La maturazione dello spazio urbano
Agli inizi del XVI secolo Denis Possot, in viaggio verso i Luoghi Santi, sale, il giorno stesso del suo arrivo a Venezia, sul campanile di S. Marco per "vedere tutta la città e il mare" (1). Egli appartiene ancora a quel flusso di pellegrini, molto abbondante nel XV secolo, che si inaridisce a mano a mano che il passaggio verso la Terrasanta diviene più difficile e che in Occidente inizia l'irresistibile ascesa dell'immagine di Roma (2). In attesa di imbarcarsi per la Palestina, Possot visita Venezia. La sua scoperta della città è dapprima panoramica, condotta come è da un'altezza tanto topografica quanto simbolica: il campanile della Piazza. Senza dubbio l'evoluzione del racconto di pellegrinaggio trova una conclusione pregna di significato in quest'ascensione al campanile e nella sua narrazione. Venuti in primo luogo per trovare un accordo con il padrone di una nave e per negoziare le condizioni di viaggio, i pellegrini adorano anche le preziose reliquie che la città racchiude e visitano le chiese principali. Tuttavia nel XV secolo la ripetizione di questi riti non basta più a riempire la visita e a ordinarne il calendario. L'elencazione dei luoghi sacri e delle indulgenze guadagnate offre spazio crescente alla descrizione di altre realtà: il sito urbano, l'Arsenale, il palazzo dei dogi... E l'uso di superlativi punteggia la graduale costruzione di stupita ammirazione (3).
La città dei primi racconti era monosemica. Soltanto i segni del sacro erano evidenziati nella sua rappresentazione. Lo spazio urbano si riduceva a semplice collezione di reliquie e a qualche chiesa senza materialità. Ora esso appare, se non ancora nella sua organizzazione, quanto meno nella sua pienezza tangibile ed estetica e la scrittura raffigura uno spazio invaso di edifici, colorato, pieno, ammirevole. Questa trasformazione si spiega sicuramente con l'evoluzione diacronica dell'approccio collettivo allo spazio e perde la sua singolarità se si rapporta il modello veneziano ad altri esempi urbani. Nel caso di Venezia rimane tuttavia evidentissima la forza di quest'autentica esperienza emotiva. Durante la seconda metà del XV secolo si opera una rottura nel racconto di pellegrinaggio e il testo si trasforma in un discorso elogiativo. Le componenti di questo fenomeno sono multiple e ogni racconto privilegia un tema particolare: la ricchezza della città, la sua potenza commerciale e militare, la sua perfetta organizzazione politica o la sua pace civile, la sua fede al servizio della cristianità intera. In quanto tali e grazie alla loro amplissima diffusione (4) questi Viaggi contribuiscono, tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo, allo straordinario irradiamento dell'immagine di Venezia al di fuori dei tradizionali circoli politici e umanistici.
Quest'immagine è costruita a Venezia e da Venezia. Se le trasformazioni del genere narrativo dell'Itinerario sono in prima analisi determinanti, la città si rivela anche capace di canalizzare la visita e di fornire proprie risposte alle domande che la scoperta dello spazio pone agli stranieri. Essa sfrutta il potenziale rappresentato dall'afflusso regolare di centinaia di visitatori. Essa storna il pellegrinaggio dalla sua finalità primaria e lo trasforma in strumento d'azione al servizio della propria immagine. Si notano infatti in questi testi numerose allusioni a guide e intermediari, numerosi indizi comprovanti che un veneziano è stato la fonte delle informazioni. Non deve allora stupire che l'elogio, come tutti i temi leggendari che affiorano in queste opere, riprenda, sino alla sovrapposizione assoluta, i motivi delle cronache antiche e della nascente storiografia ufficiale. Tuttavia, in una maniera che colpisce soprattutto nelle descrizioni degli stranieri, quest'immagine teorica e ideologica, questa glorificazione della città pia, libera, antica, ben ordinata, ben governata, si innesta su di un racconto primevo: racconto di spazio, racconto meravigliato (5). Le frasi continuamente citate di Philippe de Commynes non esprimono infatti altro (6). A S. Marco, sul Canal Grande, il visitatore è messo a confronto con il trionfo di un paesaggio e di uno scenario urbani. Ed è questa esperienza estetica, questa visione, questa messa in scena della città che egli si sforza in primo luogo di raccontare. Gli atti pubblici che negli stessi anni designano il perimetro di S. Marco come "el più belle spectaculo di questa città" provano in parallelo quanto i Veneziani siano consci del senso di un tale scenario e di un tale paesaggio.
L'illustrazione di Reuwich che accompagna il racconto di Breydenbach sottolinea ancora, scenograficamente, la stessa area emblematica di S. Marco. Anche se non esclude altre possibilità, Venezia si propone mediante questa immagine a lungo ripresa. Testi e illustrazioni concordano dunque per imporre la stessa rappresentazione di una città compiuta e di uno spazio ordinato che il perimetro di S. Marco rivela e simbolizza. La grande pianta del 1500 di Jacopo de' Barbari ingloba, con estremo scrupolo topografico, la totalità della città, le acque circostanti e alcune terre lagunari, come le isole vicine o qualche centro a nord del ducato. La rete delle vie d'acqua, così come tutti gli elementi che strutturano il tessuto urbano, "campi", strade e corti, è disegnata metodicamente. La riuscita formidabile di questa vista stimola fuori Venezia imprese analoghe e alimenta nella città una tradizione che ripete questa immagine, correggendo soltanto alcuni dettagli topografici. Si può allora notare che questo capolavoro della cartografia, per tre secoli modello e riferimento obbligatorio di tutte le produzioni locali, congela l'immagine della città nella sua forma del 1500 (7). Questa realizzazione unica, così a lungo citata e imitata, comporta un certo immobilismo. Tuttavia la totalità figurativa di Jacopo de' Barbari e i panorami più ridotti non sono in opposizione, se non superficialmente. I due tipi di rappresentazione privilegiano infatti lo stesso punto di vista e mettono unanimemente l'accento sulla riva meridionale, quella di S. Marco. Assieme raffigurano quindi una stessa realizzazione urbana.
Per quanto riguarda l'immagine urbana che questi scritti e questi disegni hanno così cristallizzato, gli ultimi anni del XV secolo rivelano chiaramente i confini cronologici di un movimento, di una dinamica: quella della maturazione di uno spazio urbano.
Nelle pagine che seguono ci proponiamo di tracciare la storia ideologica e materiale di questo risultato. E in primo luogo vogliamo mostrare come Venezia sia completata durante il XV secolo.
Il XIII secolo e i primi decenni del secolo successivo erano stati contraddistinti da un processo continuo e massiccio di espansione urbana. Grandi bonifiche avevano trasformato il quadro della città e i cantieri avevano creato uno spazio continuo articolato lungo il Canal Grande tra Rialto e S. Marco. Essi avevano inoltre aperto fronti di popolamento in tutti i sestieri, ai margini stessi della laguna. Se la dinamica della conquista pare arrestarsi nei primi anni del XIV secolo, le contrade periferiche continuano tuttavia i loro prosciugamenti e l'ambizioso programma della Giudecca nuova mostra la compiuta padronanza della bonifica ad opera del potere politico, strappando una nuova isola alle paludi. Fermata dalla peste, l'attività dei cantieri riprende timidamente nell'ultimo terzo del XIV secolo nei momenti di tregua tra i cicli epidemici. Bisogna quindi attendere il 1385 perché la conquista territoriale ricominci.
Gli anni di forte pestilenza formano vuoti nella curva dell'espansione. Rallentamenti e battute di arresto interrompono infatti la progressione. La crisi demografica appare tuttavia scongiurata. E negli anni 1420-1430 il ritmo delle bonifiche, a noi noto mediante i libri delle Grazie del maggior consiglio, è di nuovo sostenuto. Senza dubbio nei primi decenni del XV secolo l'espansione non rivela la forza o la vitalità demografica che avevano caratterizzato il XIII secolo. Tuttavia la mobilità e il numero dei cantieri provano che la città sta ricostituendo il suo potenziale umano. Già sensibile negli ultimi anni del XIV secolo, la ripresa diviene allora netta.
A S. Nicolò e a S. Angelo Raffaele i permessi di bonifica segnalano che le sistemazioni riprendono. A S. Croce o a S. Margherita i lavori si riannodano all'opera di conquista iniziata molto tempo prima su questo lato della città (8). Tuttavia, a mano a mano che la dinamica dei prosciugamenti è nuovamente avviata, la sua geografia si trasforma. Sin dagli ultimi anni del XIV secolo acquistano nuova preminenza i cantieri settentrionali, mentre soltanto alcuni erano presenti nelle concessioni anteriori: S. Marziale, S. Marcuola, S. Canciano e S. Geremia, ma in misura minore. Lo sforzo si sposta verso nord. Dopo l'ampliamento di S. Giustina e di S. Marina, la colonizzazione prosegue a S. Canciano, S. Maria dei Crociferi, S. Maria della Misericordia e S. Marziale (9). A ovest la crescita annette nuovi spazi, a partire da S. Lucia e S. Marcuola. Il fronte si sposta rapidamente a occidente di Cannaregio e del rio omonimo: bonifiche attorno a S. Giobbe, numerose concessioni a S. Girolamo (10). All'altra estremità della città i cantieri si concatenano allo stesso modo e sviluppano aree che prima erano state soltanto sbozzate: si pensi alle nuove costruzioni a S. Pietro di Castello, a S. Domenico e persino a S. Elena (11).
Venezia agisce così di nuovo sulle proprie frontiere e le spinge più lontano. Dopo decenni di crisi, di recuperi impossibili, di tentativi abortiti è infine arrivata la ripresa - per quanto attenuata e modificata nella geografia dei suoi cantieri - del movimento secolare di espansione e di creazione del suolo urbano, che ci è possibile individuare come primo fenomeno significativo. Purtroppo i registri delle Grazie mancano dal 1445 al 1529 e con essi si perde lo strumento più preciso di conoscenza delle bonifiche veneziane. Tuttavia altre fonti compensano questa lacuna nella documentazione.
Le fonti fiscali ci permettono di misurare lo sviluppo dell'area costruita. Sono stati conservati due estimi generali dei beni immobili, datati rispettivamente al 1425 e al 1469. I risultati del primo sono raccolti contrada per contrada. Le cifre del secondo invece si riferiscono soltanto all'insieme di ogni sestiere. Questi dati sono già stati utilizzati per un articolo sull'edilizia veneziana alla fine del Medioevo (12).
Confrontando le cifre di un estimo che risale alla fine del XIV secolo e quelle del 1469, l'autore di tale articolo calcola un aumento del 56% del valore dei beni censiti. La crescita tra il 1425 e il 1469 è invece del 20%, anche se durante questo periodo la svalutazione del soldo rispetto al ducato riduce senza dubbio il valore reale di tale percentuale. In ogni caso un simile incremento prova che le nuove costruzioni sono state molte, ma si spiega anche con l'aumento dei lavori edilizi in senso lato.
Le tendenze che si osservano confrontando i dati della fine del XIV secolo e quelli dell'estimo degli inizi del secolo successivo sono in seguito accentuate ulteriormente. I sestieri centrali (S. Marco e S. Polo), dall'elevato valore immobiliare, conoscono tra il 1425 e il 1469 soltanto un aumento relativo.
Nelle altre zone della città i progressi dell'urbanizzazione appaiono spiccati soprattutto nelle contrade periferiche. È così ai margini di S. Croce, a ovest di Cannaregio e a S. Pietro di Castello, il cui decollo è notevole nella prima metà del XV secolo. Le divisioni che appaiono all'interno dei sestieri non calcano le divisioni amministrative ufficiali. A Castello le due contrade di S. Provolo e S. Antonin si sviluppano, per esempio, secondo modalità analoghe a quelle delle vicine parrocchie del sestiere di S. Marco. La contrada di S. Marina, sempre a Castello, si integra allo stesso modo nell'area formata da S. Maria Nuova e S. Canciano a Cannaregio. E ritmi differenti oppongono le contrade delle due circoscrizioni di Dorsoduro e S. Croce, rinviando ai calendari specifici della loro crescita.
Un secondo fattore è stato rilevato per affinare lo studio, quartiere per quartiere, di questa dinamica urbanistica: i movimenti del mercato immobiliare. Queste mutazioni evidenziano le profonde differenze tra le regioni urbane e le dimensioni molto ineguali dei sestieri non bastano a spiegare tale fenomeno.
Si conservano per gli anni 1470-1478 le menzioni di 162 vendite di "domus a sergentibus" (13). Il 39% di esse sono state effettuate nel solo sestiere di Dorsoduro e in particolare nelle tre contrade di S. Nicolò, di S. Angelo Raffaele e di S. Trovaso: in quest'ultima è stato concluso più del 56% di queste vendite. La regione di Cannaregio si piazza al secondo posto con un po' più del 22% sul totale assoluto e l'essenziale di questi movimenti è rappresentato da due sole contrade, quelle di S. Marcuola e di S. Geremia (14). Lo scarto con gli altri sestieri è netto. Circa il 15% delle operazioni è localizzato nella zona di Castello, mentre i sestieri di S. Marco e S. Croce intervengono rispettivamente per poco più del 9%. S. Polo totalizza infine soltanto il 4% delle vendite.
Quando si tratta di "domus a statio", queste differenze permangono, ma sono minori (15). Il 27,3% delle vendite è contabilizzato a Dorsoduro e il 18% nella regione di S. Croce. Il 16% dei movimenti si fa a Castello. S. Polo figura per il 14%, mentre i sestieri di Cannaregio e S. Marco contano rispettivamente per poco più del 13 e dell' 11%. Tali cifre hanno un significato preciso soltanto se si prende in considerazione la diversità morfologica della trama urbana in un sestiere. I due tipi di beni immobiliari non sono distribuiti uniformemente nelle parrocchie di una stessa regione amministrativa.
A Dorsoduro le cessioni di case da abitazioni riguardano soprattutto, si è già notato, le due parrocchie di S. Nicolò e di S. Angelo Raffaele. Durante lo stesso periodo le "domus a statio" sono invece messe sul mercato a S. Vito, S. Margherita e S. Gregorio e le stesse divisioni interne si ritrovano a Cannaregio. Al peso delle contrade periferiche nella cessione delle case da affitto si oppone il numero di cessioni di "domus a statio" nelle parrocchie più centrali di S. Maria Nuova, S. Canciano e dei SS. Apostoli. A Castello le parrocchie vicine dell'Arsenale figurano in maniera schiacciante nel primo estimo. Nel secondo quelle di S. Marina, di S. Giustina e di S. Giovanni Novo si piazzano in testa. Il tessuto urbano vi è in effetti più diversificato. Si conosce d'altronde il gran numero di belle dimore nobili o borghesi in alcune di queste parrocchie. Singolarmente la grandissima maggioranza di transazioni relative a "domus a sergentibus" si effettua a S. Croce nel quartiere dove si lavorava la lana. Ma nelle contrade di S. Giacomo dell'Orio, di S. Croce o di S. Maria Mater Domini le vendite di "domus a statio" sono più frequenti. La coesistenza in questo settore di case popolari e di residenze di grandi lignaggi, attorno ai quali si formavano quartieri a composizione sociale stratificata, è indicata dai movimenti del mercato.
Le tendenze di quest'ultimo sottolineano dunque fenomeni diversi. In primo luogo mostrano come la corona delle parrocchie periferiche subisca rapide mutazioni nel XV secolo. In secondo luogo rivelano che l'urbanizzazione ivi sviluppatasi comporta investimenti immobiliari e operazioni di lottizzazione senza dubbio redditizie. La debole attività del mercato immobiliare nei sestieri centrali - l'analisi prende sempre in considerazione soltanto il volume delle transazioni (16) - costituisce un altro fatto rimarchevole. Questa inerzia accerta ciò che d'altro canto prova anche la storia dei grandi patrimoni immobiliari.
Nelle serie documentarie relative a questi ultimi soltanto le vendite sono contabilizzate. La trasmissione per via ereditaria e gli scambi di beni immobiliari all'interno di una stessa famiglia ovviamente non vi figurano. Ora, mediante la rigida trasmissione dei beni immobili di maschio in maschio, le clausole dei testamenti mirano a prevedere e cancellare gli accidenti biologici ed economici e le discontinuità nella vita delle famiglie. Queste ultime tentano di perpetuare idealmente una ricchezza che non deve mai uscire dall'ambito dello stesso nucleo agnatizio. Mediante il diritto di prelazione riconosciuto ai familiari gli statuti favoriscono ancora la circolazione dei beni nella cerchia dei consanguinei (17). Grazie a un tale arsenale di accorgimenti la famiglia può sforzarsi di preservare i propri diritti sui beni più importanti, residenze o proprietà tradizionali. Le peculiarità del mercato immobiliare nelle contrade dove è forte la proprietà nobiliare attestano dunque la conservazione della ricchezza immobiliare all'interno di un lignaggio per più generazioni.
Quest'analisi trova ulteriore conferma nelle caratteristiche del mercato in alcune parrocchie del sestiere di S. Marco. È il caso di S. Benedetto, S. Geminiano, S. Maria Zobenigo, S. Vitale e S. Paterniano, con l'eccezione dell'esempio un po' particolare della contrada di S. Marco, nella quale l'importanza della proprietà pubblica falsa l'analisi. Al contrario le parrocchie di S. Luca, S. Angelo e S. Samuele, meno omogenee socialmente e aperte al commercio al dettaglio, offrono la maggior parte dei beni disponibili. Le cifre degli estimi evidenziano allo stesso modo il blocco delle vendite immobiliari nelle contrade prossime a S. Marco e limitrofe al Canal Grande e l'esistenza di movimenti più vivaci nel resto del sestiere.
Sempre allo stesso modo il mercato dei locali commerciali sembra singolarmente depresso nelle Mercerie, né è più attivo nell'area commerciale di Rialto. Una zona relativamente omogenea, nella quale il mercato immobiliare pare molto inerte, può dunque essere circoscritta. Nel sestiere di S. Polo vi è una minore chiusura del mercato dei beni immobiliari nelle parrocchie più periferiche di S. Tomà e S. Stin. Il cuore della città, il perimetro urbanizzato e ordinato per primo, si caratterizza dunque alla fine del XV secolo per la sua forte stabilità immobiliare. Qui si rinnova e si trasforma più di quanto si costruisca. Si conserva e si trasmette più di quanto si venda. La proprietà si perpetua e la storia dei beni rende allora conto di un fenomeno sociale di prima importanza: la stabilità e la quasi glaciazione delle élites dirigenti veneziane negli ultimi decenni del XV secolo, dopo la lenta evoluzione che agisce sino agli inizi di quello stesso secolo.
La vivacità delle vendite è al contrario forte nelle parrocchie più periferiche. L'attività del mercato alla periferia urbana si spiega con diversi motivi. In primo luogo i beni immobiliari si scambiano più rapidamente in aree nelle quali la piccola proprietà popolare appare più importante che altrove. Tuttavia la colonizzazione si traduce anche in un'urbanizzazione sostenuta, in nuove costruzioni e nuove lottizzazioni. Queste contrade in crescita rapida servono allora agli investimenti dei grandi operatori nobiliari, ma anche popolari, offrendo nuove possibilità a chi vuole investire in beni immobili.
Questi differenti fenomeni, rivelatori di diversità socio-economiche effettive, traducono anche i differenti modelli di organizzazione del tessuto urbano. Essi restituiscono in qualche modo, sia pure parzialmente, il paesaggio sociale e urbanistico della città del XV secolo. L'urbanizzazione progredisce seguendo con un ritardo più o meno breve le conquiste delle bonifiche. Essa riempie i vuoti e raggiunge anche in alcuni sestieri quelli che saranno i limiti quasi definitivi di Venezia. Essa crea un nuovo paesaggio.
Un'altra prova di questo riempirsi della città è data dal fatto che allora lo spazio appare finalmente conteso e il vicinato diviene conflittuale.
Il vicinato a Venezia come in altre città aspira a raggiungere un modello ideale nel quale l'armonia, l'amicizia e lo scambio di servizi caratterizzino i rapporti. I vicini dichiarano di voler vivere "amicabiliter". Se può talvolta riprodurre queste forme sociali, il vicinato di sovente se ne distacca per dare libero corso a inimicizie e processi.
A questi conflitti, attestati da migliaia di cause nei tribunali civili, corrisponde un motivo: i lavori, piccoli o grandi, intrapresi in un cortile, in una calle, in una casa.
Tra il modello del quartiere amichevole e il vissuto quotidiano sono dunque numerosi gli scarti provocati dall'evoluzione delle strutture materiali dell'abitato.
È in nome del "puro amore" che ci si impegna a demolire il recinto che sbarra l'accesso di una stradina, la quale torna allora a essere proprietà comune delle due parti (18). È per evitare qualsiasi "quaestio" che due vicini si mettono d'accordo davanti al notaio per costruire un "liago" a partire da un muro di confine (19). Gli atti di vendita conservano a molti decenni di distanza, assieme all'enumerazione minuziosa dei confronti, i dettagli di questi accordi antichi, conclusi al momento di divisioni o rinnovi più o meno pacifici. È per ritornare alla buona intesa necessaria che i proprietari transigono piuttosto che sporgere denuncia oppure rinnovano i legami anteriori dopo il giudizio del tribunale competente (20). In cambio dell'autorizzazione ad aprire una finestra al primo piano della sua casa Isabeta Rosso si impegna a mantenere le dimensioni del muro che segna il limite con la proprietà contigua. Le due parti guadagnano in questo accordo di poter vivere "amicabiliter" (21). Ancora a beneficio dell'"amicizia" Galeazzo Dolfin e Pietro Ruggiero sono d'accordo nel costruire un muro dividendo le spese (22). Grazie a un accordo privato (23), con il quale si impegnano a riportare i luoghi allo stato precedente, la fraterna Ruzini evita che la fraterna Pasqualigo avvii un'azione giudiziaria (24).
L'immensa maggioranza di queste cause non si risolve con un compromesso privato e finisce davanti al tribunale del proprio, per quanto la parte querelante si dispiaccia davanti ai giudici di aver dovuto ricorrere ad essi (25). Abbastanza regolarmente si ritrovano tra gli atti dei notai della cancelleria testimonianze del XIV secolo di questi processi, la cui procedura era fissata dagli statuti locali (26). Tuttavia la non equilibrata conservazione dei documenti non spiega l'aumento costante di queste cause durante il XV secolo. Se prendiamo in considerazione alcuni dati indicativi, vediamo che 98 di queste liti sono registrate davanti alla magistratura giudiziaria responsabile tra il novembre 1440 e il settembre 1443 (27). Altre 218 sono sottomesse alla sua competenza tra il marzo 1459 e il marzo 1462 (28). Nel 1474 la tendenza è ancora più accentuata, come attesta la presentazione di ben 100 denunce (29). I 53 "clamores" dei primi sei mesi dell'anno successivo confermano la curva ascendente che si appiattisce un poco con i 124 casi del periodo 1494-1496 (30). Le medie mensili restano ciò nonostante assai alte, segno di nuovi lavori (31), nonché di una viva sensibilità ai loro effetti.
I negoziati tra vicini si organizzano dunque quando aumenta la pressione sullo spazio. Le loro tracce nella documentazione sono infatti antiche per quanto riguarda i quartieri centrali di Venezia. I conflitti creati dalle servitù che pesano sui beni costituiscono in tutte le città una larga quota delle dispute giudiziarie. Quando si studiano le divisioni immobiliari provocate da eredità e scioglimenti di fraterne, è possibile afferrare come si elaborino servitù e costrizioni. Gli atti offrono centinaia di esempi concreti di questi compromessi e illustrano le regole di coabitazione che si organizzano in seno a unità immobiliari ormai frazionate: spartizione dei pozzi, passaggio attraverso la calle, muri di divisione...
Ogni modifica, per quanto di dimensioni ridotte, minaccia una situazione di equilibrio precario. Le finestre sono oggetto di una copiosa regolamentazione. Aperte per offrire l'indispensabile illuminazione ("pro luminaria") esse non devono sporgere sul cortile o sulle parti comuni. In ogni caso non devono affacciare sugli spazi privati adiacenti. La manutenzione dei muri di divisione e la costruzione di modiglioni provocano lo stesso intricato insieme di divieti e limiti.
Le convenzioni, al di fuori di queste prescrizioni banali, possono inoltre riguardare la coabitazione nei suoi aspetti più disparati, quali, per esempio, l'elenco, stabilito al momento della divisione, delle piante che il terrazzo può ospitare.
Di conseguenza in questi quartieri, nei quali si sovrappongono diritti e proibizioni, i litigi nascono con estrema facilità. Nelle aree di urbanizzazione più antica un apparato difensivo frena le trasformazioni del tessuto urbano. Lo stesso sistema si estende progressivamente al resto di Venezia, seguendo l'aumento della densità urbana. Queste regole e la loro diffusione tentano di arrestare i cambiamenti e complicano allo stesso tempo la semplice manutenzione e la rinnovazione. Esse paralizzano, o quantomeno cercano di farlo, l'organizzazione urbana e le pratiche che quest'ultima autorizza.
I querelanti si sforzano dunque di spiegare al tribunale quali dovrebbero essere le relazioni naturali di vicinato. La parte avversa voleva lavorare "contro el voler de vicini" (32). I1 vicino è di "natura litigiosa" e agisce "contra formam juris et contra usum et honestatem" (33). Ci si fida di lui: "de le qual parole confidado como de bon amigo" (34); ma, indegno di tale fiducia, egli non mantiene la parola data: "suo pensier sta palexamente mudado" (35). In alcuni casi estremi l'accanimento del vicino perseguita la parte accusata: "son da lui indebite molestado perche non posso metter una pietra chel non chiami suxo" (36).
Il giudizio del tribunale permette che gli accordi e i doveri siano rispettati, oppure regola i conflitti quando, mancando precisazioni precedenti, i diritti di proprietà sembrano lesi. La divisione immobiliare provoca processi in seno a una stessa famiglia nobile: i due cugini Dolfin, Nicolò il Rosso e Nicolò il Bianco, si affrontano per dei muri divisori (37); la divisione dell'unità abitativa comporta la crisi quando quattro Dolfin si spartiscono in modo ineguale una casa a S. Pantaleone e ognuno di essi non possiede che una piccolissima parte del cortile, per il resto di proprietà comune (38).
I giudici del proprio ispezionano i luoghi prima di emettere la sentenza. L'istruzione del caso si basa sull'esame dei titoli di proprietà, ma il tribunale ricorre a testimoni quando i documenti mancano o sono insufficienti. Mastri muratori e carpentieri compaiono così quando il processo è relativo a un lavoro in corso oppure quando un problema tecnico esige il loro parere. Ce ne vogliono almeno cinque per giudicare a proposito di un muro e della sua proprietà. Il primo ha iniziato le riparazioni che hanno portato al litigio, gli altri quattro sono citati come esperti. Il rifacimento può riprendere, quando il muro in rovina è dichiarato di proprietà del solo Barbaro, mentre il ricorso del vicino Zane è respinto (39). A quattro anni di distanza un carpentiere ricorda che ha installato le travi necessarie a sostenere il piano e giustifica in base a ciò la validità della querela (40). L'expertise di un mastro muratore fa condannare il querelante, perché la nuova opera sostituisce esattamente la costruzione antica e le due canne fumarie non superano le misure precedenti (41). In un caso opposto, il camino ricostruito invade la calle comune, eccedendo il numero di piedi consentito: il lavoro abusivo deve quindi essere immediatamente abbattuto (42).
Affittuari e vicini sono ancora citati per descrivere in tribunale lo stato originale di edifici, l'assetto di un cortile, il tracciato di una calle o di un rio. Per essere processi che non mettono in gioco né il sangue, né interessi economici fondamentali, le ricerche, l'attenzione e il tempo accordati all'inchiesta garantiscono la minuziosità dell'istruttoria. I testimoni chiariscono le informazioni e sono capaci di ricomporre con precisione lo spazio di un certo perimetro, talvolta a venti anni di distanza. In ogni caso la vivacità dell'immagine spaziale è incontestabile. Si fissa il ricordo di quello che era stato un quartiere, una casa, un cortile e questa memoria spaziale è il sostegno di un'oralità largamente richiesta al tribunale del proprio, quando mancano gli atti scritti (43).
I punti di riferimento vacillano in una città nella quale lavori permanenti rimodellano, anche se sommariamente, l'ambiente. Così Lucia depone che, quando ha venduto la sua casa alla Giudecca, nessun rio passava tra questa e la proprietà vicina e il muro che divideva i due giardini andava dritto sino alla palude (44). Altro esempio, a S. Simone Apostolo i testimoni ripercorrono le tappe della conquista. Dapprima a fianco della casa vi erano la palude e l'acqua. Dopo la bonifica e l'apertura di un rio di drenaggio vengono la sistemazione industriale di chiovere e la costruzione di un muro che recinta l'appezzamento strappato all'acquitrino. Il terreno non è ancora solido e il muro cede "propter aquam magnam". Dopo essere stata rialzata la costruzione sconfina sul lato di terra nella proprietà limitrofa (45). La bonifica è vecchia di due decenni, l'acqua alta data a tre anni prima, ma la memoria delimita ancora lo spazio con precisione.
In quest'attenzione al quadro quotidiano si esprime il tenore di una relazione con lo spazio che non sembra mai indifferente. I luoghi della vita non sono immutabili e l'affittuario trasloca verso contrade vicine o lontane. Nel caso a S. Simone Apostolo compaiono, a fianco di mastro Michele "delle chiovere" di S. Pantaleone, anche abitanti del quartiere che quelle trasformazioni apparentemente dovevano aver implicato meno direttamente. Tuttavia tutte le descrizioni concordano. Attraverso gli aneddoti e le ripetizioni dei processi apprendiamo una sorta di rappresentazione collettiva della città. I1 gruppo vive in uno stretto rapporto di identità con lo spazio. La città si trasforma e questi racconti minuziosi, che ripercorrono le trasformazioni in dettaglio, ci fanno supporre le conseguenze psicologiche che poterono provocare le operazioni urbane, ben più radicali, dei cantieri pubblici del XIV secolo.
Il numero dei casi giudicati dal tribunale del proprio traduce quindi lo scontro tra le tentazioni immobiliste di una società e l'arsenale giuridico elaborato a questo scopo da un lato e la moltiplicazione dei lavori in corso dall'altro. Le informazioni frammentarie conservate per gli ultimi decenni del XIV secolo (46) provano che il numero delle denunce presentate in questo secolo non deve essere sottovalutato. La massa dei processi del XV secolo e il loro continuo aumento dimostrano quanto sia rilevante la spinta dei rifacimenti e delle trasformazioni.
Poiché le diverse tappe della procedura non sono obbligatoriamente conservate, la rigidità del formulario tace spesso la natura dei lavori, quando sussiste soltanto la denuncia: "labor tam subtus terram quam supra terram tam de muro quam de lignamine". Tuttavia si può trarre qualche informazione dai processi pervenutici nella loro integrità. Gli esempi citati hanno messo in evidenza uno dei casi più banali, oggetto di centinaia di querele: il rifacimento di un muro accusato di essere stato allargato o rialzato. Le querele richiedono che il muro sia demolito e rifatto secondo le dimensioni precedenti (47), che l'opera sia demolita per non gravare più sul muro della proprietà vicina (48), che il muro non ecceda la sua altezza precedente (49), che il muro sia ricostruito dove stava in precedenza (50).
La difesa vigorosa dei diritti di proprietà e il frazionamento dei beni immobili spiegano queste querele sistematiche contro ogni aggiunta o sporgenza degli edifici vicini. Divisorio o di proprietà di una delle due parti, separazione all'interno di un insieme suddiviso o chiusura di una calle o di un cortile comune, il muro dà dunque origine al maggior numero di processi. I suoi ornamenti, che sovrastano gli spazi comuni, non devono superare poche dita (51). Le contestazioni scoppiano allora per modiglioni proibiti o un cornicione troppo largo. Per lo stesso muro e il suo paramento i Querini e i Trevisan si scontrano a tre riprese sull'arco di 25 anni. Una generazione sostituisce l'altra, ma il conflitto si riaccende per i modiglioni giudicati abusivi (52).
Il camino è causa di litigi analoghi. Tra il 1494 e il 1496 la costruzione di un camino è all'origine di 17 querele su 124 (53). I processi relativi ad altri periodi rivelano la natura di questi casi. La muratura della canna fumaria "fuora del confin" invade secondo i querelanti "el commun" (54). Le misure rigorosamente prese sul luogo giustificano la sentenza ("bene et debite ponisse predictum caminum", "male et indebite fecit dictum caminum") senza che sia, però, possibile valutarne la forza esecutiva, affidata senza dubbio alla rude sorveglianza dei vicini, pronti in caso a ricorrere un'altra volta al tribunale del proprio. Queste costruzioni, che non sono rifacimenti, attestano la diffusione dei camini nelle case, già nota grazie ad altre fonti (55).
La raccolta e la divisione dell'acqua piovana sono responsabili di contestazioni analoghe, che rinviano alle difficoltà della vita materiale e agli sforzi di tutti per assicurare al pozzo un'alimentazione sufficiente. Così l'aggiunta di due canali devia lo scorrimento dell'acqua a vantaggio di Ca' Ghisi. Viene sentenziato che l'acqua deve essere divisa equamente tra le due case separate dal "callicellus de grondalibus" (56). Quando questi lavori, o il loro progetto, arrivano dopo la suddivisione di un'unità immobiliare per accrescere l'autonomia di ogni proprietario, la discordia può ancora dividere le famiglie e sottolineare i caratteri profondamente conflittuali della coabitazione, persino tra parenti: Girolamo e Pietro Contarini ricorrono alla giustizia per regolare le loro grondaie (57).
I testi rivelano dunque i continui miglioramenti, per quanto circoscritti, apportati agli edifici e la manutenzione, interna ed esterna, che si sviluppa nel XV secolo. Così le canalizzazioni che permettono il deflusso delle acque usate (58); o le latrine e le loro fosse di evacuazione costruite tra le case nelle viuzze di separazione e sviluppatesi, cronologicamente, dopo quelle installate a diretto contatto di un rio (59).
La massa delle querele non rinvia soltanto al progresso delle infrastrutture e all'evoluzione implicita nei rapporti con lo spazio domestico. L'aumento della densità umana appare eclatante in certe aree. Manca lo spazio, gli uomini si ammassano e le costruzioni abusive occupano una parte del cortile o della calle, una fascia di terreno normalmente lasciata libera. In una testimonianza, che restituisce la straordinaria confusione dei diritti e l'importanza di questi edifici modesti o provvisori, sono enumerate la tettoia addossata a un muro, la stanza in più, che si aggiunge alla casetta al primo piano, la scala di legno per salire al "liago", il pollaio installato tra due case, nonché le piccole costruzioni di legno (60).
Questi processi descrivono dunque una vera e propria colonizzazione dello spazio.
La costruzione fa nascere annessi rudimentali e appendici precarie per usi poco nobili o come abitazione per i più poveri. Se l'operazione ha fini più lucrativi sono edificati anche gli ultimi appezzamenti rimasti liberi. I vasti complessi segmentati dalle divisioni spesso includono tali terreni. I fratelli Pisani a S. Basso lottizzano a buon diritto il giardino, ma lasciano, secondo quanto richiesto dalla sentenza, una calle larga 5 piedi per permettere l'accesso alla riva (61). Giovanni Barozzi fa condannare la costruzione eretta da Pietro Barozzi sulla "terra vacua" (62). I Querini a S. Polo e i Morosini a S. Pietro di Castello si oppongono a una costruzione sul terreno libero contro la forma della divisione (63). La sopraelevazione di un edificio può allo stesso modo dare il via alle contestazioni, se il piano in più riduce la luce per gli altri (64).
A lungo termine questi conflitti, dalle tracce lacunose che ci restano quando i vicini si accordano davanti a un notaio al loro continuo aumento durante il XV secolo, mettono in evidenza alcuni fenomeni determinanti. Si comprende allora la forza dell'urbanizzazione e la sua lenta spinta sino ai confini della città, anche se il paesaggio rimane ancora aperto ai margini. Ma i rifacimenti e le trasformazioni dell'abitato appaiono anche nella loro ampiezza. La massa dei testi descrive gli indispensabili lavori di routine, ma rivela soprattutto i progressi delle attrezzature e la colonizzazione del territorio urbano, sia che si costruisca nelle frange interstiziali o che si sopraelevino edifici già esistenti.
Durante il XV secolo possiamo infatti osservare l'evoluzione verso il completamento della città a mano a mano che il tessuto urbano diventa continuo e che la densità aumenta, pur tenendo conto delle già rilevate sfumature e delle differenze fra le parrocchie.
Due operazioni di bonifica avviate proprio alla fine del secolo confermano la forza e il successo di questo processo, ma esse mostrano anche come la forma urbana tenda a stabilizzarsi, mentre la conquista tende a essere completata.
Il primo cantiere parte dall'area di S. Andrea della Zirada. Il senato decide nel 1494 di procedere all'urbanizzazione del settore (65) e la realizzazione si annunzia come imponente. Bisogna infatti prosciugare la palude che si estendeva dietro al convento: a tal scopo si deve stabilire la suddivisione in quadrati degli appezzamenti e i relativi canali di drenaggio, nonché moltiplicare gli accessi per via d'acqua e di terra. Gli scopi del progetto sono esposti con chiarezza. Quando si decide di agire sui margini ormai indegni di una tale città, si cerca tanto la bellezza estetica quanto la comodità. Per ornare la città, S. Andrea assomiglierà alle più belle parti di Venezia. La periferia raggiunge così il centro e le differenze spariscono, quando finalmente è terminata l'impresa iniziata da secoli. La bonifica è associata dunque a un progetto estetico: lo spazio unificato deve essere purificato da ogni scoria. I lavori del convento e dei privati non sono quindi stati sufficienti (66). Il senato conduce direttamente l'operazione e i magistrati assegnano a imprese specializzate le differenti fasi dei lavori.
Il prosciugamento inizia nel settembre 1494, poiché il decreto del senato, emesso agli inizi di novembre, fa riferimento al cantiere già avviato. Tra ottobre e novembre gli ufficiali pubblici mettono all'asta lotti da 100 e da 200 passi di palizzate, che circondano i perimetri da drenare (67).
Un accordo tra S. Andrea della Zirada e i magistrati precede il rivoluzionamento radicale della zona (68). I savi alle acque, che a questa data hanno assunto gran parte delle competenze originariamente dei giudici del piovego, comprano dal convento per 500 ducati due case, costruite ai bordi della diga, e i diritti sugli acquitrini limitrofi. L'antica difesa contro l'erosione delle acque è demolita e un altro isolotto è creato. Il rio che è allora escavato comunica con quello di S. Croce e assicura il deflusso delle acque per la prima "presa" del terreno. Il rio fa cessare l'isolamento dell'area in gestazione e collega S. Andrea al confine meridionale del sestiere.
Per aprire la via d'acqua è necessario demolire la prima casa comprata dal convento. La seconda invece subisce soltanto una demolizione parziale. Per il suo uso e per la comodità della contrada i savi creano una via di passaggio sino alla diga, costruiscono e riparano il ponte che varca il "rio novo", permettendo così il passaggio tra le terre vecchie e quelle nuove. I magistrati fanno procedere alla demolizione a spese del loro ufficio. Lasciano alle suore le pietre, le tegole, il legno e i materiali di ferro. Finanziano la ricostruzione, in posizione arretrata, dell'edificio in parte demolito e saldano l'affitto che era dovuto per le case perdute. S'impegnano anche a difendere i diritti delle suore e proibiscono per esempio di costruire altane nelle future case (69), nonché di aprire finestre al di sopra dell'altezza di 22 piedi. Il convento diventa così uno dei beneficiari dei lavori. Dopo che il prosciugamento è terminato nei due anni prestabiliti, la comunità riceve su tutta la lunghezza del suo giardino una fascia di terra larga 45 piedi all'altezza della diga, più stretta verso la terraferma, dove misura soltanto 11 piedi. Senza aspettare questo allargamento della loro proprietà e la costruzione di un muro di cinta, le suore utilizzano la terra di riporto, offerta loro dagli ufficiali alle acque, per una colmata in modo da ingrandire subito il giardino (70).
I magistrati, presentando il loro programma al senato, descrivono questi lavori pubblici in termini di progresso. Il miglioramento della contrada serve la potenza e la bellezza della città. L'estetica e la salubrità pubblica sono solidali, la bonifica mette fine alle esalazioni fetide, all'aria malsana e ai vapori che durante l'estate emanava l'acquitrino, nel quale si andava tradizionalmente a cercare i materiali di riempimento (71).
Seguono le assegnazioni dei lavori. Nel marzo del 1495 si svolge la gara d'appalto per escavare il rio che circonda l'area in corso di prosciugamento. Il mastro Zorzi da Segna si aggiudica il lavoro (72). In aprile, si procede alla demolizione della casa acquistata a S. Andrea e all'assegnazione della ricostruzione del secondo edificio (73). In ottobre segue la pulitura di una parte del canale (74). Francesco da Bresa ottiene nel marzo 1496 i lavori per la riva che costeggia la nuova via d'acqua (75). L'approfondimento dell'escavo di una sezione del rio è aggiudicato nello stesso mese (76). Il prosciugamento del primo settore, vicino al convento, sembra allora piuttosto avanzato. Dietro ordine dell'ufficio preposto alle acque, dopo il 1494 si portano alla sacca di S. Andrea della Zirada il fango tratto dai canali, i calcinacci e i rifiuti (77). I magistrati nel marzo 1496 fanno edificare, sul modello dei negozi provvisori costruiti sulla piazza S. Marco durante la fiera dell'Ascensione, una baracca di legno che si smonta e si sposta, seguendo il progredire del cantiere (78). L'anno successivo il grosso dell'opera sembra terminato.
Una volta riusciti a separare la terra dall'acqua, i magistrati concretizzano il programma di collegamenti via terra tramite un primo e poi un secondo ponte (79). Nel 1497 e nel 1498 proseguono i lavori secondo le stesse modalità: prosciugamento dei lotti successivi, sistemazione dei rii di frontiera, assegnazione della costruzione dei lungocanali e dei ponti. E lo stesso gruppo di imprenditori ottiene le fasi successive di lavoro (80).
L'ufficio preposto alle acque mette all'asta i "terreni nuovi" a partire dal 1497, secondo quanto il senato aveva autorizzato sin dall'adozione del progetto di risistemazione della zona. Gli acquirenti si accalcano non appena ricevono la notizia, come annota lo stesso testo senatorio. A fianco dei grandi investitori, quali Alvise Pisani dal Bancho che compra ben 4.676 passi quadrati, i nobili di Ca' Bernardo, o il mastro pellicciaio Antonio Petri, alcuni atti registrano transazioni più modeste (81). L'operazione si rivela in ogni caso fruttuosa.
Alcuni acquistano quando la bonifica non è neanche terminata (82), seguendo l'esempio dell'acquirente dei terreni situati nella "terza prexa". Pisani vende quando non ha ancora lottizzato e nel 1512 la confraternita di S. Rocco gli ricompra terreni non edificati per un ducato e mezzo a passo quadrato (83). Pisani, quindici anni prima, li aveva pagati mezzo ducato. I Bernardo conservano al contrario i loro acquisti e li fanno dividere in lotti (84). Mastro Alvise Zucharin aveva un credito di 297 ducati e 12 grossi presso l'ufficio preposto alle acque: si fa rimborsare con un lotto di terra a S. Andrea. La sua impresa di lavori pubblici è attiva alla fine del XV secolo e vince diversi appalti per la pulitura del Canal Grande (85). La scelta di Zucharin di divenire proprietario a S. Andrea conferma ad un tempo l'ascesa sociale degli imprenditori di lavori pubblici nella seconda metà del XV secolo e l'interesse di questo investimento.
La storia economica delle bonifiche e l'esistenza di speculazioni, soprattutto nel caso di concessioni eccezionalmente grandi, si precisano meglio grazie all'operazione di S. Andrea della Zirada (86). Le forme di controllo pubblico cambiano radicalmente quando la nuova magistratura dei savi alle acque assegna agli imprenditori le operazioni di bonifica. La città vuole ora condurre a termine un intervento d'insieme programmato, ma le difficoltà finanziarie spiegano senza dubbio il respiro assai corto dell'operazione. Sono presto messi in vendita terreni nei quali i lavori non sono terminati. Altri segni confermano la rinuncia alle primitive ambizioni. L'apertura di un rio di collegamento con il Canal Grande era prevista, ma i problemi tecnici e finanziari sono troppo numerosi: durezza del suolo, difficoltà di regolare le acque, necessità di rifare le fondamenta delle case vicine. Tutto concorre a una spesa intollerabile e nel 1511 si rinuncia al progetto, dopo un decennio di discussioni e di sondaggi sul campo (87).
Si inizia negli stessi anni un'operazione di bonifica a S. Antonio. Il contemporaneo sviluppo di questi due cantieri spiega, da un lato, il pesante indebitamento dell'ufficio dei savi alle acque e, dall'altro, testimonia il suo dinamismo, assai notevole prima del difficile inizio del XVI secolo.
A sud-est di Castello, la punta di S. Antonio aveva conosciuto una prima serie di interventi durante il XIV secolo. La congregazione dei canonici regolari di S. Antonio aveva costruito nel 1346 la sua chiesa su terre offerte e bonificate da Marco Catapan e Cristoforo Istrego (88). La localizzazione era molto particolare, poiché l'edificio era circondato su tre lati dal canale e dalla palude. Il monastero realizzò in seguito una bonifica (89), ma nel 1360 ricevette da Cristoforo Istrego un altro terreno libero e disimpegnato (90).
Su questa punta agli inizi del XV secolo il tessuto urbano aveva dunque già guadagnato in continuità (91). I savi alle acque assegnano nel 1494 la costruzione di una palizzata (92). Vasalo da Bergamo escava tre anni più tardi il rio (93) che costeggia questa difesa, eretta tra l'ospedale di S. Antonio e il muro del giardino di S. Anna. I pali di quercia, di un diametro di due piedi, sono infissi nel fango per sette piedi di profondità. Le loro teste, che sporgono per tre piedi, sono fissate e inchiodate assieme e inoltre sono legate da catene larghe due piedi e mezzo. Durante i mesi successivi la riva è consolidata dall'impresa di Zorzi da Zara dall'ospedale di S. Antonio alla punta dietro alla casa sul rio di Castello, dal giardino di S. Domenico a quello di S. Anna (94). La terra, i calcinacci e i rifiuti servono alle colmate. Le barche che trasportano i detriti sbarcano nel 1495 loro carichi a S. Andrea. Cinque anni dopo Marco Zucharin trasporta a Castello il fango raccolto durante la ripulitura dei bacini dell'Arsenale (95). Come a S. Andrea, i magistrati vendono frazioni di palude in corso di prosciugamento. La storia di quest'area è così riassunta dalla transazione che essi concludono con Tommaso Sabbatino. Due grazie successive avevano permesso nel 1444 e nel 1491 di ingrandire i terreni dei Sabbatino, sino a raggiungere le dimensioni delle proprietà vicine. L'acquisto nel 1498 di un appezzamento da rinforzare con una palizzata e da edificare ingrandisce ulteriormente questa proprietà (96). La pianta di Jacopo de' Barbari mostra nel 1500 questi lavori che procedono. Rappresenta, segnando l'avanzata delle palizzate di sostegno, la stabilizzazione che si opera dietro ad essi.
Che cosa concludere? A seguito di complesse trasformazioni amministrative, i savi alle acque affermano sui prosciugamenti il controllo più radicale del potere pubblico. Mentre i giudici del piovego si sforzavano di sorvegliare i prosciugamenti, di ricomporre la viabilità e di controllare i nuovi equilibri che comportava una bonifica talvolta frammentata nell'arco di decenni, a S. Andrea e a S. Antonio si realizza un'azione programmata. I savi alle acque intervengono tanto nella concezione e nella prospettiva quanto nell'organizzazione quotidiana del lavoro, tanto nella messa in opera dell'infrastruttura necessaria quanto nella sorveglianza dei procedimenti tecnici. I magistrati aprono i cantieri direttamente alla periferia, nelle paludi e negli acquitrini delle ultime frontiere. La conquista risponde ormai a una volontà di sistematizzazione e razionalizzazione.
Dai modesti incitamenti del XIII secolo al controllo delle realizzazioni alla fine del XV secolo la storia sociale e politica dei prosciugamenti si confonde con quella dell'affermazione del potere politico. Il controllo pubblico si instaura a misura che i molteplici attori dell'espansione urbana si sottomettono alle norme e alle intenzioni delle autorità civili e che si sviluppano i modi e le forme della sorveglianza. Con accelerazioni e slanci si disegna una traiettoria rivelatrice delle trasformazioni interne della politica veneziana. L'azione pubblica deve essere quindi compresa come causa ed effetto di trasformazioni più ampie. La lotta contro le acque, in una città che non cessa di crescere, impone e giustifica una gestione politica precoce dello spazio, la cui stessa ripercussione è un ampliamento del peso dello stato nella città.
Gli archivi della magistratura preposta alle acque ne forniscono un esempio particolarmente interessante. In essi infatti è conservato un rapporto redatto negli anni nei quali erano aperti i cantieri di S. Andrea e di S. Antonio (97). Le denunce e le testimonianze del personale permanente o temporaneo della magistratura si sono succedute presso i savi. Le colmate abusive sono numerose a Venezia, alla Giudecca e a Murano. I magistrati convocano gli imprenditori, specialisti della ripulitura dei canali o del trasporto di materiali pesanti, e sollecitano le loro deposizioni sotto giuramento. Intanto Alvise Zucharin, allora proto dei savi, misura le proprietà. Il personale di questa magistratura compara queste misure con quelle anteriori e calcola le dimensioni delle usurpazioni. Si susseguono le ispezioni a case e giardini dalla Giudecca a S. Croce, da S. Croce a Cannaregio, dal bordo della Barbaria delle Tole a Murano. Si capisce così che le nuove forme di controllo pubblico si confondono con un dominio sullo spazio, allo stesso tempo pubblico e privato, con uno "sguardo" che misura e trasforma in cifre. Lo stato contabilizza il presente dello spazio.
Questa grande indagine segue a una prima ispezione, condotta a termine nel 1485 (98), della quale non conosciamo i risultati. Da allora i cavacanali devono indicare tutte le discariche illegali di materiali di riempimento. Prima della creazione del collegio alle acque nel 1501 (99) i savi non sono eletti, se non in maniera saltuaria nella seconda metà del XV secolo. L'ispezione del 1485, senza dubbio inedita, prepara forse l'affermazione di questa magistratura (100). Dopo la riforma amministrativa la verifica del 1502 rompe con l'eccezionalità e generalizza la sorveglianza. Nell'agosto 1502, appena tre mesi dopo il primo passaggio, i delegati della magistratura ritornano, per esempio, a S. Eufemia di Giudecca per vedere se sono aumentati i primi prosciugamenti, controllati nel giugno precedente. E le misurazioni riprendono nel 1503.
La realtà evidente, ma inafferrabile, della bonifica abusiva appare in tutta la sua forza grazie a questi documenti. Alcune grazie del XIV secolo avevano, a seconda dei casi, condonato situazioni ormai acquisite o preteso la restituzione. Ma quelle grazie, rare e discontinue, lasciavano nell'ombra le vere dimensioni dei prosciugamenti non autorizzati. Il personale del tribunale del piovego forse trascurava gli interventi più modesti, essendo impegnato contro laici e monasteri in processi complessi ed essendo incaricato di affermare un diritto e principi nuovi. L'ampiezza delle sue competenze, che coprivano sia la città che la laguna, limitava probabilmente le possibilità materiali di controllo (101). La nuova magistratura preposta alle acque mobilita invece un personale più numeroso, capace di condurre ispezioni sistematiche.
Nel giugno 1502 l'operazione inizia alla Giudecca. Sulla riva meridionale dell'isola le misurazioni coinvolgono le proprietà vicine alla laguna. Il giardino di Alvise Erizzo è controllato. I mastri Michiel da Sebenico, Anzolo Bressan e Andrea Bressan sono interrogati. Il primo denuncia Antonio da Zara che al tempo della ripulitura del rio di S. Martino aveva portato una gran quantità di fango. Il secondo confessa un trasporto, quando era stato ripulito il rio di S. Maria Formosa. L'ultimo accusa Cristoforo da Bergamo e ricorda di aver stornato numerosi carichi di terra, ricavati nel 1492 dal dragaggio del rio di S. Zuane Nuovo. Tutti e tre testimoniano con precisione e datano i fatti raccontati: "dodici o tredici anni fa", "circa otto anni fa". Essi delimitano la bonifica recente, facile da misurare perché fuoriesce dalle mura di cinta (102).
La magistratura visita anche il terreno di Silvestro Sandelli. Michiel da Sebenico confessa trasporti illegali di terra, ma denuncia Zucharin, colpevole di aver fornito materiali di riempimento in occasione dei lavori di ripulitura del Canal Grande. Andrea, trasportatore della magistratura del sale, confessa di aver prestato a tal scopo le sue barche (103).
L'abuso a seconda dei casi misura 12 passi, 15, 20, 50, 60. La progressione nella palude, irregolare, ma generale, è confermata, mentre deposizioni analoghe si trovano di pagina in pagina. Nella sola giornata del 2 giugno sono visionati i casi di Alvise Erizzo, Silvestro Sandelli, Antonio Diedo, Marco Gritti, Lorenzo Valier, Zuan Polo Gradenigo, Antonio Bon, Alvise Priuli, Zorzi Loredan, Benedetto Corner e Marco Malipiero (104). La proprietà nobiliare prevale in questa parte dell'isola e il censimento degli abusivi, effettuato l'8 giugno, rivela la stessa maggioranza schiacciante di proprietari nobili (105). I grandi giardini della pianta di Jacopo de' Barbari circondano la Giudecca. Fanno parte di un'urbanizzazione ancora non regolata e ingrandiscono le proprietà poste perpendicolarmente dal Canale alla laguna. Questi giardini formano sul lato lagunare il contrappunto del paesaggio di pietra costruito sul fronte del Canale, di faccia a S. Marco e a Dorsoduro. Ingranditi con tenacia a spese dell'acqua essi contribuiscono a definire la posizione intermedia della Giudecca, separata dal corpo urbano senza essere tuttavia lagunare.
Al di là del monastero di S. Croce, i numerosi conciatori non hanno costruito i terrapieni (106). Le colmate a S. Eufemia, attorno alla nuova chiesa dei SS. Cosma e Damiano, si succedono su una frangia di terra ineguale (107). Quest'ultimo convento è stato autorizzato nel 1482 dai giudici del piovego a occupare un terreno vuoto contiguo e un rio intermedio già drenato (108); in seguito ha continuato il suo sviluppo senza permessi e ha strappato 34 passi alla palude (109). Attorno a questi due stabilimenti religiosi il paesaggio sociale è diversificato. I prosciugamenti abusivi conservano una frequenza e un'ampiezza relative.
Il costo della bonifica è suggerito dalla testimonianza isolata di un cavacanal. Denunciato da un impiegato della magistratura, Carletto spiega come è stato ingrandito il terreno di Pietro d'Alban. Riconosce di aver costruito le palizzate e i terrapieni. La misura di tale espansione illegale dopo il 1485 è di 2 passi su 10. La sistemazione della cavana (110) del proprietario ha fornito una parte della terra. Il resto proviene dal "riello della Zuecca". Per aver illegalmente fatto pervenire queste chiatte di fango il cavacanal ha ricevuto 10 ducati (111). I mastri e gli operai specializzati nei lavori pubblici si arricchiscono disobbedendo agli ordini delle magistrature di tutela e stornando i carichi di terra verso i cantieri privati, invece di inviarli nei luoghi di bonifiche pubbliche. Per il proprietario si aggiunge il costo dei pali a quello per ottenere la compiacenza di uno di quei lavoratori. Sembra quindi, pur senza esagerare l'importanza di questo unico documento, che la bonifica rappresenti un vero e proprio investimento. Le irregolarità degli sconfinamenti che segnalano le misurazioni si spiegano con questi costi assai rilevanti. Soltanto le grandi proprietà aristocratiche, come i giardini di Marco Gritti, di Lorenzo Valier o di Zuan Polo Gradenigo, hanno guadagnato 40 passi su 10, 50 passi su 12 o 60 passi su 14 (112). Le grazie che raramente concedono a qualche beneficiario privato i carichi delle chiatte mostrano i veri privilegiati dei consigli.
Nella periodizzazione dei prosciugamenti è dunque possibile afferrare qualcosa di più che il semplice battito del polso demografico. Gli slanci e le pause di una vita urbana, le vicissitudini delle fortune pubbliche e private sono così ritmate nella curva di espansione della città. A Venezia si investe in mattoni e pietra d'Istria una parte dei profitti dell'avventura commerciale. Ma prima di questo trasferimento di ricchezze ben noto e di questa ostentazione, vecchi e nuovi ricchi creano lo zoccolo su cui edificare la città. L'evoluzione cronologica va ciò nonostante verso una ripartizione sociale più ampia delle terre prosciugate, che si può leggere nelle distribuzioni di grazie dei secoli XIV e XV. Sulle frontiere interne ed esterne il controllo delle acque e degli acquitrini forgia quotidianamente l'originalità di Venezia. Tale controllo genera contemporaneamente conflitti, tensioni e solidarietà, i collanti essenziali di una collettività che, rispetto alle acque, vive una ricerca di spazio allo stesso tempo vitale e simbolico.
Il dinamismo dei privati si legge nell'avanzata delle terre, sicura e continua negli ultimi anni del XV secolo. Su tutto il fianco della contrada di S. Lucia (113), attorno a S. Girolamo (114), nella sacca consolidata dai precedenti apporti di fango e detriti, le terre hanno guadagnato a misura che si sviluppavano le attività artigianali nei nuovi spazi.
Le nuove ispezioni del 1503 e del 1504 provano la persistenza delle trasformazioni e la specializzazione industriale di questa periferia. L'insieme del confine settentrionale si muove attorno a qualche fronte già identificato: Madonna dell'Orto (115), S. Maria della Misericordia, S. Caterina dei Sacchi, S. Canciano, la Barbaria delle Tole (116). È situato a nord anche il prosciugamento che si irradia attorno agli isolotti di Murano e guadagna ogni sacca. L'espansione concerne le zone di S. Stefano, S. Cipriano, S. Pietro, S. Maria degli Angeli, S. Bernardo e nella lista degli abusivi si ritrovano, a seconda delle rive, i nomi dei grandi proprietari veneziani, quelli dei mastri celebri dell'arte del vetro - Zuane Barovier, Anzolo Barovier, Zorzi de la Stella, Andrea e Donezo de Anzolo - o dei patron della pesca (117).
Confermando quanto prima tratteggiato, i sestieri "de ultra" (118) sembrano più immobili con l'eccezione di due settori. Attorno a S. Maria dei Carmini si realizza l'ultima avanzata di Dorsoduro, mentre nella sacca di S. Croce l'area di S. Andrea prosegue ad ingrandirsi (119).
Queste bonifiche abusive sono descritte a ogni stadio del loro processo (120): cantieri in corso o appezzamenti già ultimati, aggiunte a un cantiere navale o a una tintoria, annessi di un giardino o di una costruzione in legno. Esse sono condannate. I registri non conservano, dopo la ricognizione della situazione, né le modalità né l'ammontare dell'ammenda inflitta, tuttavia espongono i motivi di qualche indulgenza occasionale. Le palizzate di protezione esistevano già nel 1485 e i carichi di terra sono serviti a una sopraelevazione del terreno: di conseguenza Giulia Priuli non è tenuta ad alcun pagamento e non può in alcun caso essere inquietata (121). La stessa benevolenza è accordata a Bernardo Navagero, visto che un solo cavacanal ha testimoniato contro di lui, mentre gli altri dicono di non ricordare. Navagero non è punito, malgrado i pali piantati a tre passi dall'antica riva (122). Tranne queste rare eccezioni, un'ammenda sanziona gli abusi manifesti.
Il numero dei trasgressori e la frequenza degli accordi con le imprese di lavori pubblici dimostrano la normalità dei prosciugamenti illegali. Le bonifiche abusive continuano nonostante tutti i controlli e il raffinamento dell'apparato giuridico-amministrativo.
Le incertezze giurisdizionali degli ultimi decenni del XV secolo e il passaggio delle competenze del piovego ai savi alle acque favoriscono senza dubbio un aumento degli illeciti. Tuttavia questa particolare congiuntura si scontra dopo il 1485 con una restaurazione severa dell'apparato repressivo. La trasformazione amministrativa è realizzata con rapidità. Il documento del 1502 confessa infatti l'impossibilità del controllo assoluto. Poiché non possono controllare la totalità dello spazio nelle sue trasformazioni quotidiane, i savi scelgono la via dell'ispezione generale e della registrazione sistematica, fronte dopo fronte, degli abusi. L'ammenda, se non dissuade, alimenta, almeno parzialmente, le casse della magistratura.
Le descrizioni del 1502, come le Grazie, lasciano intravedere l'andamento quotidiano delle bonifiche e la realtà dei vicinati. Certo, quando le concessioni del maggior consiglio erano assegnate al gruppo dei vicini, oppure quando era proprio quest'ultimo a determinare la dimensione dei lotti, si può supporre la presenza di associazioni attive nella sistemazione dello spazio comunitario ed estranee al campo tradizionale della politica. Si indovinano solidarietà e riunioni nelle quali si elaborava una volontà comune: la conquista era allora condotta collettivamente. Si intravede un aiuto reciproco effettivo, anche se più spesso gli appezzamenti erano concessi a singoli.
Ma il prosciugamento abusivo si basa ancora su accordi, poiché ci fa scoprire il progresso irregolare, ma generale, delle proprietà lungo le coste di un isolotto. Senza escludere rivalità e desiderio di imitazione, le dimensioni della spinta collettiva dei prosciugamenti sulla riva settentrionale o sulle sponde di Murano provano una concertazione. Questi incontri informali sono tanto più difficili da scoprire in quanto i proprietari di terreni periferici risiedono spesso in una contrada più centrale. I modi di collaborare dunque evolvono, ma l'esercizio di una forma di sociabilità rimane e spiega le decisioni comuni, l'apertura contemporanea di cantieri e lo scambio di operai e materiali.
Infatti le testimonianze dei cavacanali riducono le dimensioni della città. Esse ritraggono una città nella quale gli uomini sono tutti conosciuti e le notizie si diffondono rapidamente. I mastri dei lavori pubblici, sollecitati a vendere e trasportare la terra, uniscono con il loro intervento i cantieri della Giudecca e quelli di Cannaregio.
La sistemazione dei numerosi canali è sorvegliata con interesse. La terra per i terrapieni non proviene sempre dall'escavo più vicino, le barche vanno da Castello a Cannaregio, dal Canal Grande alla Giudecca, da S. Marco a Murano. Questa facilità di comunicazione mostra lo stadio dell'evoluzione di Venezia e rivela con questo esempio preciso la coerenza, locale e globale, di uno spazio unificato.
L'azione pubblica è dunque frenata dal proseguire dello sconfinamento privato e dalla solidarietà tra gli uomini. Tuttavia tutte le proprietà si aprono alla visita dei savi alle acque. I proprietari qualche volta parlamentano o producono un'antica grazia, ma alla fine si sottomettono sempre. I magistrati della Repubblica aumentano le ispezioni sul posto, dopo le trasformazioni amministrative della fine del XV secolo. Infliggono ammende e registrano ufficialmente la conquista di nuovi terreni. Se le grandi inchieste del 1485 e del 1502 mettono in evidenza la realtà sempre irriducibile del prosciugamento abusivo, esse sottolineano tuttavia soltanto in seconda istanza la rafforzata capacità del controllo ufficiale, il vigore della sua presa sullo spazio e la comune accettazione delle costrizioni da questo imposte.
Dobbiamo dunque rilevare numerosi fenomeni.
Nel XV secolo l'espansione riparte, la città cresce e l'urbanizzazione tocca gradatamente gli ultimi confini lagunari. La città si trasforma seguendo la dinamica della conquista dei suoli, ma il dinamismo urbano si traduce anche in altri modi. Nelle parrocchie periferiche, i movimenti accentuati del mercato immobiliare mettono in evidenza il progresso dell'urbanizzazione, le operazioni di lottizzazione e le trasformazioni rapide. Nelle parrocchie centrali i continui lavori ci fanno vedere con chiarezza le trasformazioni materiali della casa e soprattutto il peso della densità. Però, i due programmi di bonifica di S. Andrea della Zirada e di S. Antonio, nonché i rapporti delle ispezioni dei savi alle acque, mostrano come alla fine del XV secolo l'era della conquista dello spazio sia in gran parte terminata. L'urbanizzazione progredisce ancora alle frontiere con la laguna, ai margini della Giudecca o ai confini di Cannaregio.
Tuttavia è ormai arrivata alla fine l'opera di colonizzazione e di espansione che, durante i secoli precedenti, aveva caratterizzato la storia di Venezia con le sue accelerazioni e le sue brusche cesure. In seguito saranno ancora realizzate operazioni di sistemazione e di stabilizzazione, ma la lotta per colonizzare lo spazio cessa di essere centrale. L'età della crescita è finita.
La seconda constatazione relativa al XV secolo è che durante il suo corso aumenta il controllo pubblico su questo spazio in trasformazione. L'istanza pubblica regola i molteplici confini di vicinato e la riforma amministrativa della fine del XV secolo impone un controllo più stretto dei prosciugamenti. La bonifica diretta non sfugge più tra gli interstizi del controllo pubblico.
Soprattutto, terza e ultima osservazione, gli ultimi grandi lavori estensivi cambiano di natura. Organizzati e diretti dal potere politico sono ormai affidati a imprese di lavori pubblici, mentre sino allora l'espansione era stata largamente comunitaria. Dopo la metà del XIII secolo le grazie del maggior consiglio ritmavano prosciugamenti se non collettivi, quanto meno concertati. Di fronte alle difficoltà ambientali era infatti forte la solidarietà. Anche se le bonifiche abusive di singoli, condannati dai savi alle acque, provano che resistono ancora i cantieri privati e gli accordi tra vicini, tuttavia non è per questo meno determinante la rottura costituita dalle imprese di S. Andrea della Zirada e di S. Antonio nella storia dell'espansione urbana e in quella più generale delle relazioni tra la comunità e la terra.
È un profilo cronologico generale, che ricalca assai strettamente la periodizzazione della storia demografica ed economica di Venezia, che disegna la curva dei prosciugamenti. Tutta la storia delle sistemazioni urbane è sottomessa a queste stesse scansioni, a queste stesse tendenze generali.
Dopo una pausa durata più di mezzo secolo, se si eccettuano alcune operazioni locali ed isolate, i cantieri pubblici riprendono e poi si sviluppano rapidamente nella seconda metà del XV secolo. Un nuovo sforzo di gestire l'organismo urbano si formalizza. Non di meno, quando i lavori riprendono, sembrano proseguire e terminare un'opera già avviata. Le maggiori trasformazioni urbane sembrano infatti frutto della prima fase attiva della politica urbanistica medievale, messa in atto durante il Duecento e i primi anni del Trecento. La continuità è quindi più forte dell'originalità? In questo paragrafo vedremo di volta in volta i differenti aspetti della politica urbanistica per determinarne gli obiettivi e la portata.
A prendere in considerazione i lavori che toccano il centro urbano e il cuore dello spazio pubblico la continuità sembra prevalere sulle innovazioni. Gli interventi cronologicamente dispersi e spesso limitati localmente sottolineano soltanto le trasformazioni già realizzate.
A Rialto i primi lavori sono attestati solamente negli ultimissimi anni del XIV secolo. Anche se diverse zone del mercato reclamano urgentemente interventi, l'attività di restauro o di rifacimento riguarda soltanto il cuore del commercio, il centro degli affari: campo S. Giacomo. L'intervento è tutto volto allora alla dimensione estetica ormai determinante nelle sistemazioni pubbliche. A chi vede S. Giacomo e a chi vede Rialto tutta la città deve sembrare una realizzazione ammirevole in accordo con la bellezza e l'armonia dell'universo.
L'evoluzione di Rialto subisce con forza le costrizioni di questa topografia prestigiosa. Nel 1424 il senato incarica Scipione Bon di rifare la loggia. Da tempo in abbandono e divenuta rifugio, malgrado i divieti, di giocatori e vagabondi, dopo la ricostruzione essa può riprendere le sue funzioni (123): favorire le riunioni dei nobili e dei mercanti, permettere l'attracco d'imbarcazioni private, abbellire la città e specificamente l'area di Rialto. L'assemblea decide nel 1459 di costruire una nuova loggia (124). Il piano iniziale prevede la demolizione sul lato occidentale delle botteghe delle tolle. Presto modificato e reso più ardito, il progetto porta al trasferimento della Pescaria a Rialto nuovo, a fianco della Beccaria, nonché la demolizione e la ridistribuzione nel mercato di altri banchi e botteghe (125).
Gli ultimi decenni del XV secolo non sono propizi a Venezia né finanziariamente, né politicamente. La costruzione dopo l'incendio del 1482 del "Palatium novum" concentra tutte le disponibilità a S. Marco. I registri dei provveditori al sale, responsabili del finanziamento dei lavori pubblici, testimoniano l'attività di questo cantiere alla fine del secolo (126). Il fatto che tale operazione manchi così nettamente di fiato dipende tuttavia anche da altre cause. Nel 1488 abbiamo una sola decisione importante a beneficio e per la comodità dei "gentiluomini", ossia la costruzione di una nuova loggia in prossimità della "Pescaria nuova" (127).
Nell'ultimo terzo del XV secolo molteplici atti tentano di salvaguardare a Rialto la libertà di accesso alle rive, prima condannando e poi concedendo, vista la patente inutilità della repressione, alcune libertà subito giudicate abusive. I numerosissimi regolamenti prendono in considerazione tutte le rive dell'isola (128), ma delimitano e riservano con più precisione alcune loro sezioni. Queste misure in apparenza riprendono gli sforzi precedenti. Per esempio, quando si cerca di allontanare i rivenditori dai portici di Rialto o d'interdire l'approdo alla riva della Pescaria vecchia e della loggia nuova, il regolamento è simile a quelli promulgati dal XIII secolo in poi (129). La vendita dei meloni nel circuito della loggia e del ponte è così permessa agli abitanti del ducato, ma poi, qualche anno più tardi, è di nuovo proibita a causa degli abusi (130). Questi interventi, contraddistinti dall'alternarsi di rigore e di clemenza, non sembrano quindi essere differenti da quelli precedenti. La specializzazione dei luoghi di vendita spiega le restrizioni al commercio al dettaglio. La viabilità e la comodità portano a regolamentare la bancarella rudimentale e l'invasione di gabbie e canestri (131). Tuttavia l'operazione va oltre le preoccupazioni che regolano l'esistenza di qualsiasi mercato cittadino. Dal momento in cui i portici e le logge sono teoricamente vietati alla maggioranza e gli imbarcaderi si specializzano e non sono più aperti a tutti (132), lo spazio pubblico non si confonde più con l'uso collettivo.
Non dobbiamo sopravvalutare tendenze che iniziano ad apparire, né dimenticare che la divisione spaziale presto desiderata dal piccolo e dal grande commercio conteneva in nuce una tale evoluzione, tuttavia è chiaro che s'instaurano limiti che segmentano lo spazio (133). Infrazioni e difficoltà di applicazione riducono, però, la rigidità del quadro. Queste disposizioni restrittive appaiono assai severe nei documenti pubblici, ma sono assai più morbide nella tolleranza della pratica e nella confusione di uomini, mercanzie e imbarcazioni. Tuttavia esse distinguono ormai aree destinate all'attività di pochi. Sono così ricostituite limitazioni e frontiere.
Quando il denaro inizia a scarseggiare, il senato propone di vendere all'asta la ruga dei Milanesi e le proprietà sulla riva destra, ad eccezione del fondaco dei Tedeschi (134). Il mese successivo questa misura è abbandonata, ma nel 1450 è effettuata la liquidazione di alcune botteghe a S. Bartolomeo (135). Per quanto toccata soltanto nei suoi annessi, la proprietà pubblica diminuisce. Il ponte di Rialto, "devastato" e "in rovina", subisce durante il XV secolo rifacimenti molto parziali (136). Le difficoltà del momento e il prezzo della politica continentale non spiegano tutto questo. L'unità funzionale dello spazio pubblico sembra diminuire durante la seconda metà del XV secolo.
Nel frattempo la morfologia di piazza S. Marco resta immutata. Un solo grande cantiere coinvolge questo spazio centrale ed è avviato soltanto negli ultimi anni del secolo (137).
Lo studio dei lavori che trasformano il mercato prova, dati i numerosi rifacimenti, l'importanza dell'orologio di Rialto, fissato sul campanile di S. Giacomo. A S. Marco, sino all'ultimo terzo del XIV secolo, suonano soltanto le campane. Un orologio a martello è posto nel 1384 sulla facciata della Basilica (138). Ma sono gli ultimi decenni del secolo successivo a modificare il rapporto sino allora a favore di Rialto. Quando si decide di costruire una torre dell'orologio, si separa la coppia tradizionale formata dall'orologio comunale e dal campanile. Per costruire questo monumento autonomo è scelta piazza S. Marco e i procuratori di S. Marco forniscono il posto "sopra la bocha de marzaria" (139).
La committenza dell'orologio, destinata a sostituire quella della Basilica, era stata passata nel 1493 a mastro Gian Paolo Rainieri di Reggio Emilia (140). Nel novembre 1495, quando l'opera è già avanzata, il senato vota a favore dei lavori (141). Il cantiere è aperto il 10 giugno seguente e i lavori durano quasi quattro anni. "E stà da' principio sto mese de Zugno a far le fondamenta del Relogio in piazza di S. Marco sora la Marzaria" (142). "E costerà attorno 6.000 ducati" (143). Nello stesso mese del 1496 il doge Agostino Barbarigo ordina a tutti i rettori di terre veneziane di far passare il mastro che viaggia da Reggio a Venezia con l'orologio e tutto quello che è necessario (144). Nel febbraio 1500 un rendiconto sintetico rivela l'ammontare delle spese. Sono stati pagati 783 ducati per la campana, 323 per i giganti senza calcolare il costo del bronzo, 388 per l'alloggiamento dell'orologio e del rame, 307 per gli ornamenti della facciata della Vergine, 151 per quelli della facciata di S. Marco, 67 per i tre Magi e l'angelo della sommità, 27 per gli astrolabi e 121 per dorare la torre (145). Quest'ultima allora è già stata inaugurata in occasione del rituale delle Marie e della processione dogale verso S. Maria Formosa.
Nel novembre del 1500 i conti, tenuti con estrema precisione, sono presentati al senato, come stabilito cinque anni prima (146). L'insieme della decorazione, descritto in maniera lacunosa dai primi conti, è illustrato minuziosamente. Esso è organizzato verticalmente attorno all'orologio e ai due motivi della Vergine e di S. Marco. Il leone alato riprende il simbolo ripetuto senza posa dello stato. La Vergine con il bambino in trono riceve l'omaggio dei Magi: "E per la facciata della Vergine [...> e le stelle e i fregi e i quadri di rame [...> e la doratura [...> e i quattro angeli [...> e il vestito della Madonna [...>" (147).
Questo motivo ricorda l'antica decorazione del campanile di S. Marco, se ci si riferisce, anche cursoriamente, alla storia delle rappresentazioni figurative e simboliche nell'area della chiesa. Una sentenza della quarantia criminale, oggi perduta, ma trascritta da Marino Sanuto, riguarda infatti un caso d'iconoclastia del 1359 (148). I volti della Vergine e del Cristo, dipinti sul campanile, sono stati lacerati a colpi di coltello. La torre dell'orologio è sotto questo stesso doppio patronato del santo tutelare, che il campanile evocava con la sua sola presenza ("campanilis nostri beati Marci protectoris nostri"), e della "mater" protettrice. Ma l'ornamentazione glorifica, a fianco dei temi ripetuti della fede dei Veneziani, le conoscenze scientifiche del tempo e la loro riuscita, dando soprattutto spazio all'astronomia. "Item per l'ornamento dell'orologio messo nella torre con le sue colonne, le sue cornici e i suoi fregi". "Item per far dorare i dodici segni zodiacali e i pianeti e le stelle e l'alloggiamento dell'orologio" (149). "E verso la piazza, i dodici segni celesti e i sette pianeti e le stelle e i quattro astrolabi [...> e il movimento dei sette pianeti" (150).
Nel 1500 il senato decide di terminare l'operazione monumentale affiancando ai due lati della torre un corpo di fabbrica. Nel 1506 sono finiti anche questi interventi di sistemazione. Quando Zuan Carlo da Rezo aveva presentato nel 1500 la sua fattura, questa raggiungeva i 1.728 ducati "per la manifattura dell'orologio e le sue forniture" (151). Invece di pagare la signoria concede in beneficio all'inventore e ai suoi discendenti due cariche di "fontegarius", tra le prime che si sarebbero liberate nel fondaco della farina a Rialto. La prima salda il debito della città, l'altra deve pagare l'opera di manutenzione dell'orologio affidata a Zuan e ai suoi figli. Il contratto è rotto nel 1531, perché nessun membro della famiglia è ormai "intelligente de tal artificio". L'orologio è in cattive condizioni. La signoria sceglie dunque un governatore e i procuratori di S. Marco forniscono i materiali necessari per il primo rifacimento (152). Ma otto anni più tardi un figlio di Zuan si presenta e fa valere i propri diritti. Questi sono riconosciuti e viene allontanato Raffaele Penzin, il veneziano che era stato incaricato della manutenzione dell'orologio (153).
I testi del senato o dei procuratori di S. Marco non formulano deliberatamente le ragioni della localizzazione "sopra la bocha di marzaria". Comunque la torre, situata a piombo sull'asse principale di collegamento via terra con Rialto, segnala fin dalla laguna il passaggio nelle Mercerie. Questo punto di reperimento così visibile, carico d'oro e di smalti, contribuisce alla definizione sempre più netta dell'area di S. Marco. Le trasformazioni della seconda metà del XVI secolo realizzeranno con le Procuratie nuove un progetto di allineamento e continuità con questa costruzione (154). Ma questa operazione si inserirà in un programma più ampio e più carico di significato che modificherà la morfologia della Piazza, la quale era rimasta praticamente immutata dopo le trasformazioni volute dal doge Sebastiano Ziani.
Quando la torre è terminata, essa contrassegna soprattutto una soglia, poiché è eretta all'inizio del percorso delle Mercerie che traversa la città e porta a Rialto. La sovranità dello spazio di S. Marco rinvia ancora alla presenza, suggerita, del secondo centro della città e ai legami che uniscono i due poli e innervano Venezia. Così la costruzione della torre dell'orologio traduce una tendenza generale, determinante negli ultimi secoli del Medioevo. La città si era organizzata attorno ai due centri e ora essa è ancora strutturata attorno a quei due spazi pubblici. La divisione delle funzioni tra Rialto e S. Marco si rivela, però, meno semplice di quanto possa sembrare. Venezia non si limita a distinguere fra funzioni economiche e politiche e ad assegnarle a un centro o a un altro. Rialto infatti partecipa anche all'affermazione della potenza pubblica e alla formazione dell'immagine urbana. Queste realtà incontestabili non impediscono tuttavia che l'irradiamento di S. Marco si accentui durante il XV secolo. A questo proposito sono molteplici i segni sul piano della storia politica, religiosa, culturale, simbolica. Il cantiere della torre dell'orologio ne costituisce un'evidente illustrazione nella pietra e nello spazio. La dimensione estetica si avvera, d'altra parte, determinante ancora una volta in queste trasformazioni.
Una decisione degli inizi del XVI secolo, in apparenza aneddotica, mostra bene l'evoluzione che una tale sovradeterminazione contiene in nuce. Il senato ordina la demolizione sulla Piazzetta delle installazioni dei tagliapietre e lo sgombero dei rifiuti ivi accumulatisi (155). Sulla Piazza un fragile equilibrio è stato raggiunto. Spazio del potere, nonché spazio emblematico della città, S. Marco è anche associata al porto, ai traffici e alle attività economiche locali. La Piazza resta un luogo di mercato e un luogo di incontri, integrato negli itinerari quotidiani. Le mutazioni che iniziano tendono a rimettere in causa questa ricchezza funzionale e a minacciarla a vantaggio del solo discorso politico e dell'assimilazione nella città di un luogo idealmente bello come S. Marco.
Terzo spazio da esaminare, nella zona civica del porto gli interventi riprendono a partire dal 1460, dopo un'interruzione molto lunga. La costruzione della dogana di mare a S. Trinità, agli inizi del XV secolo, dopo quella della dogana di terra a Rialto, e la conseguente demolizione della vecchia dogana a S. Biagio (156), confermano l'evoluzione del XIV secolo che aveva visto il quartiere del porto occupare tutto il bacino di S. Marco. La misura regolamentava l'ormeggio dei battelli e lo sbarco delle mercanzie. Essa riequilibrava l'attività sui due lati del bacino di S. Marco, mentre Rialto chiudeva l'entrata fluviale e continentale della città. Le capacità di stoccaggio di S. Trinità sono ancora aumentate nel 1463. Infatti si decide di comprare dai monaci del monastero vicino il terreno limitrofo ai magazzini della dogana e di sostituire con i nuovi depositi del sale il cantiere navale e il forno che l'occupavano (157). L'assegnazione prevede la costruzione di quattro magazzini "sul Canal Grande verso la Giudecca". Essa precisa le dimensioni della banchina che li serve, le dimensioni delle pietre dei muri esterni, la pavimentazione del cortile interno, la sistemazione di un pozzo (158).
In questi anni, nei quali la potenza turca rovescia il tradizionale equilibrio del Mediterraneo, un'intensa attività riguarda l'Arsenale. Nella seconda metà del XV secolo si moltiplicano le riparazioni. Le ricostruzioni parziali e la copertura delle vecchie cale sottolineano il ruolo del cantiere navale (159) e ne preparano l'ingrandimento, realizzato a spese della laguna dopo il 1473 con la creazione dell'Arsenale nuovissimo (160). Grazie a questo terzo ciclo di colmate e bonifiche l'Arsenale raggiunge la laguna a nord e ad est e si sviluppa, secondo le descrizioni dei viaggiatori, come una città nella città. Esso accentua così la propria influenza su tutta la regione orientale e anima un vero e proprio quartiere.
La storia dell'Arsenale segue ritmi specifici, poiché è legata alla supremazia economica e militare del cantiere e alle necessità della flotta. La cronologia del terzo ingrandimento si inserisce nelle modifiche urbane della fine del XV secolo. E la costruzione dell'imponente "porta magna" (161) del cantiere traduce ancora il trionfo del ruolo simbolico dello spazio pubblico e la sua importanza nell'immagine urbana, precedentemente affermata da S. Marco e Rialto.
Ma al di fuori dell'Arsenale i cantieri rallentano e le prime infrastrutture rimangono al loro posto.
Analogamente i lavori relativi alla rete delle comunicazioni si comprendono dapprima come proseguimento di un'opera ancora da terminare.
Le ultime maglie dei grandi itinerari via terra sono fissate. A S. Maurizio, per esempio, la demolizione di una casa facilita l'apertura di una "via magis destra et comoda" (162), parzialmente aperta alcuni decenni prima. A S. Maria Mater Domini la comunità ottiene il permesso di sistemare una "via pubblica" e di erigere un ponte per accedere a S. Cassiano (163). Il principio del "getum", del contributo finanziario dei proprietari (164), rimane costante. La città non partecipa sempre al finanziamento dei lavori, ma soltanto quando l'interesse collettivo la obbliga direttamente (165). Unica innovazione, di fronte alle difficoltà di riscossione che paiono essere state costanti a leggere la legislazione, è che il senato ordina di tenere nuovi libri contabili. Il segretario dei capisestieri deve dal 1444 sostituire l'antico "ruodolo", fragile e mal tenuto, con un libro più adatto alla riscossione dei crediti (166).
Rimodernamenti, ampliamenti e lavori di più grande respiro riguardano allo stesso modo l'insieme dei moli. Ma le grandi strade via terra sono state tracciate prima. L'equilibrio tra i due sistemi di comunicazione - via terra e via acqua - è già stato rovesciato. Il XV secolo eredita un'apertura degli assi urbani già realizzata per l'essenziale. Le nuove sistemazioni riguardano in questi anni le aree urbanizzate tardivamente. Esse aggiungono qualche sezione alla rete delle comunicazioni via terra e incontrano minori difficoltà dei cantieri che avevano aperto i primi assi nel secolo precedente o alla fine del Duecento.
Dalla metà del XIV secolo l'aumento dei ponti mostra come nel paesaggio e negli itinerari urbani il sistema delle comunicazioni via terra si sia sovrapposto alla primitiva rete via acqua. Sino alla cesura del decennio 1340-1350 il movimento delle costruzioni era estremamente vivo. Nel XV secolo gli investimenti finanziano massicciamente queste infrastrutture, ma si tratta quasi sempre di ricostruzioni. La manutenzione sino allora aleatoria cambia di registro. I ponti, fragili, rudimentali e talvolta provvisori, segnano ora il paesaggio veneziano con un vigore accresciuto grazie all'uso generalizzato della pietra.
Il "reficere de lapidibus" fortifica in questo modo l'armatura di collegamenti che il secolo precedente ha definito. Questi lavori segnano la sua riuscita e rendono perenni le pratiche instaurate poco a poco. Dopo il 1400 le concessioni descrivono il tipo di materiale impiegato (167) e la sostituzione, permessa dal comune, del legno con la pietra. Ad esempio, i parrocchiani di S. Fantino sollecitano nel 1430 l'accordo del maggior consiglio per ricostruire in pietra (168); mentre i frati del convento domenicano e i confratelli della Scuola di S. Marco si uniscono nel 1446 agli altri "vicini" nel chiedere di effettuare lo stesso lavoro per il ponte principale del rio dei SS. Giovanni e Paolo (169). La contrada di S. Maria Mater Domini, appoggiata da tutto il sestiere di S. Croce, aveva ottenuto nel 1438 di aprire un collegamento con S. Cassiano. A questo scopo aveva acquistato un terreno dall'altro lato del rio di confine. Il ponte era stato costruito con un pilone sul campo di S. Maria Mater Domini e l'altro sul terreno comprato a S. Cassiano. Diciotto anni dopo gli stessi parrocchiani finanziano la ricostruzione in pietra (170).
In seguito i permessi formano una vera e propria serie. Nel 1469 è riedificato il ponte di Ca' Bernardo a S. Stin (171). L'anno successivo la stessa contrada finanzia i lavori del ponte che la collega a S. Boldo (172). Nel 1469 è ricostruito il piccolo ponte di S. Cassiano (173). Nel 1475 si apre un cantiere sul rio S. Geremia, verso S. Giobbe (174). Nel 1476 sono edificati i ponti delle Beccarie e di S. Maria dell'Orto (175) e nel 1483 quelli tra S. Pantaleone e S. Margherita, nonché quelli della chiesa di S. Gregorio, di S. Marcuola e della Bissa (176). Nel 1484 è costruito il ponte dei SS. Pietro e Paolo sul rio S. Daniele (177).
I proprietari privati sostengono con analogo ardore spese probabilmente considerevoli. Giovanni Moro erige sul rio di S. Giovanni Laterano un'opera in pietra, sul modello di quelle edificate per le Ca' Contarini e Morosini (178). Dopo che Giovanni Soranzo ha costruito una passerella in mattoni sul piccolo rio vicino a campo S. Polo, il suo vicino Jacopo Morosini ne fa costruire una identica (179). A S. Canciano Giovanni Bono presenta una domanda di grazia "viso eo quod alys super ipso rivolo concessum est" (180). L'emulazione spiega l'allineamento di archi di pietra su questo braccio d'acqua. Agli inizi del XIV secolo, quando la strada e la fondamenta acquistano un'importanza crescente, i ponti offrivano un'entrata via terra più comoda e più rapida dell'accesso tradizionale, ormai secondario e relegato sul dietro della casa, dipendente da un intrico di stradine e spesso bloccato dall'opposizione di diritti e servitù di passaggio. La facciata principale, ormai accessibile per terra e per acqua, accentuava la sua importanza. Secondo gli stessi termini della richiesta la ricostruzione in pietra conferisce adesso una nuova dignità all'entrata maggiore (181).
Ancora di più di quanto avveniva per le costruzioni in legno il permesso ufficiale impone regole tecniche. La navigazione obbliga a edificare archivolti (182). A seconda delle dimensioni della struttura e dell'importanza del rio alcuni modelli sono di frequente imitati (183). È invocata la riduzione delle spese, asserendo che il legno obbligava a una manutenzione regolare (184). L'ornamento (185) trionfa assieme alla comodità generale (186). Naturalmente non tutti i ponti conoscono tali miglioramenti. Nel 1445 sul canale di Cannaregio è costruito un ponte di legno per facilitare l'accesso a S. Giobbe (187). Nel 1461 esso viene soltanto consolidato (188). Analogamente non tutti i privati sono d'accordo con la ricostruzione in pietra. Tuttavia questo fenomeno è molto diffuso, innerva l'ondata di costruzioni, massiccia agli inizi del secolo precedente, e gli dà un significato più completo. Tutta la città in cerca di armonia e bellezza modella una nuova decorazione. La ricostruzione dei ponti entra in questo processo generale e lavora per l'abbellimento, l'ornamento e l'onore che l'idea urbana reclama. La dimensione estetica si rivela ancora una volta centrale.
Per quanto siano persino numerosi in alcuni settori, i cantieri non modificano la struttura delle comunicazioni. Essi la completano e la migliorano. È alla sua maturazione che essi contribuiscono.
In questa sfera della vita pubblica prenderemo in considerazione soltanto alcuni temi significativi, che possono contribuire a definire come evolva la gestione dello spazio nella città del XV secolo. È questo il caso della distribuzione dell'acqua.
La politica comunale precedente il decennio 1340-1350 si era tradotta, in materia di approvvigionamento idrico, in un reale sforzo di costruzione delle infrastrutture. La costruzione di pozzi pubblici rispondeva alle necessità crescenti dei cittadini e assieme rafforzava la capacità del sistema collettivo di distribuzione dell'acqua, a complemento del fitto sistema dei pozzi privati. Bisogna attendere i primi decenni del XV secolo perché una politica analoga sia ripresa.
Nel 1423 si constata la mancanza di pozzi e sono previste riparazioni e nuove costruzioni (189). Un pozzo supplementare ad uso dei poveri è aperto a piazza S. Marco (190). La costruzione di cinque grandi pozzi è decisa nel 1446. Al contempo è prevista la manutenzione di quelli costruiti in precedenza (191). La signoria è incaricata nel 1464 dell'esame delle costruzioni necessarie. Essa ordina subito un lavoro sistematico di rialzamento delle bocche per diminuire i danni dell'acqua alta (192). Una seconda ondata di riparazioni comincia nel 1466 (193). L'anno successivo il senato accetta la proposta di Biagio Francisci di creare quattro nuovi pozzi al costo di 50 ducati l'uno (194). Tuttavia questo progetto non è realizzato, anche se non conosciamo i motivi economici o tecnici di tale rinuncia. Alcuni mesi più tardi la stessa assemblea ordina ai patroni dell'Arsenale di scavare un pozzo "bello e grande", vicino al cantiere di stato, per l'utilità di quel quartiere popolare (195). Nel 1479 un mastro ingegnere offre alla città i suoi servizi, promettendo di "costruire e fabbricare" cisterne per soli 50 ducati: prova di concorrenza ed emulazione tecnica in questa seconda metà del secolo, come attestano anche altre fonti (196).
Dopo il 1464 archivi distinti raggruppano la contabilità dei pozzi. Un segretario riceve nel 1471 la missione di analizzare e rilevare gli errori e le frodi, nonché di perseguire i debitori (197). La questione del finanziamento è ormai divenuta centrale e il maggior consiglio delega la competenza sui pozzi ai provveditori del comune, visto il disordine nella contabilità (198). Tale trasferimento di competenze chiude una lunga evoluzione amministrativa, modifica la gerarchia delle magistrature urbane e consacra, grazie all'importanza dell'incarico, il peso ormai rilevante di questo corpo di ufficiali.
Ognuna delle delibere che ricapitolano gli obblighi della pulizia aggiunge i "gatoli" dei pozzi alle strade frequentate e ai campi (199). Gli atti pubblici ripetono per più decenni le stesse osservazioni. Il numero insufficiente dei pozzi, l'ineguaglianza sociale della distribuzione dell'acqua e l'impurità delle cisterne, accusate con maggior vigore quando la peste devasta la città, caratterizzano la situazione secondo le autorità. Venezia pena a garantire la distribuzione idrica (200). Per quanto siano numerose le decisioni prese durante la seconda metà del XV secolo, il potere pubblico si imbatte in difficoltà che si ripresentano incessantemente. Esso descrive con lucidità i limiti della sua politica: "La nostra città, che è superiore a tutte le altre, soffre spesso della mancanza di acqua, soprattutto l'estate, di modo che i poveri subiscono grandi danni" (201). Il sito impone infatti le sue costrizioni. Così, malgrado la diffusione delle "gorne" per alimentare i pozzi, la siccità può svuotare le riserve. Oltre che alla manutenzione dei pozzi domestici, i privati pensano qualche volta a migliorare l'infrastruttura pubblica della loro contrada con un lascito (202). Tuttavia queste rare liberalità sgravano poco l'investimento pubblico che resta insufficiente.
La fonte fluviale rappresenta dunque una parte crescente del rifornimento. Questo tipo di approvvigionamento antico e ben conosciuto prende una nuova dimensione a partire dal 1425 (203). A questa data è ormai definitivamente proibito andare a prendere acqua nel Bottenigo e il rifornimento idrico proviene dal Brenta. I tentativi di preservare la laguna avevano infatti portato alla fine del XIV secolo a costruire una diga continua dal Bottenigo a S. Marco di Bocca Lama. Il Brenta era stato deviato sino alla bocca di Volpadego per fermare l'alluvionamento che progrediva dall'imboccatura di Lizzafusina in direzione di S. Marta (204). Dal 1391 una canalizzazione permetteva, sotto la diga di Lizza, il rifornimento diretto delle barche venute a prendere l'acqua in cambio del pagamento di una tassa (205). L'acqua così presa era poi venduta al secchio in Venezia o acquistata a carichi interi dalla signoria per alimentare i pozzi in secca durante la siccità (206). In questa preoccupazione per il "populus noster Venetiarum" e in questo interesse dichiarato per le "pauperes persone", la "povera zente" (207), si manifestano le crisi ricorrenti dell'alimentazione idrica. I tentativi di buon governo si scontrano con le difficoltà del sito. Il Brenta aumenta le risorse e garantisce la qualità dell'acqua, ma il trasporto e la tassa delle "gorne" a Lizzafusina proibiscono la gratuità, salvo intervento pubblico.
L'appello alle risorse idrografiche si organizza meglio quando la padronanza tecnica e la lenta dominazione della Terraferma e dei suoi fiumi autorizzano un controllo accresciuto del bacino lagunare. La combinazione di questi due elementi spiega il progetto d'acquedotto concepito nel 1448. Il senato incarica del lavoro preparatorio una commissione straordinaria composta da tre membri: essi devono esaminare il trasporto "per conductum" dell'acqua del Brenta fino a S. Andrea della Zirada (208). Le necessità della città spingono l'assemblea a riprendere nel 1463 questo primo progetto rimasto inattuato (209). La gara d'appalto prevede una canalizzazione dal Brenta a S. Marta e 24 mesi di lavori. Al vincitore doveva andare la possibilità di esigere un diritto di 6 soldi per ogni burchio e di 2 soldi per ogni barca che si sarebbe rifornita allo sbocco della conduttura. La promessa di tale entrata garantiva un solido profitto, tuttavia l'appalto va a vuoto, non si sa se per mancanza di offerenti o per oggettiva difficoltà tecnica dell'impresa. Nel 1490 il senato presenta una terza volta il contratto per un acquedotto e non specifica nulla, nel testo pervenutoci, a proposito del lavoro e dei tempi di esecuzione (210). Nel secolo successivo sono privilegiate le operazioni sulle foci fluviali e non si concretizza il progetto di un acquedotto: aumenta quindi ulteriormente l'importanza dell'approvvigionamento fluviale.
Che conclusioni trarre da questa sequenza storica? Le modalità del rifornimento idrico interessano in primo luogo l'evoluzione della morfologia di Venezia, poiché la localizzazione delle diverse cisterne traduce i cambiamenti di una società. I pozzi pubblici, anche se non soppiantano quelli privati, partecipano infatti alla nuova organizzazione del tessuto urbano assieme ad altri elementi morfologici, quali i ponti o le strade. Queste strutture collettive orientano lo spazio e i suoi usi. E il XV secolo si limita in questo campo a proseguire gli sforzi della prima metà del XIV. Tuttavia, con più originalità, le autorità progettano l'insieme dello spazio dalla città ai margini della Terraferma. La conquista continentale permette, è evidente, l'elaborazione di nuove risposte al problema del rifornimento idrico. I Veneziani possono infine intervenire sui fiumi a monte della laguna. La gestione non si distingue certamente per arditezza eccessiva e per grandi lavori. Numerosi progetti non si concretizzano. La distribuzione dell'acqua non è radicalmente mutata.
Tuttavia un nuovo "sguardo" è gettato sullo spazio e una gestione più globale dei problemi è elaborata. In questo campo, come in altri settori della politica urbanistica, la città e il suo spazio sono ormai concepiti come un insieme, che deve essere amministrato in quanto tale.
Il secondo esempio che viene studiato è quello della gestione urbana e ritroviamo qui una cronologia già ben identificata. Il XV secolo è contrassegnato da una ripresa della produzione normativa, che nel corso del secolo diviene progressivamente più copiosa. È di nuovo attestata l'attività sul terreno dei magistrati incaricati dell'amministrazione urbana. Le licenze di costruire tentano quindi d'inquadrare le modifiche che i numerosi cantieri apportano alle case. È di nuovo richiesto ai vari corpi di ufficiali di far applicare le decisioni che prevedono lo sgombero di ogni ostacolo dalle strade, che condannano l'evacuazione diretta delle acque sporche nei canali e che reclamano che le canalizzazioni siano sotterranee. Tuttavia le assemblee si limitano a rimettere in vigore un regolamento antico, lasciato senza esecuzione durante la crisi. Esse, però, attuano anche qualche innovazione: ne è testimonianza il regolamento che assicura la pulizia della città.
Quando nel XV secolo gli atti prevedono che siano regolarmente puliti i campi e gli assi viari principali, tutte le strade frequentate sono ormai visitate da squadre di pulitori e l'incarico della pulizia della città è affidato a imprese specializzate. Il quaderno degli incarichi del 1483 precisa così gli obblighi di coloro che avevano ottenuto tale appalto. Ogni mercoledì la città è pulita e le chiatte sono caricate di fango e detriti. Il venerdì o il sabato sono svuotate le casse installate in ogni sestiere per raccogliere i rifiuti. Una volta a settimana i capisestieri sorvegliano l'esecuzione dell'opera in ogni circoscrizione.
Nella seconda metà del XV secolo il sistema ha raggiunto una reale stabilità. Gli appalti sono affidati per più anni di seguito agli stessi mastri, spesso di origine bergamasca o dalmata (211). È ancora la classe degli imprenditori che prende corpo nelle liste di assegnazione. A S. Andrea della Zirada e S. Antonio, a fianco dei mastri incaricati degli ultimi grandi programmi di bonifica pubblica (ripulitura, prosciugamento, costruzione di infrastrutture pubbliche), appaiono altri imprenditori specializzati nel trasporto di tutti i materiali pesanti. Sono spesso le stesse imprese, di dimensioni senza dubbio variabili e dalla flottiglia più o meno numerosa, che trasportano i materiali di costruzione e demolizione attraverso l'agglomerato urbano e la laguna e che assicurano la raccolta e l'evacuazione dei rifiuti urbani. Nonostante che la legislazione lo proibisca, alcuni di questi imprenditori subappaltano il lavoro ottenuto in un sestiere. Per quanto in modo ancora imperfetto queste pratiche attestano la gerarchia delle imprese. Queste deviazioni sono interessanti per la storia socio-economica di Venezia, ma alterano soltanto di poco l'organizzazione del mercato e la sua spartizione tra alcune imprese.
Le modalità della pulizia della città testimoniano così l'evoluzione generale del sistema di amministrazione urbana. Constatiamo un fenomeno già evidenziato dallo studio dei prosciugamenti. Nel corso del XV secolo Venezia delega sempre più i suoi cantieri. La bonifica, in precedenza assicurata dalla collettività, è ora in parte affidata a imprese specializzate. La pulizia, diretta dalle magistrature urbane, è ora confidata ad altre imprese. Questo nuovo modo di gestire lo spazio rimanda all'evidente evoluzione delle strutture amministrative e mostra anche la rottura della coesione del periodo precedente. Il sistema guadagna senza dubbio in razionalità e forse in efficacia, ma progressivamente si blocca la dinamica della costante creazione urbana fondata sullo sforzo di tutti e sulla partecipazione diretta della cittadinanza.
Alcune grandi linee di evoluzione contraddistinguono la storia urbanistica del XV secolo. Consigli e magistratura ereditano un'opera interrotta dalla crisi demografica. L'espansione urbana riparte. I lavori sulle strade e sui ponti completano una rete di comunicazioni, i cui principali assi sono stati tracciati alla fine del XIII secolo e nei primi decenni del secolo successivo. L'insieme dei regolamenti che stabilivano le norme dell'amministrazione urbana è ripreso e aumentato. La continuità appare certa, ma alcune trasformazioni mutano questa politica urbanistica. La crescita termina e lo slancio delle grandi sistemazioni si smorza. La città è fatta e il modello estetico dei grandi centri deve estendersi a tutto l'agglomerato urbano. Il potere politico delega dunque gli ultimi grandi cantieri ai margini della città affinché l'"estrema periferia" rassomigli al centro. Si affievoliscono le antiche solidarietà, necessarie fintanto che era durata la conquista del suolo urbano, e uno sforzo di razionalizzazione contraddistingue la gestione della città.
I mutamenti delle strutture amministrative si iscrivono in questo processo di rinnovamento.
Dopo le tre tappe che ridefiniscono tra il 1330 e il 1340 le competenze dei giudici del piovego, dei signori di notte e dei capisestieri, a Venezia si perpetua per decenni l'equilibrio amministrativo allora raggiunto. Questa stabilità coincide con i decenni di crisi. Senza collegare meccanicamente questi due fenomeni, constatiamo l'organizzazione graduale di nuove magistrature quando riprende l'attività.
I capisestieri controllano il dominio terrestre nei primi decenni del XV secolo. Il tribunale del piovego gestisce i canali e la laguna, nonché l'amministrazione del dominio pubblico. La riforma nel 1415 della "curia publicorum", annunciata da un preambolo sui salari eccessivi dei giudici e sui pesi intollerabili che gravano sulle finanze della città, non è soltanto un semplice tentativo di ridurre le spese pubbliche. Essa inizia la decadenza amministrativa di questa magistratura.
Nel 1444 i capisestieri dirigono ancora un vasto programma di lavori, ma la loro gestione finanziaria è posta sotto un controllo più stretto (212). È designato un ufficio concorrente per quanto provvisorio - due savi alle strade, ai pozzi e agli altri lavori. Tale ufficio è in funzione nel 1447 ed è confermato l'anno successivo, ma sparisce alla fine di questo secondo mandato (213). A partire dal 1458 il senato ricorre di nuovo all'elezione di questi provveditori straordinari e attribuisce loro la responsabilità dei canali e delle strade (214). I savi provvisori sono in seguito posti, assieme alle due magistrature precedenti che ancora esistono, sotto l'autorità dei provveditori del comune. La tappa è importante e segna una svolta nella storia delle strutture amministrative.
Con i provveditori del comune non viene creato un nuovo ufficio, ma ad essi sono attribuite le competenze di cui sono private le precedenti magistrature medievali (215). I provveditori divengono in pochi anni gli agenti principali della politica urbanistica. La tutela finanziaria sui lavori pubblici, di cui sono dapprima investiti, si trasforma rapidamente in autorità più generale. Il collegio provvisorio responsabile dei cantieri urbani è assorbito dal corpo dei provveditori del comune. Questi tre magistrati sostituiscono nel 1480 i capisestieri nella direzione dei lavori di pubblica utilità su salizzade, moli e pozzi (216). Dopo il 1484 essi assicurano, per l'ornamento e il bisogno della città, la pulizia dei canali e il rifacimento delle fondamenta e dei ponti (217). Agli inizi del 1485 le loro realizzazioni segnano già il paesaggio della città, anche se i tre scudi, contenenti le armi dei tre nobili in carica ogni anno e simbolo della loro azione, si diffondono sotto la campata dei ponti soltanto nei secoli seguenti. La supervisione dei ponti spetta ancora al piovego, ma il processo di concentrazione prosegue: nel 1487 il senato affida ai provveditori del comune le strade e i moli (218). L'anno successivo accorda loro anche la responsabilità dei ponti (219).
Il maggior consiglio deplora nel 1489 la decadenza del tribunale del piovego e i numerosi rifiuti di elezione. Le disposizioni per la manutenzione dei canali, che aggravano la pressione finanziaria, sono affidate nel 1490 e nel 1493 all'applicazione dei provveditori (220). Nel 1494 questi ultimi sono incaricati della pulizia urbana per controllare la profondità dei rii e lottare contro l'interramento (221).
Analogamente, nel corso di un'evoluzione istituzionale più classica - da mandati temporanei a commissioni provvisorie, da delegazioni sui litorali a ispezioni della laguna e degli sbocchi fluviali -, i savi alle acque sono menzionati più di frequente nella seconda metà del XV secolo. Talvolta autonomi, talvolta sottoposti ai provveditori del comune, dopo il 1486 i savi guadagnano il diritto alla stabilità (222), anche se il loro collegio è definitivamente istituito soltanto all'inizio del secolo successivo. Essi assumono le funzioni del piovego. I giudici di quest'ultimo tribunale sono privati del controllo sulla laguna e sui canali e sono accusati di lassismo. Nel 1497 sono annullati tutti i contratti anteriori ed essi devono trasmettere ai savi alle acque i libri contabili della loro gestione, nonché le loro competenze in materia di locazione di acque e di terreni pubblici (223). Questa misura chiude una lunga evoluzione e segna l'incontestabile decadenza di quell'antico ufficio.
I capisestieri sono trasformati in una specie di corpo di polizia e il piovego perde la sua giurisdizione sulle acque e sui prosciugamenti (224). Queste trasformazioni della seconda metà del XV secolo sono realizzate nell'ambito di una riorganizzazione amministrativa più ampia che svuota di significato o sostituisce le antiche magistrature e ne crea di nuove (225). L'evoluzione del regime politico veneziano si esprime in questa riforma d'insieme. La decadenza delle prime magistrature si osserva assai ampiamente. Sul piano dello spazio i compiti sono ridefiniti negli ultimi decenni del XV secolo: gestire un organismo urbano ampiamente strutturato, conservarlo piuttosto che rovesciarlo, governare un dominio acquatico molto più preoccupante.
È qui che si evidenzia in effetti la maggiore originalità del XV secolo. La relazione con il sito geografico cambia. I problemi dell'ambiente si esasperano, o comunque si afferma che si esasperano. Allora lavori e interventi si moltiplicano e il centro di gravità della gestione urbana si sposta.
In primo luogo un arsenale di regolamenti tenta di preservare con i canali e la laguna un ecosistema fragile.
I primi anni del XV secolo sono contraddistinti, secondo indicazioni convergenti, da una ripresa legislativa. Il controllo delle botteghe dei tintori, tralasciato da più di mezzo secolo, è di nuovo attestato nel 1413. Allontanati dal corpo cittadino, i tintori al sangue e all'indaco sono rigettati nell'"estrema periferia", sul bordo della palude (226). L'applicazione prende corpo a mano a mano che il collegio distribuisce i permessi d'attività. Così la licenza accordata a Facio Tomasini, perché il suo laboratorio è costruito tra il canale di Cannaregio e la laguna (227). Il testo del 1413, come numerosi atti normativi, tende a irrigidire e a fissare trasformazioni già in fase molto avanzata. Il nostro studio mostrerà che Venezia, in un lungo processo, si sforza di respingere verso la periferia le funzioni industriali e i loro effetti nocivi per l'ambiente (228). La decisione presa agli inizi del XV secolo rafforza una deriva geografica già in corso. I risultati sono chiaramente visibili alla fine del secolo sui margini di Cannaregio, tra S. Alvise e S. Girolamo. I laboratori dei tintori sono numerosi in questa periferia.
Sono inoltre condannati i macellai che gettano le carogne "entro i canali del corpo di Veniexia", che scuoiano e smerciano le bestie "in el corpo de Veniexia" (229). La preparazione della carne è ancora autorizzata, al suo ultimo stadio, nelle macellerie di Rialto e di S. Marco. Le carcasse e la carne avariata sono portate alla laguna. La macellazione può essere eseguita soltanto ai confini della Terraferma o lungo il bordo lagunare della Giudecca. In riferimento alla catena di utilizzazione degli stessi prodotti, il senato esilia tre mestieri e il loro inquinamento e respinge ai confini di Venezia i macellai, i conciatori e i pellai della Giudecca, nonché i tintori ai quali è consegnato il sangue "che rende grandissimo fetor e puza" (230).
Alla stessa data riprende la sorveglianza sulla navigazione delle chiatte. Deve essere interrotta ogni circolazione tra le due marangone. Si moltiplicano le precauzioni nei luoghi autorizzati per il deposito dell'immondizia e dei rifiuti. Quando nessun molo stabilizza gli argini, il segno lasciato dalla marea segnala agli ispettori del piovego l'avanzata abituale dell'acqua e permette di identificare le colmate abusive o lo scarico illegale di fango o sabbia (231). Alla fine del XV secolo controlli e pattugliamenti sono reali, come prova il fatto che i soprastanti della magistratura preposta alle acque denunzino con regolarità i patroni delle barche sorpresi a liberarsi di carichi ingombranti (232).
Quando si tratta dello spazio portuale, i consigli riutilizzano rimedi già sperimentati. Nel 1407 il canale di S. Marco in prossimità delle rive, come appare sempre più manifestamente, di giorno in giorno si colma: è dunque ora proibito scaricare tutti i battelli dall'ospizio dei marinai fino a S. Marta (233). Nel 1420 la lotta contro gli intralci allo scorrere delle acque richiede l'intervento del piovego, dei capisestieri e dei signori di notte. Il divieto è proclamato pubblicamente a Rialto, a S. Marco e sugli imbarcaderi dei principali traghetti, dal Canal Grande agli imbarcaderi per la Terraferma (234). A mezzo piede dagli argini tutti i pali condannati devono essere sradicati entro quindici giorni. Inizialmente, nei primi tre decenni del XV secolo, ci si limita a rimettere in vigore la base regolamentare del XIV secolo. La città sembra ancora perseguire soltanto una gestione antica e imperfetta e rendere ai primi tentativi di sorveglianza una forza che avevano perduta. Rapidamente, però, lo sforzo non si disperde più tra molteplici obiettivi. Macellai, tintori e conciatori avevano subito nell'esercizio dei loro mestieri le conseguenze di questo nuovo approccio, ormai globale, alle minacce ambientali. La difesa del porto e le difficoltà della navigazione coordinano la lotta. Venezia allora non si limita più a riprendere disposizioni antiche per tentare di garantire veramente la loro esecuzione. Essa innova e la seconda metà del XV secolo rivela una sicura originalità. Il soprassalto del primo terzo del secolo si prolunga e si trasforma. La gestione dell'acqua diviene il principale obiettivo della politica urbanistica. Le misure si susseguono e, anche se la forza dell'applicazione deve essere moderata, la loro entrata in vigore decisa in pochi anni ha senza alcun dubbio un aspetto spettacolare per i contemporanei.
La ripetizione della proibizione dei pali d'ormeggio apre la sequenza (235). Nel 1457 in quattro mesi devono essere chiusi i cantieri e i depositi di legname da S. Antonio a S. Andrea della Zirada, su tutta la lunghezza complessiva dello sviluppo urbano e lungo il bordo del Canal Grande (236). I pontoni, che, accanto alle fondamenta più frequentate, permettono a numerose barche, spesso clandestine, la vendita del vino e raddoppiano tra terra e acqua la rete degli alberghi, cadono sotto i colpi di questa nuova severità. Sono scacciati dal Canal Grande e permessi soltanto alla periferia (237). La severità si accentua nel 1462. Venezia disegna una nuova mappa delle attività marittime (238). Dal Lido alla Terraferma, dalla laguna ai canali della città, il senato prende in considerazione la globalità dello spazio. In questa visione, che d'ordinanza in decisione diviene più armoniosa e coerente, mano a mano che si scoprono e si collegano le cause dei danni, il dominio veneziano, lagunare e urbano, si impone come unità indivisibile. Così viene proibita la demolizione di navi e galee dall'Arsenale a S. Marta, dal bacino di S. Marco a S. Antonio, sulle due rive del Canale della Giudecca, ed è relegata al Lido. Lo scarico della zavorra deve precedere adesso l'inizio dei lavori, pena la confisca dell'imbarcazione. Le navi, galee "da mercado et sotil", devono caricare la sabbia che le equilibra nel rio dell'Arsenale. Lungo i bordi delle vie d'acqua la recinzione dei laboratori dei tagliapietra è destinata a prevenire qualsiasi incidente. Infine a Venezia, a Murano e alla Giudecca la bonifica abusiva è punita, come già detto, con pene inasprite (239). Quale che sia la reale esecutività di queste norme, lo spazio urbano e lagunare è ordinato e classificato.
Negli atti il destino della città e quello del porto si confondono, giacché a tappe la legislazione diviene sistematica. Il senato vota per esempio la demolizione generalizzata dei pali d'ormeggio e ricorda le norme essenziali della pulizia urbana, del traffico e dell'attracco delle chiatte (240). Alla stessa data ribadisce l'obbligo imperativo della palificazione prima di qualsiasi prosciugamento e denunzia le bonifiche frettolose e la frequenza degli smottamenti (241).
Nel 1480 vecchi e nuovi magistrati ispezionano la città durante la bassa marea.
Essi ordinano di ripulire dalla melma e dai rifiuti gli anfratti degli argini e gli angoli morti dei rii e comandano la demolizione delle condutture delle tintorie che scaricano al di fuori delle paludi (242). La moltiplicazione dei pali di fondazione, delle palizzate, degli sbarramenti, dei pontoni, degli ormeggi e delle costruzioni abusive, nonché la supposta tolleranza del tribunale del piovego, spiegano perché nel 1485 erano già state misurate molte proprietà lungo la laguna. Nella laguna settentrionale, da Malamocco a Tre Porti, e alla periferia della città gli ufficiali registrano, qualche anno dopo, i limiti delle terre prosciugate. Sono costituiti archivi, fonte e riferimento di controlli futuri. Sono trascritte le grazie che autorizzano cavane e pontili (243).
Mentre la pulizia generale è organizzata nelle strade, sestiere per sestiere, nel 1488 sono vuotate le bocche delle condutture e sono liberati con la pala i fondali dei canali, dove sedimentano i depositi (244). Lo stesso giorno il senato limita i tempi per scaricare i trasporti di legname ed esige il rafforzamento degli argini, lungo i quali i tronchi sono stoccati su zattere (245). Il miglioramento dei modi di raccolta di rifiuti deve nel 1493 prevenire la rapidità del depositarsi di melma (246). Un atto dell'anno successivo deplora il ritorno alla situazione anteriore e la proliferazione in un decennio di tutti gli ostacoli denunciati. Con identica costanza esige la loro distruzione immediata (247).
I proclami dei savi alle acque, alla vigilia dell'instaurazione definitiva di questa magistratura, mostrano la fermezza della loro gestione. È più volte proibito lo scarico di macerie e calcinacci, tranne che a S. Andrea della Zirada (248). Alle fondamenta di S. Giovanni in Bragora è vietato disturbare l'attracco al molo (249); tra il ponte della Paglia e quello dell'Arsenale è invece proibito issare, per ripararle, imbarcazioni, anche di taglia modesta, come barche, burchi e "altri navili" (250). È inoltre ordinato lo sgombero del rio di Castello (251), di quello di Noale e del traghetto di S. Felice (252). È infine condannata ogni palificazione senza permesso (253).
La nuova severità di questi regolamenti pare aver successo. Per edificare la sua "domus magna" a S. Samuele Marco Corner aveva fatto erigere una palizzata sul bordo del Canal Grande: le pietre, la sabbia e il legno ivi scaricati restringevano la larghezza della via d'acqua e le denunzie alla signoria si succedettero. Alla fine di maggio 1461 fu votato l'ordine di demolire quest'opera (254) e la demolizione iniziò nel marzo dell'anno successivo (255). Un identico giudizio colpì Bartolomeo Malombra e il cantiere da lui aperto a S. Maurizio (256). Un battello di Jacopo Bembo bruciò nel bacino di S. Marco, alla foce del rio di S. Martino. La signoria dichiarò che, se il relitto non era ripescato in otto giorni, avrebbe assegnato il ripescaggio a spese di Bembo (257). Una nave naufragata fu abbandonata nel Canal Grande e il suo proprietario era assente: i patroni dell'Arsenale assegnarono allora 100 ducati all'ammiraglio del cantiere per far eliminare il relitto (258). La rapidità del recupero doveva infatti prevalere (259). Soltanto la supplica al doge del gastaldo dei pescatori di S. Nicolò impedì l'esecuzione di una sentenza del piovego e la distruzione di tutti i pontoni, sui quali si ammucchiavano le reti e gli altri arnesi da pesca. Ma gli antichi privilegi della comunità e la posizione della contrada di S. Nicolò ai confini della laguna spiegano il favore del doge (260).
L'apertura dei grandi cantieri terrestri e il voto dei testi ordinatori della polizia delle strade contraddistinguono i decenni capitali della storia urbanistica di Venezia tra la fine del XIII secolo e l'inizio del XIV. La fine di quest'ultimo secolo annunzia la ripresa e il secolo successivo dispiega una sostenuta attività in materia di prosciugamenti, infrastrutture e rete stradale. La legislazione precedente rimane tuttavia assai largamente in funzione, arricchita soltanto da qualche nuova disposizione. Sono ordinati alcuni lavori, ma i dettati legislativi, poco eloquenti, non invocano per giustificarli che le necessità evidenti, la degradazione inevitabile dei ponti o dei moli, gli imperativi di un rapido rifacimento a beneficio di tutti.
I ritmi della gestione delle acque gravano soprattutto su questo calendario per sovraccaricarlo nel XV secolo. Nella seconda metà di questo secolo accelera la frequenza delle decisioni e i canali divengono l'oggetto principale delle deliberazioni delle assemblee e dell'intervento delle magistrature.
Queste preoccupazioni, enunciate con forza crescente, pesano su tutta la politica urbanistica. Dopo il 1450 i cantieri sui canali sono aperti a intervalli sempre più brevi. Per i rii sono determinanti gli anni 1457, 1462, 1463, 1474, 1478, 1480, 1487 e 1493. La curva coeva dei cantieri terrestri si organizza con maggiore modestia attorno agli anni 1484, 1485 e 1487. Anche l'area geografica degli interventi si amplia. Sono rare le misure che interessano soltanto una parte del Canal Grande, da Castello a S. Maria di Zobenigo, dal rio di S. Angelo alla riva di Terranova (261). Più spesso esse coinvolgono l'organismo urbano nella sua globalità, da Terranova a S. Croce, da Terranova a S. Chiara, dal ponte dell'Arsenale a S. Chiara, da quest'ultima alla dogana di mare, o da S. Antonio a S. Andrea della Zirada (262). Gli ordini di ripulitura rivoluzionano dunque i confini tradizionali.
Il senato lega esplicitamente il sistema dei rii all'equilibrio lagunare e questa prospettiva non nasce spontaneamente, ma è il frutto di un lungo apprendistato teorico-pratico. Le delibere considerano ormai Venezia e il ducato, la città e le sue appendici, più o meno vicine e integrate in vario grado, della Giudecca e di Murano. E questa visione complessiva rompe con quella precedente che considerava la città come separata dalla laguna (263).
A lungo Venezia ha applicato due distinte modalità d'intervento alle due realtà che formano il suo spazio. Nel XV secolo a poco a poco la relativa indipendenza di questi due campi sparisce. La loro importanza rispettiva allora si modifica.
La terra, minoritaria, precaria e minacciata, era conquistatrice dalla fondazione di Rialto. La città attraverso le tappe cronologiche e socio-politiche dei prosciugamenti riservava alle bonifiche il suo dinamismo e le sue riserve demografiche, le sue capacità finanziarie e, in minor misura, tecniche. Nelle bonifiche si evidenziavano lo slancio dell'energia e la dinamica di una riuscita. La rete delle vie terrestri e l'organizzazione del tessuto urbanistico accompagnavano la marcia di quest'espansione.
Nel XV secolo le priorità si invertono. La sistemazione terrestre è ormai largamente subordinata ai problemi acquatici. La vicinanza alle vie d'acqua veneziane era una volta la migliore localizzazione per ogni attività, ora ci si sforza di evitare tale tendenza. Questo tentativo condiziona la nuova distribuzione, lontano dai centri o sulla laguna, dei laboratori dei tintori, dei depositi di legname e dei cantieri di costruzione e riparazione navale.
I prosciugamenti e le tappe maggiori della costruzione della città erano descritte mediante un vocabolario specifico. Erano invocate l'"utilità" e la "bellezza", l'"ornamentazione" e la "comodità", ripetute da decine di testi. Questi termini potrebbero sembrare soltanto qualificativi banali senza reale significato. Tuttavia essi stabilivano la constatazione di un progresso incessante e fondavano la possibilità di un miglioramento continuo. Il consiglio decideva lavori e rifacimenti "pro honore totius terre", "pro universalis bono totius civitatis et totius populi", "circa l'ornamento de questa città", "pro comodo et benefitio universalis civitatis", "si chome questa cità nostra è ornata de tute cose"... (264). Il futuro di Venezia veniva ordinato secondo le sue promesse. Nonostante gli ostacoli e le difficoltà, soprattutto finanziarie, e malgrado la necessità spesso deplorata di dover riparare e di dover ricominciare di nuovo i lavori, il bilancio di oltre due secoli era positivo. La politica urbanistica veniva spiegata e rivelava i suoi risultati in queste brevi annotazioni, che introducevano i documenti legislativi.
I problemi ambientali fanno vacillare questo ottimismo. L'armonia s'incrina. I lavori pubblici danneggiano il sito. Il traffico del porto, le attività mercantili e le funzioni industriali comportano le stesse conseguenze. La laguna cessa di essere il riparo benefico di una città di rifugiati. Essa non assicura più la ricchezza di una comunità che aveva costruito la sua fortuna sulla propria insularità. Il sito, peculiare e fragile, ma sino ad allora malleabile, si ribella. Uno studio degli atti pubblici illustra bene la nuova natura della relazione con l'ambiente geografico. La frequenza di termini dalle connotazioni fisiche crea progressivamente l'immagine di una città in pericolo, come sospesa sull'orlo della rovina. La città è un corpo minacciato, l'aria si corrompe, i canali si interrano, i litorali sono rosicchiati e la laguna s'insabbia (265).
Tutti i testi che riguardano l'ambiente e ordinano grandi lavori, urgenti e costosi, cominciano con la stessa allarmata ricognizione dei luoghi. Una nuova ordinanza è votata asserendo che un istinto naturale spinge ad allontanare le cause di possibili infezioni dai luoghi nei quali abitano gli uomini e che quindi bisogna considerare il sito della nostra città, fondata tra le paludi (266). "L'acqua non può più coprire il letto del canale e la velma aumenta e guadagna spazio come si vede dalla striscia che si allunga al centro del Canal Grande" (267): la situazione della principale via d'acqua esige dunque una nuova ripulitura. "Come tutti vedono, le lagune si restringono e si riempiono di terra e la città ne subisce un danno grandissimo" (268): questa constatazione prelude a un nuovo intervento lagunare. "Acquitrini e canneti sono venuti e vengono ogni giorno a riempire il fondo delle acque salate di Venezia" (269). "I canali si interrano e la corruzione dell'aria aumenta" (270). "Bisogna far ripulire i canali per la conservazione di questa città" (271). "La nostra città [...> è manifestamente in grande pericolo di rimanere a secco e lo stato del nostro porto va aggravandosi incessantemente e le acque mancano" (272). "Poiché niente è più necessario alla conservazione di questa città che mantenere l'abbondanza di acque, bisogna, per evitare la sua rovina [...>" (273). L'allarme continua sempre.
I cronisti sottolineano che il sito è eccezionale e che vi è un equilibrio instabile tra la terra e le acque. I racconti di viaggio testimoniano che tale sito suscita stupore. Tuttavia questa originalità non provoca da principio alcuna inquietudine. La cronaca di Andrea Dandolo elenca con estrema insistenza diverse calamità che segnano i primi secoli della città: la terra trema, l'acqua sale e gli incendi divampano. Il litorale di Malamocco è parzialmente distrutto nel 1105 per l'azione congiunta dell'acqua e del fuoco, prima che un terremoto faccia crollare le sue rovine (274). Nel 1117 un nuovo terremoto colpisce Venezia. Il dogato di Jacopo Tiepolo vede il ripetersi di una catastrofe analoga (275). Ma a poco a poco nella cronachistica, con il progredire della storia veneziana, la descrizione delle calamità cede il passo al racconto politico. La materia si fa più abbondante e può così relegare in secondo piano la ripetizione di queste calamità naturali.
Questa cesura nel racconto storico suggerisce soprattutto un'altra interpretazione. Con la sua sola crescita Venezia ha scongiurato le avversità e trionfato sulla natura grazie all'aiuto di Dio. Così, quando la Cronaca Savina ricorda una mareggiata particolarmente memorabile, il racconto non si allontana dalla mera descrizione: "Il 20 dicembre 1274 vi fu un'enorme inondazione a Venezia e le acque salirono talmente che arrivarono sino alla piazza di Mestre" (276); Domenico Malipiero annota l'eccezionale acqua alta del 1464, ma si limita a deplorare i danni causati alle merci (277).
Nelle delibere del XV secolo i grandi organi dello stato elaborano un'immagine del sito completamente diversa. L'ammirazione esiste sicuramente, ma l'angoscia prevale quando è ripetuta la sfida di Venezia (278). Il legislatore si assume la responsabilità del luogo e condivide il destino della storia veneziana in tutta solidarietà con "gli antenati". Per l'autorità pubblica, al contrario dei cronisti, non è possibile padroneggiare gli elementi discordanti che formano il sito. Tutto al contrario la situazione si degrada nonostante ogni tentativo di rimediare: "Le intemperie aumentano quasi ogni anno" (279). La città ha acutamente coscienza della propria fragilità e realizza ogni giorno la precarietà della propria esistenza a ogni marea troppo forte e a ogni abbassamento di una riva. Venezia vive nel senso più fisico del termine la propria debolezza, nel proprio corpo e nelle arterie che sono formate dai canali.
Non c'è niente di anormale in questa coscienza e in questo allarme, in tempi nei quali l'uomo subisce le forze naturali più di quanto le domini. La laguna era adatta ad ospitare una popolazione di rifugiati, che fuggivano dalla Terraferma, ma l'installazione definitiva pretendeva lavori considerevoli. Era nota la sorte delle antiche città di Spina, Aquileia, Altino, Cittanova e dei loro territori, devastati dalle trasformazioni naturali. L'esempio della vicina isola di Torcello e del suo lento declino costituiva un avvertimento. Gli acquitrini avrebbero presto raggiunto l'antico "emporium" lagunare. Nel XVI secolo gran parte dei suoi abitanti abbandonano l'isola, devastata dalla malaria, e si rifugiano a Murano e a Rialto. E prima, nella stessa laguna, Ammiana e Costanziaca erano state abbandonate. La paura era comprensibile, poiché senza sistemazioni effettive il destino della laguna sembrava fissato. Queste legittime angosce attendono tuttavia il XV secolo per maturare pienamente. La manutenzione del sito è ormai più importante di qualsiasi altra considerazione. I testi descrivono la dilatazione degli acquitrini e l'avanzata della laguna morta, l'arretramento della bocca del porto e il riempirsi dei canali. Ispezioni, testimonianze e sondaggi si succedono, mentre le acque perdono la loro profondità (280). Il bacino si restringe, il canale navigabile di S. Nicolò diviene impraticabile, l'erba spunta nei canali (281).
I termini utilizzati sottolineano l'aumento del pericolo in decine di casi nel corso del XV secolo. Il vocabolario della città trionfante alla conquista del proprio spazio si trasforma in quello della città minacciata. A rischio di compromettere l'equilibrio tra la terra e le acque, la bonifica non è più permessa che in aree ristrette e i monasteri della laguna non possono più estendere i loro possedimenti senza espressa autorizzazione (282). Se gli acquitrini la circondano, la città muore. Le vie commerciali si allontanerebbero infatti da essa e la città, ormai porto senza mare, perderebbe ogni significato e ogni funzione. La bonifica, vantaggiosa, era una prima vittoria sullo spazio. Una volta condannate le colmate, la città si immobilizza. Alla fase dell'espansione succede quella della stabilizzazione. Non si tratta più di creare e di aumentare, ma di conservare e di salvaguardare.
La politica urbanistica di Venezia compie quindi una svolta importante. L'angoscia originale datava senza dubbio all'installazione in seno alla laguna e ai primi tentativi di disciplinare le acque. La posta della sistemazione dello spazio era chiaramente espressa sin dall'origine. Ma i testi non esprimevano alcuna ossessione della possibile rovina di Venezia, prima di quel "corpus" che si forma nella seconda metà del XV secolo. Al contrario le evidenti difficoltà ambientali offrivano il miglior movente all'azione in corso. Le ossessioni degli ultimi decenni del XV secolo traducono lo scollamento di questa coerenza. Il potere si deve confrontare con la vanità dei propri sforzi, nonostante l'accanimento della politica attuata e l'istituzione degli strumenti e dei nuovi funzionari indispensabili all'azione pubblica. Il sito, malgrado ogni intervento, si degrada. Il dinamismo della città si scontra con questo fallimento.
Questo pessimismo può essere spiegato in vari modi. Alcune spiegazioni si impongono e sono indubitabili. Lo stato della bocca di S. Nicolò, per limitarsi a questo solo esempio, si deteriora continuamente durante il XV secolo sino a comportare l'abbandono graduale di quel porto. L'analisi dei lavori nella laguna illustrerà la storia dei vari cantieri e mostrerà che la situazione peggiora in alcuni settori. Tuttavia l'allarme cresce proprio quando la città conduce una politica di conservazione più sistematica, potendo infine intervenire sui fiumi grazie alla conquista della Terraferma. I testi del XIV secolo descrivono già la progressione del canneto e l'erosione dei lidi. Il solo degrado delle condizioni naturali non basta dunque a spiegare meccanicamente la crescita delle paure.
È possibile proporre come corollario più ipotesi. Il pessimismo della seconda metà del XV secolo può essere senza dubbio ricondotto al coevo aumento delle profezie sull'approssimarsi del giudizio universale. Se questo clima escatologico si sviluppa in Italia e soprattutto a Venezia a partire dagli anni 1480-1490, tuttavia fenomeni analoghi lo precedono. Si può anche notare come cresca nel corso del XV secolo un processo moralizzatore che giustifica le trasformazioni del sistema politico ed evidenti paure escatologiche, come quella che la collera divina si abbatta su di una città peccatrice. Le pulsioni all'adorazione sacrale che parallelamente contraddistinguono il clima devozionale partecipano di questa stessa tensione.
Soprattutto colpisce una coincidenza. La crisi della coscienza veneziana nasce quando lo spazio è costruito, quando la dinamica della conquista e del movimento della città e degli uomini scema e poi si arresta. Questa inversione di tendenza segna la storia di Venezia. Quando l'opera urbanistica è quasi terminata, il gruppo deve trovare un fattore di coesione diverso da quello che l'aveva portato ad espandersi durante i secoli precedenti. La politica urbanistica deve trovare un'altra giustificazione. È ormai il tempo della conservazione e, poiché si dice che sia molto difficile, essa mobilita le energie e provoca nuovi sforzi. La salvaguardia della città formata e unita dalla sistemazione umana si iscrive ancora nell'ordine provvidenziale.
Da allora i lavori si moltiplicano.
Nel XV secolo la cronologia delle ripuliture dei canali e i mezzi mobilitati per tali lavori mostrano come si sviluppi una nuova politica. Il susseguirsi di cantieri a intervalli sempre più ravvicinati conferma i timori dell'autorità pubblica e rispecchia i fallimenti o le debolezze dell'intervento umano.
All'inizio del secolo, preparata da una riforma finanziaria preliminare, viene ordinata una serie di ripuliture. Nell'agosto 1407 il maggior consiglio dispone Pescavo del Canal Grande (283). In seguito, i cantieri divengono più numerosi. A partire da questa arteria - sulla riva destra, la zona del mercato, sulla sinistra, la comunicazione con l'Arsenale e l'area relativa - gli interventi privilegiano la circolazione, tra S. Bartolomeo e S. Marco, sui canali che traversano queste parrocchie centrali, densamente popolate (284).
Soddisfatte queste priorità e migliorato l'accesso ai cantieri di stato, al fondaco delle farine e al fondaco dei Tedeschi, la carta degli interventi si allarga. Dopo più di un secolo di intervallo, dal 1444 l'autorità politica elabora un piano d'insieme. Per cinque anni le disposizioni si completano rivelando, attraverso le descrizioni che esse danno, un paesaggio urbano di difficile decifrazione (285), molto diverso da quello descritto nel grande programma del 1321.
I termini di riferimento sono mutati e la casa patrizia partecipa solo episodicamente alla definizione dello spazio. La diffusione dei toponimi è notevole. All'inizio del XIV secolo, i santi eponimi delle contrade davano il nome soltanto alle vie d'acqua principali. A metà del XV secolo, in seguito ai lavori effettuati, i ponti e le rive, tutti provvisti di un nome, servono a delimitare i tratti di canale da escavare (286). Sono frequenti anche altre indicazioni. Le officine dei tagliatori di pietre, le tintorie, i forni, le fonderie o i cantieri navali scandiscono la lunghezza dei rii da escavare (287).
La realtà socio-economica di certe rive corrisponde dunque alle descrizioni allarmate dell'inquadramento regolamentare e giustifica il futuro rafforzamento di quest'ultimo. La fragilità del contesto aumenta con la crescita delle attività industriali e artigianali. D'altra parte le ordinanze mettono in luce un'area che nel 1321 cominciava ad essere urbanizzata e un secolo dopo il suo nuovo peso demografico. In tal senso abbiamo, nel nord, il settore strutturatosi intorno alla "ruga dei due pozzi". Inversamente, sulla punta di Dorsoduro, le puliture riguardano una rete immutata. Il confronto dei due programmi del 1321 e del 1444 evidenzia l'importanza delle trasformazioni.
Ogni decennio della seconda metà del XV secolo vede, senza eccezione, i suoi progetti di escavo. Su richiesta dei capisestieri, dei magistrati del piovego, degli stessi abitanti delle rive, la manutenzione da straordinaria diventa sistematica. Le serie di delibere descrivono i lavori, da subito intrapresi a livello di intere zone, che divengono presto ricorrenti. A Dorsoduro, nel 1460, le operazioni arrivano fino al retro del sestiere rivolto a sud e riguardano i collegamenti stabiliti dai rii di S. Barnaba, S. Angelo Raffaele, S. Nicolò e dei Carmini (288). Una seconda fase di lavori, nel 1476 e 1477, tocca l'altra estremità del sestiere, i rii di S. Vito, di S. Trovaso, del monastero della Carità, di S. Gregorio (289). Dopo Pescavo del rio di S. Pantaleone (290), il centro di gravità si sposta verso l'area, di nuovo rilevante, dei primi interventi, i canali di S. Angelo Raffaele, di S. Nicolò, di S. Barnaba, un rio minore di questa stessa contrada, e infine i rielli di S. Trovaso (291). La "purgatio", necessaria nel 1491 alla Carità (292) e urgente anche a S. Pantaleone nel 1494 (293), viene ripetuta l'anno successivo a S. Vito (294).
In ogni sestiere si nota la stessa diffusione dei cantieri e la loro riapertura a ritmi regolari. Registriamo così i varchi aperti a Cannaregio: 1446, rio di S. Canciano; 1448, rio di S. Marina; 1451, rii del settore di S. Marcuola e rio di S. Lunardo; 1452, rii di S. Giobbe, dei SS. Apostoli, di S. Maria Nuova (295). I dragaggi successivi s'irradiano al di là di queste prime basi ed estendono l'opera di ripristino ai canali di S. Marziale, di S. Fosca, di S. Girolamo, a quelli della Misericordia, di S. Felice e di Noale (296). I lavori riprendono nel 1472 a S. Sofia e ai SS. Apostoli (297). Nel 1479 non si può più rinviare un intervento parziale a S. Maria Nuova. Uno stesso escavo specifico viene effettuato nel 1480 sul rio di S. Canciano e su quello dei SS. Apostoli (298). Nel 1485 nuovi sterramenti sono realizzati ai SS. Apostoli, a S. Maria Maddalena, a S. Caterina e a S. Marziale (299). Nel 1489 i "vicini" riescono a far apportare migliorie alla parte finale del canale di Cannaregio e al suo sbocco nella palude (300). Altre ripuliture vengono effettuate nel 1493 ai SS. Apostoli (301) e nel 1495 a S. Girolamo (302).
Il ritmo degli interventi è ugualmente intenso anche altrove. Il rio di S. Paterniano viene dragato nel 1458 e nel 1487 (303). Quello di S. Vitale nel 1449, 1477 e 1489 (304). Quello delle Beccherie nel 1448, 1460, 1471 (305). Nel 1460 e nel 1490 si opera un riscavo a S. Giovanni Decollato (306) e nel 1461 e 1484 a S. Martino (307). L'asse di S. Sebastiano viene ripulito nel 1472, nel 1481 e nel 1492 (308). Il rio di S. Angelo è escavato fino alla sua intersezione con il Canal Grande nel 1444, 1456, 1462 e nel 1492 (309).
Nel 1321 il comune aveva promosso sul Canal Grande un'impresa eccezionale. In precedenza, l'ampiezza, il prezzo e l'originalità del progetto ne avevano ritardato l'esecuzione. Le fonti, fino a quella data, non riportavano nessuna operazione, anche limitata. Le incertezze che circondavano la realizzazione dell'opera, prima della sua assegnazione, derivavano dall'esitazione con la quale si procedeva al rinnovamento di una pratica. Pur senza escludere lavori parziali, ripuliture realizzate da un proprietario, o da una associazione di privati, lungo la riva, la decisione del 1321 inaugurava un nuovo metodo. Essa non fu ripetuta fino alla fine del secolo, nel 1389 (310).
Tutti i lavori si occupavano di eliminare gli affioramenti di terra, i dorsi, che impacciavano e impedivano la circolazione delle acque. In alcuni casi riguardavano la lunghezza parziale o totale del canale. Nel 1321, l'escavo interessava il canale, da un'estremità all'altra per tutta la lunghezza, e il bacino di S. Marco. L'intervento del 1389 ha l'obiettivo di ripulire il canale di Rialto, il cuore della circolazione acquatica.
A dimostrazione del carattere limitato della pulitura, nel 1407 occorre ripetere l'operazione (311). Il cantiere predisposto nel 1389 resta aperto fino al 1392 (312). Quello del 1407 riscontra lo stesso ritardo. Alla fine del 1408, di fronte alla quantità dei detriti dell'escavo, si prevedono quaranta burchi per la loro rimozione. Vengono eletti tre magistrati straordinari che raccolgono nei quartieri le somme necessarie per le attrezzature (313). La valutazione tecnica dei lavori e la stima precisa del loro costo precedono necessariamente l'apertura del cantiere. Nel 1407 e nel 1408, le misure protettive di contorno e le infrastrutture previste attestano il carattere complessivo dell'intervento.
Nel 1421, la zona del porto riceve una manutenzione più specifica. "Dato che la pulitura del Canal Grande risultava a tutti necessaria e che, per ordine della Signoria, il canale è stato esaminato e sono stati consultati molti ingegneri e persone anziane e esperte", si fa un escavo di almeno cinque piedi di profondità dal rio di S. Angelo alla riva di Terranova (314). Prima dell'inizio dei lavori, da concludersi entro un anno secondo il capitolato d'appalto, le banchine e le rive sono rinforzate a spese dei loro proprietari. L'imposizione dei contributi cambia ancora una volta. A coloro che risiedono sulle rive toccano i due terzi delle spese, alla contrada il restante terzo. Nel settore di Terranova, il contributo pubblico è limitato a un terzo. Le contrade e i "vicini" si accollano il resto delle spese (315). Due anni dopo il dragaggio prosegue e riguarda, secondo una continuità geografica e funzionale, il bacino di S. Marco, dalla punta della Dogana al ponte della Paglia (316). L'utilità collettiva del bacino portuale non è in discussione. Lo spazio pubblico ne circonda il perimetro. La signoria si prende carico delle spese stanziando, in mancanza di altri fondi a disposizione, le somme riservate alla manutenzione dei lidi. I detriti, trasportati a S. Nicolò del Lido per fornire materiale alle riparazioni del litorale, ripagano lo storno di questi crediti accumulati grazie alla tassazione del vino.
Nel 1437 viene decisa un'altra operazione, su un tratto specifico. A Rialto, dalla loggia al mercato della frutta e al traghetto delle barche per Padova, si pulisce il fondo fino a sette piedi. Assegnato nell'ottobre per 1.150 ducati, il lavoro deve essere completato entro il luglio seguente. Nel dicembre 1438 i provveditori al sale, responsabili dell'appalto poiché l'opera riguarda il canale che attraversa il mercato, ispezionano i lavori e saldano il capocantiere, senza mettergli a carico il ritardo (317).
Riscavato nelle sue parti nevralgiche, i dintorni della dogana e del mercato, protetto da interdizioni sempre più precise, nel 1460 il Canal Grande ha bisogno di un intervento generale: si ordina dunque che gli ufficiali del piovego appaltino i lavori d'escavo da Terranova a S. Croce (318). Sembra che l'esecuzione dei lavori sia slittata fino al 1464. È in questa data che il senato risolve la questione del finanziamento, risollevata di continuo. Esso sarà coperto, in parti eguali, dai residenti sulla riva, dalle contrade e dallo stato (319). Il progetto iniziale prevedeva che, in attesa di questo lavoro, venisse sospesa ogni altra opera nei rii (320), stabilendo una gerarchia delle necessità e degli interventi. I ritardi dell'esecuzione consentono l'approvazione di qualche deroga. A S. Maria Gloriosa dei Frari, S. Pantaleone, S. Marina e S. Antonin, la circolazione esige degli urgenti lavori di ripristino. In questi anni gli ufficiali del piovego reclamano successivamente degli interventi immediati a S. Maria Mater Domini, S. Stae, S. Stin, S. Martino, S. Vitale e Cannaregio (321).
Malgrado la gravosità delle spese di manutenzione, la frequenza dei lavori e il peso dell'opera sul Canal Grande, i vicini vengono incontro alle ingiunzioni del piovego. Si può far l'esempio delle due contrade di S. Maria Mater Domini e di S. Angelo. In quanto confinanti con il Canale, esse partecipano al "getum" di quest'ultimo, così come finanziano l'escavo dei rii della loro parrocchia. Le Ca' Zorzi e Contarini, a S. Angelo e S. Vitale, entrambe costruite all'imbocco sul Canal Grande di un rio da dragare, sono esemplari del rigore di questa doppia tassazione (322). L'appalto del 1464 non è noto, ma i 1.150 ducati utilizzati trent'anni prima per la sola curva di Rialto fanno presagire il volume dell'affare. Il potere pubblico, pur organizzando nei suoi organismi consiliari o mediante la delega a suoi magistrati la tutela dello spazio acquatico, se ne assume le spese solo episodicamente. Esso paga solo per il Canal Grande, restaurato nella sua interezza o nelle parti demaniali. Se si aggiunge, per questi stessi decenni, il costo dei cantieri di terra, per il ripristino delle strade e delle banchine e la ricostruzione in pietra di molti ponti, l'imposizione che grava sui privati e le contrade raggiunge, in tutta evidenza, un livello elevato. La misura dei "geti", di valutazione impossibile, non ci è rimasta. I temporeggiamenti dell'autorità statale per pagare la sua parte provano, insieme alla crisi delle finanze veneziane, la grande entità di questi contributi. Il successo complessivo della politica urbana si misura in questa generale sottomissione ai "geti", in questa accettazione dei programmi di sistemazione dello spazio. I vicini stimolano infatti l'azione pubblica e fanno richiesta di poter intervenire nel loro spazio quotidiano. Così la società di alcuni "nobili e cittadini" e i membri della parrocchia sollecitano il consolidamento di un ponte, mentre i vicini protestano per l'invasamento di un canale ed espongono la necessità di un intervento. O, ancora, alcuni nobili, che abitano presso il rio e sono dunque interessati a una rapida opera di ripristino, propongono anche di far effettuare la ripulitura a proprie spese (323). Tale partecipazione si può misurare sulla base di queste rimostranze ai consigli e di questi rapporti degli ufficiali e dei residenti sulle rive. Le lungaggini che provocano il rinvio dell'inizio dei lavori nel 1407 e nel 1460 evidenziano gli ostacoli. Gli atti che riformano la ripartizione del "getum" si spiegano con le difficoltà del finanziamento pubblico e richiamano anche i ritardi e le frodi dei cattivi pagatori (324). Alcuni di questi arricciano il naso di fronte al pagamento e restano iscritti per anni sulla lista dei debitori. Non per questo l'opera non viene compiuta. La realtà dei lavori, vasti o limitati, ma molteplici nello spazio della città, illustra la capacità dell'autorità pubblica di programmare la propria azione. La partecipazione del corpo sociale è la base di tale successo.
Vi è un consenso, più implicito che enunciato dall'autorità, presente nelle petizioni e nelle grazie e evidente nella realizzazione dei progetti. Emerge così il sostegno nei confronti della sistemazione dello spazio e la sua ragion d'essere. La lunga lista dei lavori rimanda alla consapevolezza di un interesse generale. Senza dubbio la singolarità ambientale e la secolare lotta contro il fango e l'acquitrino avevano presto formato tale sentimento. La drammaticità del discorso veneziano nel corso del XV secolo, se in parte si fonda, come mostra il ritmo dei lavori, sulle nuove necessità ingenerate dal sito, sicuramente rinforza questa solidarietà urbana. Essa tende a consolidare tale coesione che salda la comunità a un destino singolare. Funziona come una ideologia, che ha il fine di fare accettare una condotta politica.
Così recita la deliberazione del 1485 che chiaramente descrive i pericoli: "sebbene i nostri predecessori abbiano regolarmente vegliato alla conservazione di questa città e alla pulizia dei canali quando era necessario e ancorché siano stati presi diverse volte avveduti provvedimenti riguardanti il Canal Grande dal quale dipendono il buon stato della città e la comodità di tutti coloro che navigano [...> i banchi di sabbia, sempre più numerosi, avanzano riducendo l'ampiezza del canale con gran danno di tutte le barche e provocando la corruzione dell'aria. Se non saranno prese le necessarie disposizioni, nessuno verrà più in città e nessuno vi abiterà" (325). Dal ponte dell'Arsenale a S. Chiara, da S. Chiara alla dogana di mare, viene ordinato un escavo salutifero. All'inizio del 1488 l'operazione, iniziata quattordici settimane prima, prosegue. L'escavo, che arrivava a cinque piedi di profondità, viene portato a sette. Lo stato anticipa i fondi (326), in attesa che venga raccolta la consueta tassa. Mentre la parte dello stato e dei residenti sulle rive resta invariata, quella delle contrade diminuisce (327). Tutti i responsabili del degrado del luogo, i barcaioli che trasportano le pietre, la calce, i mattoni, la sabbia, il legname, le macerie, la verdura e le erbe dalla Terraferma o dalle isolette della laguna, contribuiscono per metà della loro quota. Questa imposta rompe con il principio della tassazione che grava sui residenti delle rive e fa saltare i principi finanziari che i lavori pubblici avevano strutturato e mantenuto da più di due secoli.
A qualche anno di distanza, l'operazione di liberazione del Canale riprende e sviluppa questi nuovi principi. Nel 1490 la mobilitazione di tecniche e di uomini precedente si dimostra vana. "Il nostro Canal Grande è oggi più che mai pieno di melma e se non si prendono provvedimenti da qui a qualche anno il nostro Bucintoro non potrà più accostare alle rive della piazza" (328). Quando viene decisa una ripulitura, decisione che, a causa della sua frequenza, diviene poco rilevante, le assemblee instaurano una forma inedita di prelievo. Tutti i nuovi eletti, rettori, consiglieri, capitani, provveditori, giudici o avvocati pagano un diritto d'entrata, al quale è subordinata la loro carica, al pro rata della loro utilità. Tutti coloro che, scelti da un consiglio o da una magistratura, occupano una carica di notaio o di segretario ricadono sotto il medesimo obbligo del quale il senato fissa la tariffa. Questi notai e segretari versano ogni anno un quarto di ducato o un mezzo ducato. I sanseri del fondaco dei Tedeschi, gli impiegati alla bilancia di Rialto, quelli del fondaco delle farine sono tenuti allo stesso obbligo (329). La lista si allunga nei mesi successivi per estendersi al personale delle dogane di terra e di mare, agli ufficiali del purgo della seta a S. Marina, agli artigiani che raffinano i metalli, ai tintori della seta e della lana, ai padroni di barche e di burchielle (330).
Una simile espansione, se mira a rinforzare la pressione finanziaria, testimonia l'evoluzione rapidamente completatasi in capo a qualche decennio. Le somme riscosse nel 1490 da coloro che la signoria nomina a una magistratura o a una funzione alimentano uno specifico fondo, il cui obiettivo è ripulire i rii e i canali e tenerli in ordine (331). Trattandosi della gestione dell'ambiente comune, i cambiamenti sociali e psicologici seguono un processo di maturazione. Il diritto pubblico si era facilmente affermato in questo ambito. La nozione di interesse collettivo si era progressivamente definita. Essa trionfa quando Venezia si identifica con il complesso dei suoi canali, quando l'universalità della loro utilità legittima l'universalità del finanziamento. Con questi fondi, alimentati dal funzionamento stesso delle strutture amministrative, la solidarietà tra il potere e il suo spazio appare totale.
Ovunque le città sono alla ricerca di esazioni fiscali che consentano di effettuare i lavori pubblici. Le imprese edili, il rifornimento d'acqua, la costruzione dei bastioni e la manutenzione delle fortificazioni, l'innalzamento di ponti o la sistemazione dei selciati costringono a contrarre dei prestiti o a stabilire delle esazioni. Venezia segue un modello generale (332), quando riserva alla difesa dei litorali i diritti sulla vendita del vino d'importazione o quando, in epoca più tarda, la tassa sui pubblici uffici fornisce una nuova entrata e alimenta con regolarità un fondo per la manutenzione dei canali. L'estensione della tassa agli uffici commerciali e portuali nonché alle attività industriali fa gravare sui responsabili del degrado il costo dell'opera di ripristino. Sulla base di uno schema razionale dei danni e delle loro cause, la riparazione di essi viene in parte accollata a coloro che li hanno provocati. Quando nel 1494 il senato riscuote, a beneficio dei savi alle acque, una nuova tassa sui negozi di frutta e di formaggio e sugli opifici di taglio della pietra e sulle fucine (333), le entrate ordinarie aumentano ancora.
Venezia elabora progressivamente un approccio più complessivo al problema del suo spazio. Le molteplici funzioni della città - agglomerato di abitanti, porto, cantiere navale, mercato e centro industriale - pesano sull'ambiente. L'unità geografica, che appare sempre più avvertita nei documenti, costituisce il pendant di questa nuova percezione complessiva. Il documento che, nel 1321, decideva il primo intervento d'insieme sul Canal Grande, citava ancora i diversi "canalia". Il progetto riguardava tutto l'asse del Canale ma distingueva tra i "canali di S. Marco e di Rialto" (334). Nel XV secolo il lessico cambia. Il termine "canale di S. Marco" vale fino a S. Croce o a S. Elena (335). Soprattutto, si generalizzano a poco a poco i termini: "canale maius", "canal grando". Dopo il 1490, bisogna analizzare molto attentamente i differenti contratti per definire il perimetro interessato alla ripulitura, come i dintorni della dogana e il bacino di S. Marco. Il nuovo termine soppianta tutti gli aggettivi precedenti e definisce ormai il complesso delle arterie (336).
Nel corso del XV secolo, le acque dunque costituiscono il più importante investimento urbano, economico e simbolico. La loro gestione e gli atti pubblici, che la rendono nota, caratterizzano la politica urbana di Venezia, con nettezza ancora maggiore negli ultimi decenni del XV secolo. La partita, di importanza decisiva, dell'amministrazione dello spazio, della fortuna e dell'immagine di Venezia si gioca ormai sul Canal Grande e sul sistema reticolare dei rii.
Nel 1493 il senato decide un'altra serie di lavori sul Canal Grande. Questo documento spiega i precedenti decenni di febbrile attività legislativa e la pioggia di lavori su tutti i rii: nel passato, asserisce, si poteva osservare una pausa di trent'anni e più tra una pulitura e l'altra, ora bisogna eseguirla ogni dieci anni (337). L'aumento del ritmo delle puliture costituiva una prima risposta al degrado della rete dei canali. Le fonti, più complete e numerose, illustrano i mezzi utilizzati in modo meno sommario rispetto a prima. Le capacità tecniche si adeguano alla formidabile effervescenza dei lavori pubblici.
La scala delle operazioni varia da un estremo all'altro. Anzitutto i termini lessicali distinguono le operazioni di superficie. I bordi, le sinuosità del canale vengono ripulite dal fango e dalla sporcizia. Il latino "mundare" o "purgare", il volgare "netare", indicano in particolare queste specifiche operazioni (338). Insieme al più raro "effodere", il verbo normale "cavare" o "excavare" indica un riscavo del fondo. Quando il senato condanna i residenti delle rive che non rispettano i regolamenti di pulizia o i manovali schiavoni addetti a rimuovere i rifiuti per ripulire l'interramento da essi causato, Pescavo in prossimità della riva non richiede nessuna preparazione preliminare (339).
Per lavori di più ampia portata, gli ingegneri dell'ufficio del piovego (in seguito delle acque) decidono il metodo da seguire. Se si tratta di eliminare qualche innalzamento del fondale, gli interventi vengono condotti direttamente con la pala, senza mettere pali o sbarramenti. I tratti particolarmente interrati vengono prima prosciugati dietro dighe di pali e di tavole e gli operai lavorano dietro questo riparo di legno. Le prescrizioni distinguono così tra il "cavetur totus" dal "cavetur certa dorsa", e i contratti possono esigere oppure no il ricorso alla palificazione preventiva. Il cantiere aperto nel 1460 non la richiede in quanto il senato raccomanda la rapidità dell'esecuzione "nei giorni in cui l'acqua è solitamente bassa" (340). La commessa per i lavori del 1485, anch'essi da svolgersi in estate, prescrive lo stesso metodo, evidentemente più economico "senza pallificare i dorsi" (341).
Quando si opera il prosciugamento prima dei lavori, l'escavo può essere effettuato manualmente. Senza far congetture sulla situazione precedente, poco nota come abbiamo sottolineato, richieste e petizioni alla signoria testimoniano le innovazioni tecniche. I contratti pubblici certificano questi progressi. Nel corso della maggior parte del XV secolo, le assegnazioni dei lavori richiedono un escavo intorno ai cinque piedi di profondità (342). Negli ultimi anni del secolo, i capitolati citano escavi di sette piedi di profondità, oppure di dieci piedi (343). A quell'epoca l'attrezzatura deve essersi certamente perfezionata.
Nel 1402 Venezia aveva stipulato un contratto con il prete Giovanni da Parma, giunto dal Friuli (344). In cambio di una casa per lui e la sua "familia" di dodici membri, l'esenzione dai diritti d'entrata per i suoi guadagni conseguiti in Friuli e 6.000 ducati, da pagarsi in tre rate, Giovanni s'impegnava a riscavare economicamente tutti i canali della città e della laguna, compresi i tratti più frequentemente interrati, vitali per il traffico portuale di S. Nicolò del Lido e del canale dell'Arco. Il primo versamento dipendeva dal buon esito dell'esperimento, ma l'atto taceva riguardo alla novità del procedimento. Nel 1445, il maggior consiglio ordinò ai magistrati del piovego di accettare solamente il nuovo "modus cavandi". Questo infatti riduceva di un terzo il costo delle puliture. L'aveva messo a punto il maestro Stefanino, "ingenarius", con l'aiuto di due provveditori eccezionalmente distaccati allo studio delle tecniche di dragaggio (345). L'esistenza di un vasto mercato stimolava dunque l'iniziativa degli "inventori", lagunari o stranieri, che presentano i loro macchinari agli organismi consiliari. Ma i mastri specialisti di idraulica impiegati dal piovego contribuiscono anch'essi ai progressi dell'attrezzatura. Nel 1464 il senato fa costruire all'Arsenale quattro "ingenia" (346). Il procedimento è già stato utilizzato per liberare alcune navi rimaste incagliate nella "velma" lagunare e lo si vuole applicare adesso al Canal Grande. Due ingegneri del piovego sono responsabili di ognuno di tali "ingenia". Gli ingegneri dirigono la manovalanza e tre chiatte, con tre uomini, assicurano la rimozione dei detriti. Quattro squadre si suddividono dunque il lavoro del cantiere.
Alla fine del secolo, due richieste di brevetti industriali, cronologicamente quasi contemporanee, confermano il movimento di innovazione (347). Nel 1492 Nasimben de Zuan Francesco de Fontanella, Vielmo da le Lime e i loro compagni presentano la loro scoperta. L'"edificio" può ripulire in città e in laguna, qualunque sia la natura del terreno, dai cinque ai dieci piedi (348). Dunque, l'attrezzatura moltiplica per due le possibilità normali del dragaggio. I prezzi restano stabili. Gli inventori s'impegnano a portare a termine l'opera secondo i modi e le condizioni abituali, ma reclamano la protezione dello stato contro le imitazioni (349). Tre anni dopo il cittadino originario (350) Alvise Zucharin, ben noto offerente agli appalti statali, espone a sua volta il suo ritrovato, "un nuovo inzegno", in grado di ripulire da quindici a sedici piedi (351). Sei mesi dopo, segno dell'adozione del nuovo macchinario del quale i documenti non precisano le caratteristiche tecniche, Zucharin ripulisce 1.005 passi di canale dietro la dogana (352). Nel giugno 1496, porta a termine una seconda fase del lavoro, al largo della stessa punta (353). Nel 1402 Giovanni da Parma cercava di farsi pagare il suo ritrovato. Alla fine del secolo, mentre il brevetto gli assicura l'esclusiva, l'inventore vince le gare degli appalti pubblici e ottiene degli ampi margini di profitto.
I programmi per S. Andrea della Zirada e S. Antonio, l'assegnazione, negli ultimi decenni del secolo, della pulizia dei sestieri, i bandi di offerta per le puliture e, infine, la difesa dei cordoni litorali consentono di definire una classe di imprenditori dediti ai lavori pubblici e la loro relativa ascesa economica. L'esempio di Zucharin, già segnalato attraverso la citazione di qualche documento, porta a sottolineare la costituzione di un patrimonio immobiliare e la solidità di un'officina per almeno due generazioni. Il livello sociale di questo cittadino originario lo colloca senza dubbio all'interno dell'aristocrazia del suo mestiere (354). I nomi patronimici di questi mastri, noti per altre vie, sono piuttosto caratteristici, come è stato notato, di immigrati, più o meno recenti, arricchitisi grazie ai contratti pubblici. Indizio delle bustarelle distribuite ai pubblici ufficiali, nel 1463 il senato cerca di risanare il sistema dei contratti imponendo ai magistrati del piovego di pubblicare quattro giorni prima la data e la natura esatta dei bandi d'offerta (355). Indice del numero delle imprese e della loro concorrenza, così come della loro dimensione ancora modesta, il cantiere del 1485 sul Canal Grande è diviso in quattro lotti commissionati contemporaneamente (356). Ma, poiché il potere pubblico intendeva rinforzare questa cerchia attiva di ingegneri e imprenditori e attirare in laguna dei talenti, in quanto la concorrenza abbassa i prezzi (357), il senato, nel 1494, espone il suo progetto di radunare a Venezia tutti gli specialisti in materia idraulica, "valevoli et ingeniosi" (358).
Di pari passo con il perfezionamento dei macchinari e con il progresso della conoscenza empirica del regime delle acque, l'autorità politica espone i suoi timori per un irreversibile degrado ambientale del sito. I regolamenti divengono più rigorosi e efficaci, i cantieri assicurano la manutenzione regolare della rete di canali, sia principali che minori. Intanto i consigli proclamano la fragilità dell'ambiente e paventano la rovina di Venezia. Mentre i lavori su terra equivalevano per il potere al progredire, certamente interrotto da qualche insidia, di una città conquistatrice, i cantieri sull'acqua, malgrado il loro numero, il loro costo e i loro progressi, sono presentati come una lotta drammatica portata avanti con l'obiettivo di un'impossibile conservazione. L'analisi non porta che a sottolineare l'ampiezza di questa contrapposizione.
Nella seconda metà del XV secolo, la manutenzione delle acque mobilita le energie. Sul fronte della prevenzione e su quello dei rimedi l'azione è costante. L'esposizione brutale dei pericoli provoca un soprassalto. Politicamente, la pubblicità data ai problemi dell'ambiente e alla fragilità del sito giustifica l'imponenza degli interventi in città, il loro peso finanziario, così come le sue conseguenze pratiche sulla socio-topografia e sull'esercizio quotidiano di numerosi mestieri. Più in generale, l'accento posto con tanta forza sulle difficoltà del sito lagunare contribuisce a rinforzare il sentimento già forte dell'identità veneziana. I timori, in parte legittimi, del potere politico non hanno solo la funzione di alimentare la dinamica dei lavori e dei regolamenti. Il loro fine mi sembra più vasto.
L'immaginario della morte, attivato dai documenti pubblici quando descrivono, in un contesto concreto, la laguna prosciugata, il porto a secco, i miasmi che salgono da un Canal Grande interrato e la città abbandonata, arriva a forgiare la coscienza della singolarità di Venezia. La fortuna della città, smagliante malgrado tutte queste difficoltà, vi si trova ancora esaltata mentre l'indispensabile coesione sociale si salda con maggior forza. Le implicazioni sociali e politiche di un siffatto processo sono multiple. Sono complessi i legami intessuti con l'insieme del discorso letterario e storico, all'epoca sviluppato a Venezia, e con la formazione dell'immagine urbana.
Limitiamoci a rilevare come questo interesse per i problemi dell'ecosistema e queste nuove rappresentazioni, che stanno alla base delle scelte della politica urbana, siano determinanti per l'analisi condotta.
La politica condotta nei confronti dell'area lagunare precisa e completa la storia di questo rapporto con l'ambiente. Attraverso le scelte operate e le iniziative prese, sembra possibile, anche se imperfettamente, prendere in considerazione possibilità e mezzi tecnici nonché decisioni politiche.
Vi è un primo fatto da sottolineare. Nelle fonti narrative l'acqua che circonda Venezia è presentata come un'acqua protettrice (359). Le cronache riconoscono nelle lagune la garanzia dell'inespugnabilità della città. Esse tuttavia non collegano stabilmente le due constatazioni per comporre l'aforisma che diventa comune in età moderna. È solo nel XVI secolo che le acque salmastre vengono definite le "sante mura della patria" (360).
La formula non è ancora coniata, ma cronache e storie, divulgando l'immagine dell'ambiente protettore, ne formano una prima bozza. L'angosciato verbale che trapela, lungo più di mezzo secolo, dalle deliberazioni dei consigli si oppone a quell'armonia le cui componenti sono descritte da Sabellico (361). Il senato rende noto l'avanzamento delle paludi, la crescita della laguna morta, l'accerchiamento asfissiante del canneto, gli interramenti in tutte le parti del ducato. Sabellico rappresenta la posizione centrale di Venezia in mezzo alle acque marine (362). I documenti pubblici paventano l'aria malsana, i miasmi che salgono, con i loro odori infetti, dai canali interrati. Il De situ Venetae urbis proclama le eccellenti virtù dell'aria purificata ogni sei ore dal flusso e riflusso della marea (363). E, ciò facendo, apre la strada a una numerosa sequela di opuscoli moderni, interamente consacrati alla salubrità dell'aria delle lagune (364).
Questo gioco di immagini contraddittorie non si riduce tuttavia al contrasto tra due tipi di fonti e alla diversità delle loro funzioni. La legislazione pubblica stessa emana, secondo la natura delle sue decisioni, l'uno o l'altro di questi giudizi sull'ambiente. Benefico, sinonimo di pace, di prosperità e di commercio, in altri atti esso fa sentire con forza la sua minaccia. Queste due rappresentazioni, ugualmente significative, rivelano soprattutto l'approccio veneziano allo spazio e la sua evoluzione. La coscienza dell'unicità della "forma urbis" viene ben presto esplicitata e le tracce della formazione di tale sensibilità scandiscono il "corpus" delle fonti narrative. Il XV secolo costituisce peraltro un momento decisivo di questa storia del rapporto con l'ambiente. La riflessione unisce l'acqua e la terra, considera congiuntamente la città e la laguna. Questa indissociabile unione dei due elementi costitutivi del luogo riguarda tutto l'insieme della politica urbana e condiziona l'immagine stessa di Venezia. Essa porta di conseguenza a rinunciare alla cesura che nelle analisi di solito si opera tra la città e le lagune (365). Tutti i caratteri peculiari di Venezia che sono stati definiti dalla storia del luogo dalle sue prime espressioni e che determinano ancora in parte la storiografia contemporanea - sia quando essa li condivide, sia quando li respinge - perdono d'importanza rispetto a questa rappresentazione dello spazio che la città stessa alimenta per trovarvi la sua identità.
Il testo di Sansovino prima di qualunque commento enumerava i differenti elementi del luogo, la laguna, il cordone litorale che separa le acque salmastre dal mare, i canali che interrompono i lidi e permettono il passaggio della marea, i fiumi che scendono dalle Alpi e il loro sbocco nel golfo Adriatico (366). L'equilibrio è di fatto fragile e il compromesso instabile (367). La superficie delle lagune ha subito un'evoluzione. Una gran parte della riflessione, alla fine del Medioevo e in epoca moderna, si alimenta del ricordo di queste lagune ormai ritiratesi ed esalta un passato di equilibrio tra le forze antagoniste della natura (368). Marco Corner, anche prima di ricordare la maggior ampiezza del perimetro lagunare, inizia la sua riflessione sulla laguna di Venezia con una triste constatazione (369), enumerando le chiese e i monasteri, un tempo ornati di mosaici e di colonne, ormai lasciati in abbandono. Da Lio Mazor a Torcello, da Malamocco ai SS. Ilario e Benedetto, gli edifici sono distrutti e non vi si prega più il Signore. Venezia è circondata da questa corona di rovine. Questi monasteri ospitavano i sepolcri dei dogi e dei gentiluomini del ducato. Ridotti in macerie, non sono ormai che altre tombe.
I detriti alluvionali dei fiumi condannano la laguna al suo deperimento. A causa degli apporti delle correnti costiere, i lidi minacciano di formare una barriera continua. I porti s'insabbiano e si chiudono. Se il bacino non è più raggiunto dalla marea, la laguna è condannata. Con molteplici richiami, gli atti pubblici precisano la caratteristica di un tale rischio. L'aspetto essenziale della prevenzione, cioè la regolarità delle operazioni di pulitura, e la questione, ripresa costantemente, della deviazione del Brenta mirano a scongiurare il ritiro delle acque lagunari. Ma il movimento marino, le onde, l'erosione attaccano il cordone litorale. Vi è il rischio che forti maree lo sommergano. Le cronache ricordano le eccezionali inondazioni, al di fuori dai normali ritmi stagionali. In una deposizione a un processo, alcuni testimoni ricostruiscono un determinato momento attraverso il ricordo di un fenomeno di "aqua alta" particolarmente forte. "Propter aquas magnas" (370), le comunità della laguna ripristinano e rinforzano le rive erose o portate via dalle acque. Queste minacciano la città che, se crolla la difesa del litorale, può essere sommersa.
Come è logico, una delle scene principali della mitologia mostra l'apparizione salvifica di s. Marco durante lo scatenamento di una tempesta. Il 15 febbraio 1340 l'inondazione è così formidabile che si teme un annientamento di Venezia. S. Marco, s. Giorgio, s. Nicolò, patrono dei marinai, intervengono. Dalla piazza a S. Giorgio Maggiore e da quel monastero a S. Nicolò del Lido, la barca dei tre santi percorre lo spazio marino che si rivolta (371).
Questa doppia immagine di una morte a causa dell'acqua, alimentata da minacce reali, pesa dunque sulla storia di Venezia. Se le paludi assediano la città e l'entrata al porto s'insabbia, l'acqua è scarsa, le navi si allontanano dal porto e la città lentamente muore. Se si scatena la tempesta, Venezia soccombe perché il mare spazza via i lidi, irrompendo e sommergendo tutto. La consapevolezza dei pericoli corsi cresce con il progredire della conoscenza dell'ambiente. L'originalità della politica veneziana è proporzionale alla posta in gioco.
Fin dagli inizi, il problema idrografico è centrale nella storia delle relazioni di Venezia con le città della vicina Terraferma. I libri dei Patti e dei Commemoriali tramandano le tappe più importanti del conflittuale rapporto di vicinato che oppone Venezia e Padova (372). Nel XIX secolo, Giustina Renier Michiel impersona l'ultima espressione di una ricca tradizione storiografica quando descrive la deviazione del Brenta e le modificazioni del territorio che ne conseguono intorno al monastero dei SS. Ilario e Benedetto. Essa scrive che i Padovani cercarono il modo di far agitare quelle acque e di prosciugare le lagune. Era certo che tagliando le dighe del Brenta, il fiume avrebbe portato con sé nella sua corsa verso il mare la melma e la sabbia che, depositandosi nelle anse delle lagune, avrebbero raggiunto l'effetto desiderato (373). Questa operazione e le spiacevoli conseguenze da essa provocate sono esemplari della costante acutezza della questione del Brenta e dello sbocco dei fiumi, nonché del problema più importante con il quale si confronta Venezia: prima dell'espansione continentale, la città non può intervenire sull'alto corso dei fiumi.
Fino al XIII secolo, in generale, l'azione dello stato è press'a poco nulla. Dopo tale data la gestione, tenendo progressivamente conto dei diversi elementi che compongono il quadro ambientale, segue una periodizzazione scandita da scelte difficili (374). Attraverso queste si scrive lentamente la storia del rapporto con l'ambiente e della reazione della città con le sue acque, con il suo ducato, con la Terraferma.
Lo sfruttamento della laguna suscita in un primo tempo singole trasformazioni compiute da proprietari privati. La creazione della magistratura del piovego segna, in questo campo, una rottura e l'inizio di una nuova fase, come era successo nel campo dei cantieri terrestri. Da Grado a Cavarzere il comune delega tre ufficiali alle acque e alle paludi e riafferma il suo diritto su questi territori. S'instaura dunque una prima tutela delle lagune.
Alle frontiere del ducato, le strutture di giunco ("ars velledellis") che racchiudono le aree di pesca sono proibite nelle acque pubbliche (375). Il piovego riceve mandati di esecuzione in tal senso. Negli ultimi decenni del XIII secolo viene votata una cospicua serie di documenti che precisano, tolgono o restringono questa proibizione generale. Questa serie di regolamenti definisce le coordinate, ormai stabili, della politica lagunare: dare aperto riconoscimento ai diritti dello stato su tutte le acque del ducato, ma avere un'attenzione particolare per quei settori indispensabili alla città e al suo porto. Infine, conciliare questi imperativi con le esigenze di una comunità di pescatori e le necessità dell'approvvigionamento di pesce. In tal modo regolato, l'equilibrio viene mantenuto in modo più o meno facile. E lo sforzo di conservazione diminuisce d'intensità nella seconda metà del XIV secolo.
Nel 1444, quando viene accresciuta l'organizzazione per la manutenzione dei canali, il senato tenta di agire in parallelo sulle cause note del deterioramento delle paludi, dei canali e del porto. All'interno delle frontiere del ducato, esso riconferma il regolamento che riguarda le grisole (376). Questa ripresa dei primi documenti mostra la ragione, ancora una volta, della straordinaria perennità del "corpus" promulgato negli ultimi decenni del XIII secolo. Essa assicura soprattutto la pubblicità di un principio. Il corso generale delle misure varate negli ultimi decenni del secolo disegna il reale spazio dove tali misure vengono adottate. Nel 1485, la zona protetta si estende infatti dai Tre Porti a Malamocco (377). Ma le lamentele delle due comunità di Torcello e di Burano precisano ancora sfumature e eccezioni. Nel 1486 Paolo Sambin, ingegnere dell'ufficio delle acque, esige la distruzione di alcune valli da pesca di queste due comunità, prova che le loro installazioni non sono dunque state toccate dalla decisione dell'anno precedente (378). Ed esse sono ancora autorizzate nel 1486, malgrado i reclami dell'ufficio alle acque. I divieti che sono votati in seguito, a brevi intervalli, riguardano gli stessi territori, da Tre Porti a Malamocco o S. Pietro in Volta.
Sembra dunque che la zona proibita si estenda in lunghezza e che si localizzi in prossimità dei litorali. In questo modo Venezia tenta di dare una risposta alla questione dell'interramento dei porti e del restringimento dei loro canali d'accesso. Nel 1474 il senato aveva deciso di chiudere di nuovo la bocca del porto di S. Erasmo. Per spiegare la sua decisione, aveva invocato la diminuzione di profondità e della corrente delle acque dovuta al procedere dell'insabbiamento (379). Le concessioni rilasciate ai nuclei della podestaria di Torcello hanno dunque un significato maggiore delle eccezioni a un precetto detestato, accordate con il bene-placito dello stato a una comunità povera. Esse palesano che di fronte all'impossibilità di provvedere alla manutenzione di tutta la laguna, il senato privilegia infatti l'area più vicina a Rialto.
Tra Livenza e il Tagliamento i detriti alluvionali avevano causato la separazione del bacino lagunare centrale (laguna di Venezia) e dell'area settentrionale (laguna di Marano e di Grado). Il settore compreso tra il Piave e Livenza subiva un'evoluzione simile e un degrado notevole. Il Sile aveva in precedenza fatto sentire i suoi effetti sulle acque d'Ammiana e di Costanziaca e continuava, nel XV secolo, a minacciare gli isolotti intorno a Torcello e alla bocca dei Tre Porti. Dalla seconda metà del XIV secolo, lo spostamento delle aree di pesca aveva significato, insieme ai danni causati dal Piave, il degrado di certe parti della laguna. La libertà consentita dall'autorità alle valli da pesca vicine a Torcello dimostra allo stesso modo, un secolo dopo, che l'autorità politica conosce il degrado in corso a nord del bacino di Venezia. Di fronte all'impossibilità di proteggere tutto il bacino lagunare l'interesse si concentra sui porti. Quello di S. Nicolò, a dispetto di ogni sforzo, si restringe e diventa pericoloso ed è sostituito dal passaggio di Malamocco. Giacché nelle vicinanze del canale di Malamocco si cerca di eliminare tutti gli ostacoli al libero corso delle acque (380). E nello stesso tempo la protezione nella laguna settentrionale sembra molto meno rigida.
Già nel XIII secolo, il comune cominciava a intervenire sulla laguna (381). Nelle sue intenzioni e nelle sue modalità, questa impresa non segnava nessun ritardo rispetto all'intervento sulla terra. Ma, sull'acqua, il potere pubblico impara, in modo più amaro, a fare i conti con ostacoli e rinunce. Le misure di protezione contro le tecniche di pesca fanno da introduzione alla storia di questa politica. La gestione pubblica incontra delle resistenze e i compromessi sono il risultato di pressioni contrastanti. Ed è anche manifesto che all'interno del ducato certe zone vengono meglio protette e che l'amministrazione delle acque isola con più cura tutto il territorio vicino a Rialto e al suo porto.
Gli interventi e i lavori sul litorale seguono la stessa cronologia. I primi "superstantes" sui cordoni litorali erano stati creati nel 1281 (382). I finanziamenti necessari ai lavori furono messi a disposizione rapidamente. Il prestito promosso dal comune nel dicembre 1284 (383), "occasione litoris reaptandi", inaugurò una vera e propria serie. La signoria inoltre elesse dei collegi provvisori di saggi, responsabili dei litorali (384), remunerati attraverso gli "imprestiti" (385). I quadri politici locali controllarono inoltre i lavori ordinari di ripristino sui vari cordoni litorali. Il doge e il suo consiglio detenevano un'originaria competenza sui lidi, come su tutto il sistema lagunare (386). Il consiglio dei quaranta esercitava tuttavia una effettiva tutela, eleggendo ad esempio gli ufficiali provvisori. Ogni mese, i suoi tre capi ispezionavano i litorali (387).
Negli anni 1330-1340, in conseguenza del nuovo equilibrio degli organismi consiliari, fu il senato ad assicurare la condotta di questa politica (388) e, insieme, la scelta di commissioni straordinarie. Nella seconda metà del XIV secolo il sistema sembrava in via di affermazione. A quell'epoca Venezia distingueva, in base a una divisione geografica delle competenze, gli ufficiali del Lido di S. Nicolò da quelli di Malamocco e di Pellestrina (389). Fino alla fine del XV secolo, questa organizzazione amministrativa restò immutata. Accanto a ufficiali permanenti, agivano commissioni straordinarie per periodi più o meno lunghi.
Le comunità locali, a Chioggia o Malamocco, sostengono una parte delle spese attingendo alle loro entrate. Quando l'onere dei lavori ne oltrepassa la disponibilità, Venezia accorda loro dei sussidi eccezionali. Ma la sua larga partecipazione finanziaria corrisponde alla tutela giuridica del Comunis Venetiarum sulle acque e i lidi. In un primo tempo il prestito aveva permesso la manutenzione. Le somme stanziate servivano all'acquisto dei materiali, canne, legno, massi, ferro, che molto spesso venivano forniti dal cantiere dell'Arsenale (390) e venivano messi in deposito al Lido. Queste risorse economiche non erano tuttavia sufficienti e la nomina nel 1388 di cinque saggi, incaricati di aumentarle, mette in luce sia il costo dell'impresa, sia una più generale crisi del prestito pubblico (391). Dopo il 1389 il ricavato della tassa sul vino fornisce i fondi assegnati ai litorali (392). Sul dazio di due ducati che grava su ogni anfora di vino importato, si trattiene un mezzo ducato per i litorali. I diritti sul vino consentivano spesso, come si è visto, la costruzione o il ripristino delle mura. Con una simile devoluzione, Venezia assegna alle sue protezioni contro l'"impetus maris" le stesse entrate fiscali.
Nella storia della manutenzione dei litorali, l'attribuzione di entrate fiscali permanenti segna un punto di svolta. Nel 1408 il senato impone inoltre a tutte le navi veneziane e straniere che stazzano più di cinquanta botti di consegnare, come vero e proprio diritto di utilizzo delle strutture portuali, una barca carica di pietre o di terra per il consolidamento del Lido di S. Nicolò (393). La stessa assemblea nel 1416 aumenta la severità delle pene che colpiscono i furti commessi sul litorale (394). La deliberazione rivela che si razziano i depositi dello stato e si portano via dalle palizzate pali e ferraglie, proprio quando da queste difese fortificate dipende la vita e la salvezza della città (395).
Dopo la messa in opera di strutture amministrative e giuridiche e l'avvio delle iniziative di manutenzione, il ritmo degli sforzi, secondo una cronologia generale, rallenta. La sezione più importante del cordone litorale, la difesa che protegge direttamente Rialto, cioè quella attraversata dalla bocca del porto di S. Nicolò, era stata essenzialmente protetta. Venivano continuamente ripresi quei provvedimenti che proibivano il pascolo su questo lido e consideravano reato pescarvi le ostriche, e punivano ogni danno, volontario o meno, con le pene più severe riservate agli atti di vandalismo in città (396). Cronologicamente ripetitivi, questi documenti evidenziano la fragilità di un ambiente che l'azione dell'uomo rendeva ancora maggiore.
I lavori riprendono dopo il 1360 (397) e, alla fine del XIV secolo, diventano relativamente più frequenti (398). Il loro ritmo, più sostenuto nei primi decenni del XV secolo, aumenta dopo il 1440 per raggiungere un'intensità particolare. Alcune cifre, rilevate a intervalli nel corso del secolo, consentono di misurare il costo di questi lavori. Nel 1424 6.000 ducati sono destinati ogni anno ai litorali (399); nel 1469 più di 11.000 (400); nel 1490 10.800 ducati (401); nel 1496 la stessa somma (402). Questi fondi a volte servono per altre opere. Così, sul bilancio del 1424, si recuperano 4.000 ducati assegnati ad altri litorali nel dominio del mare (403). Sui 900 ducati che entrano ogni mese nelle casse dell'ufficio del sale nel 1496, 100 sono consegnati ai savi alle acque, 100 vanno alla fabbrica del Levante, altri 100 servono per la costruzione del palazzo Ducale. Restano 600 ducati che non sono sufficienti per le riparazioni correnti (404).
La convergenza cronologica dei dati (provvedimenti legislativi, gare d'appalto, approvvigionamenti di materiali indispensabili) mette in evidenza l'attività dei cantieri soprattutto nella seconda metà del XV secolo.
I marani (405) sono adibiti al trasporto delle pietre d'Istria e, concordanza significativa, negli squeri di Venezia e della laguna nel corso degli anni 1410-1420 si iniziano a costruire nuovi marani. A quella data la loro stazza è ancora valutata con la vecchia misura del "mier" (pari a un migliaio di libbre veneziane) (406). Nel 1419 il maran di Giacomo Ravagnan può trasportare 255 miera di massi, quello di Leonardo Dolfin 195, quello di Zuan de Paxin, 180 (407). Durante l'inverno del 1421 quindici marani sono all'ancora in porto. Si decide l'urgente costruzione di altri sedici. Nel 1424 sedici marani navigano tra Venezia e l'Istria (408). Nel 1428 ventitré di queste navi sono iscritte all'Arte della pietra (409). Nel luglio 1439, dovendosi colmare quattro brecce che si erano aperte nelle difese del Lido, sono requisiti i settanta marani di cui dispone la città a tale scopo. Il mastro Pinzin, incaricato della costruzione delle dighe, fa richiesta nel 1442 di quaranta di queste chiatte per i cantieri di Pellestrina (410). La flotta prosegue la sua crescita nei decenni successivi. Il senato constata infatti nel 1469 che "ogni giorno si moltiplica il numero dei marani" (411). Le stesse imbarcazioni si modificano. Negli anni 1420 erano necessarie nuove unità con portata minima di 200 millaria. Salvo quattro eccezioni, le chiatte registrate nel 1428 dai provveditori al sale superavano già tale portata, arrivando alla misura di 220, 230, 250 e 280 millaria. Se il maran di Leonardo Dolfin stazzava a questa data, come nel 1419, 195 millaria, Zuan de Paxin possedeva ancora una chiatta da 180 miera e ne aveva acquistata una seconda, più grossa, da 234 miera.
Nella seconda metà del secolo, i marani conservano le loro caratteristiche tecniche ma la loro capacità viene aumentata. Poiché queste imbarcazioni effettuano stabilmente, nel XV secolo, cinque viaggi l'anno tra l'Istria e i lidi (412), le modifiche della flotta in numero e in grandezza dimostrano un'effettiva crescita della domanda veneziana. Malgrado le difficoltà finanziarie latenti o pericolose, intensi lavori caratterizzano, dopo il primo terzo del XV secolo, il settore della conservazione della laguna. Gli ufficiali preposti ai litorali controllano con il loro segretario i carichi di pietre e il loro scarico. I provveditori al sale sorvegliano il numero annuale dei viaggi (413). Malgrado la riduzione d'autorità delle tariffe (414), queste imbarcazioni, costruite in fretta e in economia (415), procurano senza dubbio dei profitti reali. Questi ultimi, certi e garantiti cinque volte l'anno, spiegano anche la crescita della flotta. I soli incoraggiamenti dati dal potere pubblico alla costruzione non possono infatti bastare a darne spiegazione. Nel 1428 i proprietari, a fianco di Polo Taiapietra e Zuan "de la fornaxe", sono i nobili Leonardo Dolfin, Leonardo Dandolo, Francesco Loredan, Pietro Lando e il monastero della Trinità (416).
Negli anni 1440, rompendo con gli interventi specifici sopra riportati, l'impresa diviene più sistematica.
Gli ingegneri concludono le loro ispezioni con diverse relazioni: rapporto sulla costruzione di dighe di terra e pietre da cinquanta a cento passi; item sul rialzo e il restauro delle dighe fatte da Nicolò de Zane; item sul rinforzo dei frangiflutti di pietre che non sono state completate in molti punti (417). Ai provveditori al sale spetta la decisione e l'ingegnere dell'ufficio - alla metà del XV secolo il mastro Pinzin - stabilisce i termini del bando d'appalto (418). Chiuso il cantiere, i provveditori controllano i lavori (419).
La competenza finanziaria della magistratura sul sale ha dunque finito con il comportare una competenza complessiva. Gli ufficiali sui litorali conservano il loro ruolo nella cura dell'ambiente o nell'applicazione dei regolamenti. Le autorità locali vengono consultate; così, il podestà di Malamocco assiste di solito alle aggiudicazioni. Tuttavia la tutela permanente della magistratura sul sale pone nel XV secolo l'opera condotta sui lidi sotto l'autorità del potere politico centrale, nel cuore degli interventi messi in atto nel bacino lagunare.
A seconda delle zone si utilizzano diverse tecniche di difesa. La diga, semplice innalzamento di terra, costituisce la fortificazione più diffusa. A tal scopo, si riempie di terra, a volte con urgenza, una breccia aperta nel cordone litorale (420). Più spesso la diga consolida una spiaggia non protetta o sostituisce un precedente terrapieno crollato. In tutti i casi, essa è più larga alla base che alla sommità al fine di prevenire la frana che potrebbe verificarsi per un'erosione rapida. Le dimensioni di questi terrapieni variano notevolmente secondo le zone geografiche e la forza delle onde: la larghezza può misurare alla base da 26 a 44 piedi e alla sommità da 8 a 11 piedi, mentre l'altezza va da 4 a 8 piedi (421).
Spesso è impossibile precisare la durata esatta delle opere. Le indicazioni topografiche lungo il litorale, tranne rari toponimi, rimandano a lavori antichi, a parti di dighe un tempo costruite da un mastro e perciò impossibili da ritrovare. I bandi d'appalto, enumerando molte operazioni di ripristino (422), mostrano tuttavia la rapidità del degrado delle difese e la necessità della loro ricostruzione ogni trenta o quarant'anni. Nel 1448, i provveditori al sale facevano misurare a Malamocco 525 passi di diga (423). Le terre della confraternita di S. Giovanni Evangelista erano in parte vicine a questa difesa. Esse tuttavia non sono citate prima del gennaio 1484. In tale data, i magistrati assegnano per il restauro 85 passi di diga in mezzo alle terre di S. Giovanni (424). Per lo sbarramento, interrotto in tre punti tra S. Lunardo e il passaggio di Malamocco, il lavoro viene commissionato nel marzo 1466 a uno degli offerenti abituali, Piero Sambo, che avrebbe dovuto colmare di terra, ma anche rinforzare e sopraelevare il terrapieno (425). Nel 1483, sullo stesso tratto, andando verso il porto, vengono appaltati lavori su 220 passi (426). Il ritmo degli interventi, a volte intensificato dai danni provocati dalle tempeste, si palesa attraverso questi pochi esempi. Le parti sulle quali si lavora dopo il 1482 - 620 passi nel 1483, 215 passi nel 1484 (427) - ripristinano e migliorano la diga identificata unitariamente nel 1448.
Spesso, allora, il terrapieno aumenta di qualche piede in altezza (428). Dopo il 1460 con gradualità e dopo il 1470 in modo massiccio, i contratti tendono ad uniformarsi, anche se le esigenze aumentano sempre più. Lo sbarramento, largo 40 piedi alla base e 8 piedi alla sommità, s'innalza fino a 10 piedi negli ultimi decenni del secolo (429).
Gli interventi si susseguono e si completano; le opere testimoniano inoltre un crescente coordinamento. Le prime assegnazioni, malgrado qualche collegamento a situazioni vicine (430), rispondevano soprattutto a esigenze momentanee. I lavori insistevano, senza continuità, sulle brecce o sui tratti specificamente erosi. Quando le dimensioni delle difese si uniformano, la catena degli interventi tende a modellare una fortificazione continua. Così è stipulato che la diga cominci all'inizio di quella costruita da Polo Sabbadin e che la continui verso Malamocco, in modo che siano saldate una con l'altra (431).
Una volta che il contrafforte di terra è consolidato, erba e radici vengono strappati e i depositi di sabbia eliminati, mentre la terra (432) completa l'opera. In seguito si pone mano al secondo elemento della costruzione, la base di pietre a livello dell'acqua che sostiene direttamente l'urto delle onde. I primi blocchi sulla marina vengono, per maggior stabilità, affondati di poco, all'incirca due piedi. Poi vengono predisposti fino a raggiungere la sommità del terrapieno (433). I bandi d'appalto calcolano in marani il volume dei massi necessari, mentre una flotta di barche ("piate") assicura il loro trasporto sul cordone litorale: l'offerente infatti attrezza per la durata dei lavori le cavane che servono per lo scarico. Una volta sistemato, l'argine viene anzitutto ripulito dai rifiuti lasciati dalla marea e dalle conchiglie, poi i blocchi di pietra sono di nuovo solidamente disposti (434). L'altezza del terrapieno aumenta e lo spessore del banco di sabbia si allarga. I frangiflutti di pietre da 12 passi sostituiscono alla fine del secolo gli argini da 8 a 10 passi, usuali quarant'anni prima. L'imprenditore, minacciato di ammenda, esegue i lavori nel tempo prescritto. A richiesta della pubblica autorità, i proprietari rivieraschi forniscono a volte la protezione di un capanno, ma il mastro provvede a un ricovero temporaneo per gli strumenti e i materiali. La città fornisce insieme alla commessa i blocchi di pietra; il mastro si procura la terra sfruttando la velma lagunare.
Sul lido sabbioso (435), la palizzata rende stabile la spiaggia. Le offerte d'appalto descrivono il modello di costruzione: una doppia fila di pali accostati l'uno all'altro; tronchi alti 11 piedi conficcati a 6 piedi di profondità nella sabbia; una catena che lega questi tronchi. Tra le due file di palafitte uno spazio riempito di canne e una copertura di pietre per impedire la penetrazione dell'acqua. Secondo le procedure normali delle commesse di stato, la signoria fornisce legno, ferro, catene, corde e pietre (436). Un argine di pietre può essere aggiunto a questa protezione. Mentre a Malamocco e a Pellestrina la fascia litoranea è di solito protetta da una diga di terra e una barriera di pietre, le spiagge del Lido di S. Nicolò sono piuttosto difese dalle palizzate. Esse vengono costruite, ma anche restaurate (437). Il ripristino, a volte soltanto parziale, consiste nel consolidare i pali, nello stringere le catene, nel vuotare l'intercapedine per pigiarvi di nuovo le canne e incastrarvi le pietre (438).
Queste costruzioni confermano i progressi dei sistemi di difesa: negli ultimi trent'anni del secolo vengono commissionate doppie o triple palizzate (439). Dopo il 1480 trionfa la doppia fila di pali, tranne rare eccezioni costituite da costruzioni di alcuni metri destinate a una protezione specifica o, in altri casi, dalla sussistenza di opere precedenti.
Con un'opera di sostituzione presto generalizzata, Venezia rinnova e consolida gli spalti degli argini, delle protezioni di pietra e delle palizzate. La diversità delle condizioni naturali giustifica la suddivisione geografica dei tipi di fortificazione. A Malamocco, S. Pietro in Volta o Pellestrina, la palizzata sostituisce la protezione abituale (440) o si combina con essa (441). Così, da S. Lunardo al porto di Malamocco, le pubbliche aste d'appalto delle palizzate doppie accompagnano il contemporaneo ripristino della diga nel corso del 1483 (442). Inversamente il litorale di S. Nicolò è parzialmente protetto da un argine di terra e da un frangiflutti di pietre. Secondo il medesimo procedimento di costruzione qualche gettata, perpendicolare al litorale, sulla costa sabbiosa serve a rendere stabile il terreno.
In questi decenni cruciali del XV secolo, Venezia inizia una costosa difesa del litorale, insufficiente malgrado le crescenti esigenze delle commesse pubbliche e la regolarità degli sforzi. Su questo fronte nasce allora una storia di lunghissima durata, poiché i murazzi (443), che fissano infine solidamente queste spiagge protette nel XV secolo dagli argini di pietra, sono completati con grandi spese prima della dissoluzione dello stato veneziano.
Questi cantieri, certamente continui a S. Nicolò, Malamocco e Pellestrina, contribuiscono dunque ancora alla protezione del bacino lagunare centrale. Al contempo, essi interessano anche la difesa dei porti.
Per non abbandonarsi ad una ricostruzione anacronistica, fondata su di una conoscenza dell'ambiente lagunare che Venezia elabora soltanto lentamente, si deve constatare che i legami che uniscono nel processo decisionale i porti e i litorali non risalgono alle origini. Gli ufficiali del Lido giuravano di consacrare le loro attenzioni alla difesa del litorale, ma nel loro giuramento non erano compresi gli accessi alla laguna. Le prime commissioni elette, responsabili di una sola parte del Lido oppure assegnate alla fortificazione dell'insieme del litorale, non hanno altre competenze. Per provvedimenti particolari e per il voto di rimedi urgenti, alcuni saggi potevano ancora essere eletti, sia per i fiumi, sia per i litorali. Ma più spesso, nella seconda metà del XIV secolo, le attribuzioni si allargano e le commissioni provvisorie devono occuparsi dei porti, dei litorali e dei fiumi. I problemi dell'ambiente sono ormai affrontati in modo unitario. Tuttavia il tentativo di intervenire sui siti è spesso maldestro: se non produce effetti benefici, può anche rivelarsi disastroso. In tutti i casi, si tenta di attuarlo in modo sistematico (444).
Se le sabbie portate dai venti e dalle correnti rinforzano le spiagge erose dalle onde, i banchi da esse formate ostruiscono le aperture del litorale. La modifica delle bocche dei fiumi, attraverso incerti tentativi, mira a ridare forza alla corrente dei vari canali portuali, di volta in volta sacrificati o privilegiati. Svolgendo un'opera parallela e costante sul fronte del mare, palizzate e moli formano per questi passaggi un insieme di protezioni. Nel XIV secolo numerose provvisioni avevano stabilito la necessità di queste difese; nel XV lavori analoghi si moltiplicano. Le protezioni intorno all'entrata di Malamocco, basate sulle tecniche già descritte (doppia fila di pali e rinforzo di pietre), hanno il solo scopo di salvaguardare il flusso e il riflusso nel canale e l'intensità delle correnti di marea. Tuttavia queste opere costituiscono soltanto un metodo di conservazione superficiale di queste bocche aperte lungo il litorale. Le diverse sistemazioni che, mediante la chiusura di altre bocche portuarie, tentano di liberare il portus di S. Nicolò, testimoniano un tentativo più audace.
Le acque marine, sospinte attraverso i canali dalle correnti, non si mescolano all'interno della laguna, defluendo a caso da un'entrata o da un'altra. Superando i porti e, al contempo, diffondendosi a velocità diverse, le acque si incontrano senza mescolarsi lungo gli spartiacque. Quando la marea defluisce, le correnti inverse ripassano per il porto dal quale ciascuna di esse era entrata. Esistono dunque delle linee di separazione delle acque che dividono la laguna in bacini diseguali. Il rapporto volumetrico tra questi bacini, così come la disposizione degli spartiacque, non sono formati in modo definitivo. Il ritmo della circolazione marina, la velocità delle correnti dipendono dal rapporto tra l'area del bacino e la situazione delle bocche. La maggiore o minore superficie del bacino determina infatti la maggiore o minore rapidità di propagazione delle acque.
A partire dal XIV secolo Venezia tenta di agire sulla portata del canale del porto, prima quindi che Marco Corner analizzi questo fenomeno e ne tiri le conclusioni che preludono al proverbio rimasto nei secoli successivi "gran laguna fa gran porto". Così nel 1356 il tentativo di chiusura della bocca di S. Erasmo cerca di migliorare la situazione del porto di S. Nicolò, poiché si unisce questo bacino a quello di S. Nicolò. Il provvedimento, ripreso tre anni dopo, è ancora più volte esaminato prima che si preferisca separare le due bocche con una palizzata (445). Le commesse di stato testimoniano nel XV secolo il regolare rifacimento di questa palizzata della Garzina e poi il suo prolungamento. Per esempio, nel 1448, viene effettuato un rinnovo completo: attraverso le brecce aperte, le acque si disperdono e non arrivano più nel porto di Venezia. Il collegio del sale fornisce a tal scopo un'autentica foresta di tronchi (446).
Le difficoltà all'entrata del porto di S. Nicolò, descritte dai viaggiatori, rispondono alle sfavorevoli condizioni naturali. In quanto sbocco più vicino a Rialto, il porto di S. Nicolò è la via d'accesso preferita. Per cercare di salvarla la città decide di ritentare, a diverse riprese e a spese del canale di Malamocco, l'operazione fallita a S. Erasmo. Il porto di Malamocco è così additato nel 1448 come il principale colpevole e i provveditori al sale devono restringerne l'ampiezza (447). Questa delibera non attuata viene ripresa due anni dopo (448). Questa volta viene messa in pratica e dà luogo "a la ponta del porto di Malamocco", alla sommersione di cassoni di legno e di zattere (449). Commissionato nel 1451, questo dispositivo viene rimesso a punto a partire dal 1454. Si riempiono di nuovo di canne e di pietre i cassoni fatti di tronchi e rivestiti di tavole e si affondano altre zattere (450). Questi interventi, al pari di quelli condotti altrove (451), non ottengono nessun risultato positivo (452). La nuova chiusura, nel 1474, del porto di S. Erasmo e la distruzione parziale della palizzata della Garzina fanno parte di questi contraddittori e infruttuosi tentativi per cercare di salvare un accesso condannato all'insabbiamento.
Alla fine del XV secolo è necessario supplire all'inefficienza della bocca di S. Nicolò utilizzando il canale di Malamocco. La magistratura al sale è responsabile della segnaletica portuale. Dal cordone litorale a S. Marco i dromi segnalano il canale. Attraverso l'esame dei contratti pubblici si nota subito la speciale manutenzione destinata ai segnali del porto di S. Nicolò (453). Ma le commesse affidate nel 1492 a Lorenzo del Rio segnano il rovesciamento della tendenza e il ruolo ormai indispensabile del canale di Malamocco per il traffico delle imbarcazioni di grosso tonnellaggio (454).
Il restringimento del bacino lagunare riveste un ruolo molto importante per spiegare la rovina del porto e l'indebolimento delle correnti di marea. Ora, gli interramenti selvaggi, la moltiplicazione abusiva degli ostacoli e la vallicoltura intensiva, di fatto contribuiscono soltanto parzialmente a questa riduzione, malgrado le ripetute accuse nei documenti pubblici. Il principale responsabile è infatti il materiale alluvionale portato dai fiumi. Non si poteva tuttavia puntare al suo controllo sistematico visto che Venezia agiva soltanto sulle loro foci. A questo scopo dunque, la conquista della Terraferma diventa un fattore di importanza capitale.
Impotenti a intervenire sul corso dei fiumi prima dell'espansione continentale, costretti a subire le conseguenze delle operazioni eseguite a monte dai Padovani, i Veneziani temono l'incontro nella loro laguna tra le acque dolci e le acque salmastre, i danni provocati dal materiale alluvionale e l'aumento delle paludi e dei canneti.
Però nonostante che la sovranità di Venezia sopra la Terraferma si estendesse e venissero istituiti dei collegi provvisori sulle acque, le pratiche tradizionali (455) si perpetuano nel secolo successivo, per esempio quando Francesco Foscari impone il suo progetto di riaprire lo sbocco di Fusina. Le conseguenze sono disastrose: mentre il canale di S. Nicolò continua a insabbiarsi, il canneto si allarga e il regime irregolare del basso corso del Brenta compromette lo sfruttamento agricolo. Ispezioni e rapporti descrivono unanimemente un degrado irreversibile, ma si differenziano riguardo ai mezzi previsti per intervenire. Le diverse proposte per sistemare la questione dei fiumi restano incerte tra le deviazioni di maggiore o minore ampiezza. I rimedi, via via sperimentati con successive modifiche al corso del Brenta, si limitano a spostare, allontanandola da Venezia, la minaccia della sedimentazione.
Questa politica manca di fermezza, lacerata come è tra la definizione di un interesse generale e quella dei molteplici interessi privati, il cui peso si fa sentire sin dall'inizio. Quanto alle tecniche stabilmente utilizzate, esse richiedono soltanto una numerosa manodopera. Quando la conoscenza dell'ambiente lagunare si consolida e si trasmette, si può dispiegare, sull'esempio di Marco Corner, la concezione di un piano d'insieme, anche se i lavori conservano un orientamento tradizionale. Si approfondisce così lo scarto tra le possibilità di intervento e la realtà di tale intervento. La deviazione del Brenta nel 1457 ha tuttavia effetti benefici.
I guasti realmente catalogati sui lidi, le bocche portuali o i canali mettono in luce dunque il fallimento o i danni dei ripetuti interventi, le incertezze di lavori sperimentati, distrutti, rifatti in un tentativo, all'apparenza impossibile, di conservare le diverse componenti del sistema lagunare. Ci sarebbe dunque opposizione tra la sistemazione urbana, portata a compimento nelle sue linee essenziali, e il tentativo di conservazione delle acque, largamente deludente. Le angosce del potere rifletterebbero allora un oggettivo deterioramento dell'ambiente, in una lucida consapevolezza dei limiti e dei rovesci di una impresa di vasto raggio.
Bisogna tuttavia ponderare l'amara constatazione che Venezia fa sulla propria opera e sfumare la cupezza del quadro che emerge dalla lettura dei documenti pubblici. Gli interventi riguardano molti luoghi, porti, litorali, fiumi, canali. Le esigenze sono conflittuali: navigazione marittima, comunicazioni con la Terraferma, approvvigionamento d'acqua... Al centro di mire opposte, l'acqua si rivela un campo d'interesse eminentemente politico.
L'esempio della vallicoltura ha messo in mostra l'urto di esigenze economiche, sociali e ecologiche opposte. Osservazioni simili valgono per la regolazione idrografica e l'alimentazione dei mulini posseduti dalle grandi famiglie. A queste installazioni Marco Corner, e in seguito Cristoforo Sabbadino, imputano una responsabilità di primo piano. Uno dei documenti che indicono l'elezione dei savi alle acque precisa che essi non devono possedere né terre né mulini nei distretti di Padova e di Treviso (456). E gli aspri negoziati condotti nel XV secolo con la fraterna Valier, che possiede diversi mulini, dimostrano ancora il peso di questi interessi (457). L'elemento politico decide e, in mancanza di un intervento d'insieme, privilegia la laguna di Venezia piuttosto che quella di Torcello o quella di Chioggia, quando, dopo la deviazione del 1501, il Brenta riversa i suoi depositi nella parte meridionale della laguna. Nel secolo successivo, secondo modalità molto simili, il partito della laguna si oppone a quello della Terraferma e della sua bonifica, nello scontro di due strategie economiche (458).
Spesso i progressi tecnici arrivano a risolvere soltanto in ritardo i problemi pratici causati da una precedente decisione. Il carro di Lizzafusina costituisce l'esempio migliore (459). Questo impianto, capace di sollevare le grosse barche che risalivano il Brenta, viene messo a punto solo nel 1460. La macchina elevatrice risolve finalmente il problema di comunicazione posto dalla costruzione della diga di Lizza. La posizione dominante ricoperta a Lizzafusina dalla famiglia da Pesaro (460), autentica padrona di questo centro nevralgico per le comunicazioni con la Terraferma e per l'approvvigionamento d'acqua, permette anche di osservare l'inestricabile confusione di interessi pubblici e privati.
La conoscenza dell'ambiente tuttavia progredisce nel corso del XV secolo. L'assenza di una vera magistratura preposta alle acque, eccezion fatta per gli ufficiali dei litorali, costituisce senza dubbio un freno alla conoscenza e agli interventi. L'organizzazione di un ufficio presuppone infatti un personale specializzato e pagato, notai, un archivio, precise modalità di finanziamento, insomma possibilità materiali di gestione. Gradualmente, alla fine del XIV e nel XV secolo, prevale tuttavia il ricorso a uomini periti, intelligenti, pratici. Si tratta dapprima di "uomini di mare": piloti e pescatori. L'anno 1415 segna la data di una delle prime convocazioni. Gli "homines maris", a fianco dei politici eletti come di consueto, esaminano i porti, i litorali e lo sbocco delle acque del Brenta (461). Da allora la loro competenza viene sollecitata. Nel 1421, prima di iniziare un dragaggio; nel 1457, per un rapporto generale; nel 1487, nel 1493, nel 1497 e nel 1499, quando, inserite nell'ambito di una serie di provvedimenti, queste ispezioni divengono regolari (462). Ai piloti si chiede di misurare l'aumento dei banchi di sabbia alla bocca di S. Nicolò, ai pescatori di valutare lo stato dei canali e di dare un giudizio sui danni provocati dalla vallicoltura (463). Ma il riconoscimento della loro "pratica", della loro "esperienza" e della loro "memoria" amplia la sfera dei loro giudizi. I pescatori interrogano gli anziani per valutare l'invasione dei canneti e i vecchi confini della laguna viva e della laguna morta. I consigli mandano i gastaldi delle grandi comunità di pescatori, S. Nicolò dei Mendicoli, S. Agnese o Poveglia, a esaminare, nel 1493, lo sbarramento di Bottenigo o, nel 1497, la situazione dei detriti alluvionali a Lizzafusina (464).
Un secondo gruppo di conoscitori del sistema lagunare, meglio noti in epoche successive, assume una connotazione grazie alla testimonianza di qualche documento: sono i nobili che il senato definisce nel 1488 "esperti" e "informati" (465). Tra essi prevale negli anni 1440-1450 la figura di Marco Corner. La ripetizione dei mandati temporanei forma una competenza che in alcuni di essi rinforza senza dubbio una reale curiosità intellettuale. L'interesse per la laguna di Marco Corner è determinato dagli eventi che scandiscono la sua carriera politica (466). Ufficiale alla giustizia vecchia nel 1442, responsabile del rifornimento di legname, la sua ispezione tra il Sile e il Tagliamento lo porta a formulare le sue prime osservazioni idrografiche. Eletto savio alle acque nel 1457 e nel 1459, sorveglia i lavori di deviazione del Brenta (467). Ed è proprio per contrastare questa soluzione che redige il suo trattato sulla laguna. In esso egli ripercorre la storia del fiume dal 1142 e, dopo averne fatta una vera e propria sintesi, propone il primo piano organico di salvaguardia della laguna attraverso lo sbocco dei fiumi fuori del bacino lagunare (468).
Anche se questo apporto teorico resta senza un effetto pratico immediato, esso contrassegna tuttavia l'elaborazione graduale di una visione generale, la riunione di un complesso di conoscenze e mostra la formazione di una categoria di esperti locali. L'utilizzo di ingegneri diventa più sistematico sottolineando l'importanza dei cambiamenti dall'inizio del XV secolo. Si tratta dapprima dei mastri della signoria, retribuiti dai provveditori al sale, responsabili, come il mastro Pinzin (469), della ripulitura dei canali e della protezione dei cordoni litorali. Essi accompagnano le commissioni di savi nelle loro ispezioni preparatorie, contribuiscono alla stesura del rapporto, forniscono annotazioni e disegni. Ma possono essere richiesti anche i mastri d'officina, ai quali la città assegna il lavoro, attraverso un bando rivolto a tutti gli specialisti e una sovrapposizione delle sfere del pubblico e del privato. Senza aspettare la sua istituzione ufficiale all'inizio del XVI secolo, l'ufficio alle acque impiega un personale tecnico stabile e paga i propri ingegneri, come Polo Sabbadino, padre di Cristoforo (470), del quale seguiamo la carriera negli anni 1480-1490, e Giorgio Spavento, attestato a partire dal 1500 (471).
Ricorrendo all'osservazione e alla tecnica, lo sforzo di conoscenza si organizza. Esso deve ancora fondarsi sulla riunione di una base documentaria. Nel 1405 il senato decideva la compilazione, a partire dai libri della cancelleria, di tutti gli antichi provvedimenti sulla laguna e l'idrografia (472). Questa misura iniziale viene rinforzata nel 1489: un notaio è incaricato di cercare il materiale legislativo negli archivi del maggior consiglio, del senato, del consiglio dei quaranta e dei libri dei Commemoriali (473). Nel 1485 l'esame della bonifica aveva infatti aperto la strada allo stesso procedimento attraverso la misurazione e la registrazione delle terre prosciugate (474). Con le sue prescrizioni, l'autorità pubblica decifra il passato e prepara l'avvenire. La sistemazione idraulica viene concepita in prospettiva. Anche se la messa in pratica fatica a applicare i miglioramenti empirici e teorici della conoscenza ambientale, Venezia nel corso di questi anni tenta di intervenire sulle diverse componenti dell'equilibrio lagunare.
Alle prese con costanti rifacimenti, l'opera di consolidamento del litorale avanza con lentezza. Ciò non toglie che questa sequenza ininterrotta di interventi sui lidi esprima una consapevolezza più precisa delle restrizioni poste dal sito e, allo stesso tempo, una chiara volontà di affrontarle. Il dettaglio dei contratti pubblici mette in evidenza la rilevanza del carico finanziario e la tenacia dell'investimento.
Questi cantieri, che si succedono senza soluzione di continuità, si fondano in maggioranza assoluta su imprese chioggiotte. Non sono escluse interferenze con le officine veneziane. Si ritrova ad esempio Alvise Zucharin, che nel 1480 effettua dei lavori di segnaletica per il porto di S. Nicolò, che, nel 1488, fa un'offerta per l'appalto di una palizzata a S. Lazzaro o, nel 1490, per quello di una ripulitura nella laguna (475). Alla fine del secolo Antonio, figlio di Zuane di Zara, imprenditore stabilitosi, come suo padre, a Castello - a Quintavalle -, vince un numero maggiore di contratti pubblici e si associa con i più noti mastri di Chioggia (476). Ma nell'ambito di una specializzazione molto netta delle operazioni, le famiglie di imprenditori di Chioggia prevalgono. Si può citare quella dei Sambo, con Angelo, il padre, attestato negli anni 1440-1460, Piero, il figlio maggiore che gli succede alla fine del decennio 1460, Giacomo, il figlio minore e Bartolomeo Benincha, genero di Angelo; inoltre si può evocare quella dei Nordio, autentica dinastia poiché sono segnalate per mezzo secolo tre generazioni, o infine quella dei Gezo (477). Queste sono le famiglie che si dividono i contratti pubblici.
L'esempio di Polo Sabbadino precisa meglio gli stretti legami che si creano tra questo circolo di imprenditori e la pubblica amministrazione, così come le possibilità di passaggio tra questi due ambienti. Alla fine del secolo, quando viene ancora menzionato, nei documenti dell'archivio dei savi alle acque, come ingegnere di quell'ufficio, Sabbadino si stabilisce a Chioggia, apre un'officina e si procura qualche commessa sui litorali (478). Così suo figlio Cristoforo, all'inizio del suo trattato sulla laguna, ricorda la sua infanzia a Chioggia tra gli uomini della laguna. L'empirismo delle tecniche idrauliche veneziane, caratteristico almeno fino al XVI secolo, trova qui una nuova conferma.
Quali conclusioni possiamo trarre al termine della nostra analisi? In primo luogo appare evidente che il rapporto tra la società veneziana e il suo spazio insediativo cambia notevolmente durante questi due secoli. Nel corso del XV secolo viene elaborata una visione dello spazio nella quale le lagune, legate indissolubilmente alla città, acquistano un ruolo più importante. Già in precedenza esistevano le prime avvisaglie di tale visione, ma il XV secolo ne segna la diffusione nella concezione ormai unitaria di un sistema spaziale nel quale si strutturano, insieme alla città, i fiumi, i litorali e le paludi. Questo modello spaziale dominante spiega in definitiva le linee di forza, le debolezze e le disavventure della sistemazione della laguna. Nei settori del suo intervento, malgrado i limiti già ricordati, si accentua l'influsso dello stato con le sue commesse come ha dimostrato, a mio parere, l'analisi in ordine cronologico dei diversi lavori. Altrove è il trionfo dei rimedi circoscritti, contraddittori, inefficaci o controproducenti.
In generale le analisi consacrate alla questione lagunare esagerano i difetti dell'azione pubblica. Esse non fanno altro che dare giudizi, in termini normativi e in modo spesso anacronistico, sulle scelte di Venezia, considerando necessari lavori che l'autorità pubblica non riteneva tali. In queste diseguaglianze di trattamento, in questo tentativo di controllo che si applica soltanto a certi oggetti, si concepiscono le relazioni della città con il suo ducato e con la sua area di dominio sul continente. Non è dunque tanto il livello delle tecniche o delle conoscenze da misurare quanto piuttosto il sistema di rappresentazione che qualifica un ordine cittadino. Nel complesso non si manifesta tanto un'eventuale razionalizzazione tecnica - anche se se ne constatano i progressi nel corso del periodo esaminato - quanto la sua sottomissione alle ragioni della politica. Pertanto attraverso i cantieri e la successione dei lavori e delle soluzioni messe in atto, si può appunto ricostruire la storia di una politica delle acque e della laguna.
Nel XV secolo la città si modifica ancora. Si modifica a seconda dell'andamento dei lavori più recenti; si modifica nella sua forma e nella sua organizzazione.
Nelle prime parrocchie popolate, il paesaggio e i rapporti socio-economici sono trasformati, mentre s'impone un nuovo paesaggio caratteristico nelle aree nelle quali l'urbanizzazione avanza.
In primo luogo rileviamo che il XV secolo ingigantisce soltanto i tratti principali dell'evoluzione morfologica del tessuto urbano già in corso nei secoli precedenti, quali le trasformazioni dello spazio della corte e dei rapporti tra gli edifici e gli spazi vicini pubblici e privati, o le nuove relazioni tra casa principale e case in affitto, o come le sistemazioni urbanistiche di nuovi quartieri. Questi cambiamenti saranno dunque richiamati in maniera sintetica.
Se la casa veneziana ben presto si disgrega, i diversi lignaggi membri della "casa" si radicano spesso in un quartiere. Questa stabilità residenziale, attestata da numerosi esempi, non porta tuttavia a una reale compattezza residenziale della famiglia. I complessi residenziali più ricchi vengono presto disgiunti. Spesso le proprietà vicine non appartengono più allo stesso lignaggio e anche all'interno della corte le case in affitto sono spesso separate dalla casa principale. In questo caso la moltiplicazione dei diritti di proprietà sulla superficie comporta la moltiplicazione delle pareti e delle chiusure di pietre e di legno. In tal modo la struttura della corte è oggetto di rapide trasformazioni, sia che essa subisca delle successive frammentazioni, sia che, tutta intera, venga distaccata e collegata al nuovo sistema di comunicazione terrestre. L'evoluzione della corte si rivela sulla base di questo fatto determinante. Spesso dotata di una nuova forma, a poco a poco ritirata nel volume della costruzione, essa resta soltanto il cuore della vita domestica, mentre in precedenza era il centro della vita sociale per un gruppo più o meno esteso. È evidente che un simile processo è fondamentale: grazie ad esso si può infatti comprendere l'evoluzione dei rapporti sociali e delle strutture materiali. Parallelamente la casa, fornita di nuove attrezzature, cambia mentre si modificano i suoi rapporti con lo spazio vicino, edificato o meno.
D'altra parte, il patrimonio immobiliare dei lignaggi nobili comprende spesso, accanto al nucleo centrale della residenza della famiglia, dei beni affittati, più o meno numerosi, più o meno disseminati e lontani a seconda dei livelli di ricchezza e delle strategie economiche della famiglia, nei quali le relazioni esistenti tra padrone e affittuario sono esclusivamente di ordine economico.
La stabilità residenziale dei lignaggi non significa dunque una immutabilità dei modi di abitare. Dalla permanenza topografica, spesso reale, delle famiglie non deriva un'immobilità delle forme spaziali e delle relazioni sociali. Il tessuto urbano si trasforma, la calle impone la sua recente preminenza. Con l'evoluzione più o meno armoniosa del sistema socio-spaziale della corte, si sgretola il sostrato delle solidarietà verticali. Le costruzioni in serie di case in affitto, distaccate ormai da una residenza padronale, dimostrano in maniera assai evidente i mutamenti delle strutture sociali e la conseguente importanza di questi nuovi insediamenti immobiliari. Nella corona delle parrocchie periferiche, gli spostamenti più intensi del mercato immobiliare attestano i progressi dell'urbanizzazione e il netto dinamismo urbano del XV secolo. Attraverso i numerosi cambiamenti immobiliari, è possibile misurare la non trascurabile importanza rivestita in queste contrade dalla piccola proprietà popolare locale, così come il peso economico dei proprietari più ricchi, che investono in tutta la città ma operano in modo particolare lungo questi confini in rapida trasformazione.
La struttura generale dello spazio muta in questa città dalle nuove dimensioni. Le vecchie frammentazioni spaziali perdono la loro importanza. I secoli XIV e XV sono così connotati dal continuo indebolimento del quadro sociale della contrada. Lo studio dei riti della festa del 2 febbraio mostra, ad esempio, come la celebrazione delle Marie venga abbandonata dopo la guerra di Chioggia per venire in seguito ripristinata in modo radicalmente diverso. Vi è una ragione di questa evoluzione più determinante del costo molto alto della cerimonia o della sua variante carnevalesca. L'autentico supporto di essa - lo spazio sociale della contrada - è venuto a mancare. E l'analisi delle pratiche economiche, sociali e devozionali mette in evidenza un indebolimento generale di questo quadro (479). Per le donne e per i più poveri i rapporti possono ancora prendere forma nelle ristrette cellule del vicinato, che ritagliano l'area della contrada. All'interno del sestiere, si riconoscono delle aree di relazione piuttosto larghe. Ma il quadro urbano funziona per tutti o quasi, interamente rivelato dalle forme delle attività e della vita sociale e religiosa.
Senza dubbio è necessario sfumare questa evoluzione generale. Lo spazio della contrada può, in qualche occasione particolare della vita della comunità, riacquistare la coesione che normalmente sembra aver perduto. Per alcune famiglie la sfera dell'influenza si confonde ancora con quella del primo vicinato e dell'esercizio, in quest'area ristretta, di solidarietà verticali che sembrano in apparenza intatte. Queste correzioni flettono l'eccessiva linearità che si potrebbe conferire all'evoluzione socio-spaziale veneziana. Esse rimandano agli scarti che possono instaurarsi tra il gruppo e lo spazio, alle possibilità di resistenza dell'uno o dell'altro. Esse stabiliscono la complessità della situazione urbana e la coesistenza, nella città del XV secolo, di esperienze spaziali "tradizionali" e "moderne" secondo criteri di posizione sociale, di ricchezza, di onore, di sesso.
Soprattutto, l'evoluzione urbana non si compie senza esclusioni. Se i cambiamenti politici, sociali e economici del XV secolo accelerano l'indebolimento del quadro di riferimento della contrada, essi contribuiscono parallelamente alla nuova formazione nella città di quartieri dalla forte coerenza socio-economica.
Venezia sviluppa un rapporto originale con la sua laguna e il ducato ed è questo primo cerchio del suo dominio spaziale che sarà dapprima esaminato.
All'interno del distretto dei Veneziani, la coesione è certa: la sovranità veneziana si esercita senza eccezioni da Grado a Cavarzere. Tuttavia, se le relazioni si mantengono strette all'interno di questi confini, attorno alla città-capitale si definisce progressivamente un primo spazio di influenza. La città può allargarsi sugli spazi insulari vicini. Respinge anzitutto verso la laguna le attività malsane e pericolose, i malati colpiti dalla lebbra e i troppo numerosi cadaveri delle prime grandi epidemie, così come certe attività artigianali, nonché l'inquinamento e i pericoli che esse possono far subire ai cittadini. L'abitudine di utilizzare a tali scopi gli spazi disponibili viene mantenuta. In vicinanza del cordone litorale, il lazzaretto perpetua in tal modo, a vantaggio della nuova disposizione contro la peste, un tipo di installazione ospedaliera eccentrica e lagunare, assicurato in precedenza da S. Lazzaro.
La crescita di Venezia provoca anche un'autentica colonizzazione di alcuni isolotti. A partire dall'ultimo terzo del XIII secolo, i forni per l'arte del vetro erano stati dislocati a Murano. L'isola costituisce dunque un osservatorio ideale dal quale seguire l'evoluzione degli scambi nella laguna settentrionale. Le relazioni di Murano anche con le comunità lagunari diminuiscono mentre l'attrazione di Rialto si fa sentire. L'isola si sviluppa e la sua crescita è determinata soprattutto dalla sua industria dominante, quella del vetro. Alla fine del XV secolo Murano costituisce un polo dell'economia veneziana, di incontestabile prosperità, indispensabile all'affermazione in corso del centro industriale veneziano (480). Il Lido di S. Nicolò si integra in quest'area di influenza e lì si nota un certo sviluppo dell'attività nel XV secolo, dovuto all'espansione dello spazio portuale e alla moltiplicazione delle operazioni di carico e scarico.
Si dispiega una vera e propria organizzazione complessiva. Le terre e le acque lagunari servono alla dilatazione dello spazio di Rialto e in parallelo nella città si generalizza una suddivisione periferica di zone, alcune caratteristiche della quale si potevano osservare a partire dalla fine del XIII secolo. La periferia assume delle funzioni economiche e sociali che il centro respinge.
L'industria del legno costituisce l'esempio migliore per introdursi allo studio di queste zone marginali. E possibile unire la specifica storia della sua diffusione nello spazio nel XIII e XV secolo con quella di un processo più generale che permette di valutare i rispettivi fattori della stabilità e della innovazione.
L'asse della Barbaria delle Tole mantiene alla fine del XV secolo le sue antiche funzioni di stoccaggio e di commercializzazione del legno. Tali funzioni erano attestate dalla fine del XIII secolo dai permessi di bonifica, poi dagli articoli emanati dalla polizia dei canali. Nelle due parrocchie di S. Maria Formosa e di S. Giustina, i terreni e le costruzioni, capanni e officine, si allineano sui bordi della laguna. Le famiglie proprietarie, come nel caso dei Badoer (481), guadagnano dall'affitto di queste infrastrutture. Mercanti popolari, che praticano il commercio della legna, sono anche associati a questi profitti (482). L'analisi non deve tuttavia arrestarsi su questa notevole stabilità. I confini cittadini, ancora mal definiti nel nord, vengono investiti di luogo in luogo da queste stesse attività, secondo il fenomeno osservato due secoli prima a SS. Giovanni e Paolo. Il rio di S. Zuane Polo non costituisce una frontiera e alcuni terreni prosciugati sono attestati sul bordo di S. Marina e di S. Canciano.
A SS. Giovanni e Paolo lo stoccaggio aveva contribuito a fissare il popolamento, a intensificare i ritmi della conquista e della stabilizzazione dei terreni sui bordi della laguna. Questa funzione si diffonde lungo tutta questa frontiera, al punto d'arrivo delle vie di approvvigionamento e dei canali lagunari, ultima sezione del sistema di comunicazioni con l'entroterra. Quando, alla fine del XV secolo, la parte nord della parrocchia di S. Maria Formosa viene sistemata e urbanizzata, poiché i depositi non sono più sufficienti ai bisogni dell'agglomerato, si trovano i terreni necessari per lo stoccaggio di questo ingombrante e pesante materiale nel nord dei due sestieri di Castello e Cannaregio. La Barbaria delle Tole resta il centro del commercio del legno. Ma lungo la riva, su parcelle spesso ancora in corso di prosciugamento, il legname depositato segna una prima forma di occupazione dello spazio, sinonimo per il momento di una sua utilizzazione più che di una sistemazione.
Alla stessa epoca si identificano orientamenti simili all'estremità opposta della città. Nella contrada di S. Basegio si giustappongono gli spazi non costruiti, i piccoli cantieri per le costruzioni navali e i terreni di stoccaggio. Su spazi mal definiti, poco o affatto urbanizzati, sono depositati i materiali necessari al riscaldamento, alle costruzioni, all'attività industriale di una città prospera e popolata (483).
L'esame della topografia dei depositi di legno mette già in evidenza alcuni tratti principali dell'evoluzione della periferia. Venezia riserva ai bordi del suo agglomerato, agli spazi progressivamente conquistati, un insediamento umano sparso attorno a poche attività industriali. Queste aree estreme condensano tutti i vantaggi: basso costo dei terreni, riserve di spazi, abbondanza d'acqua, minore rischio d'incendio, vicinanza delle vie di rifornimento. Il livello di sistemazione condiziona tuttavia la gerarchia delle attività. Il centro del commercio del legno resta fissato, lo si è osservato, nella Barbaria, dove si era originariamente sviluppato. Una simile ripartizione, che trova conferma in altri esempi di attività industriali, può rendere più preciso lo studio della costituzione del tessuto urbano.
Allo stesso modo, la suddivisione originaria per zone conserva lo stesso influsso alla Giudecca. L'ispezione del 1502 dei savi alle acque rileva la forte concentrazione, dalla parte della laguna, dei "terreni et caselle da pele", allo sbocco del rio del Ponte Lungo. Il rapporto osserva anche l'assenza dal 1485 di bonifiche abusive, tranne quella ordinata dai fratelli Loredan. Lo studio di queste misurazioni del terreno rivela la presenza attiva della proprietà nobile a fianco di una classe di piccoli mercanti e padroni di officine. Nell'insieme dell'isola prevale la disposizione in profondità dei lotti. Le "case da stazio" si succedono le une alle altre sul fronte del Canale della Giudecca. Le lavorazioni della pelle sono invece installate su una parte al confine con la laguna.
La lavorazione della lana, per la quale si osserva una evoluzione più chiara, fa risaltare i contorni di questa periferia. La redazione del capitolare originario aveva fatto seguito, sembra, all'istituzione nel 1244 dei consoli dei mercanti. I primi venti capitoli della compilazione del 1386 nei quali si riconosce il nucleo primitivo della mariegola interessano i tessitori, i primi ad organizzarsi (484). La regolamentazione e le prescrizioni tecniche si estendono poi alla filatura, alla tintura, alle diverse branche del mestiere, da allora posto sotto la responsabilità dei consoli per tutte le sue operazioni. Il comune si sforza di mettere in piedi un'industria in grado di rispondere ad alcuni bisogni del mercato locale.
L'amministrazione dell'Arte ha sede nel XIV secolo al mercato di Rialto, in ruga S. Nicolò (485). Il secolo dopo, l'Arte si è liberata della vicinanza dei depositi di stoffe straniere. La sua amministrazione si è spostata nel centro della produzione locale, concentrata all'epoca intorno al rio Marin.
I primi documenti sono più laconici a proposito della localizzazione del lavoro stesso. Contro l'ipotesi di una applicazione rigida delle delibere del maggior consiglio dell'ultimo terzo del XIII secolo, che avrebbero ristretto, sul modello della fabbricazione del vetro e della concia delle pelli, il "laborerium lane" a Torcello e alle altre isole della sua "podestaria" (486), la libertà di lavorare la lana a Venezia sembra dimostrata almeno dopo l'inizio del XIV secolo. Anche prima di tale data la filatura, fonte di lavoro per le donne, non aveva certamente abbandonato Rialto. D'altra parte il sostegno tecnico della Terraferma appariva indispensabile in una prima fase. La particolarità del sito costrinse a mandare i panni a Treviso, Padova e Portogruaro per la follatura. Poi nel XV secolo, la sede dell'Arte si trova, come il "purgo della lana", sul rio Marin. L'intreccio di fonti consente allora di localizzare in quest'area della parrocchia di S. Simeone Profeta il lavoro della lana (487). Le puntuali indicazioni dei decenni precedenti disegnano tuttavia un'area artigianale più vasta, sviluppata obliquamente da S. Pantaleone a S. Croce. I resistenti toponimi delle chiovere limitano ancora nel XV secolo i contorni di questa zona. Un procedimento civile, sottoposto alla corte del proprio alla metà del XIV secolo, descrive così queste "clauderiae" a S. Simone Apostolo dove i panni venivano stesi per asciugare dopo la tintura. Esso prova la presenza, negli stessi anni, di simili attrezzature a S. Pantaleone (488). In tutto il settore i ritmi della bonifica confermano la conquista di nuovi spazi che non sono tutti destinati, per lo meno in un primo momento, a essere costruiti. Il "terrenum clauderianum", del quale si tratta nell'affare giudicato dal proprio, fa parte di queste superfici da poco conquistate alle acque.
L'evoluzione della città, man mano che i confini di Dorsoduro e di S. Croce si urbanizzano, riduce senz'altro l'estensione di questi terreni industriali e sposta la zona principale del lavoro della lana verso le contrade occidentali. La parrocchia di S. Simeone Profeta ne costituisce il centro incontestabile. L'Arte della lana segna in profondità la zona del rio Marin. Ma la diluizione delle attività tessili in un'area piuttosto larga, effettiva nel corso del XIV secolo, non cessa nel secolo successivo. L'Arte tende a spostarsi verso ovest, formando dei micropoli, senza diventare tuttavia un'attività dominante nelle contrade di S. Simone Apostolo, di S. Croce e di S. Giacomo dell'Orio.
Oltre la zona di S. Croce, il lavoro della lana riunisce ancora in determinati punti gruppi di operai. I mestieri della lana sono localmente associati ad altre attività industriali, vicine o no, ma che in generale definiscono piuttosto il ruolo dei confini.
Un primo esempio è costituito da S. Canciano dove il lavoro della lana fa parte di un'area industriale. La lavorazione della seta vi è predominante e contribuisce a strutturare un settore socio-economico relativamente coerente nelle tre parrocchie di S. Canciano, S. Maria Nuova e S. Marina. A fianco dell'attività di borghesi arricchiti, come gli Amadi, sono cospicui gli investimenti degli aristocratici. La concentrazione industriale allarga la sua influenza fino al nord della parrocchia di S. Canciano, "in biri", limite settentrionale di questo ampio circuito della produzione della seta. La rete delle tintorie completa la catena delle attività in queste tre parrocchie. Questo spazio omogeneo (489) si prolunga attraverso qualche ramificazione nelle due contrade dei SS. Apostoli e di S. Giovanni Grisostomo (490). Vi sono note delle fabbriche isolate e qualche tintoria. L'incontestabile specializzazione della zona non esclude che vi si trovino in funzione delle piccole unità di lavorazione della lana. Tale coesistenza di attività tessili sembra però atipica.
Spazialmente associato a produzioni industriali di diverso tipo, il mestiere della lana è caratteristico della periferia.
A partire dall'inizio del XIV secolo, il comune menzionava nella lista dei canali da ripulire il "rivus de clodariis", situato tra il rio di S. Maria dei Crociferi e quello di S. Caterina dei Sacchi (491). Alcuni decenni dopo un decreto del maggior consiglio elenca diverse tintorie "ad cloderias" di S. Sofia (492). Le tintorie di S. Sofia sono ancora in funzione all'inizio del XVI secolo (493). Queste attività sono dunque continuativamente attestate lungo più di due secoli e un tale fatto conferma le ampie continuità già osservate. Ma la dinamica della sistemazione dello spazio sembra avere spostato, alla fine del XV secolo, le aree più vaste delle chiovere verso l'estrema periferia. Così, a S. Geremia, "in caò di Cannaregio", dalla prima metà del XV secolo, la famiglia Gonella possiede simili stabilimenti (494). L'industria laniera non riunisce dunque in un solo quartiere tutta la catena produttiva. Un'area della lana si è costituita, pur estendendosi in modo diseguale su un gruppo di contrade. Tuttavia qualche nucleo di attività resta fuori da tale raggruppamento. Sono soprattutto le infrastrutture necessarie all'asciugatura dei panni che, sebbene ancora presenti nella zona principale di produzione, vengono trasportate sulle estremità della città ancora in fase di sistemazione. Le chiovere non fanno che integrarsi dunque allo sfruttamento, piuttosto estensivo, dei confini.
A questo proposito i due settori di Cannaregio e di S. Girolamo sono esemplari. Le ultime grazie conservate del maggior consiglio erano accordate, nel primo terzo del XV secolo, a tintori di Cannaregio e di S. Girolamo (495). Alcuni affari sottoposti nel 1497 e 1499 ai savi alle acque confermano questa localizzazione delle officine in prossimità delle rive della laguna. Essi riguardano ancora alcune botteghe di Cannaregio e di S. Girolamo che hanno delle installazioni difettose infrangendo la legislazione sui canali (496).
Il patrimonio del convento di S. Girolamo permette di descrivere queste terre di conquista occupate da una combinazione di attività industriali e disseminate di case popolari. Nel primo terzo del XV secolo il convento comprava qualche casetta di legno, alcuni terreni con i loro capanni e due piccoli cantieri di costruzioni navali (497). Successivamente il convento di S. Girolamo diversifica i suoi investimenti, ma riunisce il suo patrimonio. Vendendo le case più lontane, acquista, con il ricavato della cessione, delle chiovere vicine (498), che sono ancora in possesso del convento nel 1549. Non diversi si presentano gli investimenti della proprietà laica. Alla fine del XV secolo, una testimonianza davanti alla corte dell'esaminador dimostra i progressi nello sfruttamento di questa zona. Il testimone rievoca il quartiere che aveva conosciuto quarant'anni prima. Emigrato da Piacenza, era venuto a lavorare nelle chiovere di S. Girolamo, tenute da un "fattor" originario della sua città natale. Quarant'anni dopo il suo arrivo a Venezia, ormai stabilitosi in una contrada più centrale (499), egli constata i mutamenti avvenuti nel settore e il frazionamento tra molti proprietari delle "bottege" di chiovere (500).
I dintorni di S. Alvise riproducono questo stesso paesaggio sul bordo della palude: una vigna, vasti appezzamenti conquistati alle acque, una tintoria, dei depositi di legname, delle chiovere, un habitat popolare sparsamente disseminato di casupole di legno. Però, la proprietà nobile sembra qui più forte che intorno a S. Giobbe. Francesco Giustinian e Pietro Soranzo comprano una tintoria e un "terren de legname". I Michiel e i Lando fanno parte dei maggiori proprietari del suolo (501). Si è conservato l'atto che divide in tre un vasto terreno di chiovere, esteso tra la laguna e il cimitero del convento. Ogni parte serve per la dote delle tre sorelle Lando (502). Nel 1493 Michele Memmo vende tutta la sua parte a S. Alvise: chiovere, casa e vigne. La cessione mette fine a decenni di litigi e di rivendicazioni del convento su questa proprietà confinante. All'inizio del XVI secolo, le suore di S. Alvise fanno costruire su questo terreno quattro casupole, donate "amore dei" (503). Ma, bell'esempio di stabilità spaziale, le chiovere conservano la loro primitiva destinazione. Una fabbrica di candele viene edificata soltanto in seguito (504). I Memmo di S. Marcuola mantengono dei legami privilegiati con S. Alvise. Franceschina, figlia di Antonio, entra in convento nel 1468. Lascia tutti i suoi beni, tranne la dote, a sua sorella, ma designa S. Alvise come ultimo beneficiario nel caso che sua sorella non si sposi. E suo fratello Michele che vende le chiovere. La forza d'attrazione del convento si esercita dunque con forza sul territorio della contrada di cui fa parte. Lo sfruttamento delle terre marginali non è dunque guidato solamente dalla ricerca del profitto (505). Tradizionalmente, gli istituti religiosi collaborano alla sistemazione del territorio lungo i confini, sacralizzando al contempo lo spazio in tal modo conquistato e la frontiera della città.
Alcune aree industriali, presto formatesi, segnano dunque il tessuto urbano ancora alla fine del XV secolo, come le zone di lavorazione delle pelli o del legno della Giudecca e della Barbaria delle Tole. Queste incontestabili permanenze non devono, però, nascondere la forza del mutamento. Fa parte di questo movimento lo spostamento delle tintorie verso i margini nord-occidentali, segnalato dalla nuova geografia delle botteghe e da esplicite menzioni di stabilimenti in rovina in alcune contrade più centrali. Venezia sviluppa precocemente le prime esperienze di suddivisione in aree. Tuttavia l'evoluzione urbana del XV secolo e la contemporanea crescita di certe produzioni locali fanno ben più che mantenere in vigore la geografia delle attività industriali. Il modello si generalizza e, soprattutto, diventa più cogente. Dall'ultimo terzo del XIII secolo, l'autorità pubblica proponeva una forma ideale di organizzazione dello spazio con la costituzione di un'area artigianale che circondava il centro urbano. Questa organizzazione tuttavia divenne effettiva soltanto quando le condizioni stesse della produzione richiesero una tale localizzazione. E nel XIV secolo gli sforzi di una regolamentazione vennero meno di fronte alla necessità di ricostruire l'attività economica.
La periferia industriale, sia che essa costituisca la causa dell'espansione territoriale o che, al contrario, ne venga determinata, prende veramente forma nel corso del XV secolo. Diversi fattori spiegano allo stesso tempo questa tipica socio-topografia. Ad esempio il basso costo dei terreni e la disponibilità di manodopera, poiché sembra che i nuovi immigrati dalla Terraferma si stabiliscano in un primo tempo nelle contrade periferiche. Un simile fenomeno condiziona veramente la morfologia di Venezia, a differenza dei microsettori di produzione e di distribuzione che un agglomerato può contenere in specifici luoghi. Se una toponimia suggestiva invita allo studio, queste vie della Casselleria, della Spadaria o della Frezzaria, immagini apparentemente perfette del "raggruppamento medievale dei mestieri", di fatto hanno soltanto un ruolo limitato nell'organizzazione socio-economica. La loro coesione è diminuita dalla presenza, fuori dalla loro zona, di officine-botteghe simili e dalla vicinanza, nella stessa strada, di mestieri molto eterogenei.
Inversamente, lo sfruttamento a fini industriali delle terre colonizzate per ultime impone un modello di sviluppo. Le trasformazioni sociali e politiche incoraggiano questa evoluzione che crea una scala gerarchica dei quartieri. Lo studio del mercato immobiliare ha sottolineato l'importanza dei mutamenti in queste regioni e il numero delle transazioni riguardanti alloggi popolari. In questi quartieri si nota dunque un'attività intensa, che testimonia dei cambiamenti che animano la dinamica urbana.
Nel corso del XV secolo la compenetrazione della città e del porto, realizzatasi nei secoli precedenti, comincia ad allentarsi. Bisogna certamente sottolineare la durata e la complessità di tale fenomeno. Però, i successivi cambiamenti sono comunque importanti per la geografia degli uomini e delle attività a Venezia e allo stesso tempo rivelano i mutamenti d'insieme.
Nel XV secolo l'area del porto sembra a prima vista sostanzialmente immutata. Se si deve insistere su questa stabilità di organizzazione nel tempo, vi è tuttavia un processo che tende a allontanare dal centro le attività sorte nel porto, o almeno alcune di esse.
Ragioni interconnesse spiegano il movimento che prende inizio e i problemi legati alla conservazione del sito figurano al primo posto tra esse. Il senato tenta per esempio d'influenzare la distribuzione delle funzioni legate al porto e cerca di allontanare alcune di esse dal bacino portuale. Se il successo di una tale disposizione resta difficile da valutare, l'interesse del modello di organizzazione che esso propone non è in nulla diminuito a causa delle eventuali difficoltà che la sua applicazione aveva incontrato. Inoltre, sforzandosi di relegare certe attività proibite all'estremità orientale di Venezia e sulla frangia litorale, il potere rafforza un movimento naturale, provocato in parte dal restringimento del portus di S. Nicolò e dalla moltiplicazione delle operazioni di trasbordo e di scarico su bettoline.
I provvedimenti di protezione contro la peste fanno anche parte dell'ordinamento di questo sistema spaziale. Per fondare il primo lazzaretto e isolare i malati, il senato, nel 1423 alla ricerca di un luogo adatto, aveva deciso di aprirlo "super litore sancti Nicolai aut in alys locis circa Venetiam". Queste raccomandazioni topografiche rendono ragione del fatto che esso sia fondato nelle immediate vicinanze del Lido (506). Pur essendo stato creato soprattutto per Rialto e per una parte del ducato (507), nelle vicinanze del porto esso passa al setaccio le navi sospette e si prende carico degli eventuali malati prima che le navi siano entrate nel bacino di S. Marco. Secondo il decreto senatoriale, il ritorno della peste ogni anno è collegato all'afflusso di stranieri nella città mercantile. Per prevenire l'infezione "per viam maris", i padroni delle navi, non appena entrati nel canale, devono mandare gli appestati al lazzaretto. Nel 1468 Venezia costruisce un secondo ospedale. La sua messa in funzione, a Vigna Murata, vicino a S. Erasmo, chiude il cordone sanitario unendo i due litorali. Vi sono accolti e tenuti in osservazione per quaranta giorni i convalescenti del primo lazzaretto (508).
In tal modo il litorale diversifica le sue funzioni. Per le strutture messe in piedi negli avamposti della città, la quarantena accentua la crescente complessità della trama dell'area del porto. E lungo le rive del porto le attività tendono a riunirsi in aree distinte.
Il carattere polimorfo del centro di S. Marco poteva provocare una simile trasformazione. L'aspetto di prestigio ed estetico di questo polo politico e religioso non ammetteva più che rimanessero vicine alcune funzioni meno prestigiose. E questo processo di abbellimento si diffonde nel XV secolo alle contrade più vicine.
L'irradiamento della Piazza raggiunge dunque la riva e le contrade vicine. Dopo un importante evento - la ricostruzione in stile gotico del loro palazzo da parte dei Gabrieli - sulla parte del fronte lagunare più vicina alla Piazza sono attestate principalmente opere di abbellimento. Certi lavori sono finanziati dallo stato. Così nel 1462 tutta la riva viene restaurata a partire dal ponte della Paglia e l'ospedale della Pietà viene ingrandito. I privati portano avanti altre operazioni: per esempio i Dandolo e i Gritti costruiscono i loro palazzi allo sbocco della calle della Rasse e del rio dei Greci (509). Evidentemente, l'apertura verso il mare e i legami con il porto conservano in queste parrocchie il tessuto urbano e sociale originale. Si possono citare a tal proposito le locande vicine al ponte della Paglia, le quali rinforzano le capacità di accoglienza di quelle della Piazzetta e ricevono i viaggiatori che sbarcano sulla banchina (510). Si può anche ricordare che un'intera flottiglia di piccole imbarcazioni assicura i collegamenti con le navi alla fonda. O, altra manifestazione di questo orientamento, le colonie straniere, almeno quelle associate al mare e al dominio da mar, si stabiliscono preferibilmente in questo quartiere (così fanno i Greci e gli Albanesi).
Se la presenza di infrastrutture necessarie al traffico dei viaggiatori oppure certe caratteristiche demografiche consentono di porre questa zona tra le dipendenze del porto, i servizi meno nobili, le attività strettamente industriali si spostano verso zone meno centrali. L'analisi delle due parrocchie vicine di S. Antonin e di S. Giovanni in Bragora mette bene in evidenza le diversità socio-economiche delle parrocchie limitrofe della riva e i confini delle aree d'influenza di S. Marco e dell'Arsenale.
Nella prima contrada si osserva un habitat molto popolare. Gli affitti sono bassi e i segnali di povertà urbana numerosi: donne sole, spesso vedove, a volte nella posizione di capofamiglia, e immigrati giunti da poco tempo. Questi affittuari abitano in alcune corti o in serie di case lungo una calle. Si avverte l'influenza del porto e del gran cantiere di costruzione navale, poiché nella parrocchia si ritrovano operai dell'Arsenale, marinai, calafati, alcuni dei quali possiedono una modesta residenza. La popolazione di S. Antonin rimane, però, composita, mentre l'habitat si dimostra ancora diversificato. A S. Giovanni in Bragora, l'"effetto" del porto aumenta il suo influsso. A Cannaregio o S. Croce ci si poteva render conto dei flussi d'immigrazione dalla Terraferma. Sulla riva del porto sono invece numerosi gli immigrati da Oriente. Vi vivono più spesso i componenti degli equipaggi in fabbricati solitamente vecchi o in cattivo stato. Alla fine del XIII e nel XIV secolo, la contrada era stata coinvolta più direttamente nelle costruzioni navali. Negli ultimi anni del XV secolo, i cantieri privati nel sestiere di Castello stanno riunendosi a est del rio dell'Arsenale e nel secolo successivo si accentua la preponderanza di questa localizzazione verso oriente. Si abbozza un'evoluzione che viene illustrata dalla mappa di Jacopo de' Barbari nel 1500 (511) e dall'estimo dei beni della contrada di S. Pietro di Castello nel 1514. Gli squeri sono radunati sul fianco orientale dell'Arsenale a S. Antonio, allo sbocco del rio di S. Domenico. Il paesaggio economico di S. Giovanni in Bragora riproduce in scala questi lenti mutamenti geografici, anche se afferma con nettezza la sua appartenenza al quartiere del porto (512).
Il peso e l'influsso dell'Arsenale sembrano giustificare questa progressiva concentrazione a est della città e tutti gli elementi di contorno concorrono a spiegare questo fenomeno con il preminente raggio d'influenza del cantiere pubblico. Lo spazio si organizza intorno alle costruzioni navali. Anche se nel 1480 la maggior parte degli operai in questo settore è ancora, secondo Lane, impiegata da squeri privati (513), seguendo un tropismo naturale, i cantieri navali e la relativa manodopera si raggruppano. Nel tessuto socio-economico veneziano, come nelle immagini cittadine, viene così creandosi una zona originale (514). Alla fine del XV secolo, se esiste un quartiere omogeneo, questo si trova a Castello ma, in quanto indirettamente portuale, esso si identifica nelle costruzioni navali (515).
Questi mutamenti in corso alla fine del XV secolo agiscono senza dubbio con una forza accresciuta nei decenni successivi (516). Negli ultimi anni del XV secolo, pur considerando solamente la produzione degli squeri, la parte dei cantieri di S. Domenego e di Quintavalle è già cospicua (517). E il dinamismo dell'impresa di Zuane di Zara, come è stato notato, contribuisce ulteriormente alla concentrazione industriale di Quintavalle.
In tal modo l'organizzazione dello spazio sembra avere un'effettiva coerenza. L'Arsenale presiede a una vasta zona dalle particolari caratteristiche sociali, urbane e industriali. Nello stesso tempo, alcune funzioni portuali sono state spostate sul cordone litorale o su isolotti vicini (518). Se le infrastrutture pubbliche necessarie al traffico rimangono al loro posto, i mestieri e le attività legate al porto sembrano invece dissociarsi geograficamente dal bacino di S. Marco per riunirsi nella sfera dell'Arsenale a est del cantiere. La preoccupazione di proteggere un sito minacciato, i connotati simbolici e monumentali che sempre più stabilmente si collegano all'area di S. Marco hanno il loro peso, insieme alla forza d'attrazione propria dell'Arsenale, per spiegare i cambiamenti che si compiono.
Intorno alla punta della Trinità gravitavano gli uomini e le arti legate all'attività portuale, tutta una popolazione di facchini, di scaricatori e di rematori insieme a un nucleo compatto di squeri. La serie di permessi di bonifica degli anni 1428-1430, che aveva consentito uno degli ultimi episodi di crescita della punta dalla parte del Canale della Giudecca (519), dimostrava anche la prosperità dei cantieri navali di S. Gregorio a questa data. All'inizio del XVI secolo, le liste delle navi in costruzione mostrano che le officine vicine alla dogana sono ancora attive (520). In questo sestiere i cantieri di S. Gregorio sono tuttavia superati nella produzione dagli squeri dello Spirito Santo. Questo gruppo di cantieri, prospero ancora per qualche decennio prima della sua crisi alla metà del XVI secolo, traduce concretamente, nell'ambito del sestiere di Dorsoduro, i cambiamenti in opera nell'intera città e il ripiegamento dell'attività industriale verso la periferia, sulla riva del Canale della Giudecca. La trasformazione avviene dunque lungo il corso di molti decenni. Nella sua cronologia e nei suoi effetti sul tessuto industriale, la zona intorno alla punta di Dorsoduro ricalca quel processo generale che prende le mosse nella seconda metà del XV secolo e che modifica la socio-topografia nell'ambito dell'intera città di Venezia.
Nel corso del XV secolo, le rive del Canale della Giudecca sono oggetto di trasformazioni e sistemazioni che impongono alla città uno schema spaziale più rigoroso e costituiscono le tappe preparatorie all'operazione delle Zattere. All'interno di un'area ristretta coesistono infatti le ultime fondazioni religiose e la gamma delle attività industriali della costruzione navale e della fabbricazione di laterizi (521).
Questo fenomeno di giustapposizione spaziale, tipico dei confini, si verifica particolarmente alla punta della Trinità. Lo studio dei pellegrinaggi a Venezia mostra la forza d'attrazione, "propter copiosas indulgentias" (522), del monastero della S. Trinità. La dogana, i granai di stato e la chiesa, oggetto di venerazione, sono adiacenti. Le commesse che stabiliscono, nel 1463, la costruzione di quattro depositi, mettono in evidenza la situazione del monastero sul Canale della Giudecca (523). Il contratto di enfiteusi che lega il monastero di S. Trinità alla confraternita che esso ospita menziona, in occasione dell'allargamento della scuola verso il giardino dalla parte del Canal Grande, il muro attiguo alla dogana di mare (524). La posizione di confine di questa banda di terra spiega la sua doppia destinazione - la sua funzione economica e la sua investitura sacrale - che si mantiene a lungo. Questa punta sarà scelta per costruirvi la basilica votiva della Salute, dopo l'epidemia del 1630. Di fronte a S. Marco, le sole necessità del decoro urbano non spiegano tutto. Questi isolotti, che appartengono all'ambito del porto e delle attività marittime, sono consacrati e riconsacrati (525).
Poiché il nucleo di Rialto è densamente urbanizzato, nuove comunità ecclesiastiche possono essere fondate ai confini della città. E i monasteri e i conventi assumono il ruolo storico di pionieri della città e della sua espansione urbana; tale osservazione non deve tuttavia portare a sovradeterminare i fattori funzionali. Alla periferia di Venezia, le nuove chiese contribuiscono a edificare l'immagine della città pia. Integrato nell'icona cittadina, il confine riveste allo stesso modo un ruolo sacrale. Questa realtà costitutiva del paesaggio e del mito di Venezia deve riequilibrare l'analisi della periferia industriale e sfumare l'apparente univocità degli investimenti economici sui confini.
Così a Dorsoduro, nel 1392, Ziliola, moglie di Pietro de Sassi aveva venduto a suo marito un nucleo di beni nella contrada di S. Agnese. Questa proprietà, posta nei pressi del Canale della Giudecca, comprendeva una casa e le sue dipendenze, case in affitto e squeri (526). Per testamento Pietro lascia ai Gesuati di S. Agnese i suoi beni che si trovano nella parrocchia. Nei primi anni del XV secolo, gli effetti di questo lascito sono evidenti. La "domus a statio" è allora trasformata "modo unius monasterii et domus pauperum" (527). Pur essendo povera e citata solo eccezionalmente nei testamenti dell'epoca, la fondazione contribuisce alla trasformazione del paesaggio circostante. Nel 1458 essa ottiene dai giudici del piovego di raddrizzare il muro e la fondamenta sul Canale della Giudecca, come aveva fatto il proprietario vicino Vittore Anselmo. Così migliora la banchina, rendendola più regolare e più larga. La concessione, accordata dopo aver effettuato le misurazioni, dispone i due muri in linea producendo un tratto armonioso di banchina in pietra (528). Negli ultimi anni del XV secolo, gli sforzi, coronati da successo, dei Gesuati per entrare in possesso, grazie allo "jus lateranitatis", di un terreno messo in vendita, allargando così le loro costruzioni e i giardini, danno la prova, come anche altri acquisti successivi (529), dei mutamenti di una zona nella quale fino a questa data sono documentati giardini e particelle di terreno non costruito.
La costruzione dello Spirito Santo fa parte di questi stessi sconvolgimenti locali. Il convento ospita nel 1492 una confraternita ben presto fiorente. I lavori di costruzione della nuova chiesa iniziano nel 1506. Nel 1514 la fabbrica segna il passo. Viene allora presa la decisione di demolire la prima chiesa e di trasferire la confraternita nel nuovo edificio, in un primo tempo costruito in legno (530).
Dalla punta della Dogana, l'estremità orientale di Dorsoduro è dunque contrassegnata dalle industrie delle costruzioni navali che si sovrappongono al tessuto rado dei vecchi stabilimenti delle fornaci per i mattoni. Tuttavia la fisionomia di questo insieme territoriale non si fissa. L'attività dei cantieri di S. Gregorio è progressivamente sostituita dalle più grandi installazioni dello Spirito Santo. Nel corso della seconda metà del XV secolo, il complesso della riva meridionale conosce un rapido rinnovamento che prelude alla stabilizzazione definitiva del confine e alla costruzione delle Zattere. Queste riclassificazioni preparano allora, insieme all'attrazione sempre più forte sostenuta dal settore orientale dell'Arsenale, le future modifiche e la concentrazione senza eccezioni delle costruzioni navali a est del cantiere pubblico.
Complessivamente le esigenze dell'intera città si coniugano con gli effetti della crescita di alcuni settori industriali. Questa prima constatazione richiede tuttavia qualche correzione. Non bisogna vedere nella socio-topografia di Venezia, quale essa può apparirci alla fine del XV secolo, soltanto le conseguenze, un po' meccaniche, di una crescita industriale che avrebbe investito la banlieue di una città popolata e urbanizzata. La trasformazione interna delle strutture sociali e la politica urbana del potere contribuiscono a definire questa organizzazione spaziale. Infine, è chiaro che questo modello di corona industriale, per incontestabile che sia, conosce ancora flessibilità e sfumature locali. Sembra dunque ragionevole suggerire nella città del XV secolo l'esistenza di un movimento, di un processo che tende a riclassificare geograficamente le attività industriali.
È chiaro che questa nuova gerarchizzazione dello spazio urbano esprime in scala dei mutamenti sociali generali. L'esercizio della politica da parte dell'oligarchia dei consigli comporta delle sfaldature. Quando la suddivisione del potere si restringe all'interno del gruppo del patriziato dominante, la città cambia, creando e denunciando nuove marginalità sociali, culturali e spaziali. Nella sua organizzazione del XV secolo, il sistema di ordine pubblico connota bene, ad esempio, questa estensione della norma e del controllo e le esclusioni che ne derivano.
Nel XV secolo, tuttavia, l'unità trionfa ancora. I due spazi di S. Marco e di Rialto cambiano di poco durante questi decenni. Essi sono i luoghi identificativi di Venezia, nei quali il potere si esprime e la larghissima parte del corpo sociale si riconosce. Le attività pratiche sanzionano la realtà di una città larga e unificata e l'attrazione dei suoi centri. Quando il modello di organizzazione dello spazio secondo cerchi grossolanamente concentrici s'impone, il centro di S. Marco acquisisce tuttavia una autorità maggiore. Rinforza l'originale preminenza sul secondo centro di Rialto in quanto spazio del potere, della religione, del simbolico. È il luogo che identifica Venezia dove si tende a racchiudere i suoi riti e, soprattutto, dove si concentrano i segni del potere. L'iconografia urbana dà conto della suprema influenza di S. Marco nell'immagine di Venezia, sia che questa rappresenti - l'analisi lo dimostra - soltanto quest'area, sia che componga intorno ad essa una rappresentazione cittadina d'insieme. Intorno a S. Marco gravita dunque tutta Venezia, il nucleo delle parrocchie centrali, la corona delle parrocchie più eccentriche, l'alone delle terre più lontane e infine lo spazio lagunare sotto la sua influenza.
Il rigore dei mutamenti del XV secolo non deve dunque essere esageratamente accentuato. Un vicinato socialmente contrastato sussiste nelle contrade e il sistema delle solidarietà verticali si rompe solo con lentezza. Si osserva ancora la pregnanza dei quadri spaziali tradizionali attraverso legami di vicinato, stretti in una calle o in una corte, o di unità della contrada che si ricrea in certe occasioni. Questo piano di funzionamento locale della società e dello spazio coesiste armoniosamente, nella maggior parte dei casi, con un secondo piano, vasto, a scala cittadina. Gli usi economici e sociali dimostrano la realtà di una città unificata. Nei loro spostamenti, i Veneziani riconoscono esplicitamente l'attrazione dei centri che animano l'organismo urbano. Essi aderiscono alla configurazione urbana quale si è modellata negli ultimi secoli del Medioevo.
La dinamica della conquista, rimossa nel corso della seconda metà del XIV secolo, quando riprende nel secolo successivo non ha il medesimo slancio. La città raggiunge quasi i limiti della sua espansione e la conquista si esaurisce. L'impresa, cimento di effettive solidarietà per secoli, affidata per gli ultimi grandi cantieri alle imprese di lavori pubblici, si conclude. Il richiamo del sito, dell'unicità della situazione di Venezia e dei pericoli che minacciano la città giustificano allora in altro modo la necessità della concordia e dell'armonia.
Certo, la nozione di interesse comune si veniva costruendo senza dubbio nella necessaria lotta collettiva contro il fango e l'acqua condotta attraverso la bonifica. Ma essa non era teorizzata attraverso un'elaborazione di regolamenti. L'imperativo della conservazione della città, definito nel XV secolo da molte deliberazioni dei consigli, indica ora con chiarezza un autentico interesse generale e forma l'idea di un destino comune. La politica vi trova una delle sue principali risorse. Il "bene comune", difeso mediante la manutenzione della rete dei canali o il consolidamento dei litorali, si applica a realtà molto concrete. Attraverso la sua azione il potere pubblico afferma di salvare la laguna, di assicurare la manutenzione del porto e la sopravvivenza della città. Provvedimenti e lavori sono così giustificati. E lo stato, se riesce in questo fondamentale progetto di conservazione della città, ottiene una legittimazione senza eccezioni. Inoltre la concordia della società civile, materialmente e ideologicamente richiesta per le necessità della situazione, è fondata e consolidata dalla fierezza di essere Veneziani. In questa trasformazione del rapporto tra la comunità e l'ambiente circondato dalle acque troviamo dunque una delle originalità senz'altro più importanti della storia urbana del XV secolo.
Si è detto che l'intervento sulla città è in via di completamento. Nel XV secolo, quando decidono lavori o riforme delle magistrature preposte ai lavori pubblici o di polizia urbana, i consigli infatti fanno riferimento a modifiche da apportare o a riparazioni da effettuare, piuttosto che a opere da costruire o a vasti progetti da realizzare. La bellezza urbana può essere migliorata, arricchita. Ma la città, negli ultimi decenni del secolo, viene descritta come compiuta. Quando si è trattato della bonifica di S. Andrea della Zirada, abbiamo notato come la decisione, che l'ha approvata, affermasse che si voleva estendere nello spazio una condizione estetica e portare la bellezza del centro anche ai confini estremi in formazione. Nella seconda metà del XV secolo non mancano i cantieri: quello del palazzo Ducale, sebbene determinato dall'incendio, o la terza estensione dell'Arsenale, per citare solo i più grandi. Ma il rinnovo urbano, esercitato negli ultimi decenni del secolo, per quanto effettivo, tende soprattutto a rendere stabile la forma della città, a consacrare il raggiunto carattere dell'opera arricchendo ancora semanticamente la sua immagine. La dimensione estetica diviene preponderante. In questi anni si conclude una fase fondamentale della storia materiale e ideologica della costruzione della città.
Traduzione di Matteo Sanfilippo
1. Le voyage de la Terre Sainte composé par maître Denis Possot et achevé par messire Philippe, seigneur de Champarmoy et de Grandchamp, a cura di Charles Schefer, Paris 1890, p. 74.
2. Gérard Labrot, L'image de Rome. Une armée pour la Contre-Réforme 1534-1677, Seyssel 1987.
3. Su queste modifiche, v. Elisabeth Crouzet-Pavan, Récits, images et mythes: Venise dans l'iter hierosolymitain, "Mélanges de l'École Française de Rome. Moyen Âge", 96, 1984, nr. 1, pp. 489-535.
4. La Peregrinatio di Bernard von Breydenbach è ristampata 14 volte tra il 1484 e il 1522, come è ricordato in Pierre Tucoo Chala - Noël Pinzuti, Le voyage de Pierre Barbatre à Jérusalem 1480, édition critique d'un manuscrit inédit, "Annuaire-Bulletin de la Société de l'Histoire de France", 1972-1973, pp. 75-172. Per altri esempi di ristampe numerose e ravvicinate, v. Georges Atkinson, La littérature géographique française de la Renaissance. Répertoire bibliographique, Paris 1927.
5. Non verrà qui esaminato il ruolo che questi testi giocano nella diffusione del "mito" di Venezia, per il quale v. Elisabeth Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse": espaces, pouvoir et société à Venise à la fin du Moyen Âge, I-II, Rome 1992.
6. "E mi condussero lungo la grande strada che essi chiamano Canal Grande, ed è ben larga. Ed è la più bella strada che io credo sia in tutto il mondo, e quella con le migliori case, e costeggia la suddetta città. È la città più trionfante che io abbia mai visto" (Philippe de Commynes, Mémoires, in Historiens et chroniqueurs du Moyen Âge, a cura di Albert Pauphilet, Paris 1972, pp. 864-865).
7. Giandomenico Romanelli, Venezia tra l'oscurità e gli inchiostri. Cinque secoli di cartografie, introduzione al catalogo Venezia, piante e vedute, a cura di Susanna Biadene, Venezia 1982. Per un'analisi generale delle rappresentazioni cartografiche, v. Jürgen Schulz, Maps as Metaphors: Mural Map Cycles in the Italian Renaissance, in Art and Cartography. Six Historical Essays, a cura di David Woodward, Chicago-London 1987, pp. 97-122, 223-229. Per lo studio dell'iconografia veneziana, v. David Rosand, "Venezia figurala": the Iconography of a Myth, in AA.VV., Interpretazioni veneziane. Studi di storia dell'arte in onore di Michelangelo Muraro, Venezia 1984, pp. 177-196.
8. A.S.V., Cassiere della bolla ducale: Grazie del Maggior Consiglio, reg. 22, cc. 35, 56v; reg. 25, c. 65.
9. Ibid., reg. 21, cc. 51v, 53; reg. 22, cc. 18v, 20v, 29v, 56, 63, 71v, 121v, 127v, 132; reg. 23, cc. 94v, 158; reg. 25, cc. 11v, 76v, 123.
10. Ibid., reg. 21, cc. 28v, 37, 39, 62; reg. 22, cc. 4, 67.
11. Ibid., reg. 20, c. 43; reg. 21, cc. 16v, 20v, 106v; reg. 23, c. 39; reg. 25, c. 126.
12. Andrzej Wyrobisz, L'attività edilizia a Venezia nel XIV e XV secolo, "Studi Veneziani", 7, 1965, pp. 307-343
13. Il supporto documentario di questa analisi è costituito dalla serie di Preces dei giudici dell'esaminador. L'autore ha conservato, per classificare i tipi di costruzione, i termini utilizzati negli atti di quel tempo: "domus a statio" e "domus a sergentibus". Alla fine del Medioevo questi termini sono tuttavia insufficienti per distinguere tra i vari tipi di costruzione, salvo che nei casi più semplici. Il vocabolario infatti non cambia, quando invece si sono notevolmente evolute la situazione immobiliare e le realtà socio-economiche. La "domus a statio" era in origine la residenza di una famiglia nobile. Le "domus a sergentibus" designavano all'inizio le abitazioni di coloro che erano legati alla famiglia da vincoli di dipendenza e in seguito quelle degli affittuari. Questo secondo tipo d'edificio era annesso al primo, quali che fossero le forme cronologicamente differenti dei complessi immobiliari. La disgregazione di questi complessi immobiliari, lo spezzettamento del sistema della corte, la costruzione di numerose abitazioni per affitto a scopo puramente abitativo fanno saltare questa associazione. Nel XV secolo si constata l'esistenza di numerosi casi intermedi, cioè di edifici difficilmente classificabili in base a quella divisione: gli atti danno conto di questa difficoltà parlando di "domus a statio sive a sergentibus". Jürgen Schulz ha tentato di stabilire l'etimologia di questi termini in The Houses of Titian, Aretino and Sansovino, in Titian, His World and Legacy, a cura di David Rosand, New York 1982, pp. 73-118.
14. Esse totalizzano assieme più del 66% delle vendite.
15. La serie, formata a partire dalle stesse fonti, conteggia 106 transazioni.
16. Non quindi i prezzi delle case che avrebbero potuto modificare un bel po' le tabelle, poiché i beni più cari sono in questi anni messi sul mercato proprio in questi sestieri centrali.
17. Per i dettagli di questi diritti di prelazione, v. Enrico Besta - Riccardo Pedrelli, Gli statuti civili di Venezia anteriori al 1242 editi per la prima volta, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 1, 1901, nrr. 1-2, pp. 1-117, 205-300.
18. A.S.V., Cancelleria Inferiore, Notai, b. 77 (Giovanni Flabanico), 1276.
19. Ibid., b. 73 (Ermolao, prete in S. Simone), 1289.
20. Ibid., b. 193 (de Soris), c. 19v.
21. Ibid., c. 18.
22. Ibid., b. 177b (Cristoforo Rizo), 1475, cc. n.n.
23. Per il vocabolario relativo a questi compromessi privati (in questo caso tra parenti): "volentes et cupientes nos parte predicte affinitatem pacem concordiam et unitatem indissolubilem inter nos partes contrahentes [...>" (ibid., b. 98 [Gambaro>, nr. 3, 1432).
24. Ibid., b. 193, c. 52.
25. I1 tribunale del proprio è il secondo tribunale incaricato della regolamentazione del mercato immobiliare. Le sue competenze originali essendo state ridotte, esso conserva alla fine del Medioevo le seguenti attribuzioni: divisioni delle società familiari, successioni intestate, doti, "clamores" (opposizioni alle trasformazioni immobiliari o a lavori considerati abusivi).
26. Così, per esempio, quando il notaio è utilizzato dal tribunale del proprio.
27. A.S.V., Quattro Ministeriali, Stride e Chiamori, filza 21.
28. Ibid., filze 36-37.
29. Ibid., filze 52-54.
30. Ibid., filze 79-80.
31. Per i mestieri dell'edilizia a Venezia, oltre al citato articolo di Wyrobisz, si può far riferimento allo studio, vecchio ma utile, di Agostino Sagredo, Sulle consorterie delle arti edificatorie in Venezia, Venezia 1856. Per i capitolari, v. Giovanni Monticolo, I capitolari delle Arti veneziane sottoposte alla Giustizia e poi alla Giustizia vecchia dalle origini al MCCCXXX, I-III (il terzo volume è edito da Monticolo e Enrico Besta), Roma 1896, 1905 e 1914. Per le Scuole di devozione, v. Silvia Gramigna - Annalisa Perissa, Scuole di arti e mestieri e devozione a Venezia, Venezia 1981. Per il controllo sui mestieri, v. anche Richard Mackenney, Arti e stato a Venezia tra il tardo Medio Evo e il '600, "Studi Veneziani", n. ser., 5, 1981, pp. 127-143. Da ricordare infine i documenti concernenti i marangoni e la Scuola dei marangoni di S. Samuele in A.S.V., Arti, b. 297, e alcuni regolamenti di mestieri, ibid., b. 304.
32. A.S.V., Giudici del Proprio, Sentenze, filza 2, cc. 171v-173v.
33. Ibid., c. 37.
34. Ivi, Giudici del Proprio, Vadimoni, filza 3, c. 15.
35. Ivi, Giudici del Proprio, Sentenze, filza 2, c. 37.
36. Ibid., c. 30v.
37. Ivi, Cancelleria Inferiore, Notai, b. 4 (Aldighieri), ottobre 1339.
38. Ibid., b. 72 (Davanzago), 11 dicembre 1341.
39. Ivi, Giudici del Proprio, Testimoni, filza 1, cc. 3v-4v.
40. Ibid., c. 51.
41. Ivi, Giudici del Proprio, Vadimoni, filza 7, cc. 60-61.
42. Ibid., filza 3, c. 35r-v.
43. Per l'analisi di questa relazione con l'ambiente e della memoria spaziale, v. Elisabeth Crouzet-Pavan, Testimonianze ed esperienze dello spazio. L'esempio di Venezia alla fine del medioevo, in AA.VV., La parola all'accusato, Palermo 1991, pp. 190-212.
44. A.S.V., Giudici del Proprio, Testimoni, filza 3, c. 17.
45. Ibid., filza 1, cc. 48v-49v.
46. Ibid., filze 1 e 1 bis.
47. Ivi, Giudici del Proprio, Lezze, filza 2, c. 26; filza 5, cc. 28v-29; filza 8, cc. 48-49; filza 9, cc. 29r-v, 36r-v, 60v-61; filza 10, cc. 59v-61v; filza 11, c. 22r-v.
48. Ibid., filza 5, c. 4r-v; ivi, Giudici del Proprio, Estraordinarii, filza 1, cc. 82v-83. È deciso, poiché i lavori hanno danneggiato il muro vicino, che la riparazione sia effettuata a spese del responsabile (ibid., filza 11, cc. 53v-54).
49. Ibid., filza 11, cc. 82v-83.
50. Ibid., filza 6, c. 49r-v. Per sentenze nelle quali il tribunale del proprio giudichi che il muro "bene et debite laborasse", v. ibid., filza 5, cc. 29v-30; filza 8, c. 16; filza 11, cc. 119v-120 e 23v-24.
51. Ivi, Giudici del Proprio, Estraordinarii, filza 1, c. 20r-v; ibid., Lezze, filza 6, cc. 7r-v e 102.
52. Ibid., Estraordinarii, filza 1, cc. 16-17v; ibid., Lezze, filza 6, cc. 23-24.
53. Ivi, Quattro Ministeriali, Stride e Chiamori, filze 79 e 80.
54. Per esempio, v. ivi, Giudici del Proprio, Sentenze, filza 2, cc. 53-55 e 171v; filza 6, cc. 28v-29 e 36v-37; filza 8, cc. 51v-52. Si parla spesso in questi casi di "nappa francischa".
55. Come le divisioni di beni immobili o i testamenti che citano più camere dotate di camini.
56. A.S.V., Giudici del Proprio, Estraordinarii, filza 1, cc. 9v-10v.
57. Ibid., Lezze, filza 11, c. 7r-v.
58. Ibid., filza 8, c. 52; ivi, Quattro Ministeriali, Stride e Chiamori, filze 79 e 80.
59. Ivi, Giudici del Proprio, Estraordinarii, filza 1, c. 29r-v, per esempio.
60. Ibid., Lezze, filza 11, cc. 4v-6v; filza 10, cc. 91v-92; filza 4, cc. 88-89v.
61. Ibid., filza 10, cc. 81v-83.
62. Ibid., cc. 34v-35.
63. Ibid., filza 8, cc. 7v-8 e 20v-22.
64. Ibid., filza 2, cc. 69v-70.
65. Ivi, Senato Terra, reg. 12, c. 72r-v.
66. Per la fondazione di S. Andrea e i primi lavori in quest'area, v. il III volume di questa Storia di Venezia.
67. A.S.V., Savi ed Esecutori alle Acque, b. 460, Incanti lidi, c. 2v.
68. Ivi, Corporazioni religiose soppresse, S. Andrea de Zirada, b. 18.
69. Terrazze in legno sul tetto.
70. A.S.V., Corporazioni religiose soppresse, S. Andrea de Zirada, b. 18.
71. "Ancora atterato dicte aque et palude l'haere sara salubre et optimo perche l'aestate per avanti quando se chavano ditte palude exalava grandessimo fetor et rendeva l'acre morboso" (ibid.).
72. Ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 460, c. 3.
73. Ibid., cc. 4v-5v.
74. Ibid., c. 6v.
75. Ibid., c. 7v.
76. Ibid., c. 8.
77. Ibid., cc. 3v-4.
78. Ibid., c. 8v.
79. Ibid., c. 10.
80. Ibid., cc. 10v-20. Vasalo da Bergamo, Zorzi Sambo, Andrea e Francesco da Bresa...
81. Così un tal Giovanni Salvatore acquista il terreno vicino a quello di Elena Zorzi per una superficie di 120 passi quadrati: ivi, Corporazioni religiose soppresse, S. Andrea de Zirada, b. 18.
82. La fornitura e il trasporto di materiali per i terrapieni, la messa in opera dell'infrastruttura dei moli e dei ponti in questo caso sono a carico dell'ufficio preposto alle acque.
83. Giorgio Gianighian - Paola Pavanini, I terreni nuovi di S. Maria Mazor, in Dietro i palazzi. Tre secoli di architettura minore a Venezia 1492-1803, a cura di Idd., Venezia 1984, pp. 45-57. Alla metà del XVI secolo il prezzo del terreno costruito è salito a 4 ducati, v. Paola Pavanini, Venezia verso la pianificazione? Bonifiche urbane nel XVI secolo a Venezia, in D'une ville à l'autre. Structures matérielles et organisation de l'espace dans les villes européennes (XIIIème-XVIème siècle), a cura di Jean-Claude Maire-Vigueur, Roma 1989, pp. 485-507.
84. Come lo prova la ricostituzione delle proprietà nella zona alla fine del XVI secolo, v. P. Pavanini, Venezia verso la pianificazione?.
85. Per questi contratti, v. A.S.V., Savi ed Esecutori alle Acque, b. 460, cc. 7-9; b. 229, c. 5. Nel giugno del 1496 deve ripulire il Canal Grande tra il palazzo e le colonne per facilitare l'accesso del Bucintoro alla riva dogale. Mentre Alvise è sempre attivo, il figlio Marco appare a sua volta nelle assegnazioni di lavori dell'ufficio preposto alle acque: nel 1500 ottiene una parte dei lavori nel bacino dell'Arsenale.
86. I testi qui esaminati precedono la costruzione di S. Maria Maggiore e quindi designano la bonifica come di S. Andrea. Mi è quindi sembrato preferibile utilizzare lo stesso termine. Nel XVI secolo l'area è presto designata con il nome del nuovo edificio di S. Maria.
87. A.S.V., Savi ed Esecutori alle Acque, b. 116; ivi, Senato Terra, reg. 13, cc. 71-72; ivi, Corporazioni religiose soppresse, S. Andrea de Zirada, b. 18.
88. Ivi, Cassiere della bolla ducale: Grazie del Maggior Consiglio, reg. 6, c. 18v. Marco Catapan risiede forse nella contrada di S. Biagio. Nel 1343 ottiene infatti la grazia di costruire un piccolo ponte sulla sua proprietà situata in questa contrada. V. ibid., c. 9; Antonio Foscari - Manfredo Tafuri, Sebastiano da Lugano, i Grimani e Jacopo Sansovino. Artisti e committenti nella chiesa di Sant'Antonio di Castello, "Arte Veneta", 36, 1982, pp. 100-123; Antonio Niero, Testimonianze epigrafiche sul convento di S. Antonio Abate di Castello. Nota sul culto veneziano del Santo, "Studi Veneziani", 7, 1965, pp. 347-362.
89. A.S.V., Cassiere della bolla ducale: Grazie del Maggior Consiglio, reg. 12, c. 51.
90. "In aquis situm superius memoratum quod cum laboribus maximis et expensis acquisivi et elevavi de aqua" (Flaminio Corner, Ecclesiae venetae, antiquis monumentis nunc etiam primum editis illustratae ac in decades distributae, Venetiis 1749, sesta decade, p. 309).
91. A.S.V., Cassiere della bolla ducale: Grazie del Maggior Consiglio, reg. 21, c. 20v; reg. 22, c. 43.
92. I materiali sono forniti dall'ufficio secondo una pratica generale in questi appalti: pali, catene e chiodi. V. ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 460, c. 2v.
93. Ibid., c. 14.
94. Ibid., c. 15v.
95. Ibid., cc. 4, 23r-v.
96. Ivi, Corporazioni religiose soppresse, S. Andrea de Zirada, b. 18.
97. Si trova ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, reg. 219, cc. 1 ss.
98. Tutte le misure sono infatti paragonate a quelle prese nel 1485. Un'ispezione è stata dunque condotta in tale data, ma i suoi risultati non sono stati conservati.
99. Sugli inizi di questa magistratura, v. Antonio Favaro, Notizie storiche sul magistrato veneto alle acque, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 9, 1905, pp. 179-199.
100. Lo stesso nome di savi alle acque diviene definitivo soltanto dopo il 1501; è tuttavia qui adoperato perché negli ultimi anni del XV secolo, quando si accompagna alla regolarità dell'elezione, diviene usuale, per esempio, nei documenti del senato.
101. Nei paragrafi successivi si tornerà sul personale tecnico impiegato in questa magistratura. Per l'esempio dei notai al servizio del piovego, v. A.S.V., Cancelleria Inferiore, Notai, b. 187 (Nicolò Saiablanca), cart., cc. 1v-14v (1366-1369).
102. Ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, reg. 219, c. 1r-v.
103. Ibid., c. 2.
104. Ibid., cc. 1-4v.
105. Ibid., cc. 5v-6.
106. Ibid., c. 6v.
107. Ibid., cc. 7-9v.
108. Ibid., b. 116, cc. n.n.
109. Ibid., reg. 218, c. 7.
110. Riparo per le barche.
111. A.S.V., Savi ed Esecutori alle Acque, reg. 219, c. 7v: "li dette ducati siette accio el gettasse tutto il fango drio el suo horto". Senza contare la spesa della palizzata, il prezzo complessivo di un passo quadrato arriva a mezzo ducato. Era il prezzo pagato per i terreni di S. Andrea.
112. Ibid., cc. 2v-3v.
113. Ibid., cc. 9v-17.
114. Ibid., cc. 21v-25v.
115. Il generale degli Umiliati erige verso la metà del XIV secolo una chiesa dedicata a S. Cristoforo. La chiesa è detta della Madonna dell'Orto, quando nel 1377 vi si trasporta un'immagine miracolosa della Vergine, scoperta in un giardino vicino. Cf. Vincenzo Zanetti, La chiesa della Madonna dell'Orto in Venezia, Venezia 1870; Lino Moretti, Chiesa della Madonna dell'Orto in Venezia, Torino 1981.
116. A.S.V., Savi ed Esecutori alle Acque, reg. 219, cc. 26v-27v, 28r-v, 29r-v, 30r-v, 31-32.
117. Ibid., cc. 39-56.
118. I sestieri di Castello, S. Marco e Cannaregio sulla riva della sede politica sono detti "de citra", quelli di Dorsoduro, S. Polo e S. Croce "de ultra".
119. A.S.V., Savi ed Esecutori alle Acque, reg. 219, cc. 17-21v.
120. Il registro elenca così le precisazioni utili: "serrado de tolle ed le pallade"; "palificado et serrado de tolle"; "tutto averto de drio et senza pallade"; "serrado atorno"; "palificado sopra il paludo et averto"; e, quando i preparativi del prosciugamento sono stati mal condotti o si pone un problema tecnico, "non ostante ch'el fosse le palade era per dentro acqua" o "non obstante el fusse la palade v'era dentro via aqua" (ibid., cc. 43v, 44, 45).
121. Ibid., cc. 45v-46.
122. Ibid.
123. Ivi, Senato Misti, reg. 55, c. 3v.
124. Ivi, Senato Terra, reg. 4, c. 106v.
125. Ivi, Collegio, Notatorio, reg. 8, c. 5v.
126. Ivi, Provveditori al Sal, b. 6, cc. 61v, 72v, 76v; b. 59, cc. 119, 132v, 166v.
127. Ibid., b. 59, c. 169r-v.
128. Ivi, Senato Terra, reg. 10, c. 70v.
129. Ivi, Provveditori al Sal, b. 6, cc. 61v, 72v, 76v; b. 59, cc. 119, 132v, 166v.
130. Ibid., b. 60, c. 108.
131. Ibid., b. 59, cc. 50, 62, 102, 105v, 107v, 108v, 135, 137v, 158v, 164v, 165, 168v, 178v.
132. Gli attracchi sono organizzati: "montar [...> desmontar [...> cargar [...> discargar [...> a la dite rive per essi zentilomeni" (ivi, Senato Terra, reg. 10, c. 70v). Per questa prolissa regolamentazione, v. ivi, Provveditori al Sal, b. 59, cc. 23v, 78v, 103, 121, 139v, 164v, 165, 169, 170, 190r-v, 220v, 264v.
133. Ibid., cc. 78v, 139v, 189v.
134. Ivi, Senato Misti, reg. 59, cc. 37 e 42.
135. Ivi, Senato Terra, reg. 3, c. 27.
136. Nel 1400, 1431, 1444, 1450, 1458... V. ivi, Compilazione Leggi, b. 205, cc. 116, 300, 302, 303. Più in generale per la storia del ponte, ivi, Provveditori al Sal, b. 1, cc. 6, 12, 17v, 27v; b. 291, c. 190v; b. 4, c. 32; ivi, Compilazione Leggi, b. 326, c. 91. Per la tardiva ricostruzione in pietra alla fine del XVI secolo, v. Donatella Calabi, La direzione del nuovo ponte di Rialto e il "negotio" degli stabili di San Bartolomeo, "Bollettino dei Civici Musei Veneziani d'Arte e di Storia", n. ser., 27, 1982, nr. 14, pp. 55-66. Per l'esame dei vari progetti di ricostruzione, v. Ead. - Paolo Morachiello, Rialto. Le fabbriche e il ponte, Torino 1987.
137. L'analisi dello spazio urbano e della sua costruzione non prende in considerazione la storia specifica dei diversi monumenti della Piazza.
138. Ettore Vio, La Torre dell'Orologio, in AA.VV., Piazza San Marco. L'architettura, la storia, le funzioni, Padova 1970, p. 139 (pp. 139-140).
139. A.S.V., Procuratori di San Marco, supra, chiesa, b. 68, processo 151, filza 1, c. 1r-v.
140. David S. Landes, L'heure qu'il est. Les horloges, la mesure du temps et la formation du monde moderne, Paris 1987, pp. 81-82.
141. A.S.V., Senato Terra, reg. 12, c. 115. Il senato prevedeva di attribuire alla signoria le eventuali spese di rifacimento, se le Procuratie venivano danneggiate dalla costruzione dell'orologio.
142. Marino Sanuto, I diarii, I-LVIII, a cura di Federico Stefani et al., Venezia 1879-1903: I, col. 206.
143. Domenico Malipiero, Annali veneti dall'anno 1457 al 1500, a cura di Francesco Longo, "Archivio Storico Italiano", 7, 1843-1844, p. 699 (pp. 199-586, 651-720).
144. A.S.V., Procuratori di S. Marco, supra, chiesa, b. 68, processo 151, filza 1, c. 3r-v.
145. Ibid., c. 5.
146. Ibid., cc. 7v-11v; ivi, Senato Terra, reg. 13, cc. 157v-159.
147. Ivi, Procuratori di S. Marco, supra, chiesa, b. 68, processo 151, filza 1, cc. 7v-8v.
148. Vittorio Lazzarini, Antiche pitture sul campanile di S. Marco, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 23, 1912, pp. 451-453 (pp. 451-455).
149. A.S.V., Procuratori di S. Marco, supra, chiesa, b. 68, processo 151, filza 1, cc. 3r-v, 9v.
150. Ibid., c. 13 (inventario del XVI secolo "del orologio di S. Marcho").
151. Ibid., c. 31.
152. Ibid., c. 12r-v.
153. Ibid., c. 15.
154. Tito Talamini, Le Procuratie Nuove, in AA.VV., Piazza San Marco. L'architettura, la storia, le funzioni, Padova 1970, pp. 147-157.
155. A.S.V., Senato Terra, reg. 15, c. 2.
156. Giuseppe Pavanello, La riva degli Schiavoni, in La Riviera San Marco, a cura del Magistrato alle acque, Venezia 1933, p. 10 (pp. 1-45).
157. "Locus sive terrenum vacuum in quo consuetum est construi naves et navigia quod tenenum est ecclesie ternitatis et fratrum illius ordinis nuperrimi illud ad livellum concesserunt prudenti civi nostro Benedicto Polo super quo deliberavit facere unam fornacem qua maxime periculosa est dicte dogane" (A.S.V., Provveditori al Sal, b. 1, c. 42v).
158. Ibid., b. 6, cc. 136v, 137v, 138, 139r-v (1463 e 1464).
159. Frederic C. Lane, Navires et constructeurs à Venise pendant la Renaissance, Paris 1964, p. 125.
160. Costantino Veludo, Cenni storici sull'Arsenale di Venezia, Venezia 1869, pp. 18-19; Mario Nani Mocenigo, L'Arsenale di Venezia, Roma 1938, p. 27; Ennio Concina, L'Arsenale della Repubblica di Venezia, Milano 1984, pp. 50-68. Secondo Bernard Doumerc l'Arsenale manifestava "une réelle impuissance" nella seconda metà del XV secolo "à assumer l'augmentation constante du trafic maritime" (La crise structurelle de la marine vénitienne au XVème siècle: le problème du retard des "mude", "Annales E.S.C.", 40, 1985, nr. 3, pp. 605-623). Per un'analisi dell'evoluzione dei traffici, v. Freddy Thiriet, Quelques observations sur le trafic des galées vénitiennes d'après les chiffres des incants (XIVème-XVème siècles), in AA.VV., Studi in onore di Amintore Fanfani, III, Milano 1962, pp. 59-72.
161. E. Concina, L'Arsenale, pp. 50-68.
162. A.S.V., Maggior Consiglio, Ursa, c. 31v.
163. Ivi, Avogaria di Comun, Deliberazioni, Spiritus, cc. 84v-85.
164. La quota parte era calcolata a partire dagli estimi della proprietà immobiliare.
165. Lo stesso accade a S. Maurizio, visto che il doge e il suo corteo prendono questa strada in occasione della processione votiva di S. Vito.
166. A.S.V., Senato Terra, reg. 1, c. 130.
167. "Unus pons ligneus", "una alla pontis de travibus", "de lapidibus et calce" (ivi, Cassiere della bolla ducale: Grazie del Maggior Consiglio, reg. 20, cc. 82 e 33; reg. 22, c. 130).
168. Ibid., reg. 22, c. 130.
169. Il "pons longus" (ivi, Collegio, Notatorio, reg. 8, c. 37v).
170. Ivi, Compilazione Leggi, b. 357, c. 460r-v.
171. Ivi, Collegio, Notatorio, reg. 11, c. 57v.
172. Ibid., c. 72v.
173. Ibid., c. 57v.
174. Ibid., reg. 12, c. 32v.
175. Ibid., c. 53r-v.
176. Ibid., reg. 13, cc. 25, 53v, 45v, 42v.
177. Ibid., c. 45.
178. Ivi, Cassiere della bolla ducale: Grazie del Maggior Consiglio, reg. 20, c. 82 (1414).
179. Ivi, Collegio, Notatorio, reg. 9, c. 29 (1454)
180. Ibid., reg. 10, c. 153 (1466).
181. Per esempio ivi, Cassiere della bolla ducale: Grazie del Maggior Consiglio, reg. 11, c. 97v.
182. "In architecto sive archivolto itaque subtus illud possint transire burchi et barche" (ibid., reg. 22, c. 106v).
183. Il ponte di S. Maria dell'Orto è costruito sul modello del "pons lapidei quo itur ad ecclesiam fratrum minorum S. Francisci" (ivi, Collegio, Notatorio, reg. 13, c. 25v); quello di S. Angelo Raffaele "juxta el desegno fecto" (ibid., reg. 14, c. 59v).
184. "Cum lignamine sepe immarcescant [...>" (ibid., reg. 13, c. 25).
185. "Est ornamento civitatis", "erit ornamento illius contrate" (ibid., reg. 12, cc. 53v, 28, 32v).
186. "Pro commoditate populorum euntium", "pro meliori comodo [...>" (ibid., reg. 12, c. 32v; ivi, Cassiere della bolla ducale: Grazie del Maggior Consiglio, reg. 20, c. 106v).
187. Ivi, Collegio, Notatorio, reg. 10, c. 49v.
188. Ibid., c. 92.
189. Ivi, Compilazione Leggi, b. 309, c. 619.
190. Ibid., c. 623.
191. Ivi, Senato Terra, reg. 1, c. 196v.
192. Ibid., reg. 5, c. 81v.
193. Ibid., c. 177.
194. Ibid., reg. 6, c. 35.
195. Ibid., c. 59.
196. Ibid., reg. 8, c. 47v. Si può aggiungere, per completare questa serie di testimonianze, che uno dei pozzi di piazza S. Marco è ingrandito nel 1493, v. D. Malipiero, Annali veneti, p. 693.
197. A.S.V., Collegio, Notatorio, c. 99. Nel 1476 egli tiene sempre il libro dei debitori, ibid., reg. 12, c. 53v. Se la finanza pubblica paga per questi interventi, il "getum" serve alla manutenzione dei pozzi parrocchiali.
198. Ivi, Maggior Consiglio, Stella, c. 89; ivi, Senato Terra, reg. 10, c. 77.
199. Ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 331, c. 115r-v.
200. Secondo Massimo Costantini, L'acqua di Venezia. L'approvvigionamento idrico della Serenissima, Venezia 1984, p. 42, alla fine del XV secolo vi sarebbero stati un centinaio di pozzi pubblici e 4.000 privati (il calcolo è effettuato sulla base delle 6.000 cisterne censite alla metà del XIX secolo). L'acutezza del problema dell'approvvigionamento durante la seconda metà del XV secolo, descritto in molteplici atti pubblici, riflette la ripresa vigorosa della politica urbanistica e le modifiche coeve della situazione demografica.
201. A.S.V., Senato Terra, reg. 5, c. 81v.
202. V. gli esempi offerti da M. Costantini, L'acqua di Venezia, p. 34 n. 38.
203. A.S.V., Senato Misti, reg. 55, c. 159v.
204. V. infra l'analisi di questi lavori.
205. A.S.V., Savi ed Esecutori alle Acque, reg. 342, cc. 31v-32. Sono le "gorne" di Lizzafusina: gli archivi dei provveditori al sale attestano i rifacimenti regolari dell'opera mediante diversi appalti pubblici nel XV secolo. Per esempio, v. ivi, Provveditori al Sal, b. 6, c. 167.
206. Così ivi, Senato Terra, reg. 1, c. 196v; reg. 6, c. 36. Il senato fa allora acquistare 100 burchi. Un burchio corrisponde a un carico di 18.000 libre, v. M. Costantini, L'acqua di Venezia, p. 34.
207. A.S.V., Senato Terra, reg. 5, cc. 81v e 59.
208. Ibid., reg. 2, c. 78.
209. Ibid., reg. 5, c. 43v.
210. Ibid., reg. 11, c. 47.
211. Ibid., c. 106v; ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 460, cc. 3v, 4, 8, 9v, 21v, 23. Il personale impiegato sembra composto da immigrati dalla Terraferma, spesso friulani come i facchini della dogana di terra o i portatori d'acqua e di vino in città.
212. Ivi, Senato Terra, reg. 1, c. 136. Si tratta di "conzar ponti e salizade de le contrade".
213. Ibid., reg. 2, cc. 47v e 84.
214. Ibid., reg. 4, c. 74v.
215. I provveditori del comune avevano ampie competenze in materia economica, v. ivi, Provveditori del Comun, b. 2, capitolare primo, cc. 1-83v: Arte della lana, contrabbando, autorità sugli stranieri che commerciano nella città, sorveglianza degli artigiani che abbandonano Venezia, facilitazioni per l'installazione di stranieri dopo la peste, sorveglianza dell'orologio del mercato.
216. Ivi, Maggior Consiglio, Stella, cc. 45v-46; ed anche ivi, Provveditori del Comun, b. 48, cc. 1-4.
217. Ivi, Senato Terra, reg. 9, c. 95; ivi, Provveditori del Comun, b. 3, cc. 1-5v.
218. Ivi, Senato Terra, reg. 10, c. 62.
219. Ivi, Piovego, b. 1, c. 37r-v.
220. Ivi, Provveditori del Comun, b. 3, cc. 1-4v.
221. Ibid., cc. 4v-5v.
222. Ivi, Compilazione Leggi, b. 357, c. 466; ivi, Senato Terra, reg. 13, c. 145. Per uno studio dell'organizzazione del nuovo tribunale, v. A. Favaro, Notizie storiche sul magistrato veneto alle acque, pp. 179-199.
223. Per l'uso corrente di questo termine, anche prima dell'istituzione definitiva di questa magistratura, v. supra, § 2.
224. Per questo corpo, v. A.S.V., Senato Terra, reg. 13, cc. 170 e 175.
225. I provveditori alle pompe sono creati dopo il 1476, dopo dunque che alcuni ufficiali straordinari sono stati eletti in un primo tempo. O ancora, l'istituzione dei provveditori alla salute diviene regolare dopo il 1490: gli archivi di questa magistratura fissano tuttavia come anno di fondazione il 1486, mentre mandati temporanei sono attestati prima di questa data, per esempio nel 1440, nel 1459 e nel 1468.
226. Ivi, Collegio, Notatorio, reg. 4, c. 158. La repressione dal XIV secolo cadeva più pesantemente sui tintori che utilizzavano l'indaco. Per l'uso di questo colorante era infatti necessaria un'autorizzazione preventiva del piovego, ivi, Cassiere della bolla ducale: Grazie del Maggior Consiglio, reg. 13, c. 68, e reg. 18, c. 9. La repressione si accentua nel XV secolo e queste misure confermano la specializzazione dei laboratori, d'altronde ben nota: v. Franco Brunello, L'arte della tintura nella storia dell'umanità, Vicenza 1968.
227. A.S.V., Collegio, Notatorio, reg. 4, c. 158.
228. Possiamo citare per la Francia settentrionale uno studio del contatto e poi della rottura tra le città e l'acqua, nel quale sono analizzati i mestieri industriali e la loro localizzazione sull'acqua: André Guillerme, Les temps de l'eau. La cité, l'eau et les techniques, Champ Wallon 1983, pp. 102-110.
229. A.S.V., Senato Misti, reg. 54, c. 31.
230. Ivi, Senato Terra, reg. 4, c. 135.
231. Ivi, Senato Misti, reg. 52, c. 47r-v (1417).
232. Ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 222, cc. 16v, 17r-v, 18r-v.
233. Ibid., b. 330, c. 60v.
234. Si tratta dei traghetti di S. Marco, S. Felice, S. Sofia, Cannaregio, S. Samuele e S. Maria Zobenigo, v. ivi, Compilazione Leggi, b. 357, cc. 422-423v.
235. Ivi, Senato Terra, reg. 3, cc. 59v e 192v.
236. Ibid., reg. 4, c. 54.
237. Ivi, Provveditori alla Sanità, reg. 725, cc. 19-21.
238. Tra le diverse ragioni che possono spiegare la debolezza delle installazioni portuali veneziane, i problemi di conservazione dei fondi hanno probabilmente una certa influenza. L'esempio della Sicilia illustra invece l'opposizione socio-economica, per esempio le proteste dei barcaroli, quando si vogliono installare a Palermo pontoni in legno che permettano agli scaricatori l'accesso diretto alle barche. V. Henri Bresc, Un monde méditerranéen. Économie et société en Sicile. 1300-1450, I, Rome 1986, p. 321.
239. A.S.V., Savi ed Esecutori alle Acque, b. 330, cc. 61v-62.
240. Ivi, Senato Terra, reg. 7, c. 38.
241. Ibid., c. 38v; ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 330, c. 63r-v.
242. Ivi, Senato Terra, reg. 8, c. 98.
243. Ibid., reg. 9, c. 151 v.
244. Ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 330, cc. 60, 67, 68v-69; ivi, Senato Terra, reg. 10, c. 75.
245. Ivi, Senato Terra, reg. 10, c. 75.
246. Ibid., reg. 12, c. 41; ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 330, cc. 8v-9.
247. Ivi, Senato Terra, reg. 12, c. 69v.
248. Ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 173, cc. 1r-v, 2r-v, 4, 5v, 6r-v, 7v.
249. Ibid., c. 4.
250. Ibid., cc. 2-3.
251. Ibid., cc. 1 e 3v. Vi si condanna la permanenza di "barche, navilii et marziliane".
252. Ibid., c. 5v.
253. Ibid., c. 2. Bisogna inoltre, quando si levano i pali di fondamenta, eliminare le concrezioni di fango che essi hanno provocato.
254. Ivi, Collegio, Notatorio, reg. 10, c. 28.
255. Ibid., c. 55v.
256. Ibid., c. 28.
257. Ibid., c. 32v.
258. Ibid., reg. 11 c. 53.
259. Ivi, Senato Terra, reg. 5, c. 177 (1466). Per un altro esempio, si veda quando nel 1497 il cavacanal Vasalo da Bergamo, conosciuto per gli appalti ottenuti a S. Andrea della Zirada, si aggiudica anche il ripescaggio di un relitto nel Canal Grande. Se il proprietario non può pagare le spese dell'operazione, il relitto diviene proprietà di Vasalo.
260. Ivi, Collegio, Notatorio, reg. 13, c. 56v.
261. Ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 330, c. 60v; ivi, Senato Misti, reg. 53, cc. 178v-179.
262. Ivi, Senato Terra, reg. 4, c. 136v, e reg. 5, c. 82r-v.
263. Ibid., reg. 9, c. 151v.
264. Ivi, Compilazione Leggi, b. 357, c. 392; ivi, Senato Terra, reg. 1, c. 139; reg. 6, c. 177v; reg. 9, cc. 95, 126; reg. 10, c. 62.
265. Riprendo qui, alcuni punti sviluppati in Elisabeth Pavan, Imaginaire etpolitique: Venise et la mort à la fin du Moyen Age, "Mélanges de l'École Française de Rome. Moyen Âge", 93, 1981, nr. 2, pp. 467-493.
266. A.S.V., Savi ed Esecutori alle Acque, b. 330, c. 64r-v (1413).
267. Ibid., c. 61v (1462).
268. Ibid., c. 62 (1463).
269. Ibid., cc. 63v-64 (1478).
270. Ibid., c. 66 (1485).
271. Ivi, Senato Terra, reg. 10, c. 152.
272. Ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 330, cc. 64v-65 (1485).
273. Ivi, Senato Terra, reg. 10, c. 152.
274. Andrea Dandolo, Chronica per extensum descripta, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1, 1938-1958, p. 255.
275. Ibid., pp. 231 e 626.
276. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 139 (=7735), Cronaca Savina, c. 117v.
277. D. Malipiero, Annali veneti, p. 634.
278. V., per esempio, A.S.V., Consiglio dei Dieci, Miste, reg. 16, c. 128.
279. Ivi, Senato Terra, reg. 9, c. 152.
280. Ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 330, c. 76v.
281. Ibid., cc. 63v-65.
282. Ibid., cc. 54v e 67v.
283. Ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 330, c. 60v. Beninteso, i lavori riguardano solo alcuni tratti.
284. Ivi, Collegio, Notatorio, reg. 4, cc. 59, 66v; reg. 5, c. 201v; reg. 6, c. 123.
285. Ibid., reg. 8, cc. 10, 19v, 20, 21, 36v, 37r-v, 38v, 46v, 72v, 75, 80, 85v, 86, 89, 100v, 105, 135, 145, 155r-v.
286. "In oppositum ripae Virginum", "dal campo sancto de la charita", "el campo de la Madelena", "rivus pontis ancorarum", "de la ruga di do pozzi", "verso le fondamenta", "dal campedello", "dei pontexelli", v. ibid., cc. 20, 135, 100v, 10, 19v, 37.
287. "Ad fornacem", "rivus ubi stant tinctores", "al canton del taiapietra", "cavo dei forni", "canton del squero", "che comenza del taiapietra", "del tentor", "dal geto de rame", ibid., cc. 89, 145, 10, 19v.
288. Ibid., reg. 9, cc. 181v, 187v (il rio di S. Nicolò come quello dei "pinzocheri" di S. Basegio, erano stati parzialmente ripuliti nel 1452, ibid., reg. 8, c. 155r-v).
289. Ibid., reg. 12, cc. 47v, 61v, 80.
290. Ibid., c. 74v.
291. Ibid., c. 58; reg. 13, cc. 8, 9v, 23, 148v.
292. Ibid., reg. 14, c. 36v.
293. Ibid., c. 82.
294. Ibid., c. 139v.
295. Ibid., reg. 8, cc. 36v, 80, 135, 155 (per i rii che collegano l'area della "ruga dei due pozzi" e S. Caterina, ripuliti nel 1444, ibid., c. 10).
296. Ibid., reg. 9, cc. 133v, 181.
297. Ibid., reg. 11, c. 128.
298. Ibid., reg. 12, cc. 112v, 123v, 128.
299. Ibid., reg. 13, cc. 84v, 148, 164.
300. Ibid., reg. 14, c. 7.
301. Ibid., c. 86.
302. Ibid., c. 120.
303. Ibid., reg. 9, c. 127; reg. 13, c. 146.
304. Ibid., reg. 8, c. 89; reg. 13, c. 146.
305. Ibid., reg. 8, c. 75; reg. 9, c. 181; reg. 11, c. 101.
306. Ibid., reg. 9, c. 181; reg. 14, c. 12v.
307. Ibid., reg. 10, c. 92v; reg. 13, c. 70v.
308. Ibid., reg. 10, c. 125v; reg. 12, c. 151; reg. 14, c. 60v.
309. Ibid., reg. 8, c. 19v; reg. 9, c. 87v; reg. 14, c. 60v. Era stato ripulito nel 1409, reg. 4, c. 66v.
310. Ivi, Compilazione Leggi, b. 357, c. 394. Una tassa progressiva finanzia l'intervento. Sembra che il finanziamento fosse organizzato in questo modo: i residenti sulle rive pagano "pro rata" non secondo il valore dei loro beni, ma secondo la lunghezza della proprietà che si affaccia sulla via d'acqua ripulita ("de quanto tenent possessiones sue"). In questo caso il comune paga la sua parte secondo lo stesso principio.
311. Ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 330, c. 60v.
312. Ibid.
313. Ivi, Maggior Consiglio, Leona, c. 174v.
314. Ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 330, c. 179.
315. Ibid.
316. Ivi, Provveditori al Sal, b. 6 (reg. 8), c. 43.
317. Ibid.
318. Ivi, Senato Terra, reg. 4, c. 136v.
319. Ibid., reg. 5, c. 82r-v.
320. Ibid., c. 163v; reg. 6, c. 3.
321. Ivi, Collegio, Notatorio, reg. 10, cc. 76v, 73v, 43v, 48, 92v.
322. Ibid., cc. 73v, 84.
323. Ibid., cc. 43v, 56.
324. Ivi, Senato Terra, reg. 5, c. 43v; reg. 11, c. 34r-v.
325. Ibid., reg. 9, c. 151v.
326. Ibid., c. 152; reg. 10, c. 76. 50 ducati vengono versati ogni settimana ai provveditori di comun. La città ha dunque anticipato 700 ducati.
327. Ibid., reg. 10, c. 74v.
328. Ibid., reg. 11, c. 8.
329. Ibid., cc. 33-34v.
330. Ibid., reg. 12, c. 31r-v.
331. Ibid., reg. 11, c. 33.
332. È noto l'onere finanziario rappresentato dalle fortificazioni nelle città francesi; si possono citare ad esempio alcuni calcoli precisi: Bernard Chevalier, L'organisation militaire à Tours au XVème siècle, "Bulletin Philologique et Historique du Comité des Travaux Historiques et Scientifiques", 1959, pp. 445-459 (a Tours le spese per le fortificazioni e per la manutenzione dei ponti rappresentano negli anni 1421-1422 il 70% delle spese della città); Robert Favreau - Jean Glénisson, Fiscalité d'État et budget à Poitiers au XVéme siècle, in AA.VV., Finances publiques d'Ancien régime. Finances publiques contemporaines, Spa 1972, pp. 121-134, hanno studiato la tassazione del vino per la sistemazione dei bastioni. Per la "vinade" di Périgueux, Arlette Higounet, Le financement des travaux publics à Périgueux au Moyen Âge, in AA.VV., Les constructions civiles d'intérêt public dans les villes d'Europe au Moyen Âge et sous l'Ancien Régime et leur financement, Spa 1971, pp. 155-171.
333. A.S.V., Senato Terra, reg. 12, c. 43.
334. Ivi, Maggior Consiglio, Fronesis, c. 69v.
335. "Canali S. Marci [...> quod canale a terra nova usque Sanctam Crucem", ivi, Senato Terra, reg. 4, c. 136v.
336. Ivi, Senato Misti, reg. 53, cc. 178v-179; ivi, Senato Terra, reg. 9, c. 152; reg. 10, c. 74v; reg. 11, c. 8; reg. 12, c. 70v.
337. Ivi, Senato Terra, reg. 12, c. 41.
338. Ibid., reg. 9, c. 152; reg. 11, cc. 33-34v.
339. Ibid., reg. 8, c. 98.
340. Ibid., reg. 4, c. 136v; reg. 5, c. 82.
341. Ibid., reg. 9, c. 152. Per un altro esempio di intervento sul Canal Grande "senza seragie ne palificade", ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 460, c. 9.
342. Ivi, Senato Misti, reg. 53, c. 178; ivi, Senato Terra, reg. 9, cc. 151 v, 152; reg. 10, c. 74v.
343. Ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 460, cc. 6, 9. I contratti pubblici stabiliscono delle precise norme di pulitura e alla fine del secolo le fonti riportano dei disegni, consegnati al prestatore d'opera che presenta la sua offerta per effettuare il lavoro: "chome appar per el desegno", "segondo la forma del desegno", ibid., cc. 9, 23.
344. I Libri Commemoriali della Repubblica di Venezia, Regesti, a cura di Riccardo Predelli, III, Venezia 1878, libro IX, p. 138.
345. A.S.V., Maggior Consiglio, Ursa, c. 153v.
346. Ivi, Senato Terra, reg. 6, c. 57.
347. Naturalmente, è molto difficile precisare l'esatta natura di tale innovazione. L'invenzione può essere soltanto l'applicazione locale di una tecnica importata. Su questi problemi cf. Marc Bloch, Les ῾inventions' médiévales, "Annales d'Histoire Économique et Sociale", 7, 1935, pp. 634-639; Bertrand Gille, Les ingénieurs de la Renaissance, Paris 1964 (trad. it. Leonardo e gli ingegneri del Rinascimento, Milano 19802), pp. 20-21 e, per le tecniche idrauliche, pp. 74-79.
348. A.S.V., Senato Terra, reg. 11, c. 121v.
349. Chiedono la proibizione, per la durata di cinquant'anni e su tutte le terre della signoria, di riprodurre l'"edificio". Con il brevetto, lo stato veneziano, per lo meno dopo il regolamento generale del 1474, protegge l'invenzione dalla concorrenza e dall'imitazione. Su questi problemi, cf. Giulio Mandich, Le privative industriali veneziane 1405-1550, "Rivista del Diritto Commerciale", 24, 1936, pp. 511-547; Philippe Braunstein, A l'origine des privilèges d'invention aux XIVème et XVème siècles, in Les Brevets. Leur utilisation en histoire des techniques et de l'économie. Table ronde CNRS (6-7 décembre 1984), Paris 1985, pp. 53-60.
350. A Venezia si distingue la cittadinanza "de jure" o originaria e la cittadinanza "de gratia". Alla prima hanno diritto i figli legittimi, nati da un padre cittadino veneziano. La seconda è ottenuta, per grazia, come ricompensa di qualche servizio reso o per altre ragioni (nella seconda metà del XIV secolo di ordine essenzialmente demografico). Dopo questa prima distinzione, i cittadini si dividono in due categorie: "de intus" e "de extra". I primi possono accedere a certi uffici della città ed esercitare tutte le arti. I secondi dispongono di privilegi commerciali. Torneremo sull'evoluzione della categoria dei cittadini e sulla questione dei rapporti con le Scuole grandi e la cancelleria ducale (il gran cancelliere è un cittadino); su tutto questo, cf. la voce di Marco Ferro, Dizionario del diritto comune e veneto, I, Venezia 18452, pp. 310 ss.
351. A.S.V., Senato Terra, reg. 12, c. 99v.
352. Ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 460, c. 6.
353. Ibid., c. 9. In entrambi i casi, si escava a 10 piedi di profondità.
354. Un atto notarile può portare alla luce in modo molto preciso gli sconosciuti del mestiere; troviamo così che, nel 1412, Girolamo "a vale", "cavator canalium" di S. Zulian e Antonio Petri, "cavator canalium" di S. Lio, sono in conflitto: Antonio non ha pagato il prezzo d'affitto dei burchi e quello dei due remi che Girolamo gli ha fornito; ivi, Cancelleria Inferiore, Notai, b. 121 (Donato), 4 giugno 1412.
355. Ivi, Senato Terra, reg. 5, c. 43v.
356. Ibid., reg. 9, c. 152; reg. 10, c. 74v ("le dicte prexe"). Per un esempio anteriore d'assegnazione a lotti, cf. ivi, Senato Misti, reg. 53, c. 178.
357. Secondo le parole stesse del decreto senatoriale.
358. A.S.V., Senato Terra, reg. 7, c. 43.
359. Anche Marino Sanudo mette in risalto questa assoluta serenità: "Non ha muraglie niuna attorno la città, né parte de la notte si serrano, né si fa custodia come le altre cittade, per paura de' nemici, par essa al presente cusì segurissima che niun può offenderla né farle paura" (Marino Sanudo, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae ovvero La città di Venetia (1493-1530), a cura di Angela Caracciolo Aricò, Milano 1980, p. 20).
360. L'umanista Giovanni Battista Egnazio compone questi versi per il magistrato alle acque: "Venetorum urbs divina disponente/Providentia aquis fundata/Aquarum ambitu circumsepta/Aquis pro muro munitur/Quisquis igitur quoquo modo/Publicis aquis inferre detrimentum/Ausus fuerit Hostis Patriae judicetur [...>" (v. Paolo Selmi, Politica lagunare della veneta Repubblica dal secolo XIV al XVIII, in AA.VV., Mostra storica della laguna veneta, Venezia 1970, pp. 108-109). La formula viene ripresa all'infinito e diventa uno stereotipo diffuso dagli autori dei trattati sulla laguna, dagli storiografi ufficiali della Repubblica, poi da tutti i compilatori. Così la dedica del libro di Antonio Piscina, A.S.V., Archivio Proprio Giovanni Poleni, reg. 27; ivi, Archivio Proprio Trevisan, reg. 4, libro 1; Bernardo Trevisan, Trattato della laguna, Venezia 1715, p. 2; Luigi Cornaro, Trattato di acque, Padova 1560, pp. 1-3, per non fare che alcuni esempi tra una pletora di riferimenti possibili.
361. Il De situ Venetae urbis è stampato nel 1502.
362. Marcantonio Sabellico, Del sito di Venezia città, a cura di Giancarlo Meneghetti, Venezia 1985 (riprod. anast. dell'ediz. Venezia 1957), p. 10.
363. Ibid., p. 11.
364. Come i trattati di Luigi Cornaro e di Luigi Testi.
365. Si può citare, in opposizione a questa impostazione storiografica, l'importante studio di Wladimiro Dorigo, Venezia. Origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, Milano 1983 e il libro interessante di Nelli-Elena Vanzan Marchini, Venezia. Da laguna a città, Venezia 1985.
366. Francesco Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare descritta in XIIII libri, I, Venezia 1968 (1663), p. 2.
367. Cf. Jean-Claude Hocquet, Histoire et cartographie. Les salines de Venise et de Chioggia au Moyen Âge, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 128, 1969-1970, pp. 525-574.
368. Si citeranno qui le riflessioni di Salvatore Ciriacono, Scrittori d'idraulica e politica delle acque, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/II, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 419-512. Su queste lagune cf. Giuseppe Pavanello, Di un'antica laguna scomparsa (la laguna eracliana), "Archivio Veneto Tridentino", 3, 1923, pp. 263-304.
369. Marco Cornaro, Scritture sulla laguna, in Antichi scrittori d'idraulica veneta, a cura di Giuseppe Pavanello, I, Venezia 1919, pp. 74-75; per la descrizione della laguna antica cf. pp. 105 ss.
370. A.S.V., Cassiere della bolla ducale: Grazie del Maggior Consiglio, reg. 6, c. 26; reg. 8, c. 6v; reg. 13, cc. 29, 43.
371. Giuseppe Cappelletti, Storia della Repubblica di Venezia, I-XIII, Venezia 1848-1855: IV, pp. 168-171. Si veda il quadro di Paris Bordone La restituzione dell'anello. Su questa leggenda della restituzione dell'anello di s. Marco al doge attraverso un pescatore, cf. Edward Muir, Civic Ritual in Renaissance Venice, Princeton (N J.) 1981 (trad. it. Il rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Roma 1984), pp. 88-89.
372. Codice diplomatico padovano, "Monumenti storici pubblicati dalla R. Deputazione Veneta di Storia Patria", serie I, Documenti, a cura di Andrea Gloria, pt. I, Codice [...> dal secolo VI a tutto l'XI, Venezia 1877; pt. II, Codice [...> dall'anno 1101 alla pace di Costanza, Venezia 1879-1881; cf., ad esempio, pt. I, nr. 440; pt. II, nr. 727.
373. Giustina Renier Michiel, Origine delle feste veneziane, II, Milano 1829, p. 272. Per illustrare il peso politico dato al problema del Brenta dalle assemblee veneziane nel XV secolo, cf. A.S.V., Senato Terra, reg. 10, e. 119v.
374. Questo studio, lungi dall'essere esaustivo, intende prendere in considerazione soltanto alcune delle tappe dell'intervento che le fonti consentono di seguire con precisione. Per alcuni titoli all'interno di una bibliografia immensa e di interesse ineguale, cf. Carlo Antonio Bertelli, Discorso sopra l'origine delle alterazioni della Laguna veneta antica e moderna, Venezia 1676; Giulio Rompiasio, Melodo in pratica di sommario o sua compilazione delle leggi, terminazioni ed ordini appartenenti agli Ill. ed Ecc. Collegio e Magistrato alle Acque, Venezia 1771; Cristoforo Tentori, Della legislazione veneziana sulla preservazione della laguna. Dissertazione storico-filosofico-critica, Venezia 1792; Bernardino Zendrini, Memorie storiche dello stato antico e moderno delle lagune di Venezia e di quei fiumi che restarono divertiti per la conservazione delle medesime, I, Padova 1811; Camillo Vacani di Forteolivolo, Della laguna di Venezia e dei fiumi nelle attigue provincie. Memorie, Firenze 1867; Francesco Antonio Bocchi, Del Po in relazione alle lagune veneziane, "Archivio Veneto", 5, 1873, pp. 191-200; Antonio Averone, Saggio sull'antica idrografia veneta, Mantova 1911; Giuseppe Pavanello, La laguna veneta (Note illustrative e breve sommario storico), Roma 1931; sui problemi della conservazione della laguna, cf. Nicolò Spada, L'erosione delle barene nella laguna di Venezia nel secolo XVI, "Archivio Veneto", ser. V, 50-51, 1952, pp. 11-13. Per una analisi complessiva dei problemi della laguna, si possono citare alcune pubblicazioni più recenti: Gian Giacomo Zilli, L'ambiente naturale, in Storia di Venezia, I, Dalla preistoria alla storia, Venezia 1957, pp. 3-76; AA.VV., Mostra storica e, in particolare, i saggi: Bianca e Luigi Lanfranchi, La laguna dal secolo XI al XIV, pp. 74-84; Maria Francesca Tiepolo, Difesa a mare, pp. 133-138; Paolo Selmi, Politica lagunare, pp. 105-115; Gian Albino Ravalli Mondoni, Scrittori tecnici di problemi lagunari, pp. 169-173; Ministero dei Lavori Pubblici, Magistrato alle Acque, Venezia, Convegno di studi Laguna, fiumi, lidi. Cinque secoli di gestione delle acque nelle Venezie, Venezia 1983; AA.VV., Laguna, lidi, fiumi. Cinque secoli di gestione delle acque, catalogo della mostra a cura dell'A.S.V., Venezia 1983.
375. A.S.V., Maggior Consiglio, Luna, c. 48; sulle valli: L. Cisotto, Le valli da pesca delle lagune venete, Venezia 1964; B. Giustiniano, Le valli salse da pesca, in La laguna di Venezia, monografia fondata da Giovanni Magrini e continuata con la collaborazione del magistrato alle acque di Venezia, III, pt. VI, t. XI, Venezia 1940, pp. 27-48; Id., La vallicultura, ibid., pp. 49-212; N. Emilio, Attrezzi e sistemi di pesca nella laguna, ibid., pp. 213-260.
376. A.S.V., Savi ed Esecutori alle Acque, b. 331, c. 85v.
377. Ivi, Senato Terra, reg. 9, cc. 151v-152v.
378. Ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 126, c. 9. Il documento del 1474 (ivi, Senato Terra, reg. 7, c. 37) prevedeva tuttavia "che tute le grisole [...> de Torcello a Malamocco siano levate via"; quello del 1485 (ibid., reg. 9, c. 152r-v) riportava la decisione della loro distruzione "di Torzello a i Tre Porti".
379. Ivi, Senato Terra, reg. 7, c. 37v.
380. Ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 126, c. 1.
381. Roberto Cessi, Evoluzione storica del problema lagunare, in Atti del convegno per la conservazione e difesa della laguna e della città di Venezia, Venezia 1960, p. 16 (pp. 23-64).
382. Sergio Escobar, Il controllo delle acque: problemi tecnici e interessi economici, in AA.VV., Storia d'Italia. Annali, 3, Scienza e tecnica, a cura di Gianni Michieli, Torino 1980, p. 101 (pp. 85-145).
383. A.S.V., Maggior Consiglio, Luna, c. 50; pubblicato in Gino Luzzatto, I prestiti della Repubblica di Venezia (sec. XIII-XIV), Padova 1920, p. 59.
384. A.S.V., Maggior Consiglio, Luna, c. 50v.
385. Ibid., c. 57.
386. Ibid., Magnus, cc. 2, 4v.
387. Ibid., Fronesis, c. 123; Magnus, c. 14v.
388. Ivi, Senato Misti, reg. 17, cc. 34, 61v; reg. 18, cc. 37, 67v; reg. 21, cc. 60v-61.
389. Ivi, Maggior Consiglio, Novella, c. 93r-v; Leona, cc. 10v, 171v, 174v.
390. Ibid., Fronesis, c. 106.
391. Ibid., Leona, c. 22.
392. Ivi, Provveditori al Sal, b. 6 (reg. 8), c. 42v.
393. Ivi, Senato Misti, reg. 48, cc. 129v-130. Ugo Tucci, Un problema di metrologia navale: la botte veneziana, "Studi Veneziani", 9, 1967, pp. 201-246.
394. A.S.V., Senato Misti, reg. 51, c. 112.
395. Ivi, Maggior Consiglio, Leona, c. 43.
396. Ibid., Magnus, cc. 8v, 10, 14v, 61; Civicus, c. 29v; Clericus, c. 28; ivi, Cassiere della bolla ducale: Grazie del Maggior Consiglio, reg. 11, c. 28v.
397. Ivi, Senato Misti, reg. 28, cc. 36, 92, 99; reg. 31, cc. 62v, 136.
398. Ibid., reg. 35, cc. 45v, 93r-v; reg. 41, cc. 13v, 14, 18; reg. 43, c. 90.
399. Ivi, Provveditori al Sal, b. 6 (reg. 8), c. 56.
400. Il dazio del vino ammonta quell'anno a 77.000 ducati, v. Bilanci Generali, a cura di Fabio Besta, I/1, Venezia 1903, p. 148. Si calcola questa cifra grazie alle indicazioni conservate per certi anni quando sono noti sia il totale del dazio del vino sia l'ammontare delle entrate su questo dazio riservate al rafforzamento del litorale.
401. Il dazio rende quell'anno 68.410 ducati, ibid., p. 163.
402. A.S.V., Provveditori al Sal, b. 6 (reg. 8), cc. 88v-89.
403. Ibid., c. 56.
404. Ibid., cc. 88v-89. Troviamo una cifra uguale per l'anno 1499, ibid., c. 126.
405. Queste chiatte senza ponte hanno delle specifiche caratteristiche tecniche: mancanza di sovrastrutture e velatura alla latina.
406. Nella seconda metà del XV secolo i marani sono ormai misurati in botti.
407. Per la costruzione di queste navi da carico, cf. Jean-Claude Hocquet, Le sel et la fortune de Venise, II, Voiliers et commerce en Méditerranée 1200-1650, Lille 19791 e 19822, pp. 98, 509-510.
408. A.S.V., Provveditori al Sal, b. 6 (reg. 8), c. 53.
409. Ibid., c. 61v.
410. Ibid., cc. 82, 86v, 100; Senato Misti, reg. 54, c. 30v.
411. J.-C. Hocquet, Voiliers et commerce, p. 98.
412. I tragitti non sembrano essere regolari prima del XV secolo; nel 1316, per esempio, 100 "plati" (barca di mare a fondo piatto con la prua e la poppa arrotondate) trasportano dei blocchi di pietra sul litorale di Pellestrina.
413. A.S.V., Provveditori al Sal, b. 6 (reg. 8), cc. 15, 53, 69.
414. Ibid., c. 69. La tariffa passa da 20 a 18 soldi per "mier" di pietre. Era stata elevata nel 1416, ivi, Senato Misti, reg. 51, cc. 112v-113.
415. A volte sono costruite utilizzando vecchie navi fuori uso, J.-C. Hocquet, Voiliers et commerce, p. 98.
416. A.S.V., Provveditori al Sal, b. 6 (reg. 8), c. 61v.
417. Ibid., c. 109v.
418. "Si facciano 40 passi di diga e l'offerente sia tenuto al prelievo della terra, da prendersi in un luogo che non danneggi il lido, e la diga cominci all'estremità di quella fatta da Bono de Zane e abbia l'altezza seguente [...>" (ibid., c. 107v).
419. Come è spiegato, andarono a vedere la diga fatta da Bartolomeo Nordio a Pellestrina e fecero misurare l'ultima parte costruita dal mastro: fu così scoperto che era lunga 24 passi e 3 piedi, profonda 30 piedi e 3/4 e alta 7 piedi. Comunque questo lavoro non fu approvato a causa del frangiflutti di pietre troppo piccolo davanti alla diga. Inoltre andarono a vedere la diga fatta da Bono de Zane e approvarono il lavoro a condizione che il bordo finisse con le pietre, secondo la forma prevista nel contratto. V. ibid., c. 109.
420. Ed è spiegato come si è prodotta un'apertura di quattro passi attraverso la quale le acque irrompono con grave danno e che si è deciso che questa breccia venga dunque chiusa con una diga. V. ibid., c. 111.
421. Ibid., per esempio, cc. 108, 128, 136.
422. "Incanto de reconzar pezi d'arzere", ibid., per esempio cc. 160, 170v, 171r-v, 173, 173v, 174r-v, 178.
423. Si decide che la diga sia fatta da due a tre piedi più alta che la precedente e raggiunga dieci piedi oppure che sia costruita sulla precedente con l'aggiunta di tre piedi almeno di fango. V. ibid., c. 109v.
424. Ibid., c. 174v.
425. Ibid., c. 142r-v.
426. Ibid., cc. 171v-172.
427. Ibid., cc. 171v-174.
428. Ibid.
429. Ibid., cc. 170-174v.
430. "Chome le altre spiaze di lidi", ibid., c. 110v, per esempio.
431. Ibid., c. 173. Oppure è precisato che il terrapieno cominci là dove finisce il lavoro di Andrea da Monte e che si prolunghi in direzione di Chioggia, ibid., c. 174.
432. "Fango bon e sufficiente che non habbia ne tegna sabion".
433. "E vignando sopra l'arzere fino a la sumita di l'arzere", ibid., c. 108.
434. Ibid., cc. 171v-174.
435. "Dove e sta guasto per el mar le mote de sabion".
436. L'esempio qui analizzato è quello di una palizzata di 70 passi costruita nel 1460 a S. Nicolò, ibid., c. 125.
437. L'offerente, per esempio, è tenuto a rimuovere i pali rimasti della vecchia palizzata ed anche a portarli a terra e tagliarli, se sono buoni e manca altro legno, ibid., c. 139.
438. Ibid., c. 189.
439. Per l'opera in due allineamenti di palizzate doppie, v., ancora, ibid., cc. 151v, 162, 166, 174v, 172r-v, 178v, 179, 183v, 184, 185, 186, 187v, 188, 190, 191v, 193. Per quella su "tre file", ibid., cc. 160v, 169.
440. Ibid., cc. 149v, 162, 166, 174v.
441. Ibid., c. 151v.
442. Ibid., cc. 170v-172.
443. I murazzi sono completati nel 1782, al termine di un lavoro di 38 anni.
444. A.S.V., Senato Misti, reg. 29, c. 77v; reg. 31, c. 136; reg. 51, cc. 18, 66, 72v, 85, 86r-v.
445. R. Cessi, Evoluzione storica, p. 39. A.S.V., Senato Misti, reg. 29, cc. 77v, 86; reg. 30, c. 96.
446. Ivi, Provveditori al Sal, b. 6, cc. 109v-110. Otto anni dopo, l'opera viene prolungata di 100 passi verso est, in direzione del mare; ibid., cc. 120, 121v.
447. Così è descritto come, con grande pericolo delle navi e delle galee, il porto s'insabbia e l'acqua scarseggia; ibid., c. 111.
448. Ibid., c. 112v.
449. Ibid., c. 114v.
450. Ibid., c. 117v.
451. Ibid., c. 124v.
452. Ivi, Senato Terra, reg. 5, c. 81v. Si può anche citare quella deliberazione del senato nella quale è spiegato che la situazione del nostro porto va peggiorando, poiché vi è scarsità di acqua a tutte le ore; ibid., reg. 9, c. 151v.
453. "E per i fari del porto di Venezia, dei triangoli nei modi e alle condizioni dell'ultima assegnazione"; "i magnifici provveditori al sale vogliono costruire dei fari con la loro torre nel numero ordinato dall'ammiraglio fuori dal porto di Venezia", ivi, Provveditori al Sal, b. 6, cc. 190v, 195. Nel XVI secolo il grosso del traffico navale passa per il porto di Malamocco, cf. le cifre date da J.-C. Hocquet, Voiliers et commerce, p. 167.
454. A.S.V., Provveditori al Sal, b. 6 (reg. 8), c. 198.
455. Alcuni studi e qualche lavoro precedono il 1324, ma è da quell'anno che si ordina un primo progetto di difesa; con una deviazione completa delle acque del Brenta, verso la laguna di Malamocco, lontano dal bacino di Rialto. Il programma prevede la costruzione di una diga: non potendo scendere verso Venezia, tutte le acque, canalizzate, devono confluire verso S. Marco di Boccalama (per l'analisi del documento senatoriale, cf. M. Cornaro, Scritture sulla laguna, p. 139). Questa deviazione non dà i risultati attesi, poiché crea un disordine idrografico e, secondariamente, complica il problema del rifornimento d'acqua con l'impoverimento del braccio principale del Brenta. La ripetuta elezione di commissioni di saggi "super facto aggerem, factum aggeris et bucharum apertarum", prova l'acuta persistenza, nella seconda metà del secolo, delle difficoltà della ricerca di soluzioni provvisorie. La riduzione delle dighe, l'apertura e poi la chiusura di bocche praticata nelle dighe rappresentano altri tentativi di miglioramento (A.S.V., Senato Misti, reg. 17, c. 27; reg. 16, c. 10v). Sui problemi derivati dalla costruzione della diga, v. M. Cornaro, Scritture sulla laguna, pp. 158-178; Roberto Cessi, Il problema della Brenta dal secolo XII al secolo XV, in La laguna di Venezia, II, pt. IV, t. VII, Venezia 1933, pp. 3-107. Esigenze economiche, quali l'alimentazione dei mulini o i problemi della navigazione verso la Terraferma, complicano ancora la questione della regolazione dei fiumi. Poiché gli interventi non avevano dato luogo a risultati positivi, prevale la reintroduzione delle acque del Brenta nella laguna. Convogliate e dirette in un collettore principale di fronte alla bocca del Visignone, esse sono destinate a rifornire il Canale della Giudecca, il porto e la sua entrata. Pur essendo sconosciuti gli effetti sul porto di questa nuova politica, il deposito alluvionale nella laguna è così forte che a partire dal 1368 bisogna riprendere il programma del 1324 allontanando decisamente il Brenta dal bacino di Venezia (R. Cessi, Evoluzione storica, pp. 45-49). Malgrado l'opposizione dei Padovani - costretti a percorsi fluviali molto più lunghi e a subire danni agricoli notevoli causati dall'aumento delle paludi nella parte alta del corso del fiume - l'orientamento definito nel 1368 si mantiene, con alcuni aggiustamenti, fino alla fine del secolo. La diga, del 1324, viene prolungata per far sfociare il Brenta a Volpadego.
456. A.S.V., Provveditori al Sal, b. 6 (reg. 8), reg. 7, c. 5.
457. Ivi, Senato Terra, reg. 3, cc. 76, 137v. Queste installazioni non sono state studiate in modo sistematico come quelle consacrate ai mulini di altre regioni geografiche, cf. J.E. Muendel, The Mills and the Millers of Medieval Pistoia, PhD, Microfilm University, 1980; Luisa Chiappa Mauri, I mulini ad acque nel Milanese (secoli X-XV), Città di Castello 1984.
458. Su Alvise Corner e Cristoforo Sabbadino si rimanda, all'interno di un'abbondante bibliografia, all'introduzione di Roberto Cessi a Cristoforo Sabbadino, Discorsi sopra la laguna, in Antichi scrittori d'idraulica veneta, II, Venezia 1930; S. Ciriacono, Scrittori d'idraulica, pp. 419-512; Id., Trattati di agricultura, di idraulica e di bonifica, in AA.VV., Trattati di prospettica, architettura, idraulica e altre discipline, Venezia 1985, pp. 45-60; F.M. Fresa, Alvise Cornaro e Cristoforo Sabbadino: le ragioni dell'agricoltura, delle bonifiche, degli investimenti fondiari e quelle dello stato da Mar. Mercatura agricola e interventi idraulici nella Venezia della prima metà del '500, in Laguna, fiumi, lidi. Cinque secoli di questione delle acque delle Venezie, Venezia 1983 e, sulle bonifiche in Terraferma, Elsa Campos, I consorzi di bonifica nella Repubblica veneta, Padova 1937; Daniele Beltrami, Saggio di storia dell'agricoltura nella Repubblica veneta durante l'età moderna, Venezia-Roma 1955; Angelo Ventura, Nobiltà e popolo nella società veneta del '400-'500, Bari 1964 e, per qualche analisi di documentazione cartografica, AA.VV., Laguna, lidi, fiumi. Esempi di cartografia storica commentata, Venezia s.d.
459. A.S.V., Senato Terra, reg. 4, c. 141v.
460. I contratti per la sistemazione del carro sono aggiudicati ai da Pesaro. Questi ultimi contribuiscono con le spese dell'escavo del canale che va fino alla diga; in cambio incassano le entrate del traghetto di Lizzafusina. Per l'insediamento dei da Pesaro a Lizzafusina, v. ivi, Archivio Pesaro (Archivio Privato Gradenigo), b. LI, filza LI, nr. 55, cc. 1-8.
461. Ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 330, c. 60v.
462. Ivi, Senato Misti, reg. 53, cc. 178v, 179; ivi, Senato Terra, reg. 4, c. 60; reg. 12, c. 47; ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 330, c. 67v; b. 173, c. 6v; b. 116 (1497), cc. n.n.
463. Ivi, Savi ed Esecutori Acque, b. 126, cc. 1, 2, 9.
464. Ibid., b. 119, cc. 1, 3; b. 116, cc. n.n.
465. Ibid., b. 330, c. 119.
466. V. Giuseppe Gullino, Corner, Marco, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXIX, Roma 1983, pp. 254-255.
467. A.S.V., Savi ed Esecutori alle Acque, b. 330, c. 3r-v; ivi, Senato Terra, reg. 4, cc. 73, 74r-v, 105, 117r-v, 179.
468. M. Cornaro, Scritture sulla laguna.
469. Per esempio, A.S.V., Savi ed Esecutori alle Acque, b. 331, cc. 9v-10.
470. Ibid., b. 126, c. 9.
471. Ibid., b. 229, c. 6v.
472. Ibid., b. 330, c. 60v.
473. Ibid., c. 63v; b. 331, cc. 13v-14.
474. Ivi, Senato Terra, reg. 4, c. 151v.
475. Ivi, Provveditori al Sal, b. 6 (reg. 8), cc. 193, 196, 211.
476. Così risulta la sua attività sui litorali negli anni 1483 e 1489.
477. Cf. A.S.V., Provveditori al Sal, b. 6 (reg. 8).
478. Ibid., c. 109.
479. La cesura costituita dalla Peste Nera e gli sconvolgimenti demografici della seconda metà del XIV secolo costituiscono un momento di accelerazione nella storia di questo lento processo. V. E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, pp. 525-566.
480. Ead., Murano à la fin du Moyen Âge: spécificité ou intégration dans l'espace vénetien, "Revue Historique", 258, 1984, nr. 1, pp. 45-92.
481. A.S.V., Cancelleria Inferiore, Notai, b. 149 (Pominò), cc. 39-40: divisione Badoer del 1436. Oppure i Morosini: ivi, Giudici del Proprio, Vadimoni, filza 1, c. 108v.
482. Philippe Braunstein, De la montagne à Venise: les réseaux du bois au XVème siècle, "Mélanges de l'École Française de Rome. Temps Modernes", 100, 1988, nr. 2, pp. 761-799. Allo stesso modo gli Zuccato la cui attività in questo settore si perpetua: è attestata dall'estimo incompleto dei beni del 1514.
483. L'opera di stabilizzazione delle Zattere contribuisce a ridurre un po' queste superfici.
484. Nella Fano, Ricerche sull'arte della lana a Venezia nel XIII e XIV secolo, "Archivio Veneto", ser. V, 14, 1936, pp. 73-213.
485. Ibid., pp. 147-151; per la localizzazione di questa ruga, cf. Roberto Cessi - Annibale Alberti, Rialto. L'isola. Il ponte. Il mercato, Bologna 1934, p. 150.
486. Giovanni Monticolo, La sede dell'arte della lana a Venezia nei secoli XIII e XIV. Spigolature d'archivio, "Nuovo Archivio Veneto", 3, pt. II, 1892, pp. 351-360. Il decreto del maggior consiglio del 1306 accorda il ritorno a Venezia della fabbricazione, ma l'attività era senz'altro effettiva prima di quella data; A.S.V., Maggior Consiglio, Capricornus, c. 16.
487. Ivi, Provveditori del Comun, b. 57, accentua questa prospettiva.
488. Ivi, Giudici del Proprio, Testimoni, filza 1, cc. 48v-49.
489. A Venezia ci sarebbero stati tremila lavoratori della seta: Romolo Broglio D'Ajano, L'industria della seta a Venezia, in Storia dell'economia italiana, a cura di Carlo Maria Cipolla, I, Torino 1959, pp. 209-262; per le modifiche tecniche in questo settore della produzione: Carlo Poni, Archéologie de la fabrique: la diffusion des moulins à soie ῾alla bolognese' dans les Etats vénitiens du XVème au XVIIIème siècle, "Annales E.S.C.", 27, 1972, nr. 6, pp. 1475-1496; Alberto Guenzi - Carlo Poni, Sinergia di due innovazioni. Chiaviche e mulini da seta a Bologna, "Quaderni Storici", 64, 1, 1987, pp. 111-128. V. anche Doretta Davanzo Poli, L'arte e il mestiere della tessitura a Venezia nei secoli XIII-XVIII, in I mestieri della moda dal XIII al XVIII secolo, catalogo della mostra, Venezia 1988, pp. 39-53.
490. A.S.V., Cassiere della bolla ducale: Grazie del Maggior Consiglio, reg. 4, c. 64; reg. 6, c. 63v; oppure, per delle fabbriche della seta a S. Giovanni Grisostomo, ivi, Giudici del Proprio, Divisioni, filza 1, 1462, fraterna Perducco. Si può ricordare, per i SS. Apostoli, il processo sottoposto alla corte del proprio nel 1473 a proposito della "corte del mulino da seta" di proprietà dei due fratelli Contarini; ibid., Vadimoni, filza 6, cc. 51-53.
491. Ivi, Maggior Consiglio, Spiritus, cc. 66v-67.
492. Ibid., c. 150v.
493. Una divisione immobiliare descrive molti di questi stabilimenti, ivi, Giudici del Proprio, Divisioni, filza 1, cc. 49v-54 (l'estimo del 1514 sottolinea qui una continuità: ivi, Dieci Savi, condizioni, 1514, b. 68, nr. 80, nr. 53).
494. I Gonella sono proprietari di chiovere già nella prima metà del XV secolo. In un atto redatto dal notaio Odorico Tabarino (A.S.V., Cancelleria Inferiore, Notai, b. 213, c. 57v), ho ritrovato infatti la seguente menzione riguardante una "societas ad artem cloderarium" (datata 28 gennaio 1434 [1435>): "cloderias Gonele de confinio S. Geremia et cloderias magistri Gratia Dei". Si tratta senza dubbio dello stesso mastro Gratia Dei (certamente un chirurgo), noto anche nel primo terzo del XV secolo attraverso una grazia del maggior consiglio che gli concedeva un permesso di prosciugamento su questo stesso confine, v. anche infra. Gli investimenti di questa famiglia dimostrano una grande stabilità su questa frontiera; v. Ennio Concina, Structure urbaine et fonctions des bâtiments du XVIème siècle au XIXème siècle. Une recherche à Venise, Venise 1982, pp. 49-52.
495. A.S.V., Cassiere della bolla ducale: Grazie del Maggior Consiglio, reg. 18, c. 9; reg. 21, cc. 28v, 37; reg. 23, c. 158.
496. Ivi, Savi ed Esecutori alle Acque, b. 222. Per altri esempi di tintorie a Cannaregio, ivi, Dieci Savi, condizioni, 1514, b. 35, nr. 13; b. 77, nr. 10.
497. Ivi, Corporazioni religiose soppresse, S. Girolamo, b. 1, cc. 29v-30.
498. Il senato acconsente a questa transazione nel 1480, ivi, Senato Terra, reg. 8, c. 91v. L'affare viene concluso nel 1481, ivi, Corporazioni religiose soppresse, S. Girolamo, b. 1, c. 26.
499. In ciò il testimone segue le regole, assai frequentemente osservate, di una progressiva integrazione secondo la quale un'installazione più o meno centrale segue a una prima residenza in una contrada della periferia.
500. A.S.V., Esaminador, Testificazioni, filza 4, c. 53.
501. Ivi, Corporazioni religiose soppresse, S. Alvise, b. 1, cc. 117, 119.
502. Ibid., c. 118.
503. Ibid., c. 119.
504. Ibid., c. 117.
505. Per un'altra menzione di diverse chiovere di S. Marcuola nel XV secolo, ivi, Cancelleria Inferiore, Notai (Odorico Tabarino), cc. 10v-11, 1434 (1435): Gratia Dei, chirurgo di S. Paterniano, affitta a Valentino di Pietro di S. Geremia, per un anno, le chiovere a S. Marcuola (il mastro Gratia Dei è stato già citato nel contratto che riguardava le chiovere dei Gonella).
506. Ivi, Senato Misti, reg. 54, c. 140v (28 agosto 1423); per i costi di costruzione il senato stanzia "usque duo milia de denarys officy nostri salis littoris".
507. L'area interessata è quella di Venezia, Murano, Mazzorbo, Torcello e Malamocco.
508. Ivi, Senato Terra, reg. 6, cc. 27, 29. Dopo alcune esitazioni la scelta cade infine sulla Vigna Murata, proprietà dei benedettini di S. Giorgio Maggiore; Giovanni Caniato, Il Lazzaretto Nuovo, in AA.VV., Venezia e la peste 1348-1797, Venezia 1979, pp. 343-346. V. anche Jean-Noël Biraben, Les hommes et la peste en France et dans les pays méditerranéens, II, Paris-La Haye 1976, p. 174.
509. G. Pavanello, La riva degli Schiavoni, pp. 2-11.
510. Jules Sottas, Les messageries maritimes de Venise aux XIVème et XVème siècles, Paris 1938; Ugo Tucci, Mercanti, viaggiatori e pellegrini nel Quattrocento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/II, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 317-335.
511. La mappa di Jacopo de' Barbari mostra un gran numero di navi ormeggiate, in costruzione o per le operazioni di carenamento, vicino a S. Antonio allo sbocco dei rii di S. Domenego e dell'Arsenale.
512. Sulle forme di organizzazione del lavoro nelle costruzioni private e i problemi di fornitura del legno, cf. F.C. Lane, Navires et constructeurs, p. 116.
513. Ibid., pp. 166-167; Gino Luzzatto, Per la storia delle costruzioni navali a Venezia nei secoli XV-XVI in Id., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, pp. 37-52 (pp. 37-57). Maurice Aymard, L'Arsenale e le conoscenze tecnico-marinaresche. Le arti, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/II, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 289-315.
514. L'episodio riportato da M. Sanudo nei suoi Diari, citato da Alberto Tenenti, Naufrages, corsaires et assurances maritimes à Venise, 1592-1609, Paris 1959, p. 65, illustra mirabilmente il posto speciale occupato nell'immaginario mentale del tempo dal quartiere dell'Arsenale e la vera e propria coscienza di sé che hanno i suoi abitanti. Sul gruppo dei marinai: Frederic C. Lane, Venetian Seamen in the Nautical Revolution of the Middle Ages, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1975, pp. 403-430.
515. Lo studio di Robert C. Davis, Shipbuilders of the Venetian Arsenal: Workers and Workplace in the Pre-Industrial City, Baltimore 1990, contribuisce a precisare questa definizione del quartiere di Castello.
516. La grande opera della bonifica di S. Antonio contribuisce a questo mutamento topografico delle costruzioni navali private. Nella prima metà del XVI secolo il cantiere più grande, capace di costruire simultaneamente molte navi, si trova a S. Antonio (J.-C. Hocquet, Voiliers et commerce, p. 576). Grazie alla lottizzazione dei terreni ricavati su questa punta, viene attuata una nuova concentrazione operaia.
517. F.C. Lane, Navires et constructeurs, pp. 116-117.
518. Si può aggiungere che la parte del cantiere di S. Nicolò del Lido aumenta di molto nei primi decenni del XVI secolo. Il carenamento delle navi viene effettuato piuttosto a Malamocco e a Pellestrina.
519. A.S.V., Cassiere della bolla ducale: Grazie del Maggior Consiglio, reg. 22, cc. 131, 102, 145v. Per una testimonianza contemporanea in questi anni di sistemazione in prossimità del Canale della Giudecca; ivi, Esaminador, Testificazioni, filza 4, c. 53.
520. J.-C. Hocquet, Voiliers et commerce, p. 557; F.C. Lane, Navires et constructeurs, pp. 116-117.
521. A.S.V., Dieci Savi, condizioni 1514, b. 54, "condizione" di Lorenzo Giustinian che dichiara che una fornace sulla riva del Canale della Giudecca è in cattivo stato per colpa dei problemi posti da una riva invasa dalle acque e dunque instabile.
522. F. Corner, Ecclesiae venetae, settima decade, pp. 4-5.
523. A.S.V., Provveditori al Sal, b. 1, c. 42; b. 6, cc. 136v-137, 139v.
524. F. Corner, Ecclesiae venetae, settima decade, p. 28.
525. Silvio Tramontin, L'isola della Salute, Venezia 1958, pp. 4-6.
526. A.S.V., Corporazioni religiose soppresse, S. Maria del Rosario (Gesuati), b. 65, c. 40r-v.
527. Ibid., cc. 41-42v.
528. Ibid., cc. 42v-43v.
529. Ibid., cc. 43v-53.
530. Ivi, Corporazioni religiose soppresse, Spirito Santo, b. 7, filza 5, cc. 7, 9v-10.