Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La poesia dei trovatori è il primo movimento poetico e culturale dell’Europa moderna. Dalle corti meridionali della Francia essa diviene presto internazionale e si diffonde nel nord (sino in Inghilterra, Svizzera e Germania), all’est (sino alle corti ungheresi), a ovest, nelle diverse corti della penisola iberica, e a sud, in Italia settentrionale e poi nella corte siciliana di Federico II di Svevia.
Heinrich von Morungen
Mi è successo come a quel bambino
che vide in uno specchio il suo bel volto
e tendeva le mani verso il suo riflesso:
tanto fece che lo specchio si spezzò.
E tutta la sua gioia finì in triste pianto.
Anch’io pensavo d’essere felice sempre,
allor che vidi la mia amata signora,
da cui mi venne, con amore, così tanto affanno.
[...]
Testo originale:
Mir ist geschehen als einem kindelîne,
daz sîn schoenez bilde in einem glase gesach
unde greif dar nâch sîn selbes schîne
sô vil, biz daz ez den spiegel gar zerbrach.
Dô wart al sîn wunne ein leitlich ungemach.
alsô dâhte ich iemer vrô ze sîne,
dô ich gesach die lieben vrouwen mîne,
von der mir bî liebe leides vil geschach.
[...]
Martin Moxa e Lourenço
Voi che siete solito vivere a Corte,
vorrei sapere di codesti favoriti
se i loro privilegi dureranno molto,
perché non li vedo dare né spendere,
anzi li vedo prendere e chiedere;
e chi non gli vuole dare o prestare servizio
non può ottenere niente dal re.
Di codesti favoriti non so dire
se non che vedo in loro un grandissimo potere,
e li vedo guadagnare grandi fortune e case,
e vedo la gente tutta impoverirsi
e per povertà abbandonare il paese;
e il re ha gran piacere di ascoltarli,
ma non so che cosa gli consiglieranno.
[...]
Testo originale:
Vós que soedes en Corte morar
d’estes privados queria saber
se lhes há a privança muyt’ a durar,
ca os non vejo dar nen despender,
ante os vejo tomar e pedir;
e o que lhes non quer dar ou servir
non pode rem con el-rrey adubar.
D’estes privados non sey novelar
se non que lhes vejo muy gram poder,
e grandes rendas, casas guaanhar,
e vejo as gentes muyto emprovecer
e con proveza da terra sayr;
e há el-rrey sabor de os ouvir,
mays eu non sey que lhe van conselhar.
[...]
Sordello da Goito
Piangere voglio il nobile Blacasso su questa disadorna melodia
con cuore triste ed afflitto, e ne ho ben ragione
perché in lui ho perduto un buon signore e un buon amico
e perché tutti i virtuosi costumi sono con la sua morte scomparsi.
Tanto mortale è la perdita, che io non ho speranza
che ristorarsi mai possa se non per tal guisa:
che gli si tragga il cuore e se ne cibino i baroni
che vivono manchevoli di cuore: quindi avràn cuore assai.
Testo originale:
Planher vuelh en Blacatz en aquest leugier so,
ab cor trist e marrit; et ai en be razo,
qu’en luy ai mescabat senhor et amic bo,
e quar tug l’ayp valent en sa mort perdut so;
tant es mortals lo dans qu’ieu non ai sospeisso
que jamais si revenha, s’en aital guiza no;
qu’om li traga lo cor e que•n manio•l baro
que vivon descorat, pueys auran de cor pro.
La diffusione della poesia dei trovatori in Europa è fatto precocissimo e pervasivo: già dagli ultimi anni del XII secolo si assiste all’irradiazione del modello occitanico in numerose e diverse zone del continente. Così come le regioni francesi di lingua oitanica si erano aperte alla nuova maniera poetica e i trovieri avevano accolto ed elaborato il modello trobadorico, altre importanti aree appaiono ora, già fra il 1170 e la fine del secolo, del tutto acquisite alla maniera occitanica: si tratta sia di regioni romanze, come la penisola iberica e l’Italia, sia di regioni diverse come l’area orientale e in particolare quella nordica e germanica che, con i Minnesänger, costituirà una forma specifica della lirica cortese e della fin’amor. L’irraggiamento del modello trobadorico deve infatti intendersi non solo in termini di imitazione e confronto, ma, come implica lo stesso termine “irraggiamento” – che sottende appunto la diffusione di un’energia attraverso raggi che penetrano diversamente, a seconda della natura e delle condizioni della materia che li riceve –, dev’essere guardato più propriamente come un processo di acclimatazione, lo stesso che permetterà poi nel corso degli anni elaborazioni sensibilmente diversificate fra loro nelle diverse regioni dell’Europa.
Uno dei trovatori più originali e importanti, particolarmente versato nella sperimentazione linguistica e formale, è senza dubbio Raimbaut de Vaqueiras. Egli compone fra l’altro un testo assai significativo, un discordo: Eras can vei verdeiar (“Ora, quando vedo verdeggiare”) che è anche (primo esempio in assoluto) un componimento plurilingue, scritto probabilmente alla corte del marchese Bonifacio di Monferrato fra 1197 e 1201 ossia negli anni immediatamente precedenti la quarta crociata. Ebbene in tale testo, per rappresentare le forze discordanti nel suo cuore, Raimbaut realizza una contrapposizione di idiomi per strofe così organizzate: provenzale (I), italiano (II), francese (III), guascone (IV), galego-portoghese (V). Non vi è dubbio che, al di là delle specifiche intenzioni compositive e della destinazione immediata del testo (in primis l’occasione politica della crociata e l’omaggio, attraverso le lingue, ai regnanti di casate diverse), esso sia da considerarsi esempio anche di un’oraziana concordia discors, ossia dell’unità letteraria versus la frammentazione linguistica e, insieme, la celebrazione dell’esistenza stessa di quelle lingue che poi, dalla matrice trobadorica, troveranno la loro specifica espressione lirica.
Il più antico trovatore peninsulare storicamente determinato è Johan Soarez de Pávia, un portoghese (esponente della nobiltà della regione del Douro, ma vassallo del re d’Aragona e Catalogna per un feudo in terra aragonese) attivo fra 1169 e 1200. A lui sono ascritte sei (perdute) cantigas de amor, la forma più aderentemente prossima alla canso trobadorica, e un sirventese superstite: Ora faz ost’o senhor de Navarra.
La presenza efficiente di trovatori provenzali alle corti di León e Castiglia è ipotesi naturalmente plausibile, occorre tuttavia richiamare il fatto che già in un testo relativamente antico, la galleria satirica Cantarai d’aquestz trobadors, il trovatore Peire d’Alvernha nomina un tale “Guossalbo Roitz” (identificato ora con Gonzalo Ruiz, fratello di Pedro Ruiz de Azagra) ossia nomina un poeta di origine castigliana, legato al re di Navarra (lo stesso Gossalbo, probabilmente, nominato da Bertran de Born in un suo sirventese). In che lingua egli poetasse non è dato sapere, ma tanto basta a dedurre che la poesia volgare in area iberica doveva essere già attestata e fiorente.
La lirica galego-portoghese è diffusa in tutta la penisola sino al 1354, data della morte di Don Pedro de Barcelos, figlio naturale del celebre Don Denis, suo ultimo cultore. Il corpus raccoglie circa 2000 testi di cui 1700 di ispirazione profana elaborati da 153 poeti. La lirica galego-portoghese è tràdita da un numero assai esiguo di testimoni manoscritti (tre canzonieri, di cui uno solo di età medievale, più un descriptus e cinque frammenti). Alle cantigas profane vanno aggiunte le Cantigas de Santa Maria ossia le oltre 400 poesie dedicate alla Vergine attribuite al re Alfonso X, re di Castiglia e di León dal 1252, scritte negli anni Sessanta del XIII secolo: lirica profana e lirica religiosa sono qui, ma come anche in altre aree, espressioni diverse ed interconnesse mentre la stessa genesi e formazione della lirica galego-portoghese è da mettere in rapporto, oltre che con le corti, anche col fenomeno dei pellegrinaggi a Santiago de Compostela (attestate peraltro anche le cantigas de romeria, le “canzoni di pellegrinaggi”). La maggior parte delle Cantigas de Santa Maria sono di carattere narrativo e raccontano dei miracoli fatti dalla Vergine; le restanti, ad esse intercalate, sono di carattere più propriamente lirico (cantigas de loor) e si rifanno in gran parte alla tradizione liturgica e paraliturgica delle laudes. L’interferenza fra genere lirico e genere narrativo in ambito ispanico si ripropone sia nella castigliana Historia troyana polimétrica sia nell’aragonese Razón feyta d’amor, ma soprattutto nell’opera del riojano Gonzalo de Berceo – ad esempio per i Milagros de Nuestra Señora o per il Duelo de la Virgen – e poi definitivamente nel capolavoro di Juan Ruiz, Libro de Buen Amor (prima metà del XIV). Con Juan Ruiz la poesia castigliana propone anche un genere peculiare, solo parzialmente affine alla pastorella, ossia la cáica de serrana.
Genere specifico della lirica galego-portoghese è invece la cantiga d’amigo che non ha corrispondenti in ambito romanzo, ma mostra singolari analogie con le kharagiat mozarabiche ed è una canzone appunto messa in bocca a donne. Testi peculiari della penisola iberica sono infine le cantigas d’escarnho e de maldizer, canzoni di scherno scritte cioè in vituperium che, sulla scia quasi dell’antica licenza dei fescennini, continuano precisamente il genere trobadorico del sirventese.
La lirica autoctona catalana è invece strettamente saldata a quella occitanica e soprattutto legata alla corona d’Aragona (Alfonso II, il re-poeta, Pietro II e poi Giacomo I e Pietro III). Anche i due canzonieri trobadorici (V, del XIII secolo, ed Sg) di origine catalana vengono copiati in ambienti legati alla corte regia. I recenti ritrovamenti di testi (soprattutto dansas) nei registri notarili di Castelló d’Empúries non fanno che confermare tale prossimità, venendo a costituire un ponte fra il registro “basso” del trovatore catalano Cerveri de Girona (XIII sec.) e il Cançoneret de Ripoll (del 1330 ca.), l’esile raccolta di poesia catalana legata al rinnovamento delle forme liriche. L’ultimo grande poeta in lingua catalana in stretta dipendenza dai trovatori è il valenziano Ausias March, autore di più di 2000 versi e di 80 canzoni propriamente amorose. Il tratto caratteristico della nuova poesia sarà la separazione fra poesia cantata (cantiga, poi canción) e poesia letta (dezir, come il francese dit), oscillante quest’ultima fra lirica d’amore e speculazione filosofico-morale o allegorica. Il filone popolare sarà invece prevalentemente affidato alla serranilla (specialmente poi nella corte aragonese di Napoli, con Carvajal) e al villancico, attraverso il quale penetrerà anche nel grande teatro di Gil Vicente e Lope de Vega.
La sicura ripresa di modelli lirici romanzi da parte dei poeti tedeschi avviene già nel ventennio 1170-1190 ossia nella medesima epoca in cui i trovieri elaborano dalla matrice trobadorica il loro proprio codice lirico. Tali poeti sono detti Minnesänger ossia cantori della Minne ove Minne indica propriamente l’amore cortese ed è anche connesso etimologicamente al latino mens (come poi, mutatis mutandis, il dantesco “intelletto d’amore”). Fra i primi poeti si ricordano Friedrich von Hausen, il renano Ulrich von Gutenburg e lo stesso imperatore Enrico VI, padre di Federico II di Svevia.
Sono probabilmente le spedizioni crociate, senz’altro la quarta (1202-1204, ma preparata sin dal 1199) e probabilmente già la terza (1189-1192) a fornire l’occasione di un contatto durevole fra tali mondi diversi. Al seguito dei loro signori (Riccardo Cuor di Leone, Filippo Augusto, Federico Barbarossa) dovettero infatti convergere e incontrarsi poeti romanzi e germanici: ad esempio il troviero Conon de Béthune, potente feudatario artesiano, lo stesso Raimbaut, mentre il Minnesänger Friedrich von Hausen morirà in Oriente, in battaglia, nel maggio del 1190.
In effetti il legame dei poeti tedeschi, dimostrabile a partire da contrafacta specifici e riprese puntuali, con le regioni oitaniche, oltre che con quelle propriamente meridionali, pare essenziale e fondativo. Occorre tuttavia precisare che contatti fra l’area romanza e l’area germanica sono ben antecedenti e i relitti di una tradizione più antica (segnatamente la strofetta Las, qui non sun sparvir astur, “Ah, perché non sono uno sparviero o un astore”, datata all’ultimo terzo dell’XI secolo e provvista di una patina linguistica germanica) sembrerebbero denunciarne i legami con la zona propriamente pittavina.
Un’area particolarmente fiorente per la poesia dei Minnesänger è la zona del lago di Costanza e, generalmente, dell’attuale Svizzera, da cui provengono molti poeti e ove è confezionato – a Zurigo, per la famiglia Manesse, nella prima metà del XIV secolo – il bellissimo codice ora ad Heidelberg che conserva gran parte della produzione poetica dei Minnesänger.
Fra i caratteri più tipici della poesia dei Minnesänger è appunto il concetto di Minne che appare, rispetto a quello trobadorico di fin’amor, caratterizzato da una maggiore spiritualizzazione, così come il correlato Frauendienst (“servizio vassallatico d’amor”)’ è uno più strenuo esercizio di disinteressata dedizione e fedeltà alla dama. Più tardi si affermeranno due tendenze diverse che condurranno da una parte a una linea poetica oggettivo-realistica e, dall’altra, una linea classificabile come classico-mitologica e più schiettamente allegorica. Questi ultimi tratti saranno peraltro quelli caratteristici della complessivamente più tardiva tradizione poetica inglese, presenti soprattutto nei testi di Geoffrey Chaucer, Gower e Lydgate.
Specialmente dopo la diaspora succeduta alla crociata albigese e in concomitanza con l’avvio del luminoso regno meridionale di Federico II di Svevia, l’Italia diventa una terra accogliente per i trovatori esuli e la loro memoria poetica: nelle regioni nordorientali si costituiscono molti dei canzonieri lirici superstiti che, soprattutto per opera del trovatore caorsino Uc de Saint Circ, vengono corredati anche di vidas e razos.
Come i loro colleghi catalani, i poeti medievali di origine italiana adoperano come strumento d’espressione la lingua stessa dei trovatori ossia il volgare d’oc. Fra quelli di cui ci è giunta l’opera spicca il bolognese Rambertino Buvalelli, attestato nel primo quarto del XIII secolo. Egli ricopre vari incarichi per conto del comune di Bologna e figura in numerosi documenti quale podestà di varie città del nord Italia (Parma, Milano, Brescia, Genova ecc.). Il più oscuro poeta Peire de la Cavarana (o Caravana) pare invece attivo già alla fine del XII. Italiani sono inoltre il veneziano Bartolome Zorzi, autore fra l’altro di una sestina, Nicoletto da Torino e poi, fra i più noti, Lanfranco Cigala, Luchetto Gattilusio, Percivalle e Simone Doria, Bonifaci Calvo. Il più celebre fra i trovatori italiani è però certamente Sordello che soggiorna a lungo fuori d’Italia e nelle corti provenzali dopo le avventurose vicende legate al rapimento di Cunizza da Romano e sarà in seguito con Carlo d’Angiò a Napoli. Celebrato da Dante nel Purgatorio, anzi fissato in quell’abbraccio che lo lega sentimentalmente al suo conterraneo Virgilio, Sordello scrive testi d’amore, ma anche poesie politiche e il poemetto didascalico noto come Ensenhamen d’onor.
Se già del 1195 circa è l’unico testo giuntoci di Peire de la Cavarana e se dello scorcio del secolo sono le prime prove in italiano composte da Raimbaut de Vaqueiras (strofe II del discordo citato e il Contrasto bilingue con la donna genovese: Domna, tant vos ai preiada), degli stessi anni (1180-1210) è la canzone Quando eu stava in le tu’ cathene trascritta su una pergamena ravennate scoperta alla fine degli anni Trenta del XX secolo e solo recentemente pubblicata. In questo testo i legami con la tradizione occitanica, dal punto di vista lessicale e tematico più che da quello metrico, sono del tutto evidenti. E anche l’altro recente ritrovamento di versi d’amore in volgare italiano su una carta piacentina degli inizi del XIII secolo contribuisce ad arricchire la complessa facies poetica che dovette presentare l’Italia medievale fra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo. Del resto solo di pochi anni dopo (1234-1235) è la copia rinvenuta, già settentrionalizzata, di una lirica di Giacomino Pugliese, poeta dell’illustre Scuola poetica siciliana di Federico II di Svevia.
La nuova poesia d’arte italiana era dunque già fiorente e diffusa – contemporanea, per un tratto, ai trovatori: interessanti in tal senso le prime prove di un “influsso” contrario, dagli italiani cioè ai trobadors – e la strada era ormai definitivamente aperta alla lirica italiana moderna, allo stil novo, a Cavalcanti, a Dante. In Toscana, nel più ricco canzoniere che conserva la memoria lirica degli italiani del Duecento (il manoscritto Vaticano lat. 3793) si condensa così la translatio dalla Provenza all’Italia: sulla prima carta del codice è infatti esemplata la canzone Madonna dir vo voglio del notaro Giacomo da Lentini, una canzone d’amore che, pure diversissima dal suo modello, è stata riconosciuta come precisa traduzione della lirica trobadorica A vos midonç voill retraire en cantan. Infine, non ultimo: la canzone d’amore in questione è proprio di quell’unico trovatore “salvato” da Dante e posto luminosamente nel suo Paradiso, cioè di quel Folquet de Marseilla, trovatore italo-francese (secondo la vida) che, almeno nella costruzione storiografica dei canzonieri, viene così a saldare passato e presente ed è indicato, nel riconoscimento della tradizione lirica, come una significativa radice efficiente per la nuova poesia italiana della scuola poetica.