla Scandinavia al Mediterraneo, quella che di lì a poco sarebbe stata detta indoceltica, indogermanica, arioeuropea e, infine, indoeuropea, denominazione ormai prevalente. Il ruolo di progenitura del latino era affidato a una ipotetica lingua madre comune. Jones morì prima di vedere accettata la sua ipotesi. Solo vent’anni dopo fu ripresa e resa popolare in Germania da Friedrich Schlegel nel 1808 in Über die Sprache und Weisheit der Indier (“Lingua e saggezza degli Indiani”) in cui tra molti entusiasmi romantici si prospettava lo sviluppo di una vergleichende Grammatik delle lingue europee e orientali. La lettura di Schlegel influì sul giovanissimo Franz Bopp che, sollecitato anche dai suoi professori, si trasferì per alcuni anni a Parigi, dove poté accedere a una ricca messe di testi sanscriti e intraprendere e concludere lo studio comparativo sistematico della morfologia verbale delle lingue indoeuropee, pubblicato nel 1816 a Francoforte sul Meno: Über das Conjugationssystem der Sanskritsprache in Vergleichung mit jenem der griechischen, lateinischen, persischen und germanischen Sprache (“Sul sistema di coniugazione del sanscrito, in confronto con quello della lingua greca, latina, persiana e germanica”), con una prefazione di Karl Joseph Hieronymus Windischmann, il maestro che lo aveva incitato allo studio del sanscrito. Due anni prima era apparsa a Copenhagen un’altra opera capitale per lo sviluppo degli studi: Undersøgelse om det gamle Nordiske eller Islandske Sprogs Oprindelse (“Ricerche sull’origine della antica lingua nordica ovvero islandese”). Qui il giovane danese Rasmus Christian Rask mostrò che per provare l’esistenza di una parentela tra lingue diverse era necessario individuare corrispondenze sistematiche tra i loro suoni che garantissero la fondatezza del confronto tra le parole. Nell’opera si delineava il rapporto sistematico tra le consonanti delle parole di lingue germaniche e le consonanti di parole di latino, greco, sanscrito. Era quel rapporto che, ripreso poi da Jakob Grimm, è noto come “rotazione consonantica”.
I fondamenti della linguistica storica
Le opere dei due giovani studiosi e, ovviamente, i loro importanti contributi successivi, fissarono i canoni della linguistica storica. L’affinità genetica tra lingue, cioè l’affinità che porta a ipotizzare una loro origine comune, non può poggiare su consonanze lessicali sparse, ma deve fondarsi su corrispondenze sistematiche (ciò che dilettanti profani spesso ancora non capiscono). Grazie a queste, suoni anche foneticamente diversi si rivelano correlati e si giustifica l’ipotesi di un etimo comune tra il sanscrito bharami, il greco phero, il latino fero, il germanico -boren, tra il germanico feuer e il greco pyr ecc. Le concordanze sono tanto più probanti quanto più riguardano non il lessico, ma l’apparato morfologico delle lingue: i parlanti trasferiscono parole da una lingua all’altra, ma quasi mai desinenze, infissi, meccanismi derivazionali. Seguendo questi canoni si consolidò dapprima il riconoscimento della famiglia linguistica indoeuropea, alla quale riconduciamo oggi le lingue del gruppo celtico (il più occidentale), germanico (l’antico gotico, tedesco, inglese e nederlandese, lingue nordiche), italico (osco-umbro, latino e lingue romanze), messapico e venetico (oggi estinti), illirico (ne è probabile sopravvivenza l’albanese), greco antico, bizantino e moderno o neogreco, baltico (lituano, lèttone), slavo (bulgaro, ceco, polacco, russo, sloveno, serbocroato), armeno, indoiranico (avestico, persiano antico, medievale e moderno, vedico, sanscrito, pali e altre lingue indoeuropee dell’India medievale, hindi e altre lingue indoeuropee dell’India moderna), tocario e ittito. Si ebbe anche l’accertamento dell’unità genetica delle lingue semitiche e, a mano a mano, tra Otto e Novecento, di numerose altre famiglie linguistiche (caucasico, uralo-altaico, camitico, sino-tibetano ecc.) e la correlativa individuazione di alcune lingue che, come il giapponese, il coreano, il basco o l’etrusco, non presentano sicure affinità genetiche con altre lingue e definiamo “isolate”.
La linguistica come scienza del linguaggio
Si avviava così, studiando con metodi certi le affinità tra le lingue e l’evolversi delle lingue di ciascun gruppo, un immenso e specifico lavoro di descrizione e analisi delle singole lingue (della loro struttura grammaticale e sintattica, del loro lessico, della loro fonologia), delle loro variazioni nello spazio e nel tempo, delle tendenze evolutive presenti in ciascuna, dai documenti pù arcaici ai più recenti, attraverso lo spoglio sistematico e l’analisi di documenti d’ogni tipo, scritti e, ogni volta che fosse possibile, parlati, letterari o colti e semicolti, popolari.
In questo lavoro, che ancor oggi prosegue ed è ben lontano dal potersi immaginare concluso (le lingue del mondo oggi parlate e censite sono circa 7000), a partire dalla prima metà del XIX secolo ci si rese conto che era nato e si andava definendo un nuovo campo di studi specifico e autonomo che venne detto in Germania Sprachwissenschaft “scienza del linguaggio (o delle lingue)” o, anche, Linguistik, in Francia linguistique, dal 1826, in Gran Bretagna, pochi anni dopo, linguistics, in Italia linguistica (1839) o glottologia (1867; ma nell’accezione di “scienza dei suoni della voce” la parola circolava già nel 1798), in spagnolo lingüística, in russo jazykoznanije (“scienza del linguaggio”, calco dal tedesco), in giapponese gengokotoba.
La nuova scienza incontrò resistenze diverse, da paese a paese. In Italia Nicolò Tommaseo la osteggiò come “cosa teutonica”. Ben diverso l’atteggiamento di Carlo Cattaneo, che col suo “Politecnico”, i suoi stessi studi e l’appoggio dato al giovane Graziadio Isaia Ascoli, patrocinò l’affermarsi della linguistica anche in Italia. Ma resistenze e ritardi vi furono anche in Gran Bretagna, non invece nei paesi slavi e in Giappone, non nell’Europa nordica e, ovviamente, nel vario mondo di lingua tedesca. Grandi però furono anche gli entusiasmi mescolati a fraintendimenti. La ben fondata ipotesi di una comunanza genetica tra le lingue alimentò l’idea che, se vi era stata una lingua comune, fosse esistito un popolo che la parlasse. Si almanaccava sulla sede di questo popolo, si immaginavano migrazioni di massa da ovest a est e ritorno. Meno innocente fu l’idea che questo mitico popolo le cui lingue hanno conquistato oriente e occidente fosse superiore agli altri. Il razzismo antiebraico tradizionale nell’Europa cristiana ne trasse alimento per ammantare di scientificità e rilanciare il mito infame e disastroso della razza superiore. Ovviamente, a cominciare da Carlo Cattaneo, gli studiosi non mancarono di criticare e condannare queste degenerazioni, ma il mito, come è tragicamente noto, purtroppo resistette alla critica,
Bisogna dire che alcune elaborazioni della linguistica di metà Ottocento si prestavano a qualche equivoco. Uno stimato linguista tedesco, August Schleicher, convinto che la comparazione linguistica portasse alla ricostruzione di una vera e propria lingua, nel 1868 pubblicò la redazione di una favola esopica in “lingua indoeuropea”: non come esercizio, ma come attendibile ipotesi.
L’esempio del latino aiuta a capire perché Schleicher era fuori strada. Supponiamo di non avere a disposizione tutta la ricca documentazione della latinità e di conoscere solo le lingue neolatine. Dalla linguistica ne sapremmo abbastanza per concludere che le concordanze sistematiche tra suoni, desinenze, grammatica, vocabolario sono troppe per non postulare un’origine comune e dunque ricostrruire per il possibile alcune fattezze della protolingua. Ma che cosa ricostruiamo? Non è una lapalissade, ma cosa su cui riflettere: ricostruiamo quel che è sopravvissuto. E allora: ricostruiremmo una protolingua senza declinazione di nomi e aggettivi (solo per i pronomi personali saremmo autorizzati a pensare che il latino distinguesse un pronome soggetto e uno oggetto), non ricostruiremmo i futuri sintetici (amabo, cadam), non i participi futuri, non gli infiniti passati, non le intere coniugazioni passive, non congiunzioni pilastro della sintassi come ut e cum causale e temporale ecc. Una lingua monca rispetto al latino reale. D’altra parte (ed è forse l’errore maggiore di Schleicher e di quanti trascurano il fattore “tempo”, errore grave per linguisti “storici”) non potremmo non proiettare sul latino ricostruito accertate concordanze tra le lingue romanze: i passati prossimi perifrastici (habeo amatum e fugitus sum), i passivi perifrastici (amatus sum), i futuri perifrastici (amare habeo), le oggettive introdotte da que o, forse, quod. Come nei film di Frankenstein abbiamo di fronte un mostro sia monco sia con superfetazioni: concordanze tra elementi di nascita recente nelle singole lingue dovremmo proiettarle su uno stesso piano sincrono con ricostruzioni di elementi antichi. Lupo et agno erant venti ad metipso fluvio. Agno stabat subto, lupo in vice stabat supra. Lupo habet dicto ad agno: tu expurca aqua mea… La distanza con un testo latino reale ci fa capire la distanza della favoletta di Schleicher da quella che poté essere la realtà di una lingua comune indoeuropea. E ci ricorda che l’indoeuropeo ricostruito è uno strumento euristico prezioso per studiare le singole lingue, ma non una reale lingua storica. È, amava dire Antonino Pagliaro, una “finzione vera”, come il corpo perfettamente anelastico o, all’opposto, perfettamente elastico, modelli estremi che ci servono a misurare il diverso grado di elasticità dei corpi reali.