Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nell’anno 1700, quasi a far da spartiacque tra il secolo della “rifeudalizzazione” seicentesca e il secolo della settecentesca “rivoluzione agricola” innescante l’avvio della prima industrializzazione, vede la luce a Modena l’opera De morbis artificum diatriba, del medico Bernardino Ramazzini. La “diatriba” affronta il problema della patogenesi delle malattie insorgenti in coloro che esercitano un’“arte” – un artigianato, un mestiere, un lavoro – e che, proprio a causa del lavoro esercitato, si ammalano.
La prevenzione e il lavoro
La vita degli uomini trascorre dall’adolescenza alla vecchiaia passando una metà del tempo attraverso il lavoro. Si lavora per vivere, ma lavorare può voler dire anche contrarre, o disporsi a contrarre, una malattia che riduce la quantità di vita o ne rende peggiore la qualità.
Alle domande che il medico settecentesco pone al proprio paziente – di che cosa soffri? per quale motivo? da quanto tempo? cosa mangi? come vai di corpo? – bisogna, secondo Ramazzini, aggiungere una domanda in più: che lavoro fai? Scrive nel suo libro: “Sebbene tale domanda possa venir riferita a cause occasionali, ritengo che sia assai opportuno, anzi necessario, ricordarsi di porla quando si ha in cura un uomo del popolo”.
Per acquisire una conoscenza approfondita delle cause morbose inerenti al lavoro – dovute a fatica, a usura, a logorio, a intossicazione o infezione – Ramazzini va nei luoghi di lavoro, visita i lavoratori, descrive i loro mali, prescrive o prospetta le cure necessarie. Tralascia le terapie dei singoli, che d’altra parte non possono permettersi la ridondante polifarmaceutica (peraltro inefficace) dei pazienti ricchi. È una farmaceutica arcaica ed eclettica che fa parte del bagaglio terapeutico di medici anche illustri e “novatori” come Antonio Vallisnieri, professore nella stessa università di Padova dove insegna Ramazzini. Un esempio: Vallisnieri cura il “male della pietra” (calcolosi urinaria) con “polvere di millepiedi, emulsione di semi di mellone, di viole rosse, di alchechengi” e con una dieta di “brodo di gamberi bolliti e spremuti in brodo di pollo, gelatina formata con raspatura di corno di cervo e infuso di vipera”.
La scienza medica, dopo la “rivoluzione iatromeccanica” dei seguaci di Galileo (sensate esperienze, certe dimostrazioni, lettura del libro della natura scritto da Dio in lingua matematica), ha scoperto che il corpo umano è una macchina, che il cuore è una pompa, che il sangue circola entro tubi e tubicini, che i polmoni sono due mantici, che i reni sono due filtri. Le micro macchine corporee sono state investigate nei minimi dettagli, una per una, in Italia specialmente da Marcello Malpighi, medico scienziato in cattedra a Bologna e in grand’auge a Roma. Proprio Malpighi, in un’accorata lettera al suo allievo Vallisnieri, era stato costretto ad ammettere il grande divario tra medicina scientifica e applicazione terapeutica, confidando rassegnato: “Non abbiamo rimedi”.
Se le terapie personali in uso o in voga sono precluse, per censo e comunque prive di efficacia per chi lavora, la prevenzione di tutti i lavoratori è invece una risorsa praticabile senza preclusioni e con vantaggio generale. Vesciche trasparenti poste davanti al viso proteggono dalle “oftalmie” (cherato-congiuntiviti e cecità) gli occhi di tutti i vuotacessi. Guanti, gambali e maschere proteggono le estremità e il volto di tutti i minatori. I ripetuti salassi e i purganti drastici devono essere evitati a tutti i contadini, malnutriti e spossati dalle fatiche dei campi. Questo passaggio dall’individuale al collettivo, compiuto da Ramazzini, è un passo decisivo verso quella che sarà la medicina sociale.
Ramazzini è incompreso o addirittura criticato da molti suoi colleghi. Le università italiane, dopo i fasti del Medioevo e del Rinascimento che facevano di esse le mete ambite degli studenti di tutta Europa, sono in declino. Anche le due più prestigiose istituzioni, l’Archiginnasio di Bologna e lo Studio di Padova, sono in crisi di identità. Gianbattista Morgagni, professore di medicina teorica nell’ateneo patavino dal 1715 al 1770 e magistrale autore dell’opera fondativa dell’anatomia patologica De sedibus et causis morbum, pubblicata a Venezia nel 1761, concorda con chi, come Vallisnieri, parla apertamente di accademico “rancidume”.
Atenei e Scuole di medicina
Nel Settecento il sapere medico ha la sua culla e il suo acme fuori d’Italia: nella prima metà del secolo a Leida, in seno alla grande “civiltà olandese” nata nel Seicento, e nella seconda metà a Vienna e a Parigi, le due capitali d’Europa.
Nell’università di Leida è policattedrattico e caposcuola, dal 1710, Hermann Boerhaave, salutato dai contemporanei totius Europae praeceptor. Dall’ampia casistica dei suoi malati egli estrae una tipologia descrittiva dei morbi che diventa nosografica, classificazione delle malattie così come il medico e naturalista svedese Carl von Linné, Linneo, fa di lì a poco per quanto concerne le piante.
Il protocollo clinico di Boerhaave è un bell’esempio di modernità. Esso si articola in più fasi: storia del malato (anamnesi personale) e della malattia (anamnesi patologica); visita medica (basata essenzialmente su ispezione, palpazione); uso della strumentazione (prototecnologica, basata sul termometro e sul microscopio per esaminare urina e feci); formulazione della prognosi; prescrizione della terapia. Questa attenzione al malato diventa anche interpretazione e descrizione della sua malattia, cioè diagnosi, in un contesto unificante che armonizza iatromeccanica e iatrochimica sostituendole al vecchio paradigma e facendo di esse il fondamento di un paradigma di medicina radicalmente nuovo.
Non è il solo pregio teorizzato dalla nuova medicina settecentesca. Nell’opera Methodus discendi medicinam, pubblicata a Venezia nel 1727, Boerhaave scrive: “Si chiama Medico colui che possiede la scienza dell’intelletto ed è in grado di esercitarla. Due cose infatti si richiedono al Medico: primo, che sia addottrinato in questa scienza; secondo, che abbia quella viva disposizione di genio che gli consenta di esercitare una medicina affabile (ut exerceat medicinam jucundam) a vantaggio dei malati”. Non basta al medico di essere competente; egli dev’essere anche disponibile.
Allievo di Boerhaave, il medico olandese Gerard van Swieten è chiamato a Vienna dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria per riformare la Scuola di medicina, trapiantandovi il modello clinico-didattico della Scuola di Leida. Il suo successore Anton de Haën, anch’egli olandese, compendia l’esperienza viennese maturata in vent’anni nei quindici volumi della sua Ratio medendi, pubblicata a Vienna dal 1758 al 1779, fondativa della nuova “ragion di medicare”.
Da Vienna viene inviato nella Lombardia austriaca, come missus dominicus dell’imperatore Giuseppe II (succeduto alla madre Maria Teresa nel 1780) con l’incarico di clinico nell’università di Pavia e di direttore generale di sanità nel viceregno, il medico Johann Peter Frank, autore di un “sistema completo di polizia medica”, elaborato a partire dal 1776 e concepito come testo fondativo di una “politica della salute pubblica” e di una tecnica esercitata a difesa delle categorie sociali a maggior rischio: i più giovani, soggetti al lavoro infantile o minorile, le donne in gravidanza, costrette alle fatiche nei campi, i contadini in genere, esposti alla malaria e alla pellagra, gli artigiani lavoranti in città, i lavoratori delle cave e delle miniere. È un’opera che si propone il controllo e la tutela sanitaria della gente del popolo dalla culla alla tomba, con specifico riferimento ai bisogni e ai momenti cruciali: maternità, infanzia, lavoro, inabilità, infermità, vecchiaia, ospedalizzazione, sepoltura.
La chirurgia
Negli ultimi decenni del Setettecento la fiorente chirurgia fa grandi passi avanti soprattutto in Inghilterra, con i fratelli William e John Hunter, e in Francia, con Pierre Desault. A Parigi, capitale dell’Europe savante, nella circolazione delle idee illuministe corrono anche quelle del fisiologo Félix Vicq d’Azyr, esponente al di qua del Reno dell’“anatomia viva” o fisiologia, fondata dal medico svizzero Albrecht Haller, autore degli Elementa physiologiae corporis humani, pubblicati a Gottinga nel decennio 1757-1766. Vicq d’Azyr è uomo di punta della Société Royale de Médecine, in contrasto con le Facultés de Médecine del regno intero. Queste ultime sono soppresse nel 1792 dall’Assemblea costituente della Francia rivoluzionaria e sostituite nel 1794 dalla Convenzione parigina con le nuove Écoles de Santé.
Prescindendo dal termine médecine, la Convenzione intende fare riferimento a un’area teorico-pratica dove il nome santé indica un bisogno primario dell’uomo levato a diritto del cittadino. La metodologia didattica delle nuove Scuole è totalmente diversa dal tripode disciplinare persistente nelle vecchie facoltà. Non più lettura e rilettura d’Ippocrate, o cattedra dei polsi e delle urine, o ripetizioni di chirurgia ferramentaria e medicamentaria. Le tre discipline radicalmente innovatrici sono la nuova clinica ospedaliera, la chimica applicata alla farmaceutica, la polizia medica divulgata anche in Francia.
La nuova clinica si fonda sulla comparazione tra i sintomi o segni di malattia rilevanti in vita, al letto del malato, e le lesioni morbose osservate post mortem, al tavolo d’autopsia. La chimica applicata, aperta alla correlazione tra processi morbosi e farmaci, è fondata su basi fisiopatologiche sconosciute all’eclettica ed empirica terapia fino allora praticata. La polizia medica, mutuata da Frank e dalla medicina sociale di Ramazzini, persegue lo scopo di assistere i cittadini in tutte le fasi della loro vita biologica.
Il vaiolo e la vaccinazione
Nella temperie illuministica la patologia collettiva del XVIII secolo è lumeggiata da quanto scrive nel 1759 al citato clinico medico Anton de Haën il collega svizzero Samuel August Tissot (poi in cattedra a Pavia nel triennio 1783-1785): la peste è diventata “felicemente così rara in Europa che tra mille medici non ce n’è uno che la conosca”; ma un’altra malattia, il vaiolo, ha preso il suo posto giustificando “la consuetudine invalsa quasi unanimemente presso i medici di considerarla come pestilenziale”.
Vaiolo, “peste del Settecento”: una malattia, come la peste, senza rimedio? Il precitato Tissot, nell’Avis au peuple sur sa santé, pubblicato a Losanna nel 1761, informa che questa “epidemia del XVIII secolo”, diversamente dalla peste inguaribile del secolo precedente, un rimedio lo possiede nel “trovato” della vaiolazione, “operazione per mezzo della quale, mettendo un po’ di pus preso da pustole mature [e deposto] su una leggera incisione fatta sulla pelle di una persona che non l’ha avuta, si procura questa malattia”, però in forma molto attenuata, preservativa del male maggiore.
La vaiolazione è la prima tappa del “favoloso innesto” celebrato da Pietro Verri sulle pagine della rivista lombarda “Il Caffè”. La seconda fase è la vaccinazione di fine Settecento, praticata non più con pus umano, ma con pus vaccino innocente. Essa è dovuta alla scoperta del medico naturalista inglese Edward Jenner, che nel 1797 rende noto che il cow-pox o “vaiolo vaccino”, trasferito dall’animale all’uomo, provoca in quest’ultimo una piccola infezione (variola minor), che impedisce l’attecchimento dell’infezione devastante e spesso mortale (variola maior).
La vaccinazione è la più importante conquista anti-infettiva prima dell’avvento, a metà del XX secolo, dei sulfamidici e degli antibiotici. Essa salva più vite umane di quante ne sacrifica la bellicosità di Napoleone e dei suoi emuli. Tuttavia, come la china del Seicento, essa viene e verrà osteggiata da molti fra gli stessi medici in quanto non prodotta “dall’alto” della scienza accademica, ma nata “dal basso” della medicina popolare delle donne cinesi e caucasiche, prime artefici della vaiolazione, e poi dall’esperienza zootecnica del naturalista inglese, primo autore della vaccinazione. L’ostilità dell’accademia è dovuta anche al fatto che la vaccinoterapia, che in realtà è una profilassi, si basa sul principio che “il simile si cura col simile” (similia similibus curantur), che contraddice il principio classico della medicina tradizionale secondo cui “il contrario si cura con il contrario” (contraria contrariis curantur).
La vaccinazione, sul nascere, ha dunque il sapore di un’eresia anti accademica. La più importante conquista della medicina prima dell’era antibiotica ha pertanto il significato di un reagente capace d’indicare la posizione di ciascuno nel campo di due schieramenti ideologicamente contrapposti: quello “oscurantista”, in cui milita chi si oppone a una pratica ritenuta d’impedimento allo spurgo naturale dal corpo della materia peccante in esso accumulata, e quello “illuminista”, in cui milita chi – come in Francia i médicins philosophes “enciclopedisti” e in Italia gli esponenti della Società dei Lumi, dal Verri all’abate Parini – si batte a favore di una pratica d’avanguardia, figlia della “ragione vera” e nemica della “cieca ignoranza”, ma soprattutto in grado di salvaguardare tutti, riches et pauvres, dall’incombente pestilenza sociale.
Al passaggio tra i due secoli, “l’un contro l’altro armato”, la medicina, come la società di cui essa è parte integrante e importante, è a una svolta. In una rinnovata dialettica fra arretratezza e progresso, lo scorcio del siècle des lumières apre le porte al tempo in cui anche la medicina andrà incontro alle “magnifiche sorti, e progressive” additate nella Ginestra da Giacomo Leopardi.
Uno sguardo retrospettivo alla medicina del Settecento ne coglie e ne valuta, nell’arco del suo sviluppo, l’avanzamento progressivo, misurato attraverso l’elaborazione concettuale e operativa ulteriore degli apporti e acquisti della scienza medica seicentesca, attraverso l’utilizzazione di nuove esperienze (da Ramazzini a Jenner) portatrici di vantaggiose ricadute in campo curativo (preventivo più che terapeutico) e infine attraverso la “democratizzazione” del sapere e del suo statuto teorico-pratico.
Con una nuova impostazione – metodologica, epistemologica, antropologico-sociale – il Settecento consegna all’Ottocento il moderno ruolo della medicina nella fondazione delle scienze umane.