La logica e i fondamenti della matematica tra Ottocento e Novecento
Nella seconda metà dell’Ottocento, in tutta Europa il baricentro delle ricerche geometriche si sposta sullo studio dei fondamenti della geometria inteso come analisi della sua struttura assiomatica. L’ascesa delle geometrie non euclidee, la diffusione delle idee riemanniane sulle varietà n-dimensionali, l’acquisita indipendenza della geometria proiettiva rispetto a considerazioni di natura metrica, contribuiscono potentemente a trasformare la geometria in una disciplina astratta, suscettibile di svariate interpretazioni, in grado di recidere o reimpostare il millenario legame con lo spazio dei sensi. L’urgenza di specificare le assunzioni della geometria così da svilupparla su nuove basi rende l’espressione fondamenti della geometria un termine d’arte, impiegato fra gli altri da Bernhard Riemann, Sophus Lie, Wilhelm Karl Killing, Henri Poincaré, Bertrand Russell, prima che David Hilbert lo renda celebre con le Grundlagen der Geometrie (1899), destinate a offuscare definitivamente la vecchia concezione assiomatica.
Nei due decenni che precedono le Grundlagen, l’Italia svolge un ruolo d’avanguardia nel campo dei fondamenti della geometria attraverso la fioritura di due filoni di ricerca, la geometria algebrica e la logica matematica, che fanno capo rispettivamente a Corrado Segre (1863-1924) e a Giuseppe Peano presso l’Università di Torino. Gli sforzi più significativi di concettualizzare la nuova concezione assiomatica sono, non a caso, di colui che fa convergere questi due filoni: Mario Pieri (1860-1913). Nella sua memoria del 1898, I principii della geometria di posizione composti in un sistema logico, gli estremi delle nuove fondazioni assiomatiche sono delineati con la massima chiarezza tramite la nozione di sistema ipotetico-deduttivo, un’espressione che conoscerà anche una certa fortuna in ambito filosofico con il neopositivismo. Scrive Pieri in un passaggio cruciale di questo testo:
Carattere principalissimo degli enti primitivi d’un qualsivoglia sistema ipotetico-deduttivo è l’essere questi capaci d’interpretazioni arbitrarie, dentro certi confini assegnati dalle proposizioni primitive [...]. Il contenuto ideale delle parole e dei segni, che dinotano un qualche soggetto primitivo, è determinato soltanto dalle proposizioni primitive che versano intorno al medesimo: e il Lettore ha la facoltà di annettere a quelle parole e a que’ segni un significato ad libitum, purché questo sia compatibile con gli attributi generici imposti a quell’ente dalle proposizioni primitive (p. 6).
Allievo di Riccardo De Paolis (1854-1892) a Pisa e poi collaboratore a Torino di Segre e di Peano, tra il 1895 e il 1913 Pieri scrive diciassette articoli sui fondamenti della geometria, tredici sulla geometria proiettiva, due sulla geometria inversiva, e due sulla geometria elementare (Marchisotto, Smith 2007).
Le origini della tradizione italiana nei fondamenti della geometria si possono fare risalire alla memoria lincea Sui fondamenti della geometria projettiva («Memorie della Reale Accademia dei Lincei, classe di scienze fisiche, matematiche e naturali», s. III, 1881, pp. 489-503) di De Paolis, che era stato studente di Luigi Cremona (1830-1903) a Roma (Avellone, Brigaglia, Zappulla 2002). De Paolis riprende il progetto di Karl Georg Christian von Staudt nella Geometrie der Lage (1847, tradotta da Pieri in italiano nel 1889 con il titolo di Geometria di posizione) di svincolare la geometria proiettiva dalle nozioni metriche di distanza, proporzionalità e congruenza.
Nel 1882 Giuseppe Veronese (1854-1917), che nel 1880-81 ha trascorso un periodo di studio a Lipsia da Felix Klein, espone il suo originale punto di vista sulla geometria degli iperspazi nella memoria Behandlung der projectivischen Verhältnisse der Räume von verschiedenen Dimensionen durch das Princip des Projicirens und Schneidens («Mathematische Annalen», 1882, pp. 161-234). Egli difende la pregnanza intuitiva della nozione di spazio a n dimensioni nel segno di una concezione ‘genetica’: se un piano si può pensare generato da una retta e da un punto fuori di essa, allora lo spazio a tre dimensioni si può pensare costruito da un piano e un punto fuori di esso, lo spazio a quattro dimensioni dallo spazio a tre dimensioni e un punto fuori di esso, e così via. Il nucleo della trattazione degli iperspazi di Veronese è l’estensione del metodo delle proiezioni e sezioni familiare nelle tre dimensioni: è possibile ottenere nello spazio ordinario una configurazione di punti (o una curva) per mezzo di opportune proiezioni o sezioni di configurazioni di punti di uno spazio a n dimensioni.
Nel poderoso volume Fondamenti di geometria a più dimensioni [...] del 1891, tradotto in tedesco tre anni dopo, Veronese ribadisce che «il punto non è un sistema di numeri, né un oggetto qualsiasi, ma il punto tale e quale ce lo immaginiamo nello spazio ordinario; e gli oggetti composti di punti sono oggetti (figure) a cui applichiamo continuamente l’intuizione spaziale combinata con l’astrazione, e quindi col metodo sintetico» (p. 611). Nell’appendice del libro, Veronese evidenzia la possibilità di una nuova geometria in cui, non valendo l’assioma di Archimede, è ammessa l’esistenza di segmenti infiniti e infinitesimi attuali. Nel 1893 il giovanissimo Tullio Levi-Civita rielabora e generalizza in chiave analitica le idee di Veronese con la costruzione di un campo non archimedeo di numeri.
Nel 1883 Segre, formatosi alla scuola di Enrico D’Ovidio (1843-1933) a Torino, si laurea con una tesi sulle quadriche dello spazio a . dimensioni. Egli segue le linee portanti dell’interpretazione di Veronese degli iperspazi, con una divergenza radicale circa la natura del punto. L’idea di Segre è quella di considerare il punto dello spazio a n dimensioni «non come un ente geometrico dello spazio ordinario […] ma bensì come un ente a sé, la natura intima del quale si lascia indeterminata» (Studio sulle quadriche in uno spazio lineare ad un numero qualunque di dimensioni, «Memorie della Reale Accademia delle scienze di Torino», s. II, 1883, p. 3). Questo guadagno in astrazione permette di identificare tutti gli spazi lineari a uno stesso numero di dimensioni aprendo così la strada al fondamentale concetto di isomorfismo. In Su alcuni indirizzi nelle investigazioni geometriche: osservazioni dirette ai miei studenti («Rivista di matematica», 1891, 1, pp. 42-66), Segre propone ai suoi studenti il programma di trovare un sistema indipendente di postulati in grado di caratterizzare lo spazio lineare a n dimensioni così da risultare deducibile la rappresentazione dei suoi punti con coordinate.
Lungo queste direttrici, Gino Fano (1871-1952), nella memoria Sui postulati fondamentali della geometria proiettiva in uno spazio lineare a un numero qualunque di dimensioni («Giornale di matematiche», 1892, pp. 106-32), affronta la questione della fondazione assiomatica della geometria proiettiva negli iperspazi. Fano approda ai primi esempi di geometrie finite nella storia della geometria: mediante l’esempio del piano proiettivo finito con sette punti e sette linee, egli mostra che il quarto armonico D di tre punti collineari A, B, C non sempre è distinto da C.
Peano è già un matematico affermato quando nel giugno del 1889 entra nel dibattito sui fondamenti della geometria proiettiva e della geometria metrica con I principii di geometria logicamente esposti. All’inizio di quello stesso anno ha infatti pubblicato gli Arithmetices principia, nova methodo exposita (v. oltre) e l’anno prima il Calcolo geometrico secondo l’Ausdehnungslehre di Hermann Grassmann, preceduto dalle operazioni della logica deduttiva, dove, oltre a chiarire al pubblico italiano la complessa concezione grassmanniana dell’estensione, ha proposto la prima definizione assiomatica della nozione di spazio vettoriale sul campo reale. Egli ha inoltre all’attivo un importante manuale, Calcolo differenziale e principii di calcolo integrale [...] (1884), nonostante esso appaia con il nome del suo maestro Angelo Genocchi (1817-1889), e una serie di lavori sull’integrabilità delle equazioni differenziali.
Ne I Principii, geometria e logica sono subito intrecciate nel segno della duplice questione di determinare quali siano gli enti geometrici che si possono definire e di stabilire quali «proprietà sperimentalmente vere» di questi enti siano da assumere o dedurre. Peano segue l’impostazione assiomatica di Moritz Pasch (1843-1930) nelle Vorlesungen über neuere Geometrie (1882), per cui la geometria è deduttiva nella misura in cui il suo processo deduttivo è svincolato dal significato dei concetti geometrici e dalle figure sensibili, fonte di continue trappole (a cominciare, come Pasch illustra, dalla prima dimostrazione degli Elementi di Euclide). Ne I principii, Peano mette al bando le figure e sfrutta in pieno la sua notazione logica con cui nelle note analizza, anche con puntiglio, il primo assioma di Pasch, «tra due punti si può sempre tracciare uno ed un solo segmento», dissolvendo con quattro formule logiche distinte l’ambiguità dell’espressione due punti («due punti qualunque», «due punti distinti», «successione di punti», «gruppo di punti»). I tre concetti primitivi di Pasch (punto, segmento, porzione di piano) sono ridotti ai primi due (più precisamente a punto e appartenenza di un punto a un segmento). L’elemento chiave de I principii è un grado fortissimo di astrazione:
Si ha così una categoria di enti, chiamati punti. Questi enti non sono definiti. Inoltre dati tre punti, si considera una relazione fra di essi, indicata colla scrittura . ε ab [ab è il segmento determinato da a e b], la quale relazione non è parimenti definita. Il lettore può intendere col segno 1 [la classe dei punti] una categoria qualunque di enti, e con c ε ab una relazione qualunque fra tre enti di quella categoria […]. È chiaro che non tutti gli enti si possono definire, ma è importante in ogni scienza di ridurre al minimo numero gli enti non definiti. Di questi si enunceranno solo le proprietà (pp. 77-78).
Eppure l’astrattezza della presentazione assiomatica si coniuga con l’idea che la scelta dei postulati rispecchia il nostro rapporto con l’esperienza, e anzi che sia proprio la loro natura sperimentale a neutralizzare i margini di arbitrio della costruzione assiomatica (G. Peano, Sui fondamenti della geometria, «Rivista di matematica», 1894, 4, pp. 51-90, poi in Id., Opere scelte, a cura di V. Cassina, 3° vol., 1959, pp. 115-57; Rizza 2009). Peano si colloca quindi all’interno dell’indirizzo che Pieri chiama «fisico-geometrico» in contrapposizione a quello «deduttivo-astratto» che non associa ai concetti primitivi della geometria un qualche significato preliminare.
Si possono certo avanzare dubbi sulla legittimità storiografica di riferirsi a una ‘scuola italiana’ nell’ambito dei fondamenti della geometria. Il rischio è sottovalutare il fatto che gli studiosi di questa ‘scuola’ seguono percorsi teorici differenti, interni alla geometria algebrica o alla logica matematica (Pieri a parte), mostrano un dissenso sul carattere, formale o intuitivo, degli assiomi geometrici o anche sulla necessità di interpretarli psicologicamente; e perfino hanno una divergente disposizione verso la nozione di rigore matematico, al punto che non mancano aspre contrapposizioni e incomprensioni fra loro.
A quest’ultimo proposito, celebre è la controversia che nel 1891 oppone Segre e Peano sulle pagine della neonata «Rivista di matematica» (che uscirà fino al 1906), diretta e fondata dal secondo con intenti didattici inquadrati nella sua concezione rigorista della matematica. Nel citato articolo Su alcuni indirizzi nelle investigazioni geometriche [...], Segre, dopo aver discusso alcuni problemi metodologici nella fondazione della nozione di iperspazio, difende la convenienza di alternare fra loro il metodo sintetico e quello analitico in vista dei risultati: «la purezza del metodo passa in seconda linea» (p. 53) quando si tratta solo di scoprire un nuovo risultato, mentre è al momento dell’effettiva dimostrazione che deve applicarsi l’istanza del rigore. Peano replica perentoriamente che non è possibile considerare come ottenuto un risultato che non sia rigorosamente dimostrato e che il rigore è soltanto una condizione necessaria per la scientificità di un lavoro matematico ma non sufficiente (Osservazioni del Direttore sull’articolo precedente, «Rivista di matematica», 1891, 1, pp. 66-69). Il suo bersaglio è la teoria ‘geometrica’ degli iperspazi di Veronese, con cui Peano entrerà in una polemica diretta: al variare del numero delle dimensioni dello spazio deve cambiare la definizione degli enti coinvolti anche se essi sono designati dagli stessi nomi. Gli iperspazi sono da affrontare con gli strumenti propri dell’algebra lineare.
E tuttavia, al netto di differenti stili di pensiero e di una varietà di preoccupazioni teoriche, nella sostanza i matematici italiani attivi nelle ricerche fondazionali tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del nuovo secolo si riconoscono in una nuova concezione assiomatica della geometria come studio di sistemi che si definiscono astrattamente a partire da postulati. Così, resta solo secondaria la loro inclinazione a spiegare questa astrattezza come un definitivo sganciamento dall’intuizione oppure come un nuovo modo di organizzare i materiali intuitivi. Anche chi come Federigo Enriques, sulla falsariga di Klein, è un lucido difensore del ruolo dell’intuizione spaziale nella geometria e della natura evidente dei suoi postulati, non esita nelle Lezioni di geometria proiettiva (1898) a inquadrare la geometria proiettiva come una «scienza astratta» e perciò soggetta a
interpretazioni diverse da quella intuitiva, fissando che gli elementi (punti, rette, piani) di essa siano concetti comunque determinati, tra i quali intercedono le relazioni logiche espresse dai postulati (p. 348).
Nell’immagine politica di Giovanni Vailati (1863-1909), ritoccata da Pieri, i postulati di una teoria recedono da una sorta di diritto divino, che discende dalla loro pretesa evidenza, per diventare i capi elettivi di un regime democratico chiamati a esercitare temporaneamente una funzione nell’interesse pubblico (G. Vailati, Pragmatismo e logica matematica, in Scritti, a cura di M. Quaranta, 1987, 1° vol., p. 68; M. Pieri, Uno sguardo al nuovo indirizzo logico-matematico delle scienze deduttive, «Annuario della Università di Catania», 1906-1907, pp. 21-82, poi in Opere sui fondamen-ti della matematica, 1980, pp. 389-448). Il rischio semmai – chiosa Enriques – è che «l’arbitrio illimitato di scelta» prima o poi trasformi la democrazia della geometria in una vera demagogia (Il significato della critica dei principi nello sviluppo delle matematiche, «Scientia», 1912, 12, p. 188).
Quel che è certo, è che sarebbe improprio schiacciare i contributi fondazionali dei matematici italiani semplicemente su di una linea di sviluppo concettuale che culmina trionfalmente nelle Grundlagen di Hilbert. Questa lettura è per un verso riduttiva, per un altro fuorviante. Riduttiva perché non tiene in debito conto che un nuovo atteggiamento nei confronti dei concetti primitivi o indefiniti di una teoria geometria, sufficiente a scardinare la tradizionale concezione assiomatica, è già completamente acquisito dai matematici italiani. Come aveva già notato Hans Freudenthal (1957), il celebre incipit delle Grundlagen hilbertiane sembra già contenuto nella memoria di Fano del 1892. Hilbert considera tre distinti, imprecisati, «sistemi» di oggetti chiamati «punti», «rette» e «piani», che possono essere in certe relazioni reciproche del tipo: «essere incidenti», «stare fra», «essere congruente». Dal canto suo, Fano – netta è l’eco della lezione di Segre – avverte che parlerà, invece che di enti primitivi, di «una varietà di enti di qualsiasi natura; enti che chiameremo, per brevità, punti, indipendentemente, però, dalla loro stessa natura» (Sui postulati..., cit., p. 106). E continua affermando di
riservare il nome di postulati [a quelle proprietà] che ci daranno le proprietà prime degli enti o punti della nostra varietà […]: quelle proprie proprietà che opportunamente scelte dovremo ammettere per caratterizzare gli enti stessi e poterne poi dedurre nuove proprietà di questi (p. 106).
D’altro lato, questa linea interpretativa per così dire ‘continuista’ è fuorviante, in quanto non spiega la vittoria di Pirro della scuola italiana, ossia la sua incapacità a svolgere un ruolo di primo piano anche nel nuovo corso delle ricerche fondazionali che saranno invece sviluppate dalla scuola tedesca e statunitense. In breve, si trascura una cruciale discontinuità tra la posizione della scuola italiana e quella hilbertiana in merito al ruolo che il metodo assiomatico è chiamato a svolgere in matematica. I matematici italiani hanno infatti una diversa disposizione verso l’assiomatica come strumento di ricerca (Avellone, Brigaglia, Zappulla 2002; Borga, Freguglia, Palladino 1985). Con la significativa eccezione della geometria non archimedea di Veronese (non a caso l’unico autore italiano citato da Hilbert nelle Grundlagen), per la scuola italiana gli assiomi di una teoria servono come un punto di arrivo anziché di partenza per la ricerca matematica, e per questa ragione essa considera i fondamenti alla stregua di una rigorosa sistemazione di teorie collaudate: le nuove geometrie di Fano, la cui rilevanza per i fondamenti della geometria sarebbe emersa negli anni a venire, restano di fatto controesempi con cui mostrare l’indipendenza degli assiomi (Gray 2007).
In altre parole, l’assiomatica costituisce una fondazione di sapere geometrico e gli assiomi tracciano i confini di teorie note. Di qui, inoltre, l’esigenza di un autore come Peano di collocare il proprio lavoro di fondazione assiomatica all’interno dell’arco evolutivo della matematica sulla base della conformità degli assiomi con una prassi dimostrativa radicata. Di qui l’importanza per Peano e Pieri della questione, del tutto estranea a Hilbert, del minimo numero di assiomi, e perfino di simboli, necessari per la costruzione di una teoria geometrica. E di qui, più in generale, la sovrapposizione tipicamente italiana della tematica fondazionale alla finalità didattica di perfezionare i metodi d’insegnamento e di formare gli insegnanti della scuola secondaria. Le Grundlagen hilbertiane affidano alla fondazione assiomatica un nuovo compito, che non consiste nel suggellare un processo di chiarificazione concettuale, ma nel dare impulso a una fase espansiva di scoperta di nuove teorie geometriche: sono anzitutto queste che rimandano al metodo assiomatico per la loro giustificazione e fondazione. Così, nella nuova ottica hilbertiana, la posta metateorica dell’indipendenza degli assiomi non è più quella logica di garantire alla fondazione di una teoria un carattere minimale e non ridondante, ma l’allargamento dell’orizzonte delle possibilità matematiche. L’importanza di una prova di indipendenza sta insomma nel generare automaticamente una nuova teoria che assume fra i suoi assiomi la negazione di quello di cui si è provata l’indipendenza. Nelle Grundlagen, l’esito è una vera e propria proliferazione di ‘geometrie non’, a cominciare da quella non euclidea che ne è il prototipo: non archimedea, non pascaliana, non desarguesiana, non legendriana ecc.; esse dischiudono lo spazio del geometricamente possibile.
Nella seconda metà dell’Ottocento, l’esigenza diffusa di un più alto standard di rigore logico e definitorio investe anche l’aritmetica, i cui oggetti e procedure fino al quel momento erano stati considerati dai matematici sufficientemente familiari da non meritare un’analisi specifica. La riorganizzazione dell’analisi a partire dalla precisazione della nozione di limite mediante i numeri reali aveva aperto la strada a ciò che Klein nel 1895 chiamerà l’«aritmetizzazione dell’analisi», un processo iniziato da Karl Weierstrass (1815-1897) e culminato con Richard Dedekind (1831-1916): i numeri reali sono definiti in termini di numeri razionali e quindi di numeri naturali. Ciò comporta un ritorno ai metodi aritmetici di prova e il tentativo di identificare nella fondazione della teoria dei numeri naturali, integrata con alcune nozioni insiemistiche, la fondazione stessa della matematica. Importanti contributi alla fondazione dell’aritmetica sono dati in Europa da Hermann Grassmann (1809-1877), Dedekind e Gottlob Frege (1848-1925), e negli Stati Uniti da Charles S. Peirce (1839-1914).
Nel 1889 Peano dà alle stampe il citato opuscolo Arithmetices principia […], che in 36 pagine di latino classico contiene gli assiomi dell’aritmetica nella forma elegante e semplice che conosciamo oggi e indichiamo universalmente con l’acronimo PA (cioè ‘aritmetica di Peano’). Per più di un decennio Peano perfezionerà (anche con la collaborazione dei suoi allievi) la presentazione degli assiomi dell’aritmetica, fino alla loro versione definitiva nella terza edizione del suo Formulario mathematico (pubblicata in francese nel 1901 con il titolo Formulaire de mathématiques). Nella prefazione agli Arithmetices principia, Peano delinea la nova methodus per trattare i fondamenti della matematica. Si tratta di una nuova notazione logica con l’esplicito obiettivo, come già il linguaggio ideografico di Frege di dieci anni prima, di evitare le ambiguità che sorgono dal linguaggio comune.
Novità assoluta degli Arithmetices principia, anche rispetto ai più avanzati formalismi contemporanei come quello dell’algebra della logica di Ernst Schröder, è l’introduzione di un simbolo per denotare l’appartenenza di un oggetto a una classe, distinto dal simbolo d’inclusione tra classi: Peano si serve della quinta lettera dell’alfabeto greco, ‘ε’, che diventerà ‘∈’ nella versione stilizzata di Russell. In The principles of mathematics (1903), quest’ultimo annovera tra i più grandi meriti di Peano quello di aver stabilito una distinzione fra la relazione di appartenenza di un individuo alla sua classe e la relazione di inclusione fra classi. L’enfasi è eccessiva. Georg Cantor impiega implicitamente questa distinzione già nei suoi primi lavori degli anni Settanta, prima di esplicitarla nel 1895; e anche Frege nella Begriffsschrift, eine der arithmetischen nachgebildete Formelsprache des reinen Denkens (1879) l’applica in riferimento ai concetti, prima di tematizzarla, a partire dal 1884, nei termini di «cadere sotto un concetto» e di «subordinazione» (Kanamori 2003).
È invece ancora estranea agli Arithmetices principia l’importante distinzione tra la classe che contiene un solo individuo (chiamata oggi singoletto) e l’individuo stesso. Questa distinzione è l’esito della decomposizione in due parti del simbolo dell’uguaglianza ‘=’: la prima parte, ‘è’, è già rappresentata nel formalismo peaniano da ‘ε’; la seconda, ‘uguale a’, viene indicata con . (l’iniziale della parola greca ἴσος). Rendendo allora a=. con aειb, in virtù della sintassi segue che ιb è una classe, cioè la classe che contiene solo b. Nel 1897 Peano definisce la classe vuota come intersezione di tutte le classi e introduce un unico simbolo, ‘∃’, per il quantificatore esistenziale, che interpreta come l’indicazione che una classe di individui non è uguale alla classe vuota.
Questa spiccata sensibilità di Peano per la chiarificazione della nozione di classe negli anni in cui la questione della natura di un insieme arbitrario è al centro del dibattito matematico, spiega i diversi contributi alla teoria degli insiemi dei suoi allievi e collaboratori (Giulio Vivanti, Rodolfo Bettazzi, Cesare Burali-Forti) nell’ultimo decennio dell’Ottocento. In particolare, Burali-Forti nell’articolo Le classi finite («Atti della Reale Accademia delle scienze di Torino», 1896, pp. 34-52) solleva per la prima volta il problema di una fondazione assiomatica della teoria degli insiemi che consideri come primitive le nozioni di classe e di corrispondenza, rendendo le loro proprietà logicamente deducibili da un sistema di postulati. A Burali-Forti, inoltre, è stata spesso attribuita la scoperta del primo paradosso riguardante la teoria cantoriana degli insiemi, in un lavoro del 1897 dal titolo Una questione sui numeri transfiniti («Rendiconti del Circolo matematico di Palermo», 3, pp. 154-64). Questo paradosso è oggi espresso affermando che l’insieme di tutti i numeri ordinali ha un numero ordinale che è maggiore di ogni numero ordinale della classe, contraddicendo il fatto che non esiste un massimo ordinale. Nell’articolo di Burali-Forti, il paradosso vive invece in uno stato di latenza: lo scopo dell’autore era dimostrare attraverso una reductio ad absurdum che la legge di tricotomia non vale per i numeri ordinali, e solo dopo la diffusione del paradosso di Russell del 1902, l’argomento di Burali-Forti assume il carattere di antinomia (Moore, Garciadiego 1981).
Tornando agli Arithmetices principia, altri simboli del formalismo sono: ‘∩’ (congiunzione), ‘∪’ (disgiunzione), ‘−’ (negazione), ‘⊃’ (derivazione), ‘∧’ (falso o assurdo); una notazione per la quantificazione universale ‘a ⊃x,y b’, da leggersi ‘per ogni x, y da a si deduce b’; inoltre, un ingegnoso sistema di punti (., :, ∴, ∷) sostituisce le parentesi dell’algebra, permettendo di separare fra loro le formule usate nella trattazione. Tuttavia non bisogna dimenticare che Peano segue ancora la tradizionale impostazione di George Boole e Schröder nell’ammettere una lettura duale, proposizionale e insiemistica, dello stesso simbolo: per es., ∩ denota anche l’intersezione tra classi, e ⊃ anche l’inclusione.
Negli Arithmetices principia, i concetti primitivi dell’aritmetica sono quattro: . (numero), 1 (uno), a+ (sequens, il successore di a, dove a è un numero),
= (l’uguaglianza). Le proprietà fondamentali dei primitivi sono espresse dai seguenti nove axiomata:
1. 1 ∈ N
2. a ∈ N . ⊃ . . = a.
3. a, b ∈ N . ⊃ : . = b . = . . = a.
4. a, b, . ∈ N . ⊃ ∴ . = b . . = c : ⊃ . . = c.
5. a = . . . ∈ . : ⊃ . . ∈ N.
6. a ∈ N . ⊃ . a + 1 ∈ N.
7. a, b ∈ N . ⊃ : . = b . = . . + 1 = b + 1.
8. a ∈ N . ⊃ . . + 1 – = 1.
9. k ∈ . ∴ 1 ∈ . ∴ x ∈ N . . ∈ . : ⊃x . . + 1 ∈ . ∷
⊃ . N ⊃ k.
Negli assiomi 3 e 7, il simbolo di uguaglianza è usato anche per esprimere la nozione di equivalenza logica. Prescindendo dai quattro assiomi relativi all’uguaglianza che esprimono la proprietà riflessiva, simmetrica e transitiva, gli assiomi aritmetici veri e propri sono i seguenti cinque (corrispondenti rispettivamente agli assiomi 1, 6, 7, 8 e 9):
1 è un numero;
il successore di un numero è un numero;
se due numeri hanno lo stesso successore sono uguali;
1 non è il successore di alcun numero;
se k è una classe che include 1 e, per ogni numero x, se x appartiene a k allora anche il successore di x appartiene a k, allora la classe k contiene la classe N (principio d’induzione).
I primi quattro assiomi garantiscono che N è un insieme infinito, mentre il principio d’induzione serve a identificare N tra tutti gli insiemi infiniti. Peano prosegue definendo le quattro operazioni di base dell’aritmetica e dimostrandone le proprietà fondamentali sul registro del Lehrbuch der Arithmetik für höhere Lehrenstalten (1861) di Grassmann, da cui attinge l’importanza delle definizioni per ricorsione; poi passa a elencare vari risultati aritmetici derivabili dai suoi assiomi, inclusi alcuni teoremi degli Elementi di Euclide e il piccolo teorema di Pierre de Fermat; infine estende la sua trattazione ai numeri razionali e reali e alla topologia della retta.
Giocoforza, gli storici della matematica leggono gli Arithmetices principia in parallelo al saggio di Dedekind dell’anno precedente, Was sind und was sollen die Zahlen? (1888), che elabora analoghe condizioni fondamentali dell’aritmetica, ancorché non espresse in forma assiomatica e formale. I concetti primitivi da cui prende le mosse l’analisi di Dedekind sono quelli di sistema (insieme) e di rappresentazione (funzione) concepiti come concetti logici. Nella famosa definizione 71, Dedekind arriva a caratterizzare il sistema dei numeri naturali come un insieme N su cui è data una funzione iniettiva f da N a N. (l’operazione di passaggio al successore), che include un unico elemento non appartenente all’immagine di . (chiamato ‘1’), e tale, infine, che nessun sottoinsieme proprio di N che contiene 1 è chiuso sotto f. Poiché questa caratterizzazione della successione dei numeri naturali si può intendere come una variante stilistica degli assiomi di Peano, s’impone la questione dell’influenza esercitata da Dedekind su Peano, il quale omette di informarci del percorso intellettuale che l’ha portato alla determinazione dei suoi assiomi. Alcuni storici ritengono che il debito sia documentato dal passo, alla fine della Praefatio agli Arithmetices principia, in cui Peano dichiara l’utilità del recente scritto di Dedekind «in quo questiones, quae ad numerorum fundamenta pertinent, acute examinatur» (p. V). Tuttavia, nella seconda edizione del Formulario (1898) Peano chiarirà di aver letto l’opera del matematico tedesco soltanto quando la propria era in stampa, e affermerà che dalla sostanziale coincidenza dell’analisi di Dedekind con le proposizioni da lui assunte come primitive aveva potuto ricavare la ‘prova morale’ della loro indipendenza. Per la dimostrazione della loro indipendenza bisogna attendere il suo saggio Sul concetto di numero («Rivista di matematica», 1891, 1, pp. 87-102 e 256-67).
Altra questione è la messa a confronto sul piano filosofico degli approcci quasi simultanei alla problematica fondazionale dell’aritmetica da parte di Dedekind e Peano. Entrambi sposano una visione dell’aritmetica che possiamo chiamare strutturalista, organizzata intorno al sistema dei numeri e alla derivabilità ricorsiva delle proprietà numeriche; tuttavia la differenza principale della loro impostazione consiste in una differente concezione della relazione tra la logica e la matematica (e l’aritmetica in particolare). L’obiettivo di Dedekind gravita nell’orbita dell’indirizzo logicista per il quale la matematica è riducibile alla logica: si tratta di giungere a una fondazione del concetto di numero a partire da basi logiche e insiemistiche sufficientemente generali da ricongiungersi all’attività mentale di costruire insiemi e stabilire collegamenti, o corrispondenze, tra i loro elementi. Per Peano, invece, gli assiomi dell’aritmetica non definiscono il numero, ma lo assumono come un concetto primitivo che, come tale, non ammette nemmeno una definizione in termini logici; la logica si configura invece come uno strumento descrittivo che ne chiarisce ed esplicita le proprietà fondamentali:
Per mio conto […] il numero (intero positivo) non si può definire (poiché le idee di ordine, successione, aggregato, ecc., sono altrettanto complesse come quella di numero) (Sul concetto di numero, cit., p. 256).
In questo stesso saggio Peano riduce i concetti aritmetici primitivi a tre – numero, uno e successore –, in quanto non considera più l’uguaglianza alla stregua di un concetto logico. Eliminando gli assiomi che la riguardano, gli assiomi dell’aritmetica si riducono a cinque che corrispondono, in una notazione leggermente modificata, agli assiomi 1, 6, 7, 8, 9 del 1889:
1. 1 ∈ N
2. + ∈ N|N
3. a, . ∈ N . a+ = b+ : ⊃ . a = b.
4. 1 – ∈ N+
5. s ∈ K . 1 ∈ s . s+ ⊃ . : ⊃ . N ⊃ s.
La separazione degli assiomi aritmetici da quelli logici agevola la dimostrazione che gli assiomi dell’aritmetica sono indipendenti fra loro, ossia che nessuno di essi può essere derivato assumendo i rimanenti. Peano applica il metodo del modello che consiste nel considerare un’interpretazione che soddisfa tutti gli assiomi tranne quello di cui si vuole affermare l’indipendenza, un metodo che discende dalla dimostrazione (1868) di Eugenio Beltrami (1836-1900) dell’indipendenza del postulato delle parallele dagli altri postulati della geometria. Con Peano, la prerogativa di questo metodo sta nel fondere l’astrattezza dei termini primitivi e la pratica del controesempio in analisi in cui egli eccelle (Borga 2005). Scrive Peano:
È facile vedere che queste condizioni sono indipendenti. Sulle prime due non v’è dubbio. La 3 non è verificata per ogni operazione, essendovi delle operazioni (come elevazione a quadrato, integrazione, ecc.) che non vi soddisfano. Che la 4 non sia conseguenza delle precedenti, risulta dal fatto che la classe dei numeri interi positivi negativi e compreso lo zero, soddisfa alle prime 3 e non alla 4. Per formare una classe di enti che soddisfano alle 1, 2, 3, 4 e non alla 5, basta al sistema degli N aggiungere un altro sistema di enti che soddisfino alle condizioni 2, 3 e 4; così la classe formata dai numeri interi positivi N, e dai numeri immaginari della forma i+N […] soddisfa alle condizioni precedenti la 5 e non a questa (Sul concetto di numero, cit., 3° vol., 1959, pp. 87-88).
L’interesse di Peano per la problematica metateorica dell’indipendenza degli assiomi, a cui egli aveva fatto cenno per la prima volta ne I principii e che s’imporrà nel Novecento in ogni sistemazione assiomatica, non si coniuga però con un analogo l’interesse verso la problematica metateorica che terrà banco all’inizio del nuovo secolo fra gli esponenti del metodo assiomatico: la questione della non contraddittorietà degli assiomi. Ancora nel 1906 – dopo che Hilbert ha gettato le prime basi del suo progetto fondazionale – la convinzione di Peano è che una prova di non contraddittorietà si rende necessaria solo se gli assiomi possiedono un carattere ipotetico, e che quindi risulta ampiamente superflua nel caso degli assiomi dell’aritmetica, i quali non sono creati arbitrariamente, ma sono scelti tra «le proposizioni che contempla (sia pure implicitamente) ogni trattato di aritmetica» (Super theorema de Cantor-Bernstein, «Rendiconti del Circolo matematico di Palermo», 1906, 1, p. 142). L’unico matematico dell’entourage peaniano ad avere una visione a lungo raggio della questione della non contraddittorietà è Pieri. Nel saggio Sur la compatibilité des axiomes de l’arithmétique («Revue de métaphysique et de morale», 1906, pp. 196-207) egli costruisce un modello dell’aritmetica nella teoria degli insiemi e sottolinea che una dimostrazione di non contraddittorietà dell’aritmetica non potrà mai basarsi sui principi stessi dell’aritmetica.
A partire dalla seconda edizione del Formulario (1898), la successione dei numeri naturali è fatta cominciare dallo zero, probabilmente per influenza di Frege, con cui Peano era stato in corrispondenza dal 1894 al 1896. Nella terza edizione (1901), gli assiomi diventano sei, con l’aggiunta tecnica dell’assioma che N forma una classe (. ∈ Cls). Alessando Padoa (1868-1937) scorge infatti l’impiego nelle dimostrazioni di questo assioma, malgrado sia dimostrabile a partire dagli altri. Nella quinta edizione del Formulario (1908) la fondazione assiomatica dei numeri naturali resta invariata. Ludovico Geymonat (1908-1991), che è stato allievo di Peano, gli ha rimproverato l’inerzia di fronte all’obiezione russelliana che i suoi assiomi non caratterizzano la successione dei numeri naturali, ma qualsiasi successione di numeri posti in progressione infinita (aritmetica o geometrica), senza ripetizioni, con un inizio, e senza termini irraggiungibili. Tuttavia, in un passo della seconda edizione del Formulario si può scorgere il pensiero di Peano: dopo aver sostituito l’uno con lo zero, egli sottolinea che esiste un’infinità di sistemi che soddisfano i suoi assiomi e che, inoltre, tutti i sistemi che li soddisfano sono in corrispondenza biunivoca con i numeri naturali, cosicché il sistema dei naturali può essere finalmente concepito come quello che si ottiene per astrazione a partire da tutti questi sistemi.
Padoa, nel saggio Théorie des nombres entiers absolus (remarques et modifications au ‘Formulaire’) («Revue de mathématiques», 1902, pp. 45-54) propone un’assiomatizzazione alternativa a quella peaniana che evita sia lo zero che l’uno come concetti primitivi. In questo modo i primitivi si riducono a due soltanto (numero e successore) e gli assiomi a questi quattro:
il successore di un numero è un numero;
se due numeri hanno lo stesso successore sono uguali;
esiste almeno un numero che non è il successore di alcun numero;
se una classe (di numeri) contiene almeno un numero che non è il successore di alcun numero e se il successore di ciascun numero della classe appartiene alla classe, allora ogni numero appartiene alla classe (principio d’induzione).
Dal primo assioma e dal quarto si deduce il teorema che due numeri che non sono successori di alcun numero sono uguali fra loro, da cui si deriva, insieme al terzo assioma, l’esistenza di un solo numero, chiamato zero, che non è successore di alcun numero. L’assenza dello zero tra i concetti primitivi rende tuttavia più complesso formulare l’assioma d’induzione. Questa difficoltà è aggirata dalla presentazione assiomatica di Pieri nel saggio Sopra gli assiomi aritmetici («Bollettino dell’Accademia gioenia di scienze naturali», 1907, 1-2, pp. 26-30). Il primo assioma è «esiste almeno un numero», il secondo e il terzo sono il primo e il secondo assioma di Padoa; infine, il principio di induzione è sostituito da un principio equivalente ma più intuitivo che sarà chiamato principio del minimo: in una qualsiasi classe non vuota di numeri esiste almeno un numero che non è successore di alcun numero appartenente alla classe stessa. Il che ribadisce il carattere eminentemente aritmetico che l’induzione riveste per la scuola di Peano, contrariamente alla coeva impostazione di Poincaré che vede nell’induzione un principio di natura logica.
Della scuola di Peano, Padoa è il matematico più sensibile alle problematiche metateoriche nel riprendere e sviluppare la tecnica usata dal maestro per mostrare l’indipendenza degli assiomi. Al terzo Congresso internazionale di filosofia (Parigi, 1900) egli presenta un metodo per dimostrare che un concetto primitivo R di una teoria T non è definibile in T a partire dagli altri concetti primitivi di T. La tecnica di Padoa consiste nel costruire due interpretazioni dei concetti primitivi di T che soddisfano gli assiomi di T ma differiscono fra loro soltanto per il significato che attribuiscono a R; ciò implica che R non è definibile a partire dagli altri concetti primitivi: se lo fosse, le due interpretazioni coinciderebbero anche rispetto a R. Questo procedimento, riscoperto da Alfred Tarski negli anni Trenta, diventerà noto come metodo di Padoa. Un altro interessante risultato metateorico si registra nella memoria di Beppo Levi (1875-1961) Fondamenti della metrica projettiva («Memorie della Reale Accademia delle scienze di Torino», 1904, 2, pp. 281-354). Levi dimostra che dato un sistema di assiomi ordinatamente indipendenti (cioè nessuno di essi è deducibile dai precedenti) è possibile costruire un secondo sistema di assiomi che è equivalente al primo e formato da assiomi assolutamente indipendenti (cioè nessuno di essi è deducibile dai rimanenti).
La rivoluzione metodologica della matematica dell’Ottocento determina in Europa anche straordinari sviluppi della logica. Tra il 1847, con Boole, e il 1879, con Frege, la logica si sviluppa essenzialmente in due direzioni: da un lato, la nuova riflessione sull’algebra come scienza astratta delle relazioni porta la logica a eleggere a proprio oggetto d’indagine la forma del pensiero piuttosto che il suo contenuto; dall’altro, dall’esigenza di rigore nell’ambito dell’aritmetizzazione dell’analisi, emerge l’idea che la logica fonda la matematica stessa o, almeno, include alcune sue teorie, vecchie (aritmetica) e nuove (teoria degli insiemi).
Nell’articolo Lo stato attuale e i progressi della logica («Rivista italiana di filosofia», 1891, 2, pp. 301-19), Albino Nagy (1866-1900), uno studioso eclettico che gravita in un’orbita propria, lamentava che in Italia un movimento di studi logici
non si può ancora segnalare; ché eccetto alcuni opuscoli di chi scrive queste linee e le interessanti pubblicazioni del prof. Peano [...] niente altro accenna che tali ricerche vengano coltivate da noi (p. 301).
In effetti, un saggio di Peano del 1888 e uno di Nagy del 1890 saranno accostanti frequentemente, anche dai contemporanei, per riferirsi all’introduzione della logica matematica in Italia.
Iniziamo dallo scritto senz’altro meno noto. Il saggio di Nagy, Fondamenti del calcolo logico («Giornale di matematiche», 1890, pp. 1-35), è ricavato dalla tesi di laurea in matematica da lui discussa nel 1888 all’Università di Vienna Über Anwendungen der Mathematik auf die Logik. Il saggio delinea la storia dell’idea di calcolo logico, discute criticamente alcuni sviluppi recenti dell’algebra della logica, e affronta la possibilità di una fondazione insiemistica della logica in base alla quale lo ‘spazio logico’ risulta isomorfo a una varietà continua di n dimensioni. A Nagy si deve inoltre il primo manuale moderno di logica per un pubblico italiano, uscito nel 1891 per i tipi della Loescher con il titolo Principi di logica esposti secondo le teorie moderne. Lo scopo di tale opera è quello di rendere familiari al lettore le «dottrine della moderna scuola inglese», ma oltre all’algebra della logica è trattata ampiamente la logica tradizionale e la teoria del giudizio. Colpisce l’osservazione di Nagy che il libro può servire di testo per la scuola secondaria «essendo svolte compitamente e succintamente le dottrine indicate dal Programma Ministeriale ora vigente» (p. 8). Libero docente alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma dal 1892 al 1896, Nagy può considerarsi il primo professore di logica matematica in un’università italiana (Nasti De Vincentis 1986).
Il saggio di Peano del 1888, Le operazioni della logica deduttiva, non è indipendente ma, come indica il titolo completo citato in precedenza, costituisce la sezione introduttiva del Calcolo geometrico secondo l’Ausdehnungslehre di Hermann Grassmann. In 20 pagine alcuni temi centrali dell’algebra della logica di Boole, Schröder, Peirce e Hugh McColl sono sintetizzati e sviluppati nel segno dell’analogia con la teoria grassmaniana. Una grande meticolosità è posta nella scelta dei simboli, distinti in logici e matematici, tra cui spicca l’operatore di astrazione che regola il passaggio da una proposizione condizionale a una classe. Scritte con questa notazione logica, le proposizioni che esprimono i risultati delle costruzioni geometriche acquistano la stessa precisione delle equazioni algebriche, cosicché la derivazione di una proposizione dalle altre è riconducibile alla risoluzione delle equazioni (Bottazzini 1985).
L’originalità dell’impostazione di Peano rispetto all’algebra della logica di Boole e di Schröder sta semplicemente nel rovesciarne la prospettiva: non si tratta più di importare all’interno della logica il linguaggio e le tecniche dell’algebra per fare esprimere alla logica la propria natura formale, ma di applicare la logica stessa alla matematica per analizzarla. Per fare ciò, Peano ha bisogno di un nuovo formalismo che esprima con la massima chiarezza e precisione le nozioni matematiche, e che concepisce come la realizzazione del programma leibniziano di una scrittura universale, o characteristica universalis, in grado di esprimere gli elementi del pensiero. Questo formalismo, o «stella polare del ragionamento» – come dice Peano stesso –, in parte è ricavato dalla tradizione, passando al setaccio le notazioni coeve di altri autori, e in gran parte, come si è già visto, è creato ex novo con l’introduzione di opportuni simboli sotto la pressione di nuove o più sottili distinzioni. La metafora corrente del nuovo uso della logica è una metafora ottica: la logica è come un microscopio che osserva le minime differenze di idee rese impercettibili dai difetti del linguaggio ordinario, ossia «esuberanze, sottintesi, ambiguità, restrizioni mentali, insinuazioni» (Pieri, Uno sguardo al nuovo indirizzo logico-matematico delle scienze deduttive, in Opere sui fondamenti della matematica, cit., p. 398).
In una prima fase del percorso peaniano, la logica si innesta sul tronco dell’analisi matematica. Particolarmente istruttiva, in questa luce, è la memoria Démonstration de l’intégrabilité des équations différentielles ordinaires («Mathematische Annalen», 1890, pp. 182-228). Peano estende a un sistema di equazioni differenziali il suo precedente teorema di esistenza della soluzione dell’equazione differenziale y′=f(x, y) sotto la sola ipotesi della continuità. La memoria, al solito, si apre con un’esplicazione dei segni logici impiegati nella trattazione, e la nuova distinzione logica tra un individuo e la classe che lo contiene come unico elemento è subito applicata a caratterizzare due differenti proprietà analitiche. La dimostrazione del teorema viene presentata in un linguaggio simbolico di cui si sottolinea il vantaggio cognitivo:
Tutta la dimostrazione è ridotta qui in formule di logica, analoghe alle formule di algebra; poiché, benché non sia difficile, il suo sviluppo completo con il linguaggio ordinario sarebbe di una complicazione eccessiva (p. 182).
A partire dal 1891, Peano impiega sistematicamente il termine logica matematica, di conio leibniziano e usato in tempi recenti anche da Schröder (1877) e da Platon Poretsky (1884). Esso compare sin dal titolo nei Principii di logica matematica («Rivista di matematica», 1891, 1, pp. 1-10), e nelle Formole di logica matematica («Rivista di matematica», 1891, 1, pp. 24-31 e 182-84, rist. in Opere scelte, 2° vol., 1998, pp. 102-13), dove sembra farsi strada una concezione della logica come disciplina autonoma, non solo tesa alla sue applicazioni matematiche. Nelle Formule, Peano ne propone un’assiomatizzazione, già progettata nel 1898 ne I principii della geometria, sulla scia di quella per l’aritmetica e per la geometria. I teoremi logici sono distinti dai seguenti tredici assiomi logici:
1. . ⊃ a
2. a ⊃ aa
3. ab ⊃ a
4. ab ⊃ ba
5. abc ⊃ acb
6. a ⊃ b . ⊃ . ac ⊃ bc.
7. a . a ⊃ b : ⊃ . b.
8. a ⊃ b . b . ⊃ c : ⊃ . a ⊃ c.
9. b ⊃ . a ⊃ ab
10. a ⊃ b . ⊃ . −b ⊃ –.
11. −(−a) = a
12. (. ∪ b)c ⊃ ac ∪ bc
13. a − a = ∧
Il modus ponens (assioma 7) colma una lacuna nella parte logica degli Arithmetices principia, nei quali infatti Peano non riesce a giustificare il passaggio da 1 ∈ N e N . ⊃ . 1 + 1 ∈ N a 1 + 1 ∈ N (Borga 2005). La nozione di dimostrazione, al centro del contemporaneo progetto di Frege, emerge però solo in modo evasivo («dimostrare una proposizione significa ottenerla combinando convenientemente le proposizioni già ammesse», G. Peano, Formole di logica matematica, in Opere scelte, cit., p. 104). In realtà, l’assiomatizzazione della logica è da intendersi come un’esigenza secondaria rispetto a quella pratica di fornire un elenco di leggi logiche che si trovano impiegate nell’effettivo ragionamento matematico: «quanto segue è in sostanza una tavola di formule, destinata ad essere consultata piuttosto che letta» (p. 104). Consultare piuttosto che leggere: ecco un prontuario. Ma, in effetti, poiché per Peano la logica matematica replica la logica naturale, a risultare davvero indispensabile alla suo status disciplinare è l’enumerazione (e trascrizione simbolica) delle leggi logiche usate dal working mathematician. Ciò comporta una duplice conseguenza: da un lato il progresso della logica coinciderà con l’esplicitazione di principi che sono già spontaneamente in uso nella pratica deduttiva matematica, dall’altro lato la riduzione simbolica di teorie matematiche incapsula già un’interpretazione semantica che mette fuori gioco il dualismo di sintassi e semantica che contrassegnerà la logica novecentesca.
Logica matematica (1894) di Burali-Forti, il primo manuale completamente organico al nuovo quadro concettuale peaniano, si apre con la distinzione tra la logica aristotelica, che studia le forme di ragionamento del linguaggio comune, e la logica matematica, che studia le forme di ragionamento delle scienze deduttive e della matematica in particolare. L’opera si suddivide in quattro capitoli: Nozioni generali (i numeri, le proposizioni e i connettivi), Il raziocinio (proposizioni primitive, polisillogismi, calcolo proposizionale), Le classi (funzioni proposizionali), Applicazioni (relazione tra classe e individui, funzioni matematiche, teoria della definizioni, e indipendenza delle proposizioni in una teoria).
Nel citato saggio Sul concetto di numero del 1891, Peano aveva lanciato il progetto enciclopedico del Formulario, cioè quello di compendiare tutto lo scibile matematico tramite il linguaggio simbolico. Ai suoi occhi, questa implementazione su larga scala del nuovo linguaggio simbolico è un’apoteosi dell’applicazione della logica alla matematica. La logica non offre solo una tachigrafia, ma uno strumento potente per l’analisi delle proposizioni matematiche. Sullo sfondo epistemologico opera il presupposto leibniziano della riduzione delle idee complesse alle idee semplici: per ciascuna teoria matematica si isolano un numero limitato di idee primitive, si rappresentano simbolicamente, e si enunciano in simboli le proposizioni di queste teorie. Ma attenzione: non sono i simboli a rendere precisa un’idea; è un’idea già precisa a lasciarsi simbolizzare. Per mostrare l’adeguatezza di una formula scritta in simboli, basterà allora sottoporla a una serie di trasformazioni logiche e verificare se è riducibile a una forma più semplice.
Come detto, la prima edizione del Formulario viene pubblicata in francese nel 1895 con il titolo Formulaire de mathématiques. Oltre a diversi articoli già apparsi sulla «Rivista di matematica», essa include le Notations de logique mathématique del 1894, dove si registra l’importante distinzione tra variabili reali (libere) e apparenti (vincolate). La seconda edizione è pubblicata in tre parti nel 1897, 1898 e 1899. La terza edizione è del 1901 e contiene le Formules de logique mathématiques («Rivista di matematica», 1900, 1, pp. 1-41), l’ultimo contributo peaniano alla logica matematica; la quarta edizione è del 1903, con il titolo in francese leggermente modificato in Formulaire mathématiques; la quinta e ultima edizione del 1908, Formulario mathematico, è scritta in latino sine flexione, ottenuto dal latino eliminando ogni flessione grammaticale in modo da ridurre ogni vocabolo al tema nominale e verbale. Alla logica spettano appena una quindicina di pagine. Nelle 463 pagine di questa edizione sono concentrate circa 4200 proposizioni espresse in simboli, ordinate sistematicamente e con relative dimostrazioni; talvolta sono inserite note storiche e bibliografiche, la critica dei concetti fondamentali; sono anche pubblicate tutte le cifre note dei numeri principali (707 di π e 346 di e; Cassina 1955).
L’officina del Formulario allinea in modo corale il contributo di numerosi allievi, assistenti e colleghi di Peano. Ricordiamone i principali: Giovanni Vailati e Giovanni Vacca (logica e note storiche), Padoa e Burali-Forti (aritmetica e teoria delle grandezze), Bettazzi (limiti), Fano (teoria dei numeri algebrici), Francesco Giudice (serie), Vivanti (teoria degli insiemi), Giuliano Pagliero e Tommaso Boggio (calcolo vettoriale).
Beniamino Segre (Peano ed il bourbakismo, in In memoria di Giuseppe Peano, 1955, pp. 31-39) ha scorto un’ideale continuità tra il programma del Formulario e quello degli Éléments de mathématiques pubblicati a partire dal 1939 da ‘Nicolas Bourbaki’ (pseudonimo sotto il quale dal 1933 si cela un gruppo di matematici, per lo più francesi), i cui sforzi sono volti dal 1939 a sintetizzare e ricostruire assiomaticamente tutta la matematica esistente. L’analogia però si spezza se si considera che Bourbaki, contestualmente alla presentazione formale delle teorie, si fa araldo di una visione unificante della matematica che si articola su di una classificazione di strutture (algebriche, d’ordine, topologiche), laddove Peano non ha un’ambizione analoga: la matematica che il Formulario riscrive appartiene ancora all’Ottocento. A sopravvivere è la scrittura stessa anziché quello che è scritto.
Al citato terzo Congresso internazionale di filosofia (Parigi, 1900), la scuola logica italiana domina la scena propugnando una concezione della logica che appare più innovatrice rispetto a quella dell’algebra della logica rappresentata nella capitale francese da MacColl, Poretsky, Schröder e William E. Johnson. Com’è risaputo, nella sua Autobiography (3 voll., 1967-69), Russell ha descritto come una svolta nella sua vita intellettuale l’incontro a Parigi con Peano. Il matematico italiano durante le discussioni del congresso «era sempre più preciso di tutti gli altri e [...] in tutte le discussioni risultava invariabilmente il più brillante» (1° vol., pp. 236-37), e il suo metodo di notazioni forniva lo strumento di analisi logica auspicato da Russell.
Tale congresso segna il culmine dell’influenza internazionale di Peano, ma anche l’inizio del suo progressivo defilarsi dalla ricerca logica, per la sua incapacità di mettere a frutto le potenzialità del suo strumento al di fuori del programma di riscrittura della matematica. Il bilancio comunque lo lasciamo a lui stesso, che in uno scritto quasi testamentario del 1919 ricapitola l’itinerario compiuto nel campo della logica:
Con questa decina di simboli, uniti ai simboli per rappresentare le idee di aritmetica e di geometria, si possono esprimere tutte le proposizioni di matematica, come si può vedere nel Formulario mathematico di Peano. Con questo strumento si sono analizzate le definizioni che si incontrano nei libri di matematica, e si è trovato che esse soddisfano a regole speciali, non enunciate prima. Si sono analizzate le forme di ragionamento usate nelle dimostrazioni matematiche, e si è visto che esse non si riducono ai tipi considerati nei trattati di logica. Si è trovato quali sono le idee primitive dell’aritmetica e della geometria, per opera specialmente del compianto Pieri; si sono analizzati i principi della matematica, per opera specialmente di Russell e Whitehead. Questo strumento servì a Moore per l’integrazione di equazioni differenziali. Già alcuni libri scolastici sono formati sulla logica matematica, ed è nel campo dell’insegnamento che questa scienza può dimostrare la sua fulgida semplicità (Logica matematica, in Dizionario di cognizioni utili [...], sotto la direz. di M. Lessona, 6° vol., Supplemento, a cura di F. Cosentini, p. 960).
Nel giro di pochi anni, la logica italiana si trasforma in un piccolo mondo autoctono. Geymonat, nel saggio Peano e le sorti della logica in Italia (1959), ha sostenuto quello che è diventato un topos storiografico, vale a dire che la polemica antipeaniana dei filosofi idealisti è stata la ragione prima dell’incomprensione della logica matematica nella cultura italiana nella prima metà del Novecento. Risuonano le parole con cui Benedetto Croce nella seconda edizione (1909) della Logica come scienza del concetto puro liquida sarcasticamente la «logistica» di Peano: un «nuovo prodotto» commerciale in cerca di acquirenti, la cui incerta fortuna non riguarda la filosofia «la quale, disinteressatamente, potrebbe tutt’al più rispondere, con parole di benevola attesa: “se son rose fioriranno”» (p. 102). Questo giudizio, che si tramuta in una condanna senz’appello nella terza edizione (1917), documenta certo l’estraneità della logica peaniana rispetto agli ambienti filosofici italiani, in cui il neoidealismo si stava affermando come posizione egemone.
Ma dobbiamo aggiungere che Peano ci mette del suo, restringendo gli orizzonti della logica (non una «scienza a sé ma strumento per esprimere e analizzare le proposizioni matematiche», Delle proposizioni esistenziali, in Proceedings of the fifth international congress of mathematicians, ed E.W. Hobson, A.E.H. Love, 2° vol., 1913, p. 497), ribadiva ancora nel 1912 a Cambridge durante il quinto Congresso internazionale dei matematici), dichiarando a più riprese l’incompetenza a coglierne l’eventuale rilevanza filosofica tout court o il ruolo nella riflessione filosofica sulla matematica, e rubricando questioni vitali di filosofia della matematica come questioni di pertinenza della teoria della conoscenza.
L’unica figura della scuola di Peano che affronta il problema della relazione fra logica matematica e filosofia è Vailati, anche se sotto l’egida di uno specifico indirizzo filosofico. Nell’articolo Pragmatismo e logica matematica («Leonardo», 1906, 1, pp. 67-72), Vailati enuclea sei punti di contatto tra logica e pragmatismo: I) la tendenza a legare il valore di ogni asserzione al suo impiego deduttivo; II) il ripudio «di ciò che è vago, impreciso, generico» e la conseguente decomposizione di «ogni asserzione nei suoi termini più semplici»; III) l’impulso dato alle ricerche storiche sullo sviluppo delle teorie scientifiche; IV) la teoria della definizione; V) lo studio della compatibilità e indipendenza delle ipotesi; VI) la «ricerca della massima coesione e della massima rapidità di espressione» (Pragmatismo..., cit., in Scritti, a cura di M. Quaranta, 1° vol., 1987, pp. 67-72). La prematura scomparsa di Vailati, che si aggiunge a quella di Nagy, mette fuori gioco per molti anni il tentativo in Italia di trovare un nodo di interconnessione tra la logica matematica e la filosofia.
È davvero difficile, allora, dare torto a Peano quando scrive, in latino sine flexione, che in Italia la logica matematica è considerata «ab professores de philosophia ut mathematica, et ab professores de mathematica ut philosophia, et ambo dice “non leguntur”» (Bibliographia, «A.p.I. Discussiones», 1912, 3, p. 48).
Sintomatica, in questo senso, l’imputazione opposta a quella di Croce da parte di Vito Volterra, il capo indiscusso della comunità matematica italiana nei primi decenni del Novecento. Nella sua relazione al quarto Congresso internazionale dei matematici (Roma, 1908), intitolata Le matematiche in Italia nella seconda metà del secolo XIX e nella quale si rivendicavano i progressi compiuti dalla matematica italiana dopo l’unità, Volterra riteneva che il filone di ricerche fondazionali intraprese da Peano si era spinto «in regioni sempre più astratte» finendo con l’acquisire «un carattere vieppiù filosofico» (Le matematiche..., cit., in Saggi scientifici, 1920, rist. anast. 1990, p. 72). Nel 1890 Volterra aveva fatto parte della commissione del concorso a cattedra di calcolo infinitesimale presso l’Ateneo torinese, che al vincitore (ex aequo) Peano aveva addebitato l’uso estensivo dei simboli logici, che «non sembra dover giovare né al progresso della scienza, né alla chiarezza dell’insegnamento» (cit. in Giuseppe Peano e l’Università di Torino 1876-1932, 2008, pp. 11-12). Da parte sua, nel 1891 Veronese rincara la dose contro il «signicismo» di Peano, affermando che, anche se ci fosse «un linguaggio completo di segni logici» per esprimere tutte le verità matematiche con ordine e semplicità, «vi sarebbe ancora una differenza notevole tra l’interesse logico di questo sistema di segni e l’interesse matematico» (Fondamenti di geometria a più dimensioni e a più specie di unità rettilinee [...], p. 606).
Anche Enriques, com’è noto, non assegna alla logica una specifica problematica matematica. In Per la storia della logica del 1922, opera che ha un’ampia circolazione in Europa (viene tradotta in francese nel 1925, in tedesco nel 1927 e in inglese nel 1929), confina la discussione della logica peaniana in un paragrafo, preceduto dall’avvertenza che può essere saltato dal lettore senza pregiudicare l’intelligibilità complessiva del discorso. La posizione psicologistica di Enriques sulla natura della logica emerge qui con chiarezza, quando egli rileva che in Peano
ci viene insegnato l’uso del linguaggio ideografico al modo stesso che si tiene nell’apprendimento d’una lingua vivente o d’una stenografia, ma non si trova un esame esplicito approfondito di ciò che i simboli sono presi a significare. È lecito tuttavia intendere che essi esprimano, come per Boole, le operazioni della nostra mente? (rist. 1987, pp. 188-89).
Più ancora del radicamento del neoidealismo nella cultura italiana, sono le resistenze inerziali del mainstream della comunità matematica italiana a contrastare lo sviluppo degli studi logici nella prima metà del Novecento. Per Geymonat nel saggio citato del 1959 «l’incomprensione per la logica di tanta parte dei matematici» (p. 114) dipende da tre cause, che di fatto coincidono con altrettanti equivoci: che le ricerche fondazionali collidano con la corretta convinzione dei matematici «della piena solidità della loro scienza» (p. 115); che sussista una dicotomia tra logica moderna e logica classica; che il rigore logico sia un ostacolo allo sviluppo creativo di nuove teorie. Eppure, all’inizio del secolo, Pieri aveva provato ad affrancare la logica da quest’ultimo malinteso in quello che forse è il più straordinario apologo della nuova logica matematica da parte di un matematico italiano: «opporre il fatto dell’invenzione ai progressi della logica dimostrativa sarebbe come negare fede e valore al contrappunto in ossequio all’ispirazione musicale» (Uno sguardo al nuovo indirizzo logico-matematico..., cit., p. 59).
Bisogna infine dire che la «triste sorte» degli studi di logica matematica in Italia dopo Peano è anche da ascrivere all’esaltazione sproporzionata dei meriti del maestro da parte dai suoi allievi. I loro lavori, tesi a preservare l’ortodossia, restano di fatto impermeabili alle nuove direzioni della ricerca internazionale. Troviamo questo isolamento già incubato in uno scritto di Padoa, La logique déductive dans sa dernière phase de développement («Revue de métaphysique et de morale», 1911, pp. 828-83, e 1912, pp. 48-67 e 207-31). Philippe Jourdain, recensendo l’opera (in ‘La logique déductive dans sa dernière phase de développement’ by Alessandro Padoa, «The mathematical gazette», 1913, 7, pp. 20-21) come un’ammirevole esposizione della logica peaniana, sottolineava che i logici moderni non avrebbero potuto scorgervi una trattazione degli ultimi sviluppi della logica deduttiva, considerato l’assenza del nome di Frege anche dalla bibliografia e l’affermazione che la teoria delle relazioni di Russell è riducibile alla logica di Peano. La seconda edizione della Logica matematica di Burali-Forti (1919), pur ampliata di molto, non contiene a distanza di venticinque anni sostanziali novità, ed è accompagnata da toni nazionalistici contro la «merce estera» che vanno oltre il diapason su cui è accordata la comunicazione scientifica. Così Enriques, che pure non comprende aspetti importanti della logica di Peano come la distinzione tra inclusione e appartenenza, ha buon gioco nel rilevare
come la critica a base nazionalistica, neghi in genere le ragioni della scienza, ma in specie quelle della logica matematica, al quale, per tendere ad un’espressione universale del pensiero, ha rinunziato perfino all’uso della lingua materna (Noterelle di logica matematica, «Periodico di matematiche», s. IV, 1921, 1, p. 234).
Nella voce Logica, redatta nel 1930 per l’Enciclopedia delle matematiche elementari e complementi (coordinata da Luigi Berzolari), Padoa stila una preoccupata diagnosi: la logica si trova in una
fase paradossale [in quanto,] mentre ha fornito ad altre scienze lo strumento per la loro ricostruzione deduttiva, non è ancora riuscita a ricostruirsi, soddisfacendo alle esigenze metodologiche ch’essa ha imposto alle altre (in Enciclopedia..., cit., 1° vol., parte I, p. 79).
La diagnosi è intempestiva perché la logica non si esaurisce più nello studio delle nozioni di ‘individuo’, ‘classe’, ‘appartenenza’, ‘inclusione’, ‘negazione’; tanto più che l’autore cita, sia pure en passant, i Grundzüge der theoretischen Logik (1928) di Hilbert e Wilhelm Ackermann, il primo manuale moderno di logica matematica che presenta gli assiomi per il calcolo dei predicati, rispetto al quale viene posta la questione della completezza e della decidibilità. L’epoca d’oro della logica era alle porte. Le rose stavano fiorendo, ma non in Italia, dove il giovane Geymonat nei primi anni Trenta veniva dissuaso da Enriques dall’occuparsi delle ‘assolutamente sterili’ ricerche logiche di Hilbert (Geymonat 1979, p. 22). Occorrerà arrivare alla fine degli anni Cinquanta per trovare una forte ripresa dell’attenzione alle problematiche logiche nel nostro Paese, grazie all’impegno dello stesso Geymonat e della sua scuola.
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G. Peano, Sul concetto di numero, «Rivista di matematica», 1891, 1, pp. 87-102, poi in Id., Opere scelte, a cura di U. Cassina, 3° vol., Roma 1959, pp. 80-109.
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