La magia a Roma
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel lungo processo di formazione della nozione di magia, la cultura romana ha certamente fornito un contributo di grande rilievo. Insistendo sul carattere malefico delle arti dette “magiche”, soprattutto tramite alcune figure femminili che hanno segnato la letteratura d’epoca augustea, i poeti latini hanno sviluppato diversi temi centrali delle rappresentazioni greche dell’azione magica e del rapporto con il mondo invisibile. Inoltre, mossa dalla necessità di definire i limiti della sfera in cui agiscono gli operatori rituali che gravitano intorno alla magia (astrologi e indovini), la società romana ha aperto la via alla sua criminalizzazione. Tale atteggiamento conoscerà sviluppi duraturi nella cultura tardo-antica, medievale e moderna.
Nel 160, nella città di Sabrata, presso l’odierna Tripoli, il retore Apuleio di Madaura viene accusato di crimen magiae e portato in tribunale. I parenti di sua moglie, Pudentilla, una ricca vedova, lo sospettano di avere conquistato la mano della donna solo a scopo di lucro e per mezzo delle arti magiche, facendo cioè uso di incantesimi e malefici. I fatti ci sono noti grazie all’Apologia, la brillante arringa che Apuleio pronuncia personalmente in tribunale per difendersi dall’accusa di magia. La linea difensiva si sviluppa in tre diverse fasi. In primo luogo il retore ricostruisce i fatti, per rinforzare la propria credibilità e smentire le varie insinuazioni avanzate sulla sua persona e sul suo stile di vita. Nella seconda fase sceglie una strategia comunicativa diversa, fondata sull’abile creazione di una netta separazione tra una classe colta, dedita alla filosofia e alla ricerca, in cui Apuleio include se stesso e il proconsole d’Africa Claudio Massimo che presiede alla procedura giudiziaria, e un secondo gruppo, connotato negativamente; ed è appunto in questo che egli inserisce i suoi accusatori, assimilati a una massa di ignoranti che interpretano come pratiche magiche le esperienze scientifiche del retore. Nella terza fase della propria difesa, Apuleio analizza e discute infine la vera ragione dell’accusa, che è di natura economica, ribaltando la situazione e mettendo in luce la cupidigia dei propri accusatori.
L’accusa di magia viene pertanto smontata da Apuleio ricorrendo a una esplicita polarizzazione tra la tradizione sapienziale della magia, e una concezione più volgare di questa pratica.
Apuleio
Apologia, 25-26
Dal momento che tutta l’accusa di Emiliano si è incentrata sul solo punto che io sono mago, avrei una gran voglia di domandare ai suoi dottissimi avvocati che cos’è un mago. Se, come leggo in molti autori, “mago” nella lingua dei Persiani equivale al termine latino “sacerdote”, che colpa c’è nell’essere sacerdote e nell’apprendere, nel sapere e nel conoscere esattamente le leggi delle cerimonie, le norme dei riti sacri, le regole delle pratiche religiose? Che colpa c’è nella magia se essa è quello che Platone spiega ricordando con quali insegnamenti i Persiani nutrano l’animo del successore al trono quando è ragazzo? Ho vive nella memoria le testuali parole di quell’uomo divino; rievocale con me, Massimo:
“Quando raggiunge i quattordici anni il fanciullo è affidato a quelli che sono definiti i pedagoghi reali; si tratta di quattro uomini adulti scelti fra i Persiani perché ritenuti i migliori: il più saggio, il più giusto, il più temperante e il più coraggioso. Uno di questi insegna anche la magia di Zoroastro figlio di Oromazo, cioè poi il culto degli dèi, e insieme l’arte di regnare”.
Ascoltate, voi che accusate la magia con leggerezza, come questa sia un’arte accetta agli immortali e implichi la conoscenza del loro culto e del modo in cui venerarli, come sia pia e conforme al divino, nobile già dalla sua nascita, avvenuta per opera di Zoroastro e Oromazo, sacerdotessa dei celesti; essa è uno dei primi insegnamenti impartiti al principe e, presso i Persiani, a nessuno è concesso essere mago più che essere re.
In un altro dialogo sempre Platone di un tale Zalmoxis, trace di origine ma dedito alla stessa arte, scrive: “Gli incantesimi sono le parole buone”. Se davvero è così, perché non dovrei poter apprendere “le parole buone” di Zalmoxis o la liturgia di Zoroastro? Se invece i miei avversari, come del resto i più intendono per mago chi grazie alla sua capacità di comunicare con gli dèi può arrivare, mediante il misterioso potere di certi incantesimi, a tutto ciò che vuole, mi stupisco davvero che non abbiano avuto paura di accusare una persona secondo loro così potente. Da forze misteriose e divine non ci si può difendere come si fa con tutto il resto; se si cita in giudizio un assassino, ci si fa scortare; se si muove un’accusa di veneficio, si usano maggiori precauzioni mangiando; chi denuncia un ladro vigila sui suoi beni; ma chi chiede una sentenza capitale per un mago per quello che loro descrivono, a quale scorta, a quali precauzioni, a quali custodi può ricorrere per scongiurare una rovina invisibile e inevitabile? A nessuno, lo capite bene; e perciò chi crede a siffatto genere di delitti non li denuncia.
Apuleio, Apologia, trad. it. di C. Viareggi, Milano, Mondadori, 1994
Questa visione della magia “filosofica” e dunque positiva non era peraltro nuova. Già nel IV secolo a.C., infatti, Platone aveva inaugurato un’interpretazione della magia che la valorizzava in quanto saggezza barbara, relativa al culto degli dèi e all’arte di regnare: il filosofo lasciava intendere che per guidare nel modo migliore il giovane Alcibiade nel percorso di formazione filosofica e politica, Socrate stesso avrebbe assunto i tratti del mago più saggio dell’impero persiano, che come tale istruisce il futuro re (Platone, Alcibiade, 120a-122a). Nel solco di questa tradizione culturale, che riserva la formazione filosofica soltanto a una élite, i magi si vedranno attribuire il merito di aver fondato la filosofia, come attesta Diogene Laerzio, nel proemio delle Vite e dottrine dei più celebri filosofi.
Diogene Laerzio
Vite dei filosofi, Libro I, 1-7 Alcuni sostengono che l’impresa della filosofia abbia avuto origine dai barbari. A farla nascere, infatti, sarebbero stati presso i Persiani i Magi, presso i Babilonesi o gli Assiri i Caldei, presso gli Indiani i Gimnosofisti, e presso i Celti e i Galli i cosiddetti Druidi e Semnotei, come affermano Aristotele nel suo trattato Sui Magi e Sozione nel ventitreesimo libro della Successione dei filosofi [...] Ermodoro il Platonico, nel suo trattato Sulle matematiche, dice che dopo i Magi, il primo dei quali fu Zoroastro il Persiano, passarono 5000 anni fino alla presa di Troia [...] I Magi – si dice – trascorrono il loro tempo venerado gli dèi, compiendo sacrifici e pregando, nella convinzione di essere i soli a essere ascoltati. Fanno affermazioni sulla natura e sull’origine degli dèi, i quali, secondo loro, sono fuoco, terra e acqua; condannano le effigi delle divinità e, soprattutto, si oppongono a quanti affermano che vi siano delle divinità maschili e femminili.
Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, a cura di G. Reale, Milano, Bompiani, 2005
Nascono così le tradizioni, trasmesse da Plinio il Vecchio (Nat. Hist., 24, 156) o ancora da Diogene, sui “viaggi di studio” realizzati presso i magi persiani da filosofi greci quali Pitagora, Democrito o lo stesso Platone. Rivendicando l’etichetta di mago-filosofo, Apuleio si richiama dunque a una tradizione greca che fa autorità e che comunque si è già affermata a Roma a partire dall’epoca repubblicana. Per Cicerone infatti, come per i prosatori latini in generale, i magi sono una stirpe di uomini di origine persiana particolarmente sapienti e dotti, capaci di interpretare i sogni e di predire l’avvenire (De divinatione 1, 46). Tali competenze nella sfera della divinazione privata favoriranno l’assimilazione dei magi agli indovini e agli astrologi, le cui pratiche suscitano a Roma forte ostilità da parte delle autorità cittadine a motivo del loro successo popolare. Tale ostilità è chiaramente dimostrata dal fatto che, nel II secolo, l’accusa di crimen magiae non è definita come delitto in quanto tale, ma rientra piuttosto nel largo spettro coperto dalla lex Cornelia de sicariis et veneficiis, promulgata da Silla nell’81 a.C.: in altre parole, è assimilata all’accusa di omicidio. Per cogliere la portata dell’accusa e le rappresentazioni che essa suscitava a Roma, occore superare l’escamotage retorico di Apuleio per interessarsi a quella che il retore presenta come un’accezione popolare della magia.
A partire dalla “invenzione” greca della magia, la cultura romana ha sviluppato e approfondito i temi dell’influenza e del potere malefico esercitato da figure sinistre, spesso femminili. Per realizzare le loro pratiche, tali figure attingono ad un ricco arsenale di canti efficaci, pozioni e artefatti vari, offrendo all’immaginario occidentale, medievale e moderno, un materiale inesauribile per alimentare le proprie immagini della stregoneria.
Ispirandosi ai modelli ellenistici dei poeti alessandrini Apollonio Rodio e Teocrito, entrambi vissuti nel III secolo a.C., i poeti latini di epoca augustea portano in effetti a compimento il processo di elaborazione della nozione di “magia”, qualificando come “magiche” le pratiche rituali compiute dalle eredi di personaggi mitici quali Circe e Medea. Si impone così la figura letteraria della donna che, per attirare il proprio amante, pratica riti efficaci, i magica sacra, alla maniera dell’amante messa in scena da Virgilio nell’ottava ecloga. In cosa consistono questi riti? Sono essenzialmente due gli elementi menzionati costantemente nei poemi latini: l’esecuzione di carmina o cantus, “canti”, “incantesimi”; e la manipolazione di herbae o venena, termini che, come il greco pharmakon, indicano non soltanto le piante medicinali, le droghe e i veleni, ma anche i filtri, gli amuleti e altri manufatti che si ritiene possano esercitare un potere sulle vittime di tali operazioni rituali.
Il carattere esotico di tali rituali è un altro elemento spesso evocato dai poeti, che non dimenticano di associare la magia e i suoi operatori a luoghi lontani o mitici: è questo il caso della Tessaglia, nella Grecia settentrionale, evocata per esempio da Lucano, che si configura come una sorta di orrido giardino prediletto dalle temibili manipolatrici di venena, terra ricca di pietre sonore e di herbae rare e potenti; o ancora l’estremo Occidente, ai confini del mondo, da cui proviene la sacerdotessa (sacerdos) che guida Didone nell’esecuzione delle magicae artes, le arti magiche, e al cui proposito Virgilio sottolinea la stranezza dei riti, nova sacra (Virgilio, Eneide, 4, 480-521). Com’è stato efficacemente mostrato (J. Scheid, Quand faire, c’est croire, 2005) la società romana fa dell’ortoprassia, ossia l’osservanza scrupolosa delle regole cultuali, un pilastro della propria vita religiosa. Si può dunque facilmente immaginare come la novità, la stranezza di riti che prevedono gesti e materie il cui divario è manifesto rispetto ai riti civici, costituiscano una ragione di profonda diffidenza, se non di rifiuto e di condanna. Il carattere profondamente inquietante che caratterizza tali arti si rivela in particolare nelle competenze negromantiche delle maghe. In questo senso, l’episodio più impressionante che ci sia stato tramandato è certamente quello che ha per protagonista Eritto, la maga tessala messa in scena da Lucano nel suo poema (Bellum civile, 6, 624-830). Costei, che rivendica un sapere superiore rispetto a quello dei magi, riceve da Sesto Pompeo la richiesta di fargli conoscere quale futuro lo attende, e a questo scopo restituisce la vita a un cadavere, praticando un rituale ricco di dettagli macabri e orripilanti.
Se le competenze negromantiche sono spesso menzionate come elemento essenziale delle arti magiche, occorre comunque precisare che, il più delle volte, queste ultime sono presentate come un rimedio tipicamente femminile (e talvolta un mezzo di ritorsione) contro le ingiustizie subite da amanti poco solleciti. Un quadro attribuito al pittore greco Polignoto, di cui Pausania fornisce una descrizione (Guida della Grecia, 10, 28, 5), illustra chiaramente la funzione assolta dalle pozioni femminili: nel contesto della rappresentazione del viaggio di Ulisse nell’Ade, è raffigurato infatti un sacrilego punito da una donna che gli somministra dei pharmaka. Questa immagine potrebbe benissimo evocare le figure mitiche di Medea o di Deianira che, come molte donne innamorate ritratte dalla letteratura greco-romana, pensano di fare uso di pozioni e intrugli vari per attirare o punire i loro amanti, usando se necessario unguenti letali. Medea, Deianira e le altre donne che ricorrono alle arti magiche, infatti, sono innanzitutto vittime di una parola menzognera, di un giuramento tradito, che in quanto tale è percepito come un atto “sacrilego”, contrario cioè alla pietà che regola i rapporti tra gli uomini e gli dèi. Filtri e pozioni appaiono gli unici strumenti di cui le donne dispongono per punire l’ingiusto comportamento subito.
Certo, è necessario insistere sul fatto che simili rappresentazioni dell’agire femminile, in cui volentieri si fa ricorso alle arti magiche, hanno carattere stereotipo – non a caso stiamo regolarmente citando testimonianze letterarie – e si fondano in definitiva su evidenti logiche di genere: il poeta Properzio contrappone al sapere malefico femminile, rappresentato dalle avvelenatrici per eccellenza Fedra, Medea e Circe, un sapere benefico maschile, illustrato dai medici Chirone, Asclepio, Machaone e Achille (Elegie, II, 1, 54-64). Resta comunque da precisare il contesto di relazioni in cui agiscono i saperi femminili implicati in questo genere di operazioni rituali. Se infatti l’uso di venena è attribuito alle donne, spesso vittime di passioni deluse, è opportuno ricordare che esse si rivolgono a (o sono soccorse da) altre figure femminili, meno giovani, il cui statuto merita un’attenzione particolare. Deianira, nella tragedia di Seneca, Hercules Oetaeus, è indotta a fare uso delle arti magiche dalla sua nutrice, che dichiara di avere una certa esperienza in materia.
Lucio Anneo Seneca
Hercules Oetaeus, 449-472
NUTRICE: È dunque svanito il tuo amore per il glorioso Eracle?
DEIANIRA: Non è svanito, nutrice; rimane in me, sta fisso nel profondo conficcato fino al midollo, credimi; ma grande dolore è un amore stravolto dall’ira.
NUTRICE: Con arti magiche miste a preghiere spesso le spose legano a sé i mariti. Io ho comandato al bosco di fiorire in pieno inverno, al fulmine già scagliato di arrestarsi; ho suscitato marosi senza alcuno spirare di venti, ho placato il mare in tempesta. Nella terra inaridita sono sgorgate nuove sorgenti. Ho fatto muovere i sassi, ho abbattuto porte. Voi, ombre, siete apparse e con le mie preghiere ho costretto i Mani a parlare. Ho azzittito il cane infernale; il mare, la terra, il cielo e il Tartaro mi sono soggetti: la mezzanotte ha visto il sole e il giorno la notte, non c’è legge di natura che resista ai miei incantamenti: lo piegheremo, le mie formule magiche troveranno la strada.
DEIANIRA: quali erbe genera il Ponto, quali il Pindo sotto la tessala rupe? Dove troverò una pozione cui egli ceda? Per magiche arti può forse la luna abbandonare le stelle e scendere in terra, può l’inverno vedere messi mature e il fugace fulmine arrestarsi catturato dal canto; si può far risplendere il cielo di stelle nella pienezza del giorno: lui solo non è dato piegare.
Seneca, “Hercules Oetaeus”, trad. it. L. Canali in G. Luck, Arcana mundi, Milano, Fondazione Lorenzo Valla, 2007
È inoltre interessante osservare che il vocabolario delle passioni e quello delle arti magiche rimandano a una medesima sfera, quella dei legami e della fissità, o per così dire dell’“inchiodamento”. L’amore che Deianira nutre per Eracle le sta “conficcato (fixus) fino al midollo”, proprio come un chiodo, mentre la nutrice le ricorda che “con arti magiche miste a preghiere spesso le spose legano (ligant) a sé i mariti”. Analogamente, Orazio chiede al ragazzo innamorato “quale donna-indovino (saga), quale mago, quale dio ti potrà sciogliere (solvere) dai venena tessali?” (Carmina 1, 27, 21-22). Le arti magiche e i mezzi cui tali donne ricorrono, venena e carmina, sono capaci di “legare” e di “sciogliere” una vittima, alludono cioè a un immaginario della “legatura” che si materializza, come vedremo, nelle pratiche rituali delle defixiones o devotiones.
È però necessario soffermarsi dapprima sulla figura della donna-indovino citata da Orazio. Come ha mostrato Maurizio Bettini (Nascere. Storie di donne, donnole, madri ed eroi, Einaudi, 1998), la saga, donna anziana non più fertile, che esercita il ruolo di mezzana, è un personaggio che ha a che fare con il mondo delle levatrici, depositarie di un sapere relativo alle piante medicinali, oltre che esperte nello “sciogliere i nodi”, solvere vincula, del parto. Alla saga, inoltre, è attribuito un sapere di tipo mantico, simile a quello posseduto dalle Carmente, divinità preposte alla nascita: il nome “trasparente” di queste si richiama ai carmina, canti che potevano essere intonati come rimedio contro le difficoltà del parto, ma che potevano anche essere usati con lo scopo contrario, impedendolo. È quello che mette in evidenza Ovidio, quando narra il modo in cui Lucina, dea del parto, prolunga le doglie di Alcmena su ordine di Era, bloccando l’espulsione del feto con carmina pronunciati a bassa voce (Metamorfoses, 11, 300-301). L’esperienza-limite del parto, con tutti i rischi in cui la puerpera e il feto possono incorrere, necessita della presenza di donne esperte nell’uso di carmina e herbae capaci di agevolare la nascita, facilitando il passaggio. Per converso, l’esito letale di un parto potrà essere imputato a supposte intenzioni malevole o a posture di impedimento come quelle descritte da Plinio: gesti quali l’intrecciare le mani o l’accavallare le gambe, infatti, possono trasformarsi in veri e propri veneficia, se eseguiti in presenza di una partoriente o di un malato (Nat. Hist. 28, 59).
La sfera delle arti magiche esercitate dalle sagae conduce pertanto all’esplorazione di alcune concezioni del “legame”, dell’“impedimento”, che sono profondamente radicate nell’esperienza romana relativa alla nascita e alla morte. In piena risonanza con credenze di questo genere appare dunque la descrizione delle striges, le “streghe”, che Ovidio fornisce nei Fasti (6, 131-168): si tratta di figure portatrici di morte il cui nome deriva dal grido stridente che esse emettono. Siano esse veri e propri uccelli o vecchie, anus (proprio come le sagae) trasformate in uccelli da incantesimi, Ovidio precisa che le striges sono creature malefiche che minacciano gli organi vitali dei neonati, di cui sono avide. Ragion per cui il primo giugno si festeggiava a Roma un’importante festa in onore di Carna, la dea dei cardini, colei che proteggeva la casa dalle possibili incursioni di questi esseri mortiferi.
Le rappresentazioni dei poteri attribuiti a tali figure femminili legate alla nascita, portatrici di morte e capaci di produrre “vincoli”, fornisce una materia particolarmente feconda alla concezione romana delle pratiche magiche, quella appunto che Plinio cercherà di sintetizzare nel suo sforzo enciclopedico. È noto il giudizio particolarmente negativo espresso dall’autore nei confronti della magia, qualificata come l’arte più fallace, fraudolentissima, di tutte. Il trentesimo libro della Naturalis Historia esordisce appunto dichiarando il carattere illusorio ed erroneo della magia, secondo una tradizione che si era già affermata in Grecia, alla fine del V secolo a.C., e di cui è testimone la polemica del trattato ippocratico sul Male sacro. Ma Plinio non segue pedissequamente i modelli greci, in quanto la sfera di azione dei magi viene da lui associata all’uso dei venena (32, 33) o veneficia (36, 139), di cui si è sottolineato il valore a Roma. Questa associazione costituisce un indizio importante per cogliere con più esattezza le sfumature dell’attacco pliniano contro le pratiche dei magi, operatori rituali temibili in quanto manipolatori di un arsenale di droghe, pozioni e oggetti rituali in grado di provocare la morte. Nel momento in cui vengono assimilate alle veneficae artes, alle magicae artes viene attribuita una efficacia innegabile. Se il magus è un impostore per definizione, lo si deve temere a maggior ragione quando prende le vesti del veneficus.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, dunque, le operazioni definite a Roma col termine di veneficia non rinviano esclusivamente alla sfera farmaceutica, quella dei filtri e delle pozioni, ma anche a quella degli incantesimi, delle posture e delle operazioni rituali di tipo defixio: ossia alla pratica della“fissazione” e del “legame”. Esattamente come i katadesmoi greci, le defixiones sono fini lamelle di piombo sulle quali sono state iscritte delle maledizioni; esse vengono poi arrotolate o piegate, infilzate da un chiodo e seppellite nelle tombe, gettate nel letto dei fiumi o in fondo a pozzi. Il linguaggio utilizzato per redigere le iscrizioni poste su tali oggetti rituali verte sull’idea di fissità e impiega frequentemente i verbi defigere (“inchiodare”), devovere, (“votare, consacrare qualcuno agli dèi infernali”), obligare (“legare, vincolare”). L’uso di tali oggetti è largamente attestato in tutte le aree del mondo romano, anche nelle province più lontane come la Britannia: a Bath, per esempio, gli archeologi hanno scoperto centinaia di lamelle depositate nel santuario della dea locale Sulis Minerva. La confezione di questi oggetti rituali richiedeva molto probabilmente competenze particolari, possedute da specialisti itineranti che offrivano i propri servizi nella più grande discrezione: le allusioni a tali pratiche sono brevi, ma esistono. Tacito riferisce per esempio che la malattia e la morte di Germanico, nipote dell’imperatore Tiberio, sarebbe stata imputata a malefici di questo genere.
Publio Cornelio Tacito
Annales, Libro II, 68
L’idea di essere stato avvelenato da Pisone esasperava in lui [Germanico] la virulenza del morbo; inoltre, si erano trovati, a terra o sui muri, resti umani dissepolti, formule magiche, incantesimi e il nome di Germanico inciso su tavolette di piombo, ossa mezzo bruciate e impastate a grumi di sangue e malefici del genere, con cui si crede di poter consacrare le anime agli dèi infernali.
Tacito, Annales, trad. it. M. Stefanoni, Milano, Garzanti, 1990
Il crimen magiae imputato ad Apuleio nel 160 si iscrive in una lunga storia legislativa che dalle leggi delle XII Tavole (451-450 a.C.) arriva agli editti dell’imperatore Costantino. Ma l’idea di unificare tale legislazione sotto la denominazione comune di legislazione contro la magia costituirebbe sicuramente il frutto di una proiezione moderna. È pertanto necessario individuare il filo rosso che collega i vari momenti in cui la società romana ha ritenuto necessario legiferare su fenomeni che saranno legati alle pratiche magiche. Dell’epoca repubblicana ci sono state tramandate un paio di citazioni delle leggi delle XII Tavole che mirano a proteggere la proprietà dei cittadini da aggressioni operate tramite riti di natura orale: oltre al divieto d’intonare un incantesimo malefico (8.1a Qui malum carmen incantassit) è infatti menzionato il maleficio contro le messi, incantatio frugum, volto a “rubarle” tramite questo artificio (8.1b: qui fruges excantassit... Plinio, Nat. Hist., 28, 18). Il vocabolario del carmen e del cantus si ritrova dunque già impiegato per designare azioni di natura orale cui si imputa un potere nocivo. Si noti però che il bersaglio delle leggi non è costituito dai mezzi impiegati, ma dai fini perseguiti. D’altronde non c’è da stupirsi più di tanto, dal momento che Catone il Censore, fornendo nel suo trattato sull’agricoltura una serie di rimedi per le lussazioni, non esita a inserirvi gli incantesimi, cantiones.
Di diverso tenore è la lex Cornelia de sicariis et veneficiis, di cui si è già parlato, promulgata da Silla nell’81 a.C. contro tutti gli atti volti a provocare, direttamente o indirettamente, la morte di un individuo. È in nome di questa legge, che sarà poi estesa ai sacrifici malevoli, mala sacrificia, e ai filtri amorosi, che Apuleio sarà portato in tribunale. Nessuna allusione è comunque fatta in tal sede alla pratica delle arti magiche.
Occorrerà attendere il senatoconsulto del 17, promulgato sotto l’imperatore Tiberio, per trovare in alcune fonti la menzione dei magi: lo storico Tacito narra (Annales, 2, 32, 2) come l’espulsione di magi e astrologi (mathematici) dall’Italia, sia stata decisa in seguito all’accusa portata contro Libone Druso, nipote di Sesto Pompeo, di avere consultato indovini, interpreti di sogni, esperti in riti dei magi, magorum sacra, e in necromanzia al fine di accumulare ricchezze. A proposito di tale decreto, lo storico Svetonio parla però soltanto degli astrologi (De vita Caesarum, Tiberius, 36), mentre lo storico greco Dione Cassio cita, oltre agli astrologi, i negromanti, goetes (Storia romana, 57.15.8). Infine, il giurista romano Ulpiano, oltre agli astrologi, ricorda i caldei e gli indovini (Collatio legum Mosaicorum et romanorum 15.2.1). Tali fluttuazioni terminologiche permettono di evidenziare il fatto che il termine magus non rinvia a una realtà o a una figura ben precisa: la figura del “mago” viene infatti associata a quella di specialisti riconosciuti, gli astrologi, i quali benché siano consultati dai cittadini romani per le loro competenze nel campo divinatorio, non godono necessariamente di una grande stima.
Dopo il senatoconsulto del 17, la condanna o l’espulsione riguarderà principalmente gli astrologi e gli indovini. Un provvedimento attribuito ad Antonino Pio permette di coglierne la ragione: ciò che è in gioco, infatti, è la proibizione che indovini, aruspici e astrologi siano consultati sulla vita dell’imperatore da parte dei cittadini, o sulla vita del padrone da parte degli schiavi. In altre parole, la norma mira a tutelare l’equilibrio della comunità. Nessun vincolo legato a una parola di tipo oracolare deve infatti pesare sul destino di coloro che detengono l’autorità nella società. La magia, come l’astrologia e altre pratiche divinatorie, sono condannate dalle autorità nel momento in cui esse “escono” dalla sfera privata per gettare la loro ombra sugli affari pubblici. Una certa tolleranza sarà dunque mantenuta per le consultazioni private di questi specialisti, la cui clientela non avrà conosciuto cali significativi, anche nei periodi di repressione. Un cambiamento radicale avviene però sotto Costantino e con la legalizzazione del cristianesimo nell’impero: un editto del 319 vieta la pratica dell’aruspicina in contesto privato (privata domus). Due anni dopo, l’imperatore ordina ugualmente che tutte le arti magiche siano represse: è l’inizio di un lungo periodo di clandestinità per la magia che sarà associata sempre più frequentemente al paganesimo al fine di svalutarlo.