La liquidazione del danno alla persona
Nel 2014 la giurisprudenza non ha purtroppo risolto i contrasti che la dividono in tema di concezione, accertamento e liquidazione del danno non patrimoniale. Restano ancora contrastate le nozioni di “danno morale” e di ”personalizzazione” del risarcimento.
“Caos calmo”: è la metafora più appropriata per definire lo stato della giurisprudenza di legittimità in materia di liquidazione del danno non patrimoniale alla persona.
La “calma” discende dal fatto che nella giurisprudenza tanto di merito, quanto di legittimità, è divenuta ormai diffusa l’opinione che il danno non patrimoniale abbia natura unitaria, ma si articoli in più “profili” (danno alla salute, danno morale, danno esistenziale), dei quali il giudice di merito deve tenere conto per compiere una corretta liquidazione del risarcimento. La monetizzazione di quest’ultimo, poi, avverrà in base ai criteri predisposti dal Tribunale di Milano, opportunamente adeguati alle peculiarità del caso concreto.
Il “caos” discende dal fatto che l’opinione appena riassunta (oltre ad essere intrinsecamente contraddittoria) finisce per negare di fatto proprio quei principi sui quali pur dichiara di volersi fondare: e questo irrisolto nodo teorico prima o poi finirà per venire al pettine.
Proverò ora a spiegare queste due affermazioni dapprima dando conto della giurisprudenza formatasi nel 2014 in tema di liquidazione del danno non patrimoniale alla persona; quindi verificandone la compatibilità con i principi stabiliti, in subjecta materia, dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione.
È impossibile dare conto dello stato attuale della giurisprudenza sul danno non patrimoniale, senza avere ben presente attraverso quali convulsioni si sia ad esso pervenuti; è opportuno dunque sommariamente ricordare che: a) fino al 2008 si discuteva se il danno non patrimoniale fosse una categoria unitaria, ovvero se esistesse un danno autonomo e diverso per ogni diritto della persona leso dall’illecito; b) nel 2008 le Sezioni Unite11 posero fine alla disputa, stabilendo che il danno non patrimoniale è una categoria unitaria, e che nel liquidare il relativo risarcimento il giudice di merito deve tenere conto di tutte le conseguenze che ne sono derivate.
La decisione avrebbe dovuto avere effetti benéfici su prassi giudiziali diffuse e difficilmente giustificabili, come quella di liquidare separatamente e cumulativamente un risarcimento per il danno alla salute, ed uno per la sofferenza, definita “danno morale”: col bel risultato - ad esempio - di liquidare a chi aveva patito una cefalea postraumatica dapprima una somma di denaro a titolo di invalidità permanente per la cefalea (che altro non è se non dolore); e poi un’altra somma di denaro per la “sofferenza soggettiva”, cioè quello stesso dolore già preso in considerazione nel liquidare il danno biologico.
Purtroppo, quegli auspicati effetti benefici non ci furono.
Con una ostinazione mai registrata prima, in nessuna delle infinite materie nelle quali, dopo contrasti giurisprudenziali, fossero intervenute le Sezioni Unite, parte della giurisprudenza (sia di legittimità che di merito) ha prestato un ossequio solo formale alla “sistemazione” della materia stabilita dalla Cassazione a Sezioni Unite. L’orientamento in esame, in particolare, ha continuato ad affermare che le varie forme che può assumere il danno non patrimoniale (danno biologico, danno morale, danno cd. “esistenziale”) sono figure autonome ed “ontologicamente diverse” di danno2.
La disputa, ovviamente, non è solo nominalistica, ma ha conseguenze pratiche rilevantissime.
Quanti, infatti, ritengono che il danno non patrimoniale sia una categoria unitaria, compiono la liquidazione determinando il quantum di base, e poi eventualmente variandolo in funzione delle circostanze del caso concreto.
Quanti, per contro, ritengono che esistano (almeno) tre danni non patrimoniali (e cioè il biologico, il morale e l’esistenziale), in presenza di lesioni personali finiscono di fatto per accordare sempre e comunque tre poste risarcitorie distinte, sul presupposto che al cospetto d’una lesione della salute la sofferenza morale e quella “esistenziale” si possono ben presumere, ex art. 2727 c.c.
I contrasti sin qui descritti furono ulteriormente complicati, nel 2011, dalla decisione con la quale la Corte di cassazione ravvisò nelle tabelle uniformi predisposte dal Tribunale di Milano il criterio standard per la liquidazione del danno alla persona, al fine di garantire parità di trattamento tra i danneggiati3.
Infatti quella sentenza, nel pur lodevole intento di garantire uniformità nella liquidazione del danno biologico, ha ritenuto di indicare quale criterio preferibile proprio quello che più di tutti aveva disatteso il dictum delle Sezioni Unite di tre anni prima.
Pensiamoci un attimo: le S.U. avevano negato la possibilità di liquidare automaticamente e cumulativamente il danno biologico e quello morale, bollando tale operazione come duplicazione risarcitoria; il Tribunale di Milano, che aveva sempre liquidato cumulativamente ed automaticamente il danno morale, reagisce a questa decisione modificando le proprie tabelle, e conglobando nel danno biologico il danno morale. Il che val quanto dire che,mentre prima delle S.U. il danno “X” veniva liquidato con 100 euro per il danno biologico e 25 per quello morale, dopo le S.U. lo stesso danno veniva liquidato con 125 per il danno biologico: dove l’errore del Tribunale meneghino non sta ovviamente nell’individuazione del quantum (che deve restare saldamente ancorato alla valutazione equitativa del giudice di merito), ma nell’avere riprodotto proprio quell’automatismo risarcitorio che le S.U. avevano inteso censurare.
Ecco, quindi, il corto circuito logico-teorico che si è venuto a creare in tema di danno alla persona:
a) le Sezioni Unite della Corte di cassazione (2008) vietano gli automatismi risarcitori;
b) il Tribunale diMilano adotta un criterio fondato su un automatismo risarcitorio (2009);
c) la Corte di cassazione approva il criterio del Tribunale di Milano (2011), senza ripudiare il principio sub a).
Nel 2014 i nodi irrisolti della liquidazione del danno alla persona, che sopra si è cercato di riassumere, hanno ricevuto un lodevole tentativo di sistemazione con la sentenza 6.3.2014, n. 5243 della Corte di cassazione.
Questa sentenza ha affrontato i due più spinosi problemi sul tappeto in tema di danno alla persona, e cioè: a) quale sia il rapporto tra danno biologico e danno morale; b) come si concilino le tabelle milanesi col divieto di automatismi e duplicazioni sancito dalle Sezioni Unite, di cui s’è detto sopra.
Quanto al primo aspetto, la sentenza ha del tutto condivisibilmente stabilito che le Sezioni Unite della Corte, nell’affermare che la sofferenza soggettiva è una delle conseguenze del danno biologico, non vollero certo negarne la risarcibilità. Vollero, piuttosto, affermare la regola - all’epoca universalmente disattesa dai giudici di merito - secondo cui tale sofferenza non è in re ipsa; va allegata e provata, anche per presunzioni; può esserci e non esserci, a seconda dei casi. E comunque, quando c’è, di esso si deve tenere conto non con una liquidazione a sé stante, ma opportunamente aumentando il quantum del danno biologico.
Così, per fare un noto esempio: la lombosciatalgia postraumatica è un postumo permanente che in null’altro consiste se non in dolore. Se dunque liquidassimo a chi ne è affetto sia il danno biologico, sia il danno morale per tenere conto del dolore causato dai postumi, avremmo chiamato con due nomi lo stesso pregiudizio e l’avremmo liquidato due volte.
Per contro, dinanzi a postumi permanenti rappresentati - ad esempio - da uno sfregio deturpante del volto, la liquidazione dovrà tenere conto del fatto che la vittima provi vergogna a mostrarsi in pubblico: la vergogna infatti è una sofferenza estranea al dolore fisico.
Con la sentenza in esame la Corte di cassazione ha dunque chiarito questo cruciale aspetto della liquidazione, che potremmo riassumere con la massima: «danno morale: né sempre, né mai, ma da valutare caso per caso, e da monetizzare aumentando il risarcimento del danno biologico».
Certo, sconforta rilevare che vi è stato bisogno di una decisione della Corte di cassazione per fornire l’“interpretazione autentica” d’una sentenza delle Sezioni Unite; e per di più al fine di affermare i principi chiarissimamente e inequivocabilmente affermati già da queste ultime. Nondimeno, come che sia di ciò, è doveroso prendere atto che, in presenza d’una lesione della salute, non ha senso parlare di “danno morale”. Si tratterà soltanto di stabilire quali siano state le conseguenze pregiudizievoli della lesione, ed in presenza d’una sofferenza non avente base organica,ma psicologica (vergogna, rabbia, tristezza, apprensione, ansia, prostrazione morale) procedere ad un aumento “personalizzato” della liquidazione del danno biologico.
Soddisfatte in questo modo le ragioni della dogmatica, la sentenza n. 5243/2014, prova a soddisfare anche le ragioni della pratica: e cioè fornire un criterio che consenta di evitare di dovere ricorrere, ogni volta che si tratti di liquidare il danno alla salute, ad interminabili prove testimoniali su quante lacrime abbia versato la vittima. Qui la sentenza affronta il nodo cruciale della compatibilità delle tabelle milanesi con i principi stabiliti dalle Sezioni Unite, e lo risolve in maniera che, purtroppo, non può ritenersi soddisfacente.
Uno dei possibili modi - si legge infatti nella sentenza - per tenere conto del dolore a base non organica, olim definito “morale”, è quello di adottare «tabelle che includano nel punto base la relativa considerazione, dando per presunta secondo l’id quod plerumque accidit l’esistenza d’un tale tipo di pregiudizio». Infatti, secondo la Corte, quando le lesioni personali siano di una certa gravità, è normale che la vittima soffra e si disperi: è, quindi, coerente con una regola di comune esperienza elaborare una tabella che, per ogni singolo punto di invalidità, metta già in conto, per così dire, tale sofferenza e disperazione.
Stabilito ciò, la Corte ha poi soggiunto che comunque, una volta liquidato il danno alla salute con questa tabella “aumentata” per tenere conto del danno morale, «non si ha ancora la vera e propria personalizzazione del danno», la quale dovrà comunque essere compiuta dal giudice sulla base delle allegazioni di parte e previa adeguata motivazione.
Ora, a me pare che questa decisione, pur mossa dal lodevole intento di mettere ordine nelle contraddizioni in precedenza evidenziate, pervenga a conclusioni non appaganti, per tre ragioni.
La prima è la intrinseca contraddizione tra affermare, con le Sezioni Unite, che la sofferenza morale è un danno da accertare caso per caso, e ammettere poi che di tale pregiudizio si possa tenere conto attraverso una tabella standardizzata. Quel che è peculiare non può essere generalizzato, e se per contro si ammette che un pregiudizio possa essere monetizzato ex ante in misura standard, quello non sarà mai un risarcimento effettivamente attento alle specificità del singolo caso.
La seconda ragione per cui la decisione del 2014 non appaga e non sistema la materia, è che essa di fatto “sdogana” proprio quella liquidazione automatica che le Sezioni Unite avevano inteso bollare come iniqua. Ricordiamolo: prima del 2008 si liquidava il danno biologico e quello morale cumulativamente: il primo previo accertamento, il secondo d’emblée in misura variabile da un quarto ad un mezzo del primo. Questo non è possibile, affermarono le Sezioni Unite: la sofferenza morale va accertata caso per caso, e comunque non è dovuta a fronte di postumi permanenti che già di per sé non consistono in altro che dolore (cefalea, lombosciatalgia, limitazioni antalgiche delle articolazioni, ecc.).
La decisione qui in esame per contro, pur tenendo fermi in astratto questi principi, in concreto ammette che la sofferenza morale possa essere “inclusa” nella tabella predisposta per la liquidazione del danno biologico: il risultato è che lo stesso identico automatismo risarcitorio, che le Sezioni Unite intesero vietare, si è riprodotto tal quale, semplicemente cambiando nome. Mentre in passato si liquidava il danno biologico e, “automaticamente”, il danno morale per soprammercato, oggi si fa esattamente la stessa cosa, “automaticamente” aumentando il valore monetario del punto di invalidità.
La terza ragione per la quale la decisione n. 5243/2014 non appare convincente è che essa consente di fatto, al di là delle sue intenzioni, una vera e propria triplicazione del risarcimento. Da un lato, infatti, si ammette che la “componente soggettiva e morale” delle conseguenze causate dal fatto illecito possa essere standardizzata ed inglobata nel valere monetario del punto di invalidità; dall’altro si soggiunge che comunque una liquidazione che avvenga in base ad una tabella così concepita non costituisce “una vera e propria personalizzazione del risarcimento”.
Ora, qui dobbiamo intenderci: pacifico che il risarcimento del danno alla salute deve avvenire in base ad un criterio standard uguale per tutti (la tabella) ed una adeguata personalizzazione per tenere conto delle specificità del caso concreto, a me pare che la sussistenza di particolari circostanza idonee a giustificare una personalizzazione del risarcimento non sfugge all’alternativa: o la si presume sulla base dell’id quod plerumque accidit, o la si accerta in concreto.
Se la si presume è superfluo accertarla, se la si accerta il risarcimento dovrà tenere conto di quanto dimostrato in giudizio, non di quanto “presunto” in via generale dalle tabelle. È lo stesso meccanismo previsto dall’art. 1224 c.c.: il danno da ritardato adempimento di una obbligazione pecuniaria si presume pari al saggio degli interessi legali; ma se il creditore dimostra un pregiudizio maggiore, ha diritto al ristoro di quest’ultimo, che si sostituisce, e non certo si aggiunge, agli interessi legali moratori.
Analogamente, in tema di danno alla salute, la sofferenza morale causata dalle lesioni non può essere liquidata una prima volta in via presuntiva (in virtù della sua inclusione nel valore monetario del punto di invalidità) e una seconda volta in concreto, sulla base delle prove raccolte.
Pertanto, anche a seguire la logica adottata da Cass. n. 5243/2014, se il danneggiato prova di avere patito una sofferenza maggiore rispetto a quella standard, il giudice non potrà maggiorare il valore del punto di invalidità risultante dalla tabella, ma dovrà invece maggiorare il valore del punto “puro”, depurato cioè della componente di sofferenza morale oggi stabilmente inglobata nella tabella.
3.1 Altre questioni
Per avere un quadro completo dello “stato dell’arte” della giurisprudenza in tema di danno alla persona nell’anno 2014 occorre dare conto di altre due importanti decisioni, ambedue in tema di liquidazione del danno non patrimoniale.
La prima ha riguardato la liquidazione del danno biologico cd. “iatrogeno”, la seconda il contenuto che un pregiudizio non patrimoniale deve avere, per potersene predicare la risarcibilità.
Con la prima decisione4 il giudice di legittimità è stato per la prima volta chiamato ad affrontare il delicato nodo dei criteri di liquidazione del danno biologico causato da un errore medico, il quale abbia reso più grave una invalidità che comunque il paziente non avrebbe potuto evitare (cd. danno “iatrogeno).
Nel caso deciso da tale sentenza, un paziente si era sottoposto ad un intervento chirurgico all’arto superiore, a causa di una patologia che, quand’anche fosse stata correttamente curata, comunque sarebbe guarita lasciando dei postumi permanenti.
Nel giudizio di merito si era accertato che, a causa di un errore dei sanitari, la invalidità residuata alla malattia era di 5 punti percentuali superiore a quella che la malattia avrebbe comunque lasciato. Il Tribunale e la Corte d’appello avevano di conseguenza liquidato il danno patito dall’attore in misura pari ad una invalidità del 5%. La Corte di cassazione, accogliendo il ricorso del paziente, ha ritenuto scorretta tale procedura.
La liquidazione del danno biologico, infatti, avviene usualmente col cd. “criterio a punto”. In virtù di esso, alla vittima viene accordata una somma di denaro per ogni punto di invalidità, somma che tuttavia cresce esponenzialmente col crescere dell’invalidità.
A postumi doppi, dunque, corrispondono risarcimenti più che doppi. Pertanto, quando il medico aggrava l’invalidità che comunque si sarebbe prodotta, l’equo ristoro di tale danno “differenziale” deve avvenire con la seguente procedura:
a) determinare il grado complessivo ed effettivo di invalidità permanente residuato all’errore del medico, e monetizzarlo con i criteri usuali;
b) ipotizzare quale sarebbe stato il minor grado di invalidità permanente, se il medico non fosse incorso in errore, e monetizzarlo con i criteri usuali;
c) sottrarre il secondo di tali importi dal primo: la differenza costituirà il danno risarcibile.
La seconda,molto rilevante decisione in tema di danno non patrimoniale, aveva ad oggetto il risarcimento del danno da illegittimo trattamento di dati personali,ma ha affermato principi suscettibili di applicazione a qualsiasi ipotesi di risarcimento del danno non patrimoniale5. Con tale sentenza si è affermato il principio che il risarcimento del danno non patrimoniale, anche quando è espressamente previsto dalla legge, esige pur sempre che sia allegata e dimostrata l’esistenza d’un pregiudizio tale da superare una soglia minima di gravità, rappresentata dalla normale tollerabilità.
Il principio era stato già affermato da Cass., S.U., 26.11.2208, n. 26972 (la decisione con la quale si è definito il concetto di “danno non patrimoniale”, a composizione dei precedenti contrasti), ma in termini tali da suscitare il dubbio che la regola della “soglia minima” valesse solo per i danni non patrimoniali la cui risarcibilità non fosse espressamente prevista dalla legge, e consistiti nella lesione di diritti costituzionalmente garantiti.
La sentenza n. 16133/2014, invece, ha chiarito che questa “soglia minima” di risarcibilità del danno non patrimoniale vale per qualsiasi tipo di pregiudizio e per qualsiasi condotta illecita. Anche, dunque, quando la risarcibilità sia espressamente prevista dalla legge (come ad es. nel caso di reato o di illegittimo trattamento di dati personali).
1 Cass., S.U., 11.11.2008, n. 26972, in Assicurazioni, 2008, II, 2, 439.
2 Ex aliis, Cass., 20.11.2012, n. 20292, in Danno e resp., 2013, 129.
3 Cass., 7.6.2011, n. 12408, in Corr. giur., 2011, 1075.
4 Cass., 19.3.2014, n. 6341.
5 Cass., 15.7.2014 n. 16133.