Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Descritte da Vitruvio nell’ultimo libro del trattato di architettura le macchine, con la loro costruzione e i principi che ne governano il funzionamento sono parte essenziale del bagaglio di nozioni dell’architetto romano. Riunendo l’attività dell’architetto e del meccanico Vitruvio effettua un’operazione culturale importante, prendendo inoltre le distanze dalla tradizione ellenistica cui ha abbondantemente attinto per redigere questa parte del trattato. In uno scenario caratterizzato dall’utilizzo dell’architettura come tratto unificante della romanizzazione del territorio sottomesso al dominio di Roma, la separazione tra scienza delle macchine e tecniche costruttive non ha ragione di esistere.
Al termine del libro nono del De architectura, Vitruvio (IX, 8, 15) dichiara che l’architetto, perché la sua conoscenza della materia del costruire possa considerarsi completa, deve padroneggiare anche la scienza delle macchine. Diversamente da quanto avvenuto nella meccanica ellenistica che aveva separato i due campi del sapere, con l’opera di Vitruvio machinatio e aedificatio fanno parte a pieno titolo della formazione professionale dell’architetto. Del resto, Vitruvio lavora come esperto in macchine da guerra al seguito di Giulio Cesare e poi come architetto e ingegnere in età augustea. Molto di ciò che confluisce nel De architectura discende dunque da sue esperienze personali: convinto di fare cosa gradita alle future generazioni, Vitruvio sintetizza e riassume un bagaglio notevole di informazioni.
Esprimendo una concezione enciclopedica del sapere, l’opera vitruviana prende in considerazione e colloca la scienza delle macchine tra le molte discipline che concorrono a determinare la conoscenza dell’architettura. Costruttore di edifici pubblici e privati, l’architetto vitruviano deve saper realizzare orologi solari e ad acqua, macchine da guerra e di pubblica utilità come quelle idrauliche, conosce i segreti della pneumatica per mezzo dei quali realizza dispositivi che fanno divertire il pubblico. A ben vedere, la ricomposizione del binomio architetto-meccanico va anche contestualizzata nel quadro dello straordinario piano di interventi edilizi che caratterizza il volto della Roma augustea. Da questo punto di vista le macchine da cantiere divengono il mezzo indispensabile per portare a compimento i programmi di governo degli imperatori che, da Ottaviano Augusto in poi, legano il proprio nome ad ambiziosi progetti architettonici tanto a Roma quanto nelle province. Il determinante progetto di romanizzare i territori sottomessi va così concretizzandosi in una serie impressionante di costruzioni pubbliche, con l’intento di portare i monumenti tipici della romanità in terre lontane. Anfiteatri, ponti, strade, terme e acquedotti monumentali divengono il segno tangibile di un’architettura che adesso è un vero e proprio programma di governo. A portare a compimento questi progetti provvedono gli architetti, la cui preparazione specifica, se non può prescindere dalla conoscenza delle macchine che in ogni cantiere dovranno essere impiegate, deve anche contemplare una serie di parti legate più specificamente alla professione. A tal proposito, è assai minuziosa la ripartizione dei settori che compongono la pratica dell’architettura: dalla conoscenza delle misure dei singoli membri architettonici (ordinatio) rispetto a un modulo, alla corretta messa in posa degli elementi (dispositio), che comprende disegno in pianta, in alzato e in prospettiva; vi sono poi l’eurythmia, che cura la leggiadria della figura e le dimensioni e proporzioni dei singoli elementi e la simmetria, nel senso greco del termine, cioè la commisurazione, che consiste nella corrispondenza proporzionale fra una parte e il tutto di un’opera, misurata a moduli o frazioni di modulo. All’aspetto finale dell’opera è dedicato il decor, che stabilisce la casistica in base alla quale un edificio potrà dirsi decoroso; all’uso sapiente dei materiali è dedicata la distributio, purché ciò avvenga in relazione alla cifra da spendere.
Nei primi due secoli dell’età imperiale i Romani hanno estratto dalle cave tonnellate di pietre: trascinate con metodi ingegnosi fino al cantiere, sono state sollevate e messe in posa grazie a mezzi meccanici che conosciamo principalmente attraverso le fonti letterarie. Infatti, delle macchine degli antichi sopravvivono pochi resti. Costruite in legno, materiale deperibile che solo in casi particolari si è conservato fino a noi, non ci sono giunte. Perse le macchine edili, quelle del teatro e da guerra, scomparsi i dispositivi idraulici e gli apparati di pneumatica, i pochi reperti archeologici, incompleti e frammentari parlano di macchine complesse e difficili da ricostruire. Inoltre, le immagini che si trovavano in origine nel trattato vitruviano sono andate perdute e anche i testi di meccanica scritti in età ellenistica, che tanto spazio dedicano alle macchine, sono privi delle illustrazioni che contenevano. La nostra conoscenza di questo argomento poggia principalmente sulle descrizioni che Vitruvio colloca nel libro decimo del De architectura e sul terzo capitolo della Meccanica di Erone di Alessandria.
Il trattato vitruviano si presenta come una sintesi dei testi allora in circolazione che già avevano affrontato il tema della costruzione di edifici. È possibile che Vitruvio abbia operato una ricognizione delle opere in circolazione dedicate al tema delle macchine, de machinationibus, procedendo poi a riassumerne le informazioni più importanti. In un passo del libro settimo (VII, praef., 14) Vitruvio ricorda infatti gli autori che hanno scritto i testi a suo dire più importanti su questo argomento: Diade, Archita, Archimede, Ctesibio, Ninfodoro, Filone di Bisanzio, Difilo, Democle, Caria, Poleidos, Pirro e Agesistrato. Si tratta di un elenco che non segue né l’ordine cronologico, né quello alfabetico, è come se Vitruvio ricordasse questi nomi alla rinfusa, andando a memoria. Tra questi, del tutto sconosciuti e non contestualizzabili all’interno di una tradizione Ninfodoro, Difilo e Democle. Risultato di questa operazione di sintesi è una vera e propria antologia, nella quale Vitruvio descrive macchine utili in tempo di pace e in tempo di guerra, ausilio fondamentale per tutti coloro i quali, volendo intraprendere la carriera di architetto, avessero avuto la necessità di apprendere i rudimenti della scienza delle macchine. Di fatto, la sola definizione di macchina a nostra disposizione, per lacunosa e insufficiente che sia, è fornita proprio da Vitruvio (De architectura, X, 1): “Macchina è un insieme composto di parti lignee congiunte tra loro, molto utile per lo spostamento di pesi. Essa viene azionata mediante la tecnica delle rotazioni circolari che i Greci chiamano kyklilé kìnesis. Ne esiste un primo tipo da salita, detto in greco akrobatikón; un secondo pneumatico che presso i Greci è chiamato pneumatikón; un terzo, trattorio, ed è quello che in greco chiamano braoulkón”.
Poco più avanti Vitruvio chiarisce anche (De architectura, X, 1, 3) quale sia la distinzione tra strumento e macchina, dipendente a suo dire dal numero di uomini impiegato per utilizzare proficuamente l’uno e l’altra: i congegni che richiedono la presenza di più addetti sono classificabili come macchine, strumenti quelli che possono essere azionati da una persona sola.
Per quanto concerne le macchine da cantiere, ricorrendo a termini greci Vitruvio le definisce tríspastos oppure polúspastos a seconda del numero di carrucole impiegato (De architectura, X, 2, 3; X, 2, 10). Dopo aver parlato del tipo di gru più semplice, caratterizzata dalla presenza di una puleggia con tre carrucole azionata da una fune collocata attorno al verricello posto tra i due montanti della macchina, Vitruvio passa alla descrizione di un congegno meccanico da utilizzare per sollevare carichi notevoli. Alla fine della descrizione (X, 2, 7), egli dichiara che “[… ] qualora sia stato installato tuttavia o nel centro o in una delle estremità un tamburo più grande, gli uomini addetti, facendo pressione col piede senza ricorrere all’argano potranno completare il lavoro più velocemente”.
Questa rapida descrizione non avrebbe mai permesso di immaginare l’esistenza di una macchina monumentale come quella raffigurata nel celebre rilievo funebre degli Haterii, una famiglia di imprenditori che aveva avuto l’appalto per la costruzione di noti edifici di Roma rappresentati su un’altra parte della lastra funebre e in cui si riconoscono il Colosseo, l’arco di Tito e l’arco di Iside. Di dimensioni colossali, la gru è azionata da alcuni addetti che, all’interno della ruota, col loro movimento producono l’energia necessaria per il sollevamento del carico fino ad altezze notevoli. Un rilievo dall’anfiteatro di Capua mostra la medesima macchina impiegata in questo caso per sollevare una colonna, a testimonianza della diffusione di questo impressionante mezzo meccanico.
Per quanto concerne gli apparati da sollevamento descritti da Erone nel terzo libro della Meccanica, non vi sono novità sostanziali rispetto a Vitruvio. Le immagini a nostra disposizione, rielaborate dai disegni presenti nel manoscritto con la traduzione araba medievale conservata a Leiden in Olanda, mostrano una differente disposizione dei montanti e un ampio uso di taglie con carrucole mobili. Interessante la descrizione del baroulkós, all’inizio del trattato. Il termine indica una macchina per il sollevamento che, contenuta all’interno di un supporto ligneo, presenta una serie di ruote dentate in connessione azionate da un manico esterno che agisce come una manovella. È con questa macchina che Erone, per la prima volta, quantifica esattamente il rapporto tra forza agente e resistenza: grazie alla combinazione tra le ruote dentate, con uno sforzo di cinque talenti sarà possibile sollevare un carico di mille.
In linea generale Vitruvio descrive un repertorio di macchine da tempo in circolazione. Ciò è particolarmente evidente per quelle da guerra, per le quali attinge abbondantemente dalle autorevoli fonti in lingua greca che prima di lui avevano affrontato il tema della costruzione e funzionamento di macchine da lancio complesse. Vitruvio affronta la totalità degli aspetti legati a questo tema, descrivendo anche dispositivi apparentemente desueti, ma comunque ancora in uso come le grandi torri mobili d’assedio nella cui costruzione avevano a lungo primeggiato i meccanici macedoni.
In linea con la tradizione ellenistica cui attinge, Vitruvio fornisce le tavole metriche per la costruzione di questi dispositivi e delle catapulte, settore di punta della tecnologia meccanica, nel quale si cercano costantemente perfezionamenti e migliorie, anche se alcuni dei progetti di cui la letteratura ci informa sono rimasti a livello di prototipo.
D’altro canto, la scoperta di un principio guida nella costruzione di queste macchine, che dovevano tenere conto inevitabilmente della lunghezza del dardo e del peso del proiettile da lanciare, aveva rivelato che tutta la struttura del dispositivo doveva essere in funzione della grandezza del foro in cui si trovavano le corde che agivano come molle; Vitruvio non si discosta da questa tradizione e conferma che tutta la costruzione della macchina bellica discende da precise relazioni di ingrandimenti e rimpicciolimenti proporzionali riconducibili al celebre problema geometrico della duplicazione del cubo, ovvero trovare due medie proporzionali tra due segmenti dati. Queste informazioni sono dunque considerate ancora valide e Vitruvio, recuperandole, riconosce il suo tributo alla straordinaria generazione di meccanici che aveva lavorato ad Alessandria nel corso del III secolo a.C. Relativamente alla discussa questione dell’impiego di modelli in scala da cui cercare informazioni utili per la funzionalità e resistenza della macchina da costruire in grande, Vitruvio invita a considerare la fallacia di questo metodo, invece in voga in ambiente alessandrino. A tal proposito, infatti, Vitruvio ricorda l’episodio della grande macchina cattura torri mobili che un meccanico, Callia, avrebbe presentato agli abitanti di Rodi nell’imminenza dell’assedio che stavano per subire da parte di Demetrio Poliorcete. Callia ottiene il prestigioso incarico di difendere gli indigeni dopo aver dato una pubblica dimostrazione, basata sul presentare un modello funzionante esplicativo della sua macchina cattura torri. Tuttavia, al momento dell’assedio il dispositivo si rivela inefficace; il commento di Vitruvio è emblematico, non tutti i modelli una volta realizzati in grande funzionano. Evidentemente il dibattito sull’uso del modello per finalità non esclusivamente artistiche era dunque già vivo all’epoca in cui Vitruvio sente la necessità di chiarire attraverso un celebre esempio il suo punto di vista. Sebbene a volte un modello eseguito in scala seguendo le norme degli ingrandimenti proporzionali si riveli efficace, tale esperienza non è generalizzabile e, pertanto, può portare ad errori pericolosi. Ciò che invece costituisce un importante valore aggiunto è, secondo Vitruvio, l’astuzia umana, grazie alla quale ordire inganni e stratagemmi spesso risolutivi e per questo evocati da Vitruvio come qualità necessaria per lavorare con successo in questo settore. È in quest’ottica che Vitruvio riferisce l’episodio dell’architetto Diogneto, che sconfisse Demetrio Poliorcete con un semplice stratagemma, quello di impantanare il terreno sul quale la grande torre da assedio doveva muoversi per giungere sotto le mura degli assediati a Rodi (X, 16, 3-8).
Uno dei dispositivi meccanici più particolari descritti da Vitruvio è l’odometro, presentato (X, 9, 1) come già noto agli antichi. Chi siano questi antichi non è dato saperlo perché Vitruvio non aggiunge indicazioni tali da chiarire questa informazione; tuttavia, il termine odometro (“misuratore di cammino”), di chiara origine greca, invita a cercare nel mondo ellenico le fonti di Vitruvio. Pensato per essere abbinato alla singola ruota posteriore di un carro, il dispositivo vitruviano entra in funzione a ogni rotazione della stessa. La letteratura antica ci ha lasciato la descrizione di un altro odometro, illustrato da Erone in un passo della Diottra e decisamente più complesso, dal momento che verte su un sistema di ingranaggi simile a quello già descritto nel Baroulkòs.
Con il De architectura e con il libro decimo dedicato alle macchine Vitruvio non solo colma una lacuna nella letteratura latina, ma getta anche luce sul valore dell’architettura romana in uno scenario culturale privo di testi di riferimento. Per conferire maggiore dignità alla disciplina, che è esclusa dalle arti liberali, Vitruvio affronta il tema con ordine e razionalità cercando di redigere un’autentica enciclopedia delle tecniche al cui interno l’architettura occupa il posto dominante. Relativamente alla questione della collocazione dei saperi tecnici nella scala dei valori sociali, Vitruvio sottolinea (X, 1, 4) come proprio grazie all’invenzione di macchine e dispositivi l’uomo abbia potuto procurarsi tutto il necessario per una vita civile. Da questo punto di vista Vitruvio tratteggia una storia progressiva delle conquiste tecniche dell’umanità, avvenute sempre in sintonia con la natura, ovvero in base a una condotta di vita equilibrata e mirata al conseguimento esclusivamente del necessario. Ecco perché tra le macchine importanti nel delineare il cammino dell’uomo verso il progresso non troviamo quelle descritte nel libro decimo; vi figurano, invece, il telaio che produce i vestiti con cui non solo l’uomo si ripara dal freddo, ma acquisisce anche un portamento più decoroso; troviamo poi le tecniche agricole, attraverso le quali l’umanità si garantisce il nutrimento e non potevano mancare, in questa particolarissima storia, gli strumenti per pesare, bilance e stadere, simbolo di equità e giustizia che l’uomo ha inventato per introdurre un modo corretto e garantito dalla precisione delle misure per attribuire un valore alle merci, lasciandosi così alle spalle la lunga fase caratterizzata da un’economia di scambio fondata sul baratto. Vale la pena ricordare, tra l’altro, che quando nel libro decimo (X, 8) Vitruvio precisa le ragioni che determinano il funzionamento della stadera, egli è il solo autore antico ad attribuire al termine “momento” il significato fisico che andrà affermandosi in seguito, esprimendo in modo assolutamente chiaro il principio per cui il piccolo contrappeso mobile, quanto più si allontana dal gancio di sospensione dello strumento, che è il fulcro del sistema, per puncta vagando vede crescere il suo momento, ovvero crea una situazione di equilibrio anche con oggetti di notevole peso posti nel piatto della stadera.
Se telai, bilance e attrezzi per il lavoro dei campi segnano la storia del progresso umano in sintonia e armonia con la natura che ci circonda, non mancano comunque esempi di macchine e tecnologie di poca o nulla utilità, inventati solo per divertimento e piacere (X, 7, 5). Sono in particolar modo i dispositivi della pneumatica a rientrare in questa severa classificazione, per meglio comprendere la quale Vitruvio rimanda il lettore all’opera di Ctesibio che, a tre secoli di distanza dall’epoca della sua stesura in ambiente alessandrino, doveva evidentemente essere ancora di attualità.
Descrivendo le macchine idrauliche e le acque dalle proprietà terapeutiche miracolose, Vitruvio tocca anche il tema dei rifornimenti idrici. Tuttavia, per avere un quadro esaustivo di questa materia occorre rifarsi a Sesto Giulio Frontino, nel 97 supervisore del sistema delle acque di Roma. Autore di un trattato di agrimensura e di uno di tattica militare, gli Stratagemata, Frontino è divenuto famoso soprattutto per aver scritto il De aquaeductu urbis Romae. Si tratta di un vero e proprio manuale tecnico a uso di quanti avrebbero ricoperto la sua stessa carica. Descritti tutti gli acquedotti della città di Roma, Frontino ne ripercorre le vicende della costruzione e soprattutto effettua una stima della loro portata. A rendere completo il lavoro di Frontino contribuisce il fatto che nella sua carica egli aveva anche il compito di redimere le controversie e gli abusi. Occorre ricordare che nelle città romane, successivamente alla costruzione dei grandi acquedotti monumentali, l’acqua era distribuita secondo tre percorsi principali: alle abitazioni private che pagavano regolarmente il canone, alle fontane nelle strade, agli stabilimenti termali.
Capace di effettuare calcoli precisi, Frontino registra la portata dei singoli acquedotti prima e dopo il loro ingresso in città, ricavandone una discrepanza tale da smascherare gli allacci fraudolenti che venivano fatti. Anche in questo caso ritroviamo, di conseguenza, il ricorso alla tecnica e alla precisione delle misure come garanzia di equità. Infatti, non esistendo un’unità standard per le tubature, è facile appropriarsi di un volume d’acqua maggiore del dovuto. Qui si concentra il primo sforzo di Frontino, che tenta di introdurre una tubatura di base, la quinaria, di diametro equivalente a 5/4 di dito, ovvero circa 2,3 cm. Perché l’operazione avesse maggiore efficacia, sarà l’imperatore Traiano stesso a raccomandare l’adeguatezza di misure e relativi controlli. Sostanzialmente la grande opera di Frontino è nel riordino e nella razionalizzazione del consumo idrico, dimostrazione pubblica ed evidente di un uso positivo della tecnica.