La meccanica
Alessandro Piccolomini (1508-1579), letterato, filosofo naturale e grande divulgatore scientifico, alla metà del Cinquecento determinava l’oggetto e lo statuto epistemologico della meccanica con queste parole:
Chiamo scienza meccanica quella disciplina da cui si possono ricavare le cause e i principi di molte arti manuali. Queste arti sono comunemente, in modo improprio, denominate anch’esse ‘meccaniche’, mentre dovrebbero piuttosto dirsi arti basse, sellularie o banausiche. […] E invero, pur trattando di cose attinenti alla materia e al movimento – come i corpi pesanti e leggeri in relazione alla velocità e alla tardità – la scienza meccanica deve essere inclusa nel novero delle discipline matematiche, poiché considera quegli oggetti secondo modalità matematiche. Per quanto, infatti, gli strumenti meccanici e le stesse macchine vengano concepiti in funzione di una qualche operazione pratica, tuttavia lo studioso di meccanica, esaminandone esclusivamente le cause e i principi, si sofferma e si concentra sulla sola contemplazione (In mechanicas quaestiones Aristotelis paraphrasis, 1547, f. 3r-v).
Ben lungi dall’identificarsi con il patrimonio di cognizioni pratico-operative degli artigiani e dei costruttori, la meccanica ha, per Piccolomini, una dimensione genuinamente speculativa che la colloca a buon diritto nell’ambito delle vere e proprie scientiae. In particolare, la natura ‘scientifica’ (dimostrativa) è garantita dall’approccio matematico. Al pari dell’ottica, dell’astronomia, della musica, la meccanica rientra, infatti, nel genere delle scientiae mediae, ovvero di quelle branche dottrinali che applicano dimostrazioni matematiche a soggetti di carattere naturale. Come spiega Piccolomini,
seppure tali discipline, concernendo la materia, non possano essere qualificate come puramente matematiche, tuttavia si debbono definire più convenientemente matematiche che naturali (f. 2v).
Già Aristotele aveva collocato la meccanica tra i saperi che utilizzano procedure matematiche e geometriche e che, per questa ragione, si trovano rispetto alla scienza dei numeri «in un rapporto di subordinazione» (Analitici posteriori, 76a 23, 78b 37; cfr. anche Metafisica, 1087a 16). Nonostante ciò, nel corso del Medioevo la meccanica era comunemente ritenuta una ars, anzi un insieme di artes, cioè di competenze pratiche volte al soddisfacimento di bisogni umani, ma prive di reale rilievo teoretico. Anche a motivo del connesso dispendio di fatica fisica, le arti meccaniche erano, pertanto, non di rado definite come attività «ignobili» e «plebee», e dunque non degne di essere coltivate da persone di elevato lignaggio (cfr. Ovitt 1983).
La prospettiva incarnata da Piccolomini, largamente diffusa fin dai primi decenni del Cinquecento, ‘nobilitava’ invece la disciplina, conferendole lo status di scienza. L’individuazione delle leggi che presiedono al funzionamento delle macchine rappresentava, in tal senso, il fine precipuo degli studi di meccanica, e concorreva a giustificarne il valore e l’affidabilità epistemica.
Così, il marchese Guidobaldo Dal Monte (1545-1607), uno dei protagonisti del dibattito scientifico della seconda metà del 16° sec., poteva aprire il suo Mechanicorum liber (1577) esaltando nella Praefatio la mechanica facultas come la «più nobile delle arti»:
Se (come fa la maggior parte della gente) valutiamo la nobiltà dalla nascita, l’origine della meccanica risiede da una parte nella geometria, dall’altra nella fisica. Dal connettersi di entrambe scaturisce dunque la più nobile delle arti: la meccanica.
Se poi riteniamo che la nobiltà sia legata tanto alla materia trattata, quanto alla necessità logica degli argomenti (come sostiene talvolta Aristotele), senza dubbio dovremo egualmente considerare la meccanica come la più nobile di tutte. E invero, essa non solo completa e perfeziona la geometria (come attestato da Pappo), ma ha anche il dominio della realtà fisica. […] E in quanto opera contro la natura, o, piuttosto, in competizione con le leggi naturali, la meccanica è certamente degna della massima ammirazione (pp. [1]-[2]).
Scrivendo qualche anno più tardi, l’urbinate Bernardino Baldi (1553-1617) poteva rimarcare in modo ancora più netto il carattere scientifico della meccanica, offrendone la seguente definizione:
La Meccanica è una disciplina che, servendosi della materia naturale e di dimostrazioni geometriche tratte dallo studio dei centri di gravità e delle speculazioni relative alla leva e alla bilancia, si prende cura di ciò che è necessario e utile all’uomo, e riesce, assecondando o superando con la propria forza la natura stessa, ad ottenere risultati diversi e addirittura meravigliosi (In mechanica Aristotelis problemata exercitationes […], 1621, p. 1).
I «risultati meravigliosi» richiamati da Baldi devono essere intesi in diretto riferimento a un testo cruciale per lo sviluppo della disciplina nella prima età moderna: le Quaestiones mechanicae (o Mechanica problemata, o semplicemente Mechanica). Proprio al miraculum, alla meraviglia, fa infatti appello l’esordio dell’opera, volto a sottolineare lo stupore indotto in noi sia dagli eventi dei quali ignoriamo le cause, sia dalle intraprese tecniche attraverso cui l’uomo riesce (superando gli ostacoli naturali) a conseguire una specifica utilità.
Attribuite ad Aristotele (ma più verosimilmente ascrivibili alla sua scuola), le Quaestiones mechanicae vennero incluse nel secondo dei cinque volumi del corpus aristotelico greco stampato da Aldo Manuzio tra il 1495 e il 1498. Furono presto tradotte in latino, e il loro esame si caratterizzò come un momento centrale della riflessione scientifica del Cinquecento e del primo Seicento. Non a caso, allo scritto veniva riconosciuto da Piccolomini il merito di aver ricercato «in modo acuto e sintetico, le vere cause non solo di quasi tutte le meravigliose macchine inventate finora, ma anche di quelle che lo saranno in futuro» (In mechanicas quaestiones Aristotelis paraphrasis, cit., f. 4r; cfr. anche A. Ramelli, Le diverse et artificiose machine […] nelle quali si contengono varii et industriosi movimenti, 1588, p. [1], e G. Branca, Le machine […], 1629, p. [1]).
Le Quaestiones mechanicae sostengono con forza il carattere di scientia media della meccanica. Secondo il trattato, i casi in cui – per citare la traduzione italiana di Antonio Guarino – «le cose minori vincono le maggiori, et quelle che havendo poco et moto et tempo muovono pesi grandi», presentano aspetti «communi alle speculationi mathematiche et alle naturali»: l’occorrenza più emblematica in tal senso è quella della leva, che con una «picciola forza» solleva «uno gran peso» (Le mechanice d’Aristotile trasportate di greco in volgare idioma, 1573, p. [3]; cfr. Quaestiones mechanicae, 847a 20-847b 15).
Il principio esplicativo di tale miraculum (come pure di quelli consimili) è geometrico, e viene individuato nel cerchio e nelle sue proprietà. Come nota ancora la traduzione di Guarino:
Di tutte le cose di questa sorte [cioè che destano meraviglia], il principio della causa è nel circolo, et questo ragionevolmente gli conviene. Per ciò che non è cosa strana che da una cosa mirabilissima ne proceda una mirabile. Mirabilissima cosa è il farsi insieme fra le cose contrarie, et di queste tali consiste il circolo. Per ciò che egli in un subito è formato dalla cosa mossa e dalla cosa ferma, de’ quali la natura tra loro è contraria. Onde quelli che a ciò mirano, meno s’hanno da maravigliare delle diverse cose che da lui procedono (Le mechanice d’Aristotile…, cit., p. [1]; cfr. Quaestiones mechanicae, cit., 847b 15-23).
Il cerchio – costruito a partire da due determinazioni contrarie, una in moto e una in quiete (si pensi, per es., alle due punte di un compasso) – sembra dunque la figura più idonea a dare conto dei movimenti meccanici, i quali suscitano meraviglia proprio perché in essi si combinano elementi contrari (naturali e contro natura).
Ora, secondo l’autore delle Quaestiones mechanicae, tutti i fenomeni meccanici vanno riportati alla leva. Questa, a sua volta, è assimilata a una bilancia, i cui bracci, vincolati nel fulcro, si muovono descrivendo archi di cerchio in direzioni contrarie. Assumendo che in tale bilancia i bracci siano diseguali, avremo che l’estremità del segmento (braccio) più corto, in quanto più vicino al centro, risulta più fortemente attratto da esso, e, a causa di quel freno, si muove meno speditamente (cfr. Quaestiones mechanicae, cit., 849a 6-19). All’opposto, l’estremità del segmento più lungo si muoverà più velocemente (sarà cioè in grado di tracciare un arco di cerchio più ampio in un tempo dato). Ne consegue che «il punto più distante dal centro si muove più velocemente, pur messo in movimento dalla stessa forza» (849b 21-22). L’efficacia di un peso sulla bilancia (o il rendimento di una leva) è allora tanto maggiore quanto più il punto di applicazione si allontana dal fulcro.
L’esposizione delle ragioni che stanno a fondamento di tale soluzione è tutt’altro che chiara, sia nell’originale greco sia nelle traduzioni rinascimentali. La relativa interpretazione è stata oggetto di un ampio dibattito tra gli storici, alcuni dei quali hanno individuato in questa spiegazione del funzionamento delle macchine semplici una prima formulazione del moderno concetto di ‘velocità virtuali’ (cfr. Vailati 1897; Duhem 1905-1906, 1° vol., 1905, pp. 5-9; ma cfr. anche Micheli 1995, pp. 75-86, 137-38). In tale prospettiva, lo ripetiamo, la maggiore efficacia di un peso posto sul braccio lungo della bilancia, rispetto a uno eguale sospeso sul braccio più corto, risiederebbe nella maggior velocità del primo, cioè nella capacità di descrivere un arco più ampio nel medesimo tempo.
Ecco come il principio fondamentale della meccanica aristotelica viene illustrato da Piccolomini in relazione al caso della leva:
Poiché […] quanto più una linea dista dal centro, tanto più velocemente e facilmente si muove (descrivendo un cerchio più grande), risulta allora necessario che, comunque esigua sia la forza (o il peso) applicata, nondimeno, in virtù dell’aiuto della distanza, tale forza riesca a muovere un peso più grande di lei.
Il peso mosso si relaziona, infatti, a ciò che lo muove nella misura inversa al rapporto tra le distanze; nella stessa misura, cioè, con cui il movente supera il mosso, così la distanza dal centro di quest’ultimo viene superata da quella del primo. In effetti, il peso mosso, assunto come maggiore, per sua natura dovrebbe muovere di più che non la piccola forza movente. Ma poiché questa forza si esercita lungo una linea che dista maggiormente dal centro – e tale distanza non solo compensa la sua debolezza, ma la aiuta a prevalere – non ci si deve meravigliare se il peso maggiore mostrerà una minor efficacia.
Pertanto, tra due forze eguali, tanto più sarà efficace quella che si troverà ad essere applicata ad una maggiore distanza dal fulcro, cioè dal centro (In mechanicas quaestiones Aristotelis paraphrasis, cit., ff. 23v-24r).
L’approccio proprio della trattazione sviluppata nelle Quaestiones mechanicae ha una decisa valenza dinamica. L’equilibrio statico è, infatti, il risultato di una condizione in cui i pesi liberi sono inversamente proporzionali alle «velocità» (ossia agli archi di cerchio descritti dagli estremi dei bracci cui sono fissati detti pesi).
L’analogia con il cerchio e la tesi della diversa velocità caratteristica dei vari punti dei suoi raggi (bracci di un’ideale bilancia) serve, insieme ad altre considerazioni anch’esse attinenti alle proprietà della figura circolare, all’esame di 35 diverse questioni. Si va dall’analisi di alcune macchine semplici (leva, bilancia, argano, puleggia, cuneo), a problemi legati alla marineria (remo, timone, navigazione con venti non favorevoli), fino alla resistenza dei materiali, al lancio con la fionda, e alla durata e cessazione del moto. A queste si aggiungono quaestiones dedicate a temi più teorici, di tipo geometrico, come il moto di cerchi concentrici e il rombo.
Insomma, l’opera affrontava un ampio spettro di fattispecie meccaniche, riconducendole a un impianto teorico unitario (ancorché non sempre chiaro in tutti i suoi snodi). Così, per gli studiosi della prima età moderna, le «mechanice d’Aristotile» servivano a rendere «manifeste le cause degli effetti dei moti, et insieme di tutte quelle operationi che per inventioni d’ingegnosi artefici portano agli huomini gran maraviglie» (Le mechanice d’Aristotile, cit., p. [1]).
Sostanzialmente ignorate dalla cultura medievale, le Quaestiones mechanicae suscitarono un intenso dibattito nel 16° secolo. In un periodo di decisa egemonia della filosofia peripatetica, l’attribuzione dell’opera allo stesso Aristotele contribuì a rafforzarne il prestigio e a promuoverne la diffusione.
Nel 1517 usciva a Parigi, per le cure del veneziano Vittore Fausto (1480 ca.-1547 ca.), la prima traduzione latina (Aristotelis mechanica Victoris Fausti industria in pristinum habitum restituta ac latinitate donata). Qualche anno dopo, Niccolò Leonico Tomeo (1456-1531) ne pubblicò una nuova e assai migliore (quella di Fausto era troppo letterale e inadeguata a rendere il senso effettivo dei problemi), corredandola di diagrammi e di commenti (Conversio mechanicarum quaestionum Aristotelis, in Opuscula nuper in lucem edita, 1525, ff. 23r-54v).
La versione di Tomeo costituì il testo di riferimento per tutto il Cinquecento, e venne inclusa in molte edizioni di scritti aristotelici. Nel 1547, Piccolomini fece stampare a Roma la sua parafrasi, che sarà in seguito, nel 1582, tradotta in italiano (Parafrasi […] sopra le mecaniche d’Aristotile […]). Il traduttore, Oreste Biringucci detto Vannocci (1558-1585), vi introdusse anche proprie aggiunte, la più importante delle quali è la trattazione della vite (omessa dall’autore delle Quaestiones mechanicae). Intanto, nel 1573, Guarino aveva curato la prima traduzione italiana direttamente dal greco. Mentre, nel 1599, Henri de Monantheuil (1536-1606) fece uscire a Parigi una nuova versione latina degli Aristotelis mechanica (con testo greco a fronte) e ne illustrò i contenuti con eruditissime note esplicative.
Di notevole rilievo teorico è l’attività di commento che si sviluppò a partire dal testo. Pressoché tutti gli scrittori di meccanica del Cinquecento e dei primi decenni del Seicento si impegnarono in un attento esame dell’opera, arricchendone o emendandone le tesi con idee mutuate da altre tradizioni o con proprie elaborazioni.
Alla metà del Cinquecento, il messinese Francesco Maurolico stilò una serie di Problemata mechanica (usciti a stampa solo molti anni dopo la sua morte, nel 1613), in cui sosteneva (pp. 8-9) la necessità di riportare la soluzione delle Quaestiones mechanicae a quanto stabilito da Archimede a proposito dei centri di gravità:
Poiché, infatti, queste questioni hanno in gran parte a che fare con la teoria della leva, della bilancia, del centro di gravità e di cose simili, tutte dipendenti dalla dottrina degli eguali ‘momenti’, si deve, in primo luogo, consultare Archimede, che ha esaminato in modo estremamente acuto il problema. Né, nell’ambito di tale materia, bisogna tanto studiare le proprietà del cerchio, quanto piuttosto la teoria del ‘momento’. […] Sbagliano, dunque, gli espositori delle Quaestione mechanicae, poiché non solo non fanno ciò, ma non menzionano minimamente Archimede. […] E, di fatto, coloro che ignorano i principi posti da Archimede, trovano del tutto oscuro il discorso svolto da Aristotele in questo libello.
Oltre che sul concetto (archimedeo) di ‘centro di gravità’, Maurolico insisteva, dunque, sulla nozione di ‘momento’ statico, con cui designava il variare dell’effetto di uno stesso peso in relazione al punto di applicazione.
Un allievo di Maurolico, Giuseppe Moletti (1531-1588), professore a Padova, tenne a più riprese corsi sulle Quaestiones mechanicae, e nel 1576 scrisse anche, in italiano, un Dialogo intorno alla meccanica (rimasto inedito) in cui ne discuteva i principali argomenti. Il testo affermava con forza il carattere speculativo della disciplina:
La mecanica a tutte l’altre arti presta grandissimo giovamento, poiché a lei sola s’appartiene rendere la ragione di tutte quelle cose che con picciola forza fanno con l’aiuto suo che non potrebbe farsi senza lei con molta. Et quantunque il mecanico dia aiuto a tutte le arti, nondimeno egli non opera col corpo cosa alcuna, ma tutto machina con la mente et usa gli artefici come suoi strumenti (cit. in The unfinished “Mechanics” of Giuseppe Moletti, 2000, p. 78).
Nel prosieguo si ribadiva la natura di «scienza media» della meccanica («quanto alle dimostrationi sono matematiche, quanto al soggetto intorno a che versano sono naturali»; p. 80). E dopo una vivace discussione dei principali temi meccanici, nelle pagine finali il discorso passava a indagare il problema di corpi in caduta libera. In contrasto con le tesi di Aristotele, Moletti sosteneva che gravi di diverso peso discendono dalla medesima altezza con identica velocità. Così, lasciando cadere da una torre due palle di piombo, una di una libra e l’altra di venti libre,
vengono tutte in uno stesso tempo, et di ciò se n’è fatta la pruova non una volta ma molte. Ma che è di più, che una balla di legno, o più o men grande d’una di piombo, lasciata venir giù d’una stessa altezza nello stesso tempo con quella di piombo, descendono o toccano la terra nello stesso momento di tempo (pp. 146-48).
Le Quaestiones mechanicae sono anche l’argomento specifico di una sezione (pp. 141-67) del Diversarum speculationum mathematicarum et physicarum liber (1585) di Giambattista (o Giovanni Battista) Benedetti (1530-1590). Egli vi correggeva la trattazione aristotelica della bilancia, della leva, dei moti dei cerchi, del lancio con la fionda, della rottura delle assi di legno, del cuneo, della carrucola, dei vortici, e trovava inoltre modo di emendare (pp. 148-51) gli errori compiuti dal suo ex maestro Niccolò Tartaglia in merito ai problemi «de ponderibus corporum et velocitatibus motuum localium» (p. 148).
Tartaglia, dal canto suo, aveva dedicato il libro settimo (ff. 76r-80v) dei Quesiti et inventioni diverse (1546) all’analisi delle «Questioni mechanice de Aristotele», rilevando criticamente che
alcuni di quelli suoi argomenti naturali con altri naturali vi si puol opponere, et alcuni altri con argomenti mathematici […] se possono reprobar per falsi (f. 78).
Nel primo Seicento, si registra l’uscita di alcune notevoli esposizioni e commenti delle Quaestiones mechanicae, che ne discutono articolatamente e in profondità le tesi, anche alla luce delle soluzioni avanzate da altri scrittori (sia antichi sia moderni). Ricordiamo, in particolare, le citate exercitationes di Baldi, che contengono diversi spunti originali e si segnalano soprattutto per un’acuta disamina del problema della resistenza dei materiali e delle relative implicazioni in ambito costruttivo (in proposito cfr. Becchi 2004). E, ancora, la parafrasi inserita dal gesuita Giuseppe Biancani (1566-1642) all’interno dei suoi Aristotelis loca mathematica ex eius operibus collecta et explicata (1615, pp. 148-95). Pur lamentando che «in alcuni luoghi il testo, sia greco che latino, è così corrotto e alterato da non potersi affatto correggere» (p. 148). Biancani discuteva lucidamente ben 30 delle 35 questioni, fornendo un utile apporto alla loro comprensione.
Il lavoro più analitico era però il tomo edito nel 1627 dal vescovo di Teano, Giovanni de Guevara (1581-1641), attivo interlocutore scientifico di Galileo Galilei, che lo elogerà nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze […] (1638).
Nel suo In Aristotelis mechanicas commentarij (1627), Guevara sviluppava una minuziosissima disamina delle Quaestiones mechanicae, prendendo in considerazione anche il contributo di altri autori dell’antichità, come, per es., Erone, Pappo e soprattutto Archimede, la cui spiegazione della bilancia riposava, a suo giudizio, interamente sulla concezione aristotelica del moto circolare:
Nel parlare del moto circolare a cui si riconducono quasi tutti i movimenti propri degli strumenti e delle arti meccaniche, Aristotele […] stabilì quel potentissimo principio secondo cui ciò che si trova ad una maggiore distanza dal centro [cioè dal fulcro di una leva o dal sostegno di una bilancia] ha anche una maggiore capacità di moto e, dunque, si muove più velocemente […]. Archimede non solo ammette e presuppone il medesimo principio, ma in modo conseguente ha ricercato quanto più grande sia la forza che si esercita in quella maggiore distanza. E investigandone la proporzione con la distanza stessa, ha determinato un altro seguitissimo fondamento meccanico, vale a dire che due pesi stanno tra di loro in proporzione inversa alla distanza che separa il punto a cui sono sospesi dal centro […]. Su tale assunto si basa tutta la dottrina di Archimede e tutta la vera riflessione meccanica. Ma già Aristotele, nei suoi scritti meccanici, […] aveva messo in luce lo stesso concetto, scrivendo che il peso mosso si trova rispetto a ciò che lo muove in un rapporto inverso a quello delle rispettive distanze dal centro (pp. 71-72).
Rispetto alle prime esposizioni, lo sviluppo dei commenti alle Quaestiones mechanicae andò così nella direzione di un arricchimento dei riferimenti, utili ad approfondire il senso delle soluzioni o a rivederle alla luce di altre esperienze teoriche. In particolare, la figura che più di ogni altra assurse a modello di rigore scientifico e su cui si concentrarono le attenzioni dei più acuti studiosi di meccanica fu quella di Archimede.
La riscoperta e l’approfondito esame degli scritti di Archimede costituisce uno degli capitoli più rilevanti della ripresa della scienza antica nel corso del Rinascimento. Il rilievo storico della reviviscenza dei suoi lavori è talmente ragguardevole che, secondo il grande storico della scienza Alexandre Koyré (1939; trad. it. 1976, p. 10 nota 23), «si potrebbe riassumere […] l’opera scientifica del XVI secolo nella ricezione e nella comprensione graduali dell’opera di Archimede».
Benché alcuni testi archimedei fossero noti alla cultura medievale, la loro incidenza sul dibattito scientifico del tempo risultò assai scarsa. Fu, di fatto, solo a partire dal Cinquecento – in virtù soprattutto di una notevole serie di edizioni a stampa – che la circolazione delle opere di Archimede assunse proporzioni considerevoli. Il culmine di questa fortuna editoriale si registrò nel 1544, con la pubblicazione a Basilea della grande editio princeps che comprendeva tutti i testi (con l’eccezione dello scritto Sui galleggianti) nell’originale greco e in traduzione latina.
Dal punto di vista della meccanica, i lavori archimedei più significativi erano De planorum equilibrio (Sull’equilibrio dei piani ovvero sui centri di gravità dei piani) e, appunto, i due libri sulle «cose nell’acqua» (De insidentibus aquae, ovvero Sui galleggianti). Nel 1543, Tartaglia pubblicò a Venezia proprio il De planorum insieme al primo libro dei Galleggianti. Qualche anno dopo, egli diede anche alle stampe una traduzione italiana di questo primo libro, inserendola nella sua Regola generale da sulevare […] ogni affondata nave […] (1551). L’opera sull’idrostatica nella sua completezza vide la luce nel 1565, per i tipi di Curzio Troiano, che la stampò avvalendosi di un lascito testamentario dello stesso Tartaglia. Nel frattempo, nel 1558 era già apparsa un’importante edizione di scritti di Archimede, con un’accurata traduzione di Federico Commandino (1509-1575). Quest’ultimo, nel 1565, avrebbe pubblicato anche un’eccellente versione dei Galleggianti, che sopravanzava di gran lunga il lavoro di Tartaglia.
Proprio a Commandino si deve anche l’edizione di una fondamentale opera della matematica antica, le Collectiones mathematicae di Pappo di Alessandria (fine 3° sec.-metà del 4°), il cui ottavo libro è interamente dedicato alla meccanica. Nell’ambito della sua discussione, Pappo affrontava anche il problema di quale forza si debba applicare a un corpo per spostarlo lungo un piano inclinato. La risposta asseriva che per muovere un peso verso l’alto lungo l’inclinata serviva una forza eguale alla somma della forza necessaria a impedire al corpo di discendere e di quella in grado di spostarlo sul piano orizzontale (cfr. Mathematicae collectiones a Federico Commandino urbinate in latinum conversae et commentariis illustratae, 1588, ff. 313r-314v).
Quest’ultimo assunto (che per muovere un grave sul piano orizzontale sia necessaria una forza data) sarebbe stato oggetto di critiche e di dubbi negli anni successivi, fino alla netta, definitiva presa di posizione contraria assunta da Galilei, il quale concluse che
i corpi gravi, rimossi tutti l’impedimenti esterni ed adventizi, possono esser mossi nel piano dell’orizonte da qualunque minima forza (Le mecaniche, in Le opere, Ed. nazionale a cura di A. Favaro, 2° vol., 1891, p. 180).
La disamina di Pappo era strettamente modellata sull’analogia con le condizioni di equilibrio in una bilancia, e si avvaleva di un impianto teorico di ascendenza archimedea. Non a caso egli si soffermava a definire il concetto di ‘centro di gravità’, una nozione che Archimede aveva posto al cuore del suo trattato Sull’equilibrio, pur omettendone una specifica definizione. Lo stesso Commandino, ben prima dell’uscita della traduzione delle Collectiones mathematicae, nel suo Liber de centro gravitatis solidorum (1565) – estendendo l’analisi archimedea (limitata alle figure piane) al caso dei solidi – aveva riportato la definizione pappiana (qui indicata con [1]), aggiungendone però anche una propria ([2]):
[1] Diciamo che il centro di gravità di un qualsiasi corpo è un certo punto situato al suo interno, dal quale un grave, concepito come appeso ad esso, resta in quiete fintantoché vi è sostenuto, conservando la posizione che aveva in principio; né si rivolge attorno al suo sostegno.
Possiamo anche definire il concetto in questo modo.
[2] Centro di gravità di una qualsivoglia figura solida è quel punto, situato al suo interno, attorno a cui insistono parti di eguali momenti. Se, infatti, per tale centro viene portato un piano che taglia in un modo qualunque la figura, la dividerà sempre in parti del medesimo peso (pp. 1-2).
La definizione introdotta da Commandino in quest’opera si avvaleva del termine momentum (lo abbiamo visto utilizzato anche da Maurolico), che traduceva la voce greca ϱ῾ƒÍƒÎή, cui Archimede faceva riferimento già nel titolo della sua opera (ƒ£᾿ƒÎƒÇƒÎέƒÂƒÖƒË ἰƒÐƒÍϱϱƒÍƒÎƒÇώƒË, Sull’equilibrio dei piani). In tale prospettiva, il centro di gravità rappresentava «il fulcro dell’ideale bilancia costituita dal solido, il punto di equilibrio di tutte le sue ‘inclinazioni’ e momenti» (Galluzzi 1979, p. 60).
L’uso integrato delle nozioni di ‘centro di gravità’ e di ‘momento’ (in questa accezione statica) fu in genere caratteristico di quegli autori che aderivano a un’impostazione dei problemi meccanici di tipo, appunto, archimedeo. Si trattava di un approccio che – a differenza di quello ‘dinamico’, di stampo aristotelico – privilegiava l’analisi delle determinazioni statiche. Ciò vuol dire che, nella spiegazione del funzionamento della leva e della bilancia (cui si riducevano tutte le altre macchine semplici), le condizioni di equilibrio venivano sostanzialmente attribuite all’effetto combinato del peso e della distanza dal fulcro del sistema meccanico.
Era questo il criterio utilizzato dallo stesso Archimede per formulare il fondamentale teorema dell’equilibrio di una leva: «le grandezze commensurabili sono in equilibrio se sospese a distanze inversamente proporzionali ai loro pesi» (Sull’equilibrio…, cit., proposizione 6). Da tale inversa proporzionalità tra pesi e distanze si desume immediatamente l’eguaglianza dei prodotti dei pesi per le distanze, vale a dire l’eguaglianza dei momenti statici.
A coloro che si ponevano sulla scia di Archimede non sfuggiva il vantaggio di sostituire la disorganica esposizione fornita dalle Quaestiones mechanicae con il rigore proprio del modello archimedeo, basato su un esatto apparato di assiomi, postulati e dimostrazioni. Nondimeno, l’orientamento ‘dinamico’ (pseudo)aristotelico continuò a godere di ampio credito nella seconda metà del Cinquecento e nei primi decenni del Seicento.
Perfino un risoluto sostenitore del formalismo apodittico come Dal Monte non riuscì a prescinderne completamente e, pur nell’ambito di una trattazione largamente ispirata alla lezione di Archimede, fece riferimento a nozioni peripatetiche quali quelle di moto naturale e moto violento. Non a torto, nel caso di Dal Monte, si è parlato di un sistematico «processo di integrazione della meccanica pseudoaristotelica in quella archimedea» (Micheli 1995, p. 159).
Nella prefazione alla sua parafrasi di Sull’equilibrio, Dal Monte svolgeva un’interessante osservazione in merito al rapporto tra la concezione meccanica aristotelica e le acquisizioni di Archimede. Vale la pena riportare in extenso le sue parole:
Aristotele, all’inizio delle Quaestiones mechanicae, ha svelato molte nozioni importanti per discernere le cause dei fenomeni meccanici. Seguendolo, Archimede, nei suoi trattati, ha messo in luce in modo ancora più esplicito i principi meccanici e li ha resi più comprensibili. Ma non per questo Aristotele risulta sminuito; ha infatti egregiamente chiarito le cause dei problemi che erano stati da lui stesso proposti e illustrati. Tuttavia, poiché lo scopo di Archimede era quello di spiegare i primi principi della disciplina meccanica, volle inoltrarsi in una analisi più particolareggiata. Aristotele, infatti, nel domandarsi perché riusciamo a muovere grandi pesi con una leva, dice che la causa è la maggiore lunghezza della leva dalla parte della potenza. E certamente dice una cosa corretta, poiché, in forza di un principio da lui stesso formulato, risulta chiaro che ciò che si trova ad una maggiore distanza dal centro [dal fulcro] è dotato di una forza maggiore.
Ora, Archimede ammette questo (che, cioè, quanto posto ad una maggiore distanza esercita una forza più grande di quel che è situato ad una minore), ma, essendo intenzionato ad andare ancora oltre, volle ricercare quanto più grande sia la forza di ciò che si trova più distante rispetto a quella del più vicino, in modo da determinare la loro esatta proporzione. Così, egli stabilì il più ragguardevole fondamento meccanico, vale a dire che i pesi si relazionano tra di loro in misura inversa alle distanze a cui sono sospesi. Senza tale conoscenza non sembra che sia affatto possibile sviluppare una trattazione dei problemi meccanici, dal momento che tutta la disciplina meccanica dipende da questo unico, speciale fondamento.
Che Archimede sembri seguire Aristotele è manifesto non solo da quanto abbiamo detto, ma anche dal fatto che, se considerassimo i postulati archimedei, troveremmo che egli presuppone ciò che Aristotele ha scoperto in merito alle questioni meccaniche (In duos Archimedis aequiponderantium libros paraphrasis, 1588, p. 4).
Dal Monte sosteneva, dunque, l’idea che Archimede, pur superiore quanto a lucidità speculativa e capacità di conseguire determinazioni esatte, avesse, in un certo qual modo, ricalcato le orme di Aristotele.
Nonostante queste oscillanti affermazioni, Dal Monte fu uno dei protagonisti della rinascita dell’archimedeismo in Italia nel 16° secolo. Profondamente convinto del valore del rigore matematico, egli diede al suo Mechanicorum liber un’impostazione assiomatica, fondata su definitiones, communes notiones (assiomi) e suppositiones. In conformità con tale scelta, polemizzò aspramente contro le disordinate e rozze esposizioni meccaniche, fondate su principi vaghi e confusi. E anche il suo richiamo al moto nell’ambito della dimostrazione della legge della leva può essere interpretato come un segno di discriminazione tra discipline (statica e dinamica), piuttosto che come una inopportuna accettazione della imprecisa soluzione aristotelica. Ha rilevato Paul L. Rose:
Mentre è vero che Guidobaldo [Dal Monte] collega dei movimenti alla forza e al peso, va però notato che il rilievo non è avanzato nei termini di un principio generale della meccanica, ma piuttosto come parte di un argomento volto a mostrare che dinamica e statica sono scienze del tutto separate, senza principi comuni. Guidobaldo usava così la nozione aristotelica di spostamenti virtuali per sbarazzarsi della stessa concezione generale della meccanica che essa rappresentava. E ciò non perché credesse che la meccanica di Aristotele fosse sbagliata; bensì, perché la riteneva storicamente superata dall’approccio di Archimede, che aveva sostituito alla vaghezza la precisione (1975, p. 22).
Accanto a quella aristotelica (o pseudoaristotelica che dir si voglia) e a quella archimedea, anche un’altra corrente di pensiero giocò un ruolo notevole nel dibattito meccanico cinquecentesco. Alludiamo alla tradizione medievale cosiddetta de ponderibus, legata alla figura di Giordano Nemorario (Jordanus Nemorarius, o de Nemore), vissuto nel 13° sec. e di cui non si sa pressoché nulla.
A Nemorario sono attribuiti tre testi: gli Elementa super demonstrationem ponderum, il Liber de ponderibus, e il Liber de ratione ponderis. Si tratta di lavori caratterizzati da un solido impianto geometrico e che svolgono considerazioni statiche centrate sulla nozione di gravitas secundum situm.
Con questo concetto, Nemorario designava il variare dell’efficacia del peso relativamente alla posizione. Secondo la formulazione data negli Elementa:
Un peso è più grave per posizione (secundum situm) quando, in una data posizione, la sua discesa è meno obliqua.
Una discesa più obliqua è quella che, per una distanza data, comprende più verticale (cit. in Clagett 1959; trad. it. 1972, p. 94).
Ciò significa che l’efficacia del peso muta al variare dell’inclinazione: un peso è tanto più grave secundum situm quanto più la linea lungo cui discende si approssima alla verticale. Pertanto, un peso posto su un piano inclinato eserciterà una forza inversamente proporzionale all’obliquità del piano stesso.
In termini moderni, la gravitas secundum situm è definibile come il prodotto del peso libero del corpo per il seno dell’angolo di inclinazione del piano sull’orizzonte. Se ne ricava che: a) la gravitas secundum situm è massima lungo la verticale, quando il peso libero dispiega tutta la sua efficacia; b) è nulla su un piano orizzontale.
Utilizzando la nozione di gravitas secundum situm, Nemorario giungeva a delineare una propria formulazione dell’equilibrio della leva secondo un approccio dinamico. A differenza delle Quaestiones mechanicae, però, egli non considerava spostamenti lungo archi di cerchio, ma lungo tratti verticali rettilinei. Importante è poi il suo contributo all’analisi del moto su piani inclinati. Ne possiamo riassumere il senso dicendo che, dati due pesi posti su piani della medesima altezza ma di diversa lunghezza (e quindi di diversa inclinazione), essi saranno proporzionali alle lunghezze dei rispettivi piani.
Gli scritti di Nemorario si diffusero in Italia per merito di Tartaglia, che promosse la stampa (avvenuta dopo la sua morte, nel 1565) del Iordani opusculum de ponderositate Nicolai Tartaleae studio correctum. Lo stesso Tartaglia aveva in precedenza ripreso varie proposizioni del De ratione ponderis nei suoi citati Quesiti. L’ottavo libro di quest’opera, in particolare, è dedicato alla trattazione della «scientia dei pesi», e fa un uso esteso delle formulazioni di Nemorario, pur sviluppando dimostrazioni più complete e precise. Ecco l’esposizione della regola del piano inclinato data da Tartaglia:
Se dui corpi gravi descendano per vie de diverse obliquità, et che la proportione delle declinationi delle due vie et della gravità de’ detti corpi sia fatta una medesima, tolta [cioè assunta] per el medesimo ordine, anchora la virtù de l’uno e l’altro de’ detti dui corpi gravi in el descendere sarà una medesima (f. 97r).
La soluzione del problema del piano inclinato offerta da Nemorario (e riportata all’attenzione del dibattito scientifico cinquecentesco da Tartaglia) era senz’altro più corretta di quella (erronea) avanzata da Pappo. Nondimeno, quest’ultima continuò a trovare fautori anche tra ‘meccanici’ di spiccata competenza come Dal Monte, critico severo della tradizione de ponderibus come pure della prospettiva teorica elaborata da Tartaglia.
Qualche anno prima dell’uscita dei Quesiti, Tartaglia aveva pubblicato a Venezia la Nova scientia (1537), un’opera che, a quanto si dice nell’introduzione, era motivata dalla richiesta di un «intimo et cordial amico, peritissimo bombardiero», desideroso di apprendere il «modo de mettere a segno un pezzo de artigliaria al più che può tirar» (cioè l’alzo ideale di un obice per conseguire la massima gittata; p. [1]). L’opera risponde alla domanda stabilendo che l’inclinazione ottimale di un cannone è di 45°. L’importanza dello scritto non sta tuttavia tanto e solo in questa conclusione, quanto nell’originalità con cui approccia il tema del movimento. Come ha notato Koyré:
Tartaglia sembra voler evitare ogni discussione filosofica in merito ai concetti che impiega (moto naturale, violento, ecc.), come pure ogni disamina delle cause dei fenomeni indagati. Non si pone mai la questione: a quo moventur proiecta, e non menziona mai l’esistenza di teorie contrapposte – quella di Aristotele e quella dell’impetus – che spiegano in modo diverso l’azione del motore sul mobile nel caso del moto violento, o l’accelerazione spontanea dei corpi gravi nel caso del moto naturale. Egli procede modo geometrico, cominciando col fornire una serie di definizioni, cui fanno seguito delle supposizioni e delle sentenze comuni, da cui, alla fine, deduce le proposizioni della scienza nuova (1960, 1973, pp. 117-18).
Benché ispirata da problemi pratici, la Nova scientia mirava, dunque, al rigore matematico, sia nella veste espositiva sia negli esiti concettuali e teorici. In tal senso, essa segna un distacco dalla tradizionale considerazione ‘metafisica’ delle quaestiones de motu, e concentra invece l’attenzione sulle determinazioni geometriche dell’argomento. Così, in quest’opera Tartaglia affronta l’esame della traiettoria dei proiettili, sostenendo che essa risulta divisa in tre parti: una prima (ascensionale) rettilinea, una seconda (intermedia) curva e una (finale) di caduta verticale:
Ogni transito, over moto violente de’ corpi egualmente gravi, che sia fuora della perpendicolar de l’orizonte, sempre sarà in parte retto e in parte curvo, et la parte curva sarà parte d’una circonferentia di cerchio (ed. 1550, f. 10v).
L’assunto sarebbe pienamente valido in sede teorica, ma in pratica, come si avverte subito, nessun moto violento può incorporare tratti perfettamente rettilinei a causa della «gravità», che continuamente «va stimulando e tirando» il mobile verso il centro del mondo. La deviazione indotta dal peso risulta, tuttavia, a giudizio di Tartaglia, assolutamente trascurabile. Pertanto, egli propone di considerare la parte della traiettoria «insensibilmente curva» come retta e quella «evidentemente curva» come «parte d’una circonferentia di cerchio» (f. 11r).
A distanza di qualche anno, Tartaglia rivide le proprie convinzioni, e, forse, si convinse dell’errore fatto nella Nova scientia quando aveva stabilito che il moto naturale e quello violento non potevano in alcun modo comporsi («niun corpo egualmente grave può andare per alcun spacio di tempo, over di luoco, di moto naturale et violente insieme misto»; f. 7r). Nei Quesiti sostenne infatti l’idea di una traiettoria curva in tutti i punti. Richiamando quanto già affermato nella Nova scientia, nel dialogo tra lui stesso e Francesco Maria I Della Rovere, duca di Urbino (al quale l’opera è dedicata), specificava di aver fatto riferimento alla tesi del carattere rettilineo di una parte della traiettoria al solo scopo di «essere inteso dal volgo»:
Nicolò: […] in vero il transito, over moto violente d’un corpo egualmente grave che sia fora della perpendicolar del orizonte, mai pol havere alcuna parte che sia perfettamente retta, come fu detto sopra la seconda suppositione del secondo libro della nostra nova scientia.
Duca: Perché diceti adunque per linea retta non essendo perfettamente retta?
Nicolò: Per esser inteso dal volgo, perché quella parte che è quasi insensibilmente curva la chiamano retta, et quella che è evidentemente curva, li dicono curva (f. 10r).
Pur con qualche incoerenza negli esiti, Tartaglia sviluppava dunque una disamina geometrica del problema del moto dei proiettili. Il rigore matematico che aveva già trovato applicazione nell’ambito dell’esame delle questioni statiche (si pensi alla lezione archimedea) si affacciava ora anche in ambito dinamico.
A tal proposito, è opportuno ricordare che, al tempo, la disciplina denominata meccanica abbracciava quasi esclusivamente la trattazione dei problemi concernenti le macchine semplici, mentre gli aspetti che l’attuale meccanica affronta nei capitoli dedicati alla dinamica erano di stretta pertinenza dei filosofi. La loro discussione avveniva pertanto con uno scarso utilizzo di determinazioni quantitative e, soprattutto, in costante riferimento ai testi aristotelici.
«Contro Aristotele e i filosofi tutti» si proclamava Benedetti fin dal titolo di una sua opera (Demonstratio proportionum motuum localium contra Aristoteles et omnes philosophos, 1554). Così egli scriveva:
Aristotele fu certamente uno straordinario indagatore della natura. Tuttavia, non voglio asserire, come fanno alcuni (che non hanno letto le sue opere o, se le hanno lette, non le hanno comprese), che ogni parola di Aristotele ha il valore di una sentenza, e che egli fu un dio della filosofia e non ha mai sbagliato in nulla. Se i poveracci che lo hanno divinizzato conoscessero la differenza tra l’argomentazione dimostrativa e il discorso basato sull’esperienza sensibile, non avrebbero mai fatto quelle affermazioni (p. [20]).
La presa di distanza dalla fisica peripatetica è operata da Benedetti in forza di un’esigenza di rigore dimostrativo di stampo matematico, che si richiama direttamente all’esempio di Archimede. Così, tutta la sua dinamica è costruita a partire dal modello dell’idrostatica archimedea.
In contrasto con la teoria aristotelica che considerava la velocità dei moti naturali come proporzionale al peso assoluto dei corpi, Benedetti afferma che essa è invece determinata dalla sperequazione tra il peso specifico del mobile e quello del mezzo. Ciò implica che corpi della stessa materia, anche se di differenti dimensioni, si muovono nello stesso mezzo (o nel vuoto) con eguale velocità. Se, infatti, due corpi sono omogenei (della stessa materia), essi hanno un identico peso specifico; e poiché nella determinazione della velocità del moto ciò che conta è il confronto tra i pesi di eguali volumi del mobile e del mezzo (cioè la comparazione tra pesi specifici), ne consegue che mobili della stessa materia si muoveranno appunto con eguale velocità, perché identica sarà la differenza tra il loro peso specifico e quello del mezzo.
È opportuno precisare che, nella dinamica di Benedetti, la velocità del movimento è data dalle differenze tra i pesi specifici del mobile e del mezzo e non – come voleva Aristotele – dal rapporto tra il peso assoluto del corpo e la densità (resistenza) del mezzo. Nelle citate Diversarum speculationum egli infatti afferma:
Dato il peso [specifico] di un certo corpo grave […], se questo corpo si trova in un mezzo qualunque, meno denso del corpo stesso (perché, qualora si trovasse in un mezzo più denso, il corpo non sarebbe grave, ma leggero, come ha dimostrato Archimede), il mezzo sottrae una parte del peso [specifico] totale del corpo […], in modo che solo la parte restante […] si trova ad agire (p. 169).
Opponendosi poi alla spiegazione aristotelica del moto violento, Benedetti ricorre alla concezione (medievale) dell’impetus, che estende anche ai corpi in moto di moto naturale per giustificarne il carattere accelerato:
Ogni corpo grave, che si muova naturalmente o con violenza, riceve in sé un’impressione (impressio) e un impeto (impetus) di moto, così che, pur separato dalla forza motrice, continua a muoversi per un certo lasso di tempo. Pertanto, se un corpo si muove di moto naturale aumenterà sempre la sua velocità, poiché in esso l’impressio e l’impetus crescono di continuo, dal momento che il corpo risulta costantemente a contatto con la sua forza motrice [cioè con la gravità] (pp. 286-87).
La fisica di Benedetti, modellata sull’idrostatica di Archimede, rappresentava, dunque, un notevole tentativo di fuoriuscita dal paradigma aristotelico allora dominante. Di fatto, essa segnò la via su cui si sarebbe posto il più coerentemente innovativo tra i philosophi naturales dell’epoca: Galileo Galilei.
Una concezione assai simile a quella sostenuta da Benedetti si trova esposta in alcuni lavori giovanili di Galilei, di datazione incerta, noti nel loro insieme come De motu. Se e come egli venne a contatto con l’opera di Benedetti è ancora un problema aperto, per quanto, allo stato attuale, si tenda a escludere la possibilità di un’influenza diretta.
In ogni caso, le tesi del De motu prospettano anche una spiegazione del moto di stampo archimedeo, basata sul confronto tra il peso specifico del mobile e quello del mezzo. Ciò conduce Galilei – come già Benedetti – ad affermare che mobili della stessa materia, in un medesimo mezzo, si muovono con eguale velocità, qualunque sia la loro mole.
È probabile che proprio per provare tale conclusione Galilei abbia compiuto il semileggendario esperimento di lasciar cadere corpi dalla sommità della Torre di Pisa. Secondo Vincenzo Viviani (1622-1703), discepolo e primo biografo di Galilei, la prova mirava, infatti, ad accertare che
le velocità de’ mobili dell’istessa materia, disegualmente gravi [cioè di differente peso assoluto], movendosi per un istesso mezzo, non conservano altrimenti la proporzione delle gravità loro, assegnatagli da Aristotele, anzi che si muovon tutti con pari velocità (Racconto istorico della vita del Sig.r Galileo Galilei, in G. Galilei, Le opere, cit., 19° vol., 1907, p. 606).
I problemi veri per la concezione delineata nei De motu si presentano tuttavia con la spiegazione del carattere accelerato del moto di caduta. Poiché gli elementi determinanti (i pesi specifici del mobile e del mezzo) non subiscono alcun mutamento durante il moto, risulta infatti impossibile imputare loro la causa dell’accelerazione.
Allo scopo di risolvere tale difficoltà, Galilei postulò una causa estrinseca, rappresentata da una forza, la virtus impressa, «preternaturale» e «accidentale», che agisce sui mobili contribuendo ad aumentarne la velocità. La virtus impressa opera come un fattore perturbatore della naturale tendenza dinamica del corpo:
Diciamo che la forza impressa è un venir meno del peso (privationem gravitatis) quando il mobile si muove verso l’alto; mentre nel caso di un moto verso il basso è un venir meno della leggerezza (privationem levitatis) (De motu, in Le opere, cit., 1° vol., 1890, pp. 309-10).
Ora, nelle prime fasi della caduta, il corpo non viene mosso verso il basso dall’intero suo peso, ma solo dalla parte eccedente la leggerezza indotta (cioè la virtus impressa). E poiché tale eccedenza cresce in concomitanza con l’indebolirsi della residua forza impressa, il corpo cade sempre più veloce. Questa spiegazione non può certo dirsi soddisfacente e, di fatto, il problema dell’accelerazione di caduta continuerà a rappresentare una sfida per Galilei. Nel prosieguo delle ricerche, i suoi sforzi si indirizzeranno verso una disamina delle leggi matematiche che governano le determinazioni spazio-temporali del moto, prescindendo dai problemi attinenti alle forze che producono i movimenti. In sostanza, le sue acquisizioni si collocheranno piuttosto sul piano della costruzione cinematica che su quello della dottrina dinamica.
All’interno del De motu, Galilei trattò anche il moto su piani inclinati. La sua conclusione era che le velocità di discesa di uno stesso corpo lungo piani aventi la medesima elevazione sull’orizzontale, ma differenti lunghezze, sono in proporzione inversa delle lunghezze.
È importante rilevare come, nell’ambito della trattazione, venga chiaramente enunciata l’idea (inerziale o, quanto meno, ‘protoinerziale’) che un corpo insistente su un piano parallelo all’orizzonte possa esser mosso da una forza minima:
Qualunque mobile cui non si opponga una resistenza esterna può essere mosso su un piano orizzontale (quod nec sursum nec deorsum tendat) da una forza minore di qualunque forza data (De motu, in Le opere, cit., 1° vol., 1890, p. 299).
L’analisi del piano inclinato e il principio appena richiamato (che smentiva l’errato assunto di Pappo) ritorna in Le mecaniche, un lavoro steso durante il soggiorno padovano dello scienziato, tra il 1592 e il 1610.
L’opera presenta una elegante formulazione della legge della leva, basata sulla nozione di ‘momento’, e analizza acutamente il funzionamento di diversi congegni meccanici (stadera, puleggia, argano, vite). Il suo scopo principale è però quello di sconfiggere l’illusione «di potere con poca forza muovere ed alzare grandissimi pesi, ingannando, in un certo modo, con le […] machine la natura» (Le mecaniche, in Le opere, cit., 2° vol., 1891, p. 155). Vale a dire, di rimuovere il clamoroso errore dei «volgari mecanici», i quali appunto pensano che, con l’utilizzo delle macchine, si possa «superare, ed in un certo modo, ingannare la natura» (p. 166).
In realtà, secondo Galilei nessuna resistenza può essere superata da una forza inferiore. È invece possibile scomporre un grande peso in parti e agire su di esse con una forza più piccola dell’intera resistenza considerata, replicando l’operazione tante volte quanto necessario a spostare il peso in questione. Non esiste dunque alcun effettivo guadagno di forza negli strumenti meccanici, ma vale invece la regola secondo cui «quanto si guadagna in forza per mezzo loro, altrettanto si scapita nel tempo e nella velocità» (p. 185).
Lo scienziato pisano esprimeva così, con estrema chiarezza, un assunto già enunciato da Dal Monte nel Mechanicorum liber, ma in forma assai più involuta e nei termini di un corollario. A differenza di Dal Monte, però, Galilei faceva dell’idea della compensazione tra forza e velocità il caposaldo della scienza meccanica. E, di fatto, il principio, come ha notato acutamente Maurice Clavelin,
racchiudeva la possibilità di una esposizione nuova della statica; […] bastava assumerlo come assioma […] per ritrovare immediatamente, e nel modo più semplice, tutte le proposizione essenziali della scienza dell’equilibrio (1968, pp. 168-69).
Abbiamo visto che il grande problema irrisolto del De motu concerneva essenzialmente la spiegazione del carattere accelerato dei moti di caduta. Negli anni successivi al suo trasferimento a Padova (avvenuto nel 1592), Galilei continuò a lavorare sul tema, cambiando tuttavia prospettiva. A interessarlo non era più la giustificazione del fenomeno in termini causali, quanto la comprensione delle proprietà e dei «sintomi» (come egli li chiama) del moto accelerato, ossia la determinazione delle relazioni quantitative sussistenti tra gli spazi passati e i tempi necessari a percorrerli.
Una simile indagine otterrà un notevole risultato con la scoperta della legge di caduta dei gravi (il caso paradigmatico di moto naturalmente accelerato), esposta per la prima volta in una lettera a Paolo Sarpi del 16 ottobre 1604. Eccone lo stralcio più significativo:
Ripensando circa le cose del moto, nelle quali, per dimostrare li accidenti da me osservati, mi mancava principio totalmente indubitabile da poter porlo per assioma, mi son ridotto ad una proposizione la quale ha molto del naturale et dell’evidente; et questa supposta, dimostro poi il resto, cioè gli spazzii passati dal moto naturale esser in proporzione doppia dei tempi, et per conseguenza gli spazii passati in tempi eguali esser come i numeri impari ab unitate, et le altre cose. Et il principio è questo: che il mobile naturale vadia crescendo di velocità con quella proportione che si discosta dal principio del suo moto (in Le opere, cit., 10° vol., 1900, p. 115).
Il documento appena citato esprime due fondamentali acquisizioni: a) gli spazi percorsi nella caduta sono proporzionali ai quadrati dei tempi; b) di conseguenza, gli spazi passati in tempi eguali si succedono come i numeri dispari a partire dall’unità. Il fondamento di entrambi i risultati è identificato nel ‘principio’ per cui la velocità cresce al crescere della distanza dal punto di inizio del movimento.
L’assunto è tuttavia errato, poiché, come lo stesso Galileo scoprirà ben presto, la velocità non aumenta proporzionalmente allo spazio passato dalla quiete, bensì al tempo trascorso dall’inizio del movimento.
Già in uno stralcio manoscritto, De motu accelerato, risalente forse al 1609, troviamo una definizione del moto naturalmente accelerato basata sull’idea di un’accelerazione proporzionale al tempo:
Chiamo moto uniformemente o equabilmente accelerato, quel moto i cui momenti o gradi di velocità aumentano, dall’abbandono della quiete, secondo l’incremento del tempo a partire dal primo istante del movimento (in Le opere, cit., 2° vol., 1891, p. 266).
La definizione verrà riproposta nelle pagine dei citati Discorsi, l’ultima grande opera galileiana, dedicata alle ‘nuove’ scienze del moto e della resistenza dei materiali. Non possiamo qui soffermarci sul tormentato processo che portò a una teoria dell’accelerazione come funzione del tempo. È però opportuno notare che, nel corso di questo itinerario concettuale, Galilei riuscì a sciogliere il legame (quasi ovvio, in prima istanza) tra la crescita della velocità e quello che appariva come l’elemento più immediatamente geometrizzabile: lo spazio. Solo oltrepassando i limiti di una naturale tendenza alla ‘spazializzazione’, solo rinunciando a una ‘rappresentazione’ del moto, a favore di una compiuta ‘concettualizzazione’ in termini matematici, gli fu dunque possibile conseguire uno dei risultati più significativi della sua carriera scientifica.
Le acquisizioni concernenti il moto di caduta costituiscono una parte importante del grande lascito intellettuale di Galilei. Va tuttavia segnalato che la crucialità del contributo galileiano è soprattutto legata a un profondo ripensamento della stessa nozione di movimento e alla stretta connessione che egli seppe istituire tra la dinamica e la cosmologia copernicana. Già nel 1613, Galilei affermava:
Rimossi tutti gl’impedimenti esterni, un grave nella superficie sferica e concentrica alla Terra sarà indifferente alla quiete ed a i movimenti verso qualunque parte dell’orizonte, ed in quello stato si conserverà nel qual una volta sarà stato posto; cioè se sarà messo in stato di quiete, quello conserverà, e se sarà posto in movimento, verbigrazia verso occidente, nell’istesso si manterrà (Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari […], in Le opere, cit., 5° vol., 1895, p. 134).
Siamo qui di fronte a una più compiuta esposizione di quel connotato inerziale abbozzato (solo in termini cinematici) nel De motu e in Le mecaniche. Dietro questa formulazione si legge il decisivo abbandono dell’immagine del moto propria della tradizione aristotelica.
Per Aristotele il movimento (anche quello locale) si configura nei termini di un passaggio dall’essere in potenza all’essere in atto, cioè come un processo attraverso il quale gli enti si ‘attualizzano’, realizzano cioè una disposizione latente, in uno sviluppo che ha per fine il conseguimento di una compiuta attualità (ἐƒËƒÑƒÃƒÉέƒÔƒÃƒÇƒ¿). Nell’ambito della prospettiva galileiana, invece, il moto viene equiparato a uno stato, deprivato di qualunque determinazione di natura teleologica, e, di fatto, reso indistinguibile dalla quiete («se sarà messo in stato di quiete, quello conserverà, e se sarà posto in movimento, […] nell’istesso si manterrà», recita il passo poc’anzi citato).
Concepire il moto nei termini di uno stato è essenziale per poter affermare quella relatività che fonda la possibilità stessa di una fisica ‘copernicana’, ossia di una fisica della Terra in movimento. Nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), ribattendo all’argomento secondo cui, posto il moto terrestre, un sasso lasciato cadere da una torre non atterrerebbe al piede dell’edificio, Galilei argomenta:
Rispetto alla Terra, alla torre e a noi, che tutti di conserva ci moviamo, col moto diurno, insieme con la pietra, il moto diurno è come se non fusse, resta insensibile, resta impercettibile, è senza azione alcuna, e solo ci resta osservabile quel moto del quale noi manchiamo, che è il venire a basso lambendo la torre (in Le opere, cit., 7° vol., 1897, p. 197).
In sostanza, un moto uniforme non esercita alcuna influenza sul comportamento meccanico degli elementi che lo condividono. Il movimento viene riscontrato solo «nella relazione che hanno essi mobili con altri che manchino di quel moto» (p. 142), il che significa che è apprezzabile solo nel riferimento tra un mobile e un oggetto che non si muove.
Se Galilei abbracciò la teoria copernicana con tanto fervore e la difese con tanta energia – fino a subire una condanna inquisitoriale – fu anche perché poteva annoverare forti ragioni ‘fisiche’ (oltre che astronomiche) a sostegno della tesi geocinetica. La sua innovativa concezione del moto consentiva di sbarazzarsi delle argomentazioni degli oppositori e, allo stesso tempo, dava un saldo fondamento dinamico alla dottrina eliocentrica.
Di fatto, negli anni successivi alla pubblicazione delle sue ultime grandi opere (il Dialogo e i Discorsi), la meccanica galileiana, con le sue implicazioni cosmologiche, segnerà l’apertura di un capitolo interamente nuovo nel dibattito scientifico europeo.
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