La magia naturale
Con Giordano Bruno (1548-1600), o poco dopo, sembra chiudersi per sempre la grande stagione della magia naturale, «contemplazion della natura e perscrutazion di suoi secreti» (Spaccio de la bestia trionfante, 1584, in Id., Dialoghi italiani, con note di G. Gentile, a cura di G. Aquilecchia, 19583, ed. in 2 voll. 1985, 2° vol., Dialoghi morali, pp. 781-82). Il fallimento della magia naturale, ambizioso tentativo di proporre una tecnica di trasformazione del reale che traduce in effetti concreti la conoscenza del mondo ‘fisico’, è generalmente ricondotto a una duplice ambiguità, che la caratterizzerebbe in modo strutturale: da una parte, il richiamo esplicito a forme esoteriche di trasmissione del sapere, che sembrano contraddirne l’aspirazione a essere svelatrice di segreti (Rossi 2006, pp. 227-49); dall’altra, l’impiego implicito – sebbene per lo più negato – di demoni, che sembra smentirne la pretesa di essere manipolatrice di proprietà naturali (Zambelli 1991, p. 302).
In verità, il rilancio della magia naturale fu solo un aspetto di una battaglia culturale che coinvolgeva molto più che un settore del sapere; la sua portata più generale rimase però celata nella presentazione intenzionalmente retorica che ne fecero i suoi rifondatori, legittimando la disciplina e delineando il ruolo del mago con suggestive metafore: ministra e alleata della natura la magia; viva mano della natura e cosmico paraninfo il mago, che «unisce e sposa» ciò che è disperso e separato in natura (G. Pico, Conclusiones nongentae, 1486, a cura di A. Biondi, 1995, p. 119).
Anche l’abusata antitesi tra magia ‘vera’ (quella naturale) e magia ‘falsa’ (quella demonica) non definisce positivamente il significato di ‘naturale’, accontentandosi di suggerirlo per esclusione: naturale è tutta la magia che non si sottomette al demonio, ma si pone al servizio della natura (M. Ficino, El libro dell’amore, 1469, a cura di S. Niccoli, 1987, p. 145: «l’opere della magica sono opere della natura, e l’arte è ministra»). Queste immagini celebri restano al di qua di una rigorosa ed esauriente dichiarazione epistemologica; sono espedienti persuasivi, attraverso i quali si tentò di accreditare un modo nuovo di vedere il rapporto tra Dio e il mondo e di sancire il ruolo specialissimo rivestito dall’uomo in questa relazione. Per garantirsi l’ascolto, la nuova magia non può infatti dichiarare la propria novità; deve necessariamente destreggiarsi entro le strutture mentali della tradizione inquisitoriale, tentando un percorso culturale che è di fatto una vera e propria rifondazione, ma che si muove sul piano di minimi slittamenti concettuali.
I teologi duecenteschi avevano dichiarato legittima la magia naturale, intendendola come attività pratica che traduce in azione la conoscenza degli enti sublunari e delle loro proprietà occulte: l’accostamento (applicatio) dei principi attivi, presenti nel mondo fisico, alla materia passiva opportunamente predisposta permette di produrre effetti che sono iscritti nelle potenzialità della natura, ma che la natura, lasciata a sé stessa, non produrrebbe con la stessa rapidità o con la stessa forza. La prospettiva aristotelico-tomista delle forme sostanziali aveva però respinto tutte le operazioni magiche che assicurano all’oggetto magico l’acquisizione di una virtù prima assente: la preparazione di una porzione di materia (l’incisione di immagini su una gemma, la pronuncia di parole, l’uso di incensi) non modifica la sua forma sostanziale e quindi neppure la sua operazione essenziale; se una proprietà prima assente si manifesta, per gli oppositori della magia ciò significa che l’azione magica ha richiamato un’essenza sovrannaturale (un demone), che interviene a immettere la nuova virtù.
Il problema dei limiti di utilizzazione delle virtutes riceve risposte molto diverse in relazione a come si concepiscono la struttura dell’essere, i meccanismi del divenire, il ruolo della ragione e dell’arte rispetto alla natura. Non è perciò fruttuoso saggiare la tenuta delle definizioni e delle classificazioni proposte dai maghi naturali, come se la questione fosse quella di stabilire in che misura la loro teorizzazione possa essere considerata progenitrice della scienza moderna (Yates 1964) o, al contrario, relitto di una mentalità superstiziosa, sonno della ragione pervertitore del compito proprio della scienza (de Libera 2003). Sarà invece più opportuno porsi altri interrogativi: che cosa intendevano i maghi rinascimentali per ‘natura’ e in che senso la magia è sua ministra e ancella? E, soprattutto, su quale fondamento poggia quella scienza di cui la magia è applicazione operativa?
La magia astrologica di Marsilio Ficino
Con la sua incessante attività di traduttore Marsilio Ficino (1433-1499) aveva contribuito a rimettere in circolazione i testi di Platone, di Plotino e dei neoplatonici, il Corpus hermeticum: l’irruzione di questa bibliografia aveva smosso alle radici la visione dell’origine della vita e dei modi della sua trasmissione e aveva fornito una giustificazione ‘teologica’ all’operare dell’uomo nel mondo. Nel dicembre del 1489 Ficino faceva stampare il De vita, una raccolta di tre libri diretta a tutelare la salute degli intellettuali, maggiormente esposti ai disagi fisici a causa della loro attività. I primi due libri, De vita sana e De vita longa, si muovevano nell’ambito tradizionale della letteratura medica; il terzo libro, De vita coelitus comparanda, traeva invece origine dal commento a un luogo delle Enneadi plotiniane ed esponeva la compiuta formulazione della nuova magia naturale, a cui l’autore aveva già rivolto la sua attenzione in precedenza, soprattutto nell’importante commento (1469) al Simposio di Platone.
L’organizzazione formale della raccolta aveva forse lo scopo di attenuare le implicazioni della sezione magica, riconducendo il discorso nel più innocuo contesto della medicina astrologica, che utilizza le virtù occulte degli enti sublunari per la tutela e la cura del corpo, e presentando tutta l’impresa come un progetto di depurazione della disciplina dall’intrusione di elementi superstiziosi e popolari. Di fatto, la concezione cosmologica e ontologica che Ficino trovava esposta in Plotino gli permetteva di pensare in modo nuovo i rapporti tra arte e natura, collocando la magia sullo sfondo di una natura che è pluralizzazione cosmica dell’unità creatrice e perciò internamente percorsa da una tensione più o meno conscia di ritorno verso il Principio.
In questa prospettiva la magia si propone come forza ricreatrice dell’unità dispersa nella molteplicità; ed è ‘naturale’ perché è esplicitazione di un originario desiderio del Bene presente in tutte le cose. L’arte (l’operazione magica) non si limita a imitare la natura; piuttosto si integra nell’armonia universale che lega vicendevolmente le parti del Cosmo vivente. Il fluire ubiquo della stessa energia garantisce la comunicazione tra il Cielo e la Terra, cosicché ogni parte è influenzata dalle altre e agisce a sua volta sulle altre. Il motivo platonico dell’eros può essere dunque ripensato da Ficino in termini cosmologici: «tutte le parti del mondo, perché sono opere d’uno artefice e membri d’una medesima machina, intra sé in essere e vivere simili, per una scambievole carità insieme si legano» (El libro dell’amore, cit., p. 54). I piani dell’essere sono sì successivi e distinti, ma si corrispondono e si saldano in unità per mutua concordia e somiglianza: in questo universo magia e amore diventano equivalenti, perché la magia riproduce l’accordo naturale tra le cose.
La ricostruzione concettuale dei gradi di diffusione dell’essere (dalle idee presenti nel mondo intellettuale, che organizzano e presiedono la perfetta struttura del creato, alle ragioni seminali contenute nell’Anima del mondo, che distribuiscono la vita, fino ai corpi celesti, vettori delle forme attraverso i loro raggi animati) consente alla ‘vera’ magia di istituire un percorso inverso (dalle cose alle stelle, all’Anima del mondo, alle idee), risvegliando la spontanea trasmissione dell’energia cosmica mediante l’accumulazione degli elementi naturalmente collegati con una certa stella (piante, animali, metalli, ma anche colori, odori e suoni). Gli strumenti della magia sono medicine, anelli, talismani, canzoni, che Ficino definisce coerentemente esche, perché questi ricettacoli artificiali attraggono e concentrano in sé «i doni del mondo animato e delle stelle viventi» per sprigionarli poi nei modi e per gli scopi decisi dall’uomo (Sulla vita, 1489, a cura di A. Tarabochia Canavero, 1995, p. 188). Perciò la magia ficiniana non è soltanto conoscenza e utilizzazione delle proprietà occulte per il miglioramento delle condizioni della vita umana, bensì anche attività che soccorre la materia:
l’arte, quando s’avede che in qualche parte non è intera convenientia tra le nature, supplisce a questo in tempi debiti per certi vapori, qualità, numeri, figure, così come nell’agricultura la natura parturisce le biade e l’arte aiut’a preparare la materia (El libro dell’amore, cit., p. 145).
L’operazione magica agisce sull’ordine universale non soltanto sfruttando le potenzialità già date in natura, bensì anche sollecitandone di nuove – imitando e riproducendo i nessi cosmici, attivamente trasformando la materia, ricostituendo nella sua perfezione formale originaria una specie decaduta. Il mago, in quanto medico e astrologo, «per la salute degli uomini, regola e adatta le cose inferiori del mondo a quelle superiori»; ma in quanto coltivatore del mondo e sacerdote egli «sottomette le cose terrene al cielo, perché siano fecondate» (Apologia I, in Id., Sulla vita, cit., p. 298).
Anche nella prudentissima Apologia, stesa in preventiva difesa del De vita coelitus comparanda, emerge l’ideologia della magia come caritas dell’uomo verso il mondo, dovere religioso di ‘cura’ nella prospettiva di un rinnovamento cosmico e di una riunificazione delle cose al principio: sottomettendo le cose terrene al Cielo, il mago ficiniano porta a compimento la perenne azione di conservazione che Dio esercita sul mondo e che è stata in parte delegata all’uomo. La magia, dunque, costituisce ben più che una diligente applicazione di conoscenze fisiche: diventa un vicariato, una garanzia della somiglianza della creatura con il Creatore e una via di accesso alla piena realizzazione della sua divinità. Non è il mago a fungere da ministro alla natura, come paziente e scrupoloso combinatore di proprietà occulte, ultimo anello della catena causale che discende da Dio al mondo; sono invece i corpi terreni, le loro virtù manifeste e occulte, gli influssi stellari a farsi strumenti del mago, che è ministro della natura solo in quanto a lui compete la responsabilità di ricomporre – non solo nella contemplazione, ma anche, concretamente, nell’azione – l’unità cosmica originaria.
Il punto critico della magia ficiniana non può essere individuato nei contenuti che presenta o negli strumenti di cui si serve; investe se mai la concezione stessa della magia: il recupero dell’identità di ‘immagine di Dio’ (l’ermetica deificazione dell’uomo) è la premessa che fonda la scienza e restaura nella sua compiutezza l’efficacia pratica della teoria, trasformando il sapere umano in attività taumaturgica. La peculiarità dell’uomo deriva dal rapporto privilegiato che egli intrattiene con Dio; ma la destinazione che gli è stata assegnata non è solo spirituale, bensì anche mondana e pratica. La magia non è dunque soltanto parte pratica della filosofia naturale, bensì principale conseguenza di quella assimilazione dell’uomo a Dio che costituisce il fine e la perfezione dell’anima umana. A questo nuovo sapiente, tramite teleologico mediante il quale si compie il reditus di tutte le cose alla fonte dell’essere, Ficino assegna il compito sacro, carico di risonanze escatologiche, della cura del mondo.
Nel 1487 si sarebbe dovuto svolgere a Roma quel convegno a cui Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494) affidava le sue speranze di ristabilire la pace filosofica nella cultura cristiana, lacerata da divisioni dottrinali; in quella sede egli avrebbe discusso novecento tesi per dimostrare la concordia dei diversi percorsi intrapresi dalla tradizione filosofica nel comune e sempre inconcluso cammino di avvicinamento all’unica verità. La condanna di alcune tesi, già stampate nel dicembre del 1486, determinò il fallimento del progetto, il cui sviluppo è solo vagamente desumibile dall’Oratio introduttiva (poi nota come Oratio de hominis dignitate) e dall’elenco delle conclusiones che sarebbero state oggetto di trattazione nel corso del concilio, ma che sono rimaste nello stato di sintetici e spesso criptici enunciati. Pur nei limiti di una ricostruzione meramente ipotetica, alcuni indizi offerti dalle ventisei tesi dedicate alla magia permettono di sospettare un significativo allontanamento dalla teorizzazione ficiniana della magia naturale: Pico propone infatti una magia legittimata direttamente da Dio, ovvero una magia sostenuta dalla cabala. Questa fondazione è espressamente dichiarata dalla tesi magica 15: «Nessuna operazione di magia può essere di efficacia alcuna, se non abbia annessa l’opera cabalistica, esplicita o implicita» (Conclusiones, cit., p. 119); ne consegue che la magia non trae la sua efficacia né dal mondo fisico, né da quello celeste, bensì dal mondo degli Intelletti separati, ossia dalle sefirot, i dieci ‘abiti’ divini, aspetti diversi della unità creatrice che si rivelano nel Libro sacro, ove Dio ha parlato all’uomo servendosi della stessa lingua (l’ebraico) con cui ha dato origine all’esistente. Poiché ogni singola lettera scritta nella Torah è simbolo delle forze costitutive e conservative dell’Universo e intrattiene una relazione reale con una manifestazione dell’attività di Dio, la meditazione e la combinazione delle lettere della Legge consentono all’uomo di captare l’energia divina e di modificare la realtà inferiore intervenendo su quella superiore, cioè direttamente sul mondo intellegibile. La magia ‘naturale’ di Pico è forse un’attività esclusivamente linguistica e vocale che prende avvio dal libro sacro, non dal libro della natura.
In questa prospettiva deve essere valutata la topica associazione di natura e magia, ripresa nella tesi 10: «Ciò che fa l’uomo mago per mezzo della sua arte, lo fa la natura naturalmente, producendo l’uomo» (Conclusiones, cit., p. 119). Poiché la ‘natura’ produce l’uomo come unione di spirituale e corporeo, l’analogia impone di considerare anche l’azione magica come ricongiungimento di sensibile e intellettuale: non unione di materia passiva e di principi attivi (proprietà occulte o influssi stellari), bensì attrazione dell’effluvio divino, che viene riversato sul mondo inferiore, riallacciando la connessione tra Creatore e creature per riscattare l’esistente dall’isolamento e dalla separazione che hanno fatto seguito al peccato di Adamo. Perciò il compito di unire e portare in atto ciò che è latente o separato in natura colloca il mago-cabalista in una serie causale che collega Dio all’anima mediante il piano intelligibile, non in quella che collega Dio alle cose terrene mediante il sistema stellare. ‘Natura’ è infatti per Pico l’intera manifestazione della creatività divina: il mondo fisico, il mondo dei motori animati dei corpi celesti, ma anche il mondo intellettuale delle sefirot, immediata espressione dell’attività divina e suo dispiegamento creatore, che si pone in relazione con gli enti creati. Ben si comprende come la magia, in quanto ‘parte pratica della scienza naturale’, ne costituisca la «parte più nobile» (Conclusiones, cit., pp. 117-18): essa è appunto l’ambito in cui anche la contemplazione metafisica assume l’aspetto attivo della trasformazione del mondo.
Nell’economia del Cosmo, Pico riserva dunque una ben nobile funzione al magnum miraculum: il mago esercita un’attività che trascende la natura mondana e attinge a un piano superiore di causalità, giungendo a penetrare ed esplicare «quasi ne fosse l’artefice, i miracoli che si nascondono nei recessi dell’universo, in grembo alla natura, e negli arcani anfratti divini» (Oratio de hominis dignitate, 1486, a cura di S. Marchignoli, in P.C. Bori, Pluralità delle vie, 2000, p. 145).
Se la magia ‘naturale’ di Ficino e di Pico è stata un’utopia, non lo è stata perché ha ostinatamente valicato i confini di quella che oggi chiamiamo natura, né perché ha creduto di poter attrarre numina mundana, i demoni cosmici che fanno parte della natura così come la concepiva la visione ermetico-neoplatonica. Lo è stata, se mai, perché, muovendosi entro una situazione storica e culturale solidamente costituita, volle assegnare un nuovo compito al sapere e tentò di esprimere nuovi significati attraverso il linguaggio consueto. È a un diverso concetto di ‘ragione’ che deve essere collegato il progetto di rifondazione della magia che i due ‘conplatonici’ svilupparono secondo linee diverse, ma di cui condividevano il presupposto teorico, ossia l’esigenza di attribuire al sapere e al fare dell’intellettuale il compito cosmico e religioso della renovatio. Se non si tiene presente questa istanza, è difficile penetrare il senso di tutta l’impresa: il discrimine tra naturale e demonico non risiede affatto nel ‘come’ si effettua l’operazione magica, ma scaturisce dal rapporto istituito individualmente con Dio. In questa prospettiva, ‘naturale’ significa soltanto ‘lecita’, in quanto legittimata dalla rigenerazione interiore dell’uomo.
Nel tentativo di superare la barriera ideologica che i divieti teologici avevano imposto alla discussione sulla magia, Ficino e Pico svolgono un ruolo importante, per quanto un po’ paradossale. Trasferire il criterio di legittimazione della conoscenza e della sua applicazione all’interno del mago contribuisce a una ‘naturalizzazione’ della magia che acquista neutralità etica assieme ai suoi strumenti. D’altra parte, fondando su un presupposto religioso la premessa autentificatrice del sapere, si riattribuisce all’uso della magia – e, in genere, della ragione – un carattere religioso: se la vera conoscenza è conseguenza della rigenerazione spirituale, allora essa è patrimonio dei pochi sapienti/credenti che hanno saputo elevarsi fino all’assimilazione con Dio. La vera ambiguità della magia naturale platonica e cabalistica risiede proprio in questo presupposto: non nelle pratiche operative, ma nell’individuazione della magia come conseguenza di una tensione verso una meta trascendente, che solo dopo può ridiscendere e divenire anche governo e modificazione delle cose.
Della tradizione magica in senso lato neoplatonica Pietro Pomponazzi (1462-1525) offre un ripensamento polemico e radicale nella misura in cui la visione ‘teologica’ della natura, proposta da Ficino e da Pico, gli appare coincidente con il sistema teorico che sostiene il ‘miracolo’ cristiano – quel mondo di innumerevoli essenze spirituali direttamente agenti nel mondo sublunare, sul quale si era andata organizzando la repressione della stregoneria, culminata nella pubblicazione del Malleus maleficarum (1487) degli inquisitori Heinrich Kramer e Jacob Sprenger. Contro questa ideologia, che aveva trovato una violenta esemplificazione nella condanna della tradizione magica pagana del nipote di Giovanni Pico, Giovanni Francesco (De rerum praenotione, 1506-1507), si rivolge la discussione pomponazziana della magia naturale e il modesto elogio delle capacità operative dell’uomo; ma il De incantationibus (sottoscritto nel 1520, stampato postumo nel 1556) non è tanto interessato a fornire positivamente una teoria dell’arte o a indicarne le reali possibilità, quanto a svuotare di fondamento l’idea di causalità su cui si sostiene la demonologia cristiana: tutte le operazioni, che i demoni compirebbero applicando ai soggetti passivi i principi attivi presenti negli enti naturali, sono realizzabili anche dagli uomini che come i demoni possono avere conoscenza di quegli stessi agenti naturali e dei modi della loro applicazione. L’implicito riconoscimento delle abilità ‘magiche’ dell’uomo non rimanda affatto a un disegno di esaltazione della dignitas hominis: piuttosto che innalzare il sapiente-mago al livello dei demoni, come suggeriva El libro dell’amore di Ficino, Pomponazzi abbassa il demone al livello di un filosofo naturale ben informato sulle virtù occulte. Il ridimensionamento delle abilità operative del mago è perfettamente coerente con la presa d’atto della limitatezza dell’esperienza umana, che si confronta con una natura le cui potenzialità le sono in gran parte ignote: «sono senza dubbio numerosi i fenomeni naturali dei quali non siamo in grado di individuare le cause» (De incantationibus, a cura di V. Perrone Compagni, 2011, p. 36).
In considerazione dell’inafferrabilità del singolare, Pomponazzi limita drasticamente la valenza semantica del sintagma ‘magia naturale’: la magia naturale è solo quella che traduce in attività la conoscenza delle virtù occulte degli enti fisici. L’esperienza permette di registrare l’azione alterante che le qualità di un corpo esercitano su un altro corpo e di classificare i singoli corpi secondo le loro proprietà; sebbene non sia possibile spiegare la ‘ragione’ delle virtù occulte, perché esse alterano «per una qualità impercettibile che non conosciamo», sappiamo però che anche questa alterazione si verifica conformemente alle normali leggi naturali: l’azione delle qualità, trasmessa attraverso il medio, e la conseguente modificazione del soggetto passivo permettono di spiegare l’alterazione soddisfacendo il principio aristotelico per cui in ogni azione il motore deve toccare il mosso. In tal modo, la distinzione tra causalità fisica (azione per contatto) e causalità magica (azione a distanza) è di fatto annullata e ricondotta a un limite epistemologico della ragione umana. Soltanto questa attività può attribuirsi il titolo di ‘naturale’ e attingere la dignità di una scienza fattiva: «Né tutta la magia è naturale, ma soltanto quella parte che si occupa delle operazioni occulte della natura» (De incantationibus, cit., p. 62).
Pomponazzi è disposto a impiegare la denominazione di magia in omaggio a una tradizione lessicale che ne definisce l’estrema specializzazione e difficoltà («questa parte viene definita ‘magia’ in quanto è accessibile esclusivamente a uomini massimamente sapienti […] e la parola ‘mago’ in lingua persiana significa ‘sapiente’», De incantationibus, cit., p. 62). Con questa etimologia di derivazione ciceroniana il De incantationibus prende le distanze dalle valutazioni, tra loro contraddittorie, che ne aveva dato Giovanni Pico prima e dopo la ‘conversione’ savonaroliana: per Pomponazzi la magia non è né interpretazione e culto delle cose divine, come aveva detto l’Oratio, né quel «complesso di idolatria, astrologia e medicina superstiziosa», con cui l’avevano identificata le Dispute (Oratio, cit., p. 140; Disputationes adversus astrologiam divinatricem, 1496, rist. a cura di E. Garin, 2° vol., 1952, p. 525).
Il mago naturale non ha niente a che fare con le res divinae, né evoca inesistenti demoni, ma si limita a sfruttare le forze degli enti naturali e dei corpi celesti. La sequenza esplicativa che anche Tommaso d’Aquino aveva ammesso come sufficiente a dar conto dei fenomeni naturali (Causa Prima, Intelligenze motrici, corpi celesti, cause prossime) è per Pomponazzi unico modello causativo, che non contempla alcun altro agente. Non possono essere invece annoverate nell’ambito della magia naturale le altre due modalità di causazione a cui Pomponazzi ricorre per spiegare ‘secondo natura’ gli effetti straordinari, ovvero il possesso di particolari virtù da parte di un singolo individuo e la forza transitiva dell’immaginazione. In entrambi i casi ci confrontiamo con una disposizione individuale, che non si lascia ridurre alla regolarità dell’ut plerumque e che dunque non è deducibile scientificamente, ma resta confinata nell’ambito della semplice constatazione empirica e non offre nessun contributo al tentativo di definire la magia come ‘arte’, riproduzione attiva della scienza delle forze naturali.
All’ampliamento delle competenze della magia naturale (a cui, in linea di principio, l’accumulazione di esperienza potrebbe aprire l’accesso all’impiego di tutte le proprietà occulte degli enti sublunari) Pomponazzi fa tuttavia corrispondere una scelta ‘politica’ di controllo e repressione rispetto al suo esercizio concreto. Per quanto la magia naturale operi «secondo arte e scienza», il suo ambito di esplicazione è pratico, come quello della medicina, e rende possibile l’abuso – e con rischio ancora maggiore rispetto alla medicina, perché la sua azione si realizza mediante qualità insensibili, che sfuggono alla percezione: è dunque giustificato e auspicabile che le leggi, preoccupandosi del bene comune, bandiscano questa attività all’interno dello Stato. Ai filosofi spetta l’obbligo di non diffondere tra gli indotti la conoscenza delle potenzialità naturali – non perché la trasmissione del sapere contamini la purezza della dottrina in sé, ma perché essa incorrerebbe in una corruzione per accidens: sarebbe infatti utilizzata «per favorire amori illeciti, per rubare, per provocare aborti e per compiere altre nefandezze», poiché «la maggior parte degli uomini è schiava delle sue bramosie» e «la disciplina fattiva è buona soltanto se si accompagna a un desiderio retto e conforme a ragione» (De incantationibus, cit., pp. 46-47).
Negli ultimi capitoli del De incantationibus, ove Pomponazzi ridisegna il quadro cosmologico per ricondurre i miracoli e le stesse leggi religiose al progetto ‘divino’ di conservazione delle specie, la magia naturale e la conoscenza umana non svolgono più alcun ruolo: la realtà materiale e la stessa storia degli uomini sono solo lo scenario in cui l’ordinata serie gerarchica di motori e di mossi, che prende avvio dalle Intelligenze separate, manifesta l’omnipervasiva solicitudo degli enti superiori per il mondo sublunare – quel fato che per Pomponazzi è schema esplicativo del divenire e di cui la natura è fedele esecutrice.
Nel gruppo di opere magiche stese tra il 1589 e il 1591 (De magia mathematica, De magia naturali, Theses de magia e De vinculis in genere), alla cui revisione Giordano Bruno attendeva al momento dell’arresto, giunge a pieno compimento il programma teorico della «nolana filosofia» e trova la sua espressione più chiara la tendenza profonda di una riforma culturale che volle sempre essere anche riforma etico-politica. La convinzione che la conoscenza è tanto più garantita nella sua veridicità quanto più capace di tradursi in un vantaggio per l’uomo e per la società reca implicito un riconoscimento concreto del valore della ‘parte pratica’ della filosofia naturale.
Già nello Spaccio de la bestia trionfante Bruno aveva definito la magia «sapienza e giudizio, […] arte, industria ed uso di lume intellettuale» (pp. 781-82), perfetta coincidenza della ricerca razionale con la capacità di intervenire sulla realtà modificandola. La magia presuppone la ricostruzione razionale della realtà, come momento cronologicamente antecedente; ma l’operare, a sua volta, è garanzia della validità della filosofia, perché solo nella dimensione operativa la filosofia riesce ad attuare «la perfezion de l’intelletto umano», rendendolo emulo e cooperatore della natura (De la causa, principio e uno, 1584, in Dialoghi italiani, 1° vol., Dialoghi metafisici, 1985, p. 277). In questa prospettiva trova spiegazione il carattere soltanto teorico della riflessione bruniana sulla magia, interamente concentrata sulla delineazione dei principi generali che spiegano gli effetti magici e che, una volta identificati, consentono di agire sulla realtà («il termine mago indica un sapiente dotato della capacità di agire»; La magia naturale, a cura di S. Bassi, in Id., Opere magiche, ed. diretta da M. Ciliberto, a cura di S. Bassi, E. Scapparone, N. Tirinnanzi, 2000, p. 167).
La concezione ontologica messa a punto nel De la causa consente a Bruno di sciogliere i nodi teorici che avevano impacciato la discussione rinascimentale, la cui strutturazione gerarchica della realtà viene rifiutata per il suo carattere fittizio: non tanto perché ricorre alla categoria della mediazione (dalla causa universale alle cause prossime, medie e infime), che resta anche per lui necessaria perché rispecchia i modi di produzione della natura, quanto invece perché individua in un principio metafisico esterno alla natura la condizione di conoscibilità delle proprietà dei corpi fisici. L’unicità del principio sostanziale aveva condotto Bruno a pensare le differenze individuali in termini non ontologici, ma funzionali. Poiché la forma è unica e universale, ma assume modalità di manifestazione distinte a seconda delle disposizioni accidentali della materia, gli individui non possono essere raggruppati in classi dal punto di vista della sostanza, ma soltanto dal punto di vista delle operazioni (in tutte le cose è presente «un’anima di un solo genere, sebbene non sempre di un unico e identico atto, a causa delle sempre diverse disposizioni della materia»; La magia naturale, cit., p. 203).
Se dunque Bruno può affermare che è «principio della magia prendere in considerazione l’ordine dell’influsso, ossia la scala degli enti» (Articoli sulla magia, a cura di E. Scapparone, in Id., Opere magiche, cit., p. 327), ciò è possibile solo assumendo il descensus come una descrizione, dal punto di vista del discorso umano, del rapporto tra essere assoluto ed essere contratto, tra Uno e molteplice, tra il principio dell’essere e i suoi ‘volti’ («quel tutto che si vede di differenza negli corpi, […] non è altro che un diverso volto di medesima sustanza», De la causa, cit. pp. 326-27). D’altra parte, l’ascensus di cui è protagonista l’uomo non è un proiettarsi al di fuori dei limiti della natura e un catturare forze nuove, ma disegna la progressione attraverso la quale la ragione ricostruisce la struttura fisica del reale e organizza praticamente il suo intervento sulla natura. Ascensus e descensus sono dunque principio della magia, non perché rispecchino una reale processione dell’essere, ma perché la magia, per conoscere, ha bisogno di organizzare la realtà secondo le esigenze del pensiero discorsivo e, per agire, ha bisogno di rintracciare le mediazioni causali che determinano la produzione dei fenomeni naturali.
Conformemente a questa impostazione gnoseologica, Bruno distingue tre aspetti della magia, indicando in senso generalissimo i piani o livelli entro cui si svolge la ricerca umana dei rapporti causali: la magia è ‘divina’ in quanto conoscenza dell’azione dei principi fisici universali («per quanto versa in principii sopranaturali»); è ‘naturale’ in quanto rintraccia lo specificarsi di quell’azione nei singoli corpi a seconda delle condizioni materiali («quanto che versa circa la contemplazion della natura e perscrutazion di suoi secreti»); è ‘matematica’ in quanto ricostruzione mentale e rispecchiamento della realtà («in quanto che consiste circa le raggioni ed atti de l’anima, che è nell’orizzonte del corporale e spirituale, spirituale ed intellettuale»; Spaccio de la bestia trionfante, cit., p. 782).
Le tre prospettive fondano dunque una nozione di tre mondi che sono ormai molto diversi da quelli della tradizione rinascimentale. Se il mondo celeste è destituito dal suo ruolo di mediatore e se il mondo divino non è più quello sovrannaturale-teologico popolato di angeli e demoni, i confini del mondo fisico si sono invece dilatati: natura è tutto l’ambito degli enti, corpi celesti e demoni compresi. E dunque l’insieme di tutte le azioni che avvengono in natura può essere designato da Bruno come ‘magia fisica’. Ogni fenomeno magico è naturale, cioè rappresenta un’operazione dell’unica anima che informa le cose: questa operazione è già presente e può manifestarsi per una normale modificazione delle condizioni materiali o può essere condotta dalla latenza alla manifestazione attraverso la manipolazione artificiale dell’uomo; ogni fenomeno magico è naturale perché, come il fenomeno fisico propriamente detto, consta di un agente, di un paziente e di una trasmissione di azione, cioè di movimento.
Per spiegare le proprietà degli enti naturali (anche quelle magiche) come risultato di un’azione fisica, Bruno introduce, oltre al moto rettilineo e a quello circolare, un terzo tipo di movimento naturale, quello sferico, consistente nell’emissione e immissione di particelle minime e insensibili da ogni corpo e in ogni corpo. La dinamica messa in movimento dall’interazione delle particelle corporee (effluxus/influxus) è responsabile di tutti gli effetti fisici: i rapporti di simpatia/antipatia rispecchiano appunto la relazione sempre modificabile e modificata tra particelle emesse e particelle immesse. Poiché la conservazione dell’individuo dipende dal prevalere di particelle simili immesse rispetto a quelle emesse, ogni cosa ama e ricerca ciò che avverte come a sé simile e quindi conservativo di sé, mentre fugge ciò che avverte distruttivo, ossia capace di trasmetterle particelle dissimili. Si tratta di un’interpretazione radicale dell’animazione universale che tuttavia non può essere intesa come un irrazionale e capriccioso scenario dove tutto è possibile. In natura l’idea viene limitata a questa o quella specie a seconda che questa o quella sia più prossima; analogamente l’intervento magico è una limitazione della causa universale in rapporto alle disposizioni della materia e deve dunque tenere conto dei principi medi, prossimi e infimi. La capacità di connettere l’anima alle diverse complessioni naturali è presentata da Bruno come nucleo della magia: l’operazione magica non è infatti nient’altro che una modificazione artificiosa e intenzionale di un rapporto naturale.
La consapevolezza delle leggi causali che regolano il divenire (magia fisica) consente all’uomo di mettere a punto strategie operative diverse, che si sviluppano per accumulazione successiva a partire dalla relazione fondamentale di simpatia/antipatia (magia naturale) attraverso l’impiego di altri mezzi, atti a sorreggere e incrementare lo scambio di energia che si istituisce naturalmente tra le parti del Cosmo – con l’uso di parole, immagini, numeri (magia matematica o philosophia occulta) oppure con rituali di evocazione di demoni (magia transnaturalis o teurgia, che tuttavia può presentarsi anche nella forma deviata della magia desperatorum).
L’integrazione dell’azione dei demoni nel contesto della causalità fisica rappresenta il risultato estremo a cui poteva giungere il progetto di naturalizzazione della magia: i demoni sono una delle manifestazioni della natura e perciò le loro azioni si inseriscono a pieno titolo nell’ambito di competenza della magia fisica. Bruno può riproporre in termini del tutto nuovi la distinzione tra magia lecita e magia superstiziosa: poiché la valutazione morale non pertiene alla scienza in sé, ma risiede nel ruolo che il mago si riserva e nelle finalità che si propone, il discrimine tra scienza e superstizione viene a poggiare interamente sulla modalità con la quale si realizza il contatto con il demone. Mentre nella teurgia il mago si serve consapevolmente dei demoni superiori per legare in obbedienza quelli inferiori, nella magia desperatorum il cristiano «energumeno» si fa ricettacolo di entità estranee, strumento agìto dai demoni e depositario passivo di una sapienza non sua. Già nel Sigillus sigillorum (1583) Bruno aveva combattuto la perniciosa illusione dei «disperati», che cercano la legittimazione della naturalità della magia in una pretesa rivelazione diretta di Dio all’uomo e subordinano la validità della ragione umana alla fede religiosa. La comunicazione dell’uomo con gli dei non può avvenire se non per mezzo della natura, come ben sapevano i sapienti maghi egizi, che «per impetrar certi beneficii e doni da gli dei, con raggione di profonda magia passavano per mezzo di certe cose naturali, nelle quali in cotal modo era latente la divinitade, e per le quali essa potea e volea a tali effetti comunicarsi» (Spaccio de la bestia trionfante, cit., p. 778). Il mago è cooperatore della natura, perché grazie a «l’intelletto e le mani» (grazie alla magia, conoscenza/azione) ha la facoltà non solo di «poter operar secondo la natura ed ordinario, ma, ed oltre, fuor le leggi di quella» (p. 732).
Pur nei significativi punti di dissenso che separano Ficino da Pico, la loro magia ‘naturale’ è l’espressione di un sapere teologicamente fondato (comprensione intellettuale e insieme orientamento morale), nel quale si radica il criterio discriminante tra vera e falsa applicazione della scienza, tra naturale e innaturale, tra lecito e illecito: sapiente e ‘vero’ mago è colui che coordina i risultati dell’attività di ragione alla prospettiva del piano divino, né mai considera il mondo come un sistema dotato di significato proprio, né mai pone sé stesso come centro autosufficiente di elaborazione della verità.
Di questa fondazione religiosa non vi è più traccia nelle esuberanti pagine della Magia naturalis di Giovan Battista Della Porta (1535-1615), stampata in quattro libri nel 1558 e poi rielaborata nell’edizione in venti libri del 1589. Pur servendosi generosamente dei testi ficiniani e pichiani (e di Cornelio Agrippa, che a sua volta ampiamente aveva attinto ai maghi fiorentini nel suo De occulta philosophia, 1533), Della Porta è ormai lontano dal progetto di rinnovamento culturale e spirituale che le sue fonti avevano condiviso; né d’altra parte giunge a formulare un serio ripensamento di quella gerarchia ontologica, percorsa dalla trasmissione ordinata di vita e di attività che dal mondo intellegibile si incanala attraverso le stelle in direzione del mondo sublunare: la molteplice varietà della natura è ancora ricondotta alla stabilità immutabile di una struttura metafisica originaria («la forma dunque, come cosa la più eccellente di tutti, è forza che venghi da luogho, anchor eccellentissimo, dunque dal cielo, e dalle intelligenze, che stanno appresso a loro, e finalmente dall’istesso Iddio, onde l’origine della forma, e parimente l’origine delle occulte proprietà», Della magia naturale, 1611, p. 12).
Depurare la magia dalla superstizione e dalla credulità significa per Della Porta divulgare i segreti della natura, trasmessi dalla tradizione, dopo averne personalmente saggiato la veridicità, e magari svelarne di nuovi con personali ‘esperimenti’; ma non implica una indagine delle leggi generali del cosmo. È il rimprovero che gli rivolgerà Tommaso Campanella (1568-1639): «Si è forzato nondimeno il Porta studiosissimo di revocare questa scienza, ma solo istoricamente, senza render causa» (Del senso delle cose e della magia, 1604, a cura di G. Ernst, 2007, p. 163). Per Campanella il ‘render causa’ della magia naturale, ossia il legittimarla come scienza («finché non s’intende l’arte, sempre dicesi magia: dopo è volgare scienza»), risiede interamente nel riconoscimento della vita e della sensibilità presenti in tutte le cose: la spinta alla conservazione del proprio essere si estrinseca nei rapporti di simpatia e antipatia che caratterizzano le minime particelle della natura; le alterazioni indotte sullo spiritus (soffio caldo di materia sottilissima che fa vivere gli organismi animali) originano le passioni di amore e odio, di speranza e timore: «Or chi sa tutti questi effetti nell’uomo ingenerare, con erbe, azioni e altre cose opportune, mago si può appellare» (Del senso delle cose, cit., p. 177).
Solo ignorando l’equivocità terminologica che accompagna la designazione della magia come ‘naturale’ è possibile parlare di una teoria concettualmente unitaria e indistintamente condivisa. Pur negli scarti concettuali e semantici che dividono i singoli autori, è innegabile che la magia non fu un aspetto marginale e trascurabile della riflessione rinascimentale, né un tentativo filologico o religioso di recuperare e restaurare un patrimonio sapienziale già dato alle origini della storia. La magia rappresentò, invece, un’acquisizione e una conquista, a cui l’uomo giunge esercitando la sua disposizione alla conoscenza e di cui si serve per modificare le sue condizioni di esistenza. Da Ficino a Campanella, la magia fu la denominazione della filosofia nella sua doppia natura di conoscenza e pratica.
M. Ficino, El libro dell’amore (1469), a cura di S. Niccoli, Firenze 1987.
G. Pico, Conclusiones nongentae (1486), a cura di A. Biondi, Firenze 1995.
G. Pico, Oratio de hominis dignitate (1486), a cura di S. Marchignoli, in P.C. Bori, Pluralità delle vie. Alle origini del “Discorso sulla dignità umana” di Pico della Mirandola, Milano 2000, pp. 100-53.
M. Ficino, Sulla vita (1489), a cura di A. Tarabochia Canavero, Milano 1995.
G. Pico, Disputationes adversus astrologiam divinatricem (1496), a cura di E. Garin, 2 voll., Firenze 1946-1952.
P. Pomponazzi, De incantationibus (post. 1556), a cura di V. Perrone Compagni, Firenze 2011.
G. Bruno, De la causa, principio e uno (1584), in Id., Dialoghi italiani, con note di G. Gentile, a cura di G. Aquilecchia, Firenze 19583, rist. in 2 voll. 1985, 1° vol., Dialoghi metafisici, pp. 173-342.
G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante (1584), in Id., Dialoghi italiani, con note di G. Gentile, a cura di G. Aquilecchia, Firenze 19583, rist. in 2 voll. 1985, 2° vol., Dialoghi morali, pp. 547-831.
G.B. Della Porta, Magiae naturalis libri XX, Neapoli 1589.
G.B. Della Porta, Della magia naturale, Napoli 1611.
M. Ficino, Apologia I, in Id., Sulla vita, a cura di A. Tarabochia Canavero, Milano 1995, pp. 295-301.
G. Bruno, Articoli sulla magia, a cura di E. Scapparone, in Id., Opere magiche, a cura di S. Bassi, E. Scapparone, N. Tirinnanzi, Milano 2000, pp. 321-412.
G. Bruno, La magia naturale, a cura di S. Bassi, in Id., Opere magiche, a cura di S. Bassi, E. Scapparone, N. Tirinnanzi, Milano 2000, pp. 159-320.
T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, a cura di G. Ernst, Roma-Bari 2007.
L. Thorndike, A history of magic and experimental science, 5° vol., New York 1941.
D.P. Walker, Spiritual and demonic magic from Ficino to Campanella, London 1958.
F.A. Yates, Giordano Bruno and the hermetic tradition, London 1964 (trad. it. Bari 1969).
E. Garin, Lo zodiaco della vita. La polemica sull’astrologia dal Trecento al Cinquecento, Roma-Bari 1976.
I.P. Couliano, Eros e magia nel Rinascimento. La congiunzione astrologica del 1484, Milano 1987.
M. Ciliberto, Giordano Bruno, Roma-Bari 1990.
P. Zambelli, L’ambigua natura della magia. Filosofi, streghe, riti nel Rinascimento, Milano 1991.
G. Ernst, Tommaso Campanella, Roma-Bari 2002.
A. de Libera, La face cachée du monde, «Critique», 2003, 673-674, nr. monografico: 2000 ans de magie, pp. 430-48.
S. Bassi, L’arte di Giordano Bruno. Memoria, furore, magia, Firenze 2004.
P. Rossi, Il tempo dei maghi. Rinascimento e modernità, Milano 2006.
P. Piccari, Giovan Battista Della Porta. Il filosofo, il retore, lo scienziato, Milano 2007.
I vincoli della natura: magia e stregoneria nel Rinascimento, a cura di G. Ernst, G. Giglioni, Roma 2012.