La memoria della Seconda guerra mondiale nel Mezzogiorno d'Italia
Nell’immaginario collettivo dell’Italia, la memoria della Seconda guerra mondiale combattuta nel Mezzogiorno si può probabilmente racchiudere in due immagini.
La prima è la fotografia scattata da Robert Capa nel corso dell’avanzata alleata in Sicilia (agosto 1943). Vi sono raffigurati un giovane soldato americano e un vecchio contadino siciliano. Il soldato yankee si accovaccia sulle ginocchia per essere all’altezza dell’anziano, completamente incurvito dal lavoro della terra, che gli indica con un lungo bastone la strada presa dai soldati tedeschi in ritirata verso Troina, rispondendo evidentemente alla richiesta di indicazione del militare statunitense. L’episodio si svolge in aperta campagna, a circa due chilometri e mezzo dal centro cittadino di Sperlinga, in una zona collinare, lungo la strada che conduce a Gangi, al centro delle Madonie, la catena montuosa alle spalle di Palermo. La battaglia è lontana, ma si intuisce che di lì a poco potrebbe riprendere. Il confronto tra i due protagonisti della foto fa emergere la forte disparità su cui si strutturerà il rapporto tra gli italiani liberati e gli Alleati liberatori: i primi, estremamente poveri e malridotti, persino fisicamente sono sovrastati dai secondi, che appaiono accompagnati invece da un’aura di forza fisica e vigoria, ma anche di abbondanza e benessere materiale, rappresentati dalla floridezza del giovane soldato e dalla sua perfetta uniforme.
Accanto a tali aspetti, è un altro, però, il messaggio principale veicolato dalla foto: i civili italiani hanno collaborato da subito, in modo spontaneo e naturale, con l’esercito angloamericano, coadiuvandone lo sforzo nello scontro con i tedeschi. Quella foto racconta come la popolazione italiana, e ancor più quella siciliana (ma il discorso vale per l’intero Mezzogiorno), si sia schierata al fianco degli Alleati, parteggiando attivamente per loro, nonostante le divisioni angloamericane combattessero non solo i tedeschi ma anche l’esercito regio.
In questa rappresentazione degli eventi ha pesato lo speciale legame costruito tra Mezzogiorno d’Italia e Stati Uniti a partire dalla grande migrazione di fine Ottocento. La presenza negli USA di una comunità italoamericana numerosa e influente, a livello elettorale, specie per Franklin Delano Roosevelt, spinse la propaganda americana a insistere sull’idea di una separazione tra il fascismo e la popolazione della penisola. Rilanciata poco prima del crollo militare dell’Italia, questa impostazione trovava una potente conferma nell’immagine proposta da Capa, anche se, forse – ed è l’elemento più interessante – si identificarono con quella lettura in primis gli italiani. Gli Alleati non appaiono infatti i ‘liberatori’ solo nel discorso pubblico antifascista, ma lo sono soprattutto nella memoria popolare.
La seconda scena che, nella memoria collettiva del Paese, si lega al passaggio della Seconda guerra mondiale nell’Italia meridionale, è l’accoglienza festosa riservata alle truppe angloamericane dalla popolazione. Da Palermo a Roma, passando per Napoli, l’arrivo degli Alleati, a lungo atteso e invocato, si trasforma in una grande festa collettiva. Le immagini dei combat film, i gruppi di cineoperatori e fotografi che, come Capa, seguirono l’avanzata angloamericana nella penisola, confermano tale comportamento. L’entrata a Roma, il 4 giugno del 1944, segna forse il culmine di tale atteggiamento. Atteso per lungo tempo e ritardato dall’accanita resistenza tedesca lungo la Linea Gustav e ad Anzio, l’ingresso nella città eterna costituisce a sua volta uno spartiacque. È l’ultima volta che gli Alleati occupano interamente la scena pubblica; dalla liberazione di Firenze al momento del crollo della Linea gotica, le forze partigiane parteciperanno manu militari alla cacciata delle forze tedesche e fasciste, recuperando, almeno simbolicamente, un protagonismo italiano. A Roma, invece, la mancata insurrezione relega sullo sfondo le forze antifasciste, e ripropone l’immagine della ‘fraternizzazione’ tra soldati alleati e italiani, in assenza di un ruolo attivo di questi ultimi nella riconquista della loro libertà.
Si tratta ovviamente, per alcuni aspetti, di una lettura semplificata della realtà: il Sud conosce sollevazioni antitedesche con una significativa partecipazione popolare e, persino, con la capacità militare di mettere in fuga i tedeschi in collegamento con l’avanzata angloamericana. Le Quattro giornate di Napoli (27-30 settembre 1943), come dimostrano le ricerche di Gabriella Gribaudi, rappresentano non tanto un esempio di jacquerie (rivolta) urbana o un sommovimento tellurico, come si è sostenuto a lungo in ambito storiografico, quanto una prima forma di resistenza organizzata dal basso, pronta a impegnare i tedeschi sul terreno del combattimento in risposta alla politica di sfruttamento e annientamento nei confronti dei civili. Inizia la fase aurorale della Resistenza in cui, rispetto al modello affermatosi progressivamente nel Settentrione, la presenza dei partiti antifascisti non svolge una funzione di direzione, anche se non mancano elementi politicizzati che partecipano al moto antitedesco. Prevale però la spinta diretta della popolazione a resistere, anche combattendo, contro la politica di spoliazione e reclutamento coatto della manodopera messa in atto dai tedeschi.
Non è mancato, dunque, anche nel Mezzogiorno un protagonismo italiano. Lo aveva intuito il regista Nanni Loy (1929-1995) che nel 1962, con il film Le quattro giornate di Napoli, raccontò la sollevazione popolare contro le angherie germaniche. Tuttavia quell’episodio, negli anni successivi, fu ricondotto dall’amministrazione comunale moderata all’idea della ribellione spontanea e impolitica degli ‘scugnizzi’, a cui fu dedicato nel 1963 il monumento che doveva ricordare la sollevazione (P. Massa, Il monumento alle quattro giornate di Napoli: un contributo antropologico, in Mezzogiorno 1943. La scelta la lotta la speranza, a cura di G. Chianese, 1996, pp. 441-54). Riformulata nei termini della rivolta dello ‘scugnizzo’, vale a dire di una ribellione ‘naturale’ e ‘caotica’, priva di consapevolezza politica, l’opposizione, anche armata, a tedeschi e fascisti da parte delle popolazioni meridionali non diviene centro della memoria della guerra, lasciando campo libero alla scoperta degli Alleati, all’incontro festoso tra liberati e liberatori, inizialmente fonte di stupore per gli stessi angloamericani.
Nel film documentario The liberation of Rome (1944), realizzato dai governi inglese e americano mentre era ancora in corso il conflitto, si vedono i soldati alleati trionfalmente acclamati, dal Colosseo a piazza Venezia, da donne, bambini, uomini di ogni età e stato sociale. In un fotogramma altamente simbolico, giovani donne italiane fanno il segno della vittoria, a conferma della completa identificazione delle loro aspettative con le promesse degli Alleati. Anche altri filmati dell’epoca confermano il clima di grande festa che pervade l’Urbe appena liberata: si vedono jeep e carri armati passare lungo via dei Fori imperiali, arrivare sin sotto il Vittoriano ed essere accolte da una folla festante, che sventola bandiere a stelle e strisce insieme, talvolta, al tricolore con lo stemma sabaudo. La scena termina con un bacio dato a un militare americano da una ragazza italiana, uscita dalla massa felice, quasi a seppellire definitivamente lo status di ‘nemici’ dei soldati arrivati in Italia in favore di quello di ‘liberatori’.
Non è casuale che siano proprio queste scene a caratterizzare la memoria della guerra. L’incontro festoso della Liberazione segna il massimo momento di vicinanza tra sconfitti e vincitori, in cui le molte promesse dei secondi sembrano al momento esaudire le tante speranze coltivate dai primi. Offuscate le ferite provocate dalla guerra reale del periodo 1940-43, e ancora non sopraggiunta la delusione per l’esperienza concreta dell’occupazione alleata, la ‘liberazione’ anticipa l’adozione dell’american way of life che si sarebbe affermato negli anni Cinquanta con il boom. A quel primo contatto con gli eserciti alleati, e in primis gli americani, viene fatta risalire la spinta alla successiva ricostruzione e soprattutto, più avanti, la conquista del benessere materiale. Liberazione dal nazifascismo, aiuti del Piano Marshall e ‘sogno americano’ si confondono in un’unica sequenza temporale, che rimanda a una Italia capace di liberarsi dalla fame e dalla miseria, oltre che dai tanti lutti lasciati dalla guerra.
Così canonizzata nell’immaginario collettivo, la ‘liberazione festosa’ ha finito per imporsi, diventando la memoria egemone di quei mesi drammatici tra guerra e dopoguerra. Indirettamente ha contribuito a veicolare un senso comune intorno al rapporto Mezzogiorno-Seconda guerra mondiale, incentrato sull’idea di un passaggio sostanzialmente veloce e, tutto sommato, indolore del conflitto. Come se il festeggiamento liberatorio dei soldati alleati da parte della popolazione avesse cancellato le dure prove vissute prima del loro arrivo, e poi, a seguire, gli sconvolgimenti sociali conosciuti durante l’amministrazione angloamericana delle province meridionali. La realtà della guerra fu molto più drammatica. I bombardamenti angloamericani lasciarono una forte traccia nell’immaginario popolare. Iniziati subito dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia a Francia e Inghilterra, videro le città meridionali tra gli obiettivi principali. Napoli, Palermo e Cagliari furono tra le prime a essere colpite già nel giugno del 1940, mentre sul finire dell’anno, anche Catania e Taranto, e di nuovo Napoli, vennero toccate dalle incursioni inglesi. Nel corso del 1941 furono in particolare le località costiere a essere bersagliate, per la presenza di navi militari e navigli impegnati nei rifornimenti del fronte libico. La tendenza crebbe nel corso del 1942, quando ai quadrimotori inglesi si affiancarono i bombardieri americani, ai quali si resero disponibili, via via che si aggravava la situazione italotedesca prima in Libia e poi in Tunisia, le basi aeree dell’Africa nordoccidentale.
Come dimostrato da alcuni studi, le incursioni sul Mezzogiorno fino all’ottobre di quell’anno furono cinque volte superiori a quelle sulle altre aree del Paese e provocarono un numero di vittime civili molto più alto (M. Gioiannini, Bombardare l’Italia. Le strategie alleate e le vittime civili, in I bombardamenti aerei sull’Italia, a cura di N. Labanca, 2012, pp. 83-95).
Si trattava di un trend destinato ovviamente a crescere. Tra i bombardamenti a tappeto di questo periodo spicca quello su Napoli del 4 dicembre 1942 (replicato dopo una settimana), con almeno 286 morti e 647 feriti, tra militari e civili, cifre da approssimare per difetto secondo la prefettura.
Michele Lubrano, allora sedicenne impiegato in uno stabilimento industriale del porto, raccontava:
poi un pomeriggio del 4 dicembre del ’42 venne un bombardamento all’improvviso e gli apparecchi americani si misero sulla scia dei nostri caccia che rientravano dalla Tunisia […]. Mi ricordo che c’era tutta la flotta navale nel porto e quindi fu un bombardamento all’improvviso, a altissima quota, incominciarono a buttare bombe, i nostri marinai festeggiavano la festa della marina e da un momento all’altro viene questo grosso bombardamento (Gribaudi 2005, pag. 97).
Giustificati, almeno teoricamente, con motivazioni di carattere strategico-militare, vale a dire la distruzione delle navi e delle attrezzature portuali delle grandi città marinare, questi raid aerei finivano comunque per colpire la popolazione civile, centrando i quartieri vicini al porto, spesso i più popolari, ma anche il centro cittadino.
Ricordava Antonio Basile:
E ggente cammenavene senza testa! Ma no camminavano perché tenevano a forza e’ camminà, perché ero lo spostamento d’aria d’e bombe che avevano buttato […]. E chille buttarono a volontà, a tonnellate [...]. Come l’acqua, come quando tu vire buttà l’acqua, accussì bombardavano (Gribaudi 2005, pp. 100-101).
Peraltro, con l’aggravarsi della crisi politico-militare dell’Italia fascista, i bombardamenti andarono sempre più concentrandosi sui civili, per deliberata scelta dei comandi politici e militari degli angloamericani. Dunque i bombardamenti furono utilizzati come strumento di pressione sulla popolazione, al fine di accelerare la caduta del regime e l’uscita dalla guerra dell’Italia. La stessa propaganda alleata finì per fare leva sul terrore provocato dalle incursioni aeree. I manifestini lanciati sulle città bombardate ricordavano infatti nell’estate del 1943 alla popolazione civile che «più di 1.000 bombardieri» dalle coste dell’Africa del Nord, ormai in mano alle forze angloamericane, potevano essere mandati «in una sola notte sull’Italia», esortando di conseguenza gli italiani a chiedere la pace, dato che, come veniva chiaramente spiegato, «fino a che le vostre industrie lavoreranno per la Germania ed i vostri soldati combatteranno per i Nazisti le vostre città saranno bombardate senza tregua». In particolar modo, si leggeva, «i vostri porti ed i vostri centri industriali saranno bombardati giorno e notte» e ciò comportava naturalmente l’impossibilità di garantire «la vita di coloro che abitano nella zona di questi obiettivi» (Archivio centrale dello Stato [poi sempre ACS], Ministero dell’Interno [poi sempre MI], Direzione generale di pubblica sicurezza [poi sempre DGPS], divisione Affari generali e riservati [poi sempre AGR]), A 5 G II, busta [poi sempre b.] 97, f. Salerno. Incursioni aereo-navali. Manifesto alleato lanciato durante le incursioni dell’estate del 1943).
Il 1943 vide quindi una vera e propria escalation dei bombardamenti, destinata ad assumere proporzioni ancora più drammatiche per il Mezzogiorno, in concomitanza con l’avvicinarsi dello sbarco in Sicilia. Solo nel mese di maggio si ebbero 45 incursioni a Catania, 43 a Palermo, 32 su Messina, con effetti devastanti. Il prefetto di Palermo, dopo il bombardamento del 9 maggio 1943, i cui effetti, peraltro, sono ancora visibili nel centro storico della città, parlava di una «popolazione [quella parte, cioè, che non era ancora sfollata] in preda al terrore», che aveva avuto l’impressione «dell’assoluta irrisorietà della nostra difesa contro la preponderanza enorme dei mezzi aerei nemici» (ACS, MI, DGPS, A 5 G II, b. 92 f. Palermo. Incursioni aereo-navali. Rapporto della V zona Opera vigilanza repressione antifascismo-OVRA del 10 maggio 1943). Entrambe le frasi erano sottolineate.
Il questore di Catania descriveva una città deserta, abbandonata e desolata, con la popolazione sfollata nei comuni vicini in drammatiche condizioni igieniche e in cui cresceva il desiderio di pace, nel giugno del 1943 (ACS, MI, Segreteria del capo della polizia-SCP Senise 1940-43, Questori, b. 13, f. Catania. Nota del questore del 24 giugno 1943).
Analoga la situazione causata dai bombardamenti in Calabria e in Puglia, dove tra gli altri Foggia fu ripetutamente colpita. Stessa sorte toccò anche a Napoli, mentre su tutta la Campania le incursioni si fecero, se possibile, ancor più fitte in vista dell’organizzazione dello sbarco di Salerno, ma anche, dopo il 25 luglio, per spingere il nuovo governo all’armistizio. Descrivendo il bombardamento del 4 agosto del 1943, il questore di Napoli segnalava al capo della polizia l’«evidente scopo terroristico» perseguito dalle «formazioni» composte da «numerosi aerei avversari, le quali hanno sorvolato questo Capoluogo sganciando bombe […] prevalentemente su quartieri centrali della città danneggiando numerosissime abitazione civili». Il macabro conteggio dei caduti causati dall’incursione aerea realizzato il giorno successivo ci conferma la diversa natura oramai delle incursioni alleate: le vittime civili del bombardamento risultarono essere ben 142 contro i 32 morti tra i militari; i feriti tra la popolazione furono invece 427 contro i 58 appartenenti a reparti dell’esercito (ACS, MI, DGPS, AGR, A 5 G II, b. 90, f. Napoli. Incursioni aereo-navali. Parte III). Ugualmente non riferibile a ragioni di convenienza militare appare la decisione dei veivoli alleati di bombardare e mitragliare, il 27 agosto, l’«abitato di Caserta provocando il crollo di vari stabili in via Verdi, via Cesare Battisti, via San Giovanni, via San Carlo, Corso Umberto». Alla fine di quell’attacco aereo, in cui erano stati «altresì colpiti la Cattedrale Chiesa Madonna Loreto, l’ospedale civile et istituto Tecnico, che è crollato» si contarono 115 morti. (ACS, MI, A 5 G II, b. 90, f. Napoli. Incursioni aereo-navali. Parte III. Nota della questura di Napoli del 28 ag. 1943). Anche a Terracina, in provincia di Latina (Littoria), «gli aerei nemici», dopo aver sganciato «oltre 30 bombe contro abitato [...], mitragliavano la popolazione», colpendo e danneggiando gravemente «oltre numerose case abitazioni civili», anche la chiesa del Salvatore, il palazzo vescovile, l’orfanotrofio e le scuole elementari, per un totale di circa 60 morti tra gli abitanti della cittadina pontina (ACS, MI, A 5 G II, b. 86, f. Littoria. Incursioni aereo-navali. Nota della prefettura di Littoria del 4 sett. 1943).
Il conflitto, come si evince chiaramente dalle citazioni riportate, toccò il Mezzogiorno, e in maniera pesante, ancor prima del passaggio vero e proprio della guerra. Ciò nonostante, nella memoria pubblica la guerra reale scompare. Anzi si può dire che le tracce di una memoria critica, almeno a livello pubblico, nei confronti degli alleati, riguardino più che altro il periodo successivo alla ‘liberazione’. È a quella fase che si riferisce la nottata che deve passare, con la quale si chiude la commedia Napoli milionaria (1945) di Eduardo De Filippo, che racconta lo smarrimento morale in cui è caduta la popolazione della città, specie nelle sue parti più popolari e umili. Il commediografo napoletano descrive, infatti, il dilagare del mercato nero e dell’illegalità di massa in seguito alla occupazione alleata e alla centralità assunta dal porto della città partenopea nel proseguimento dello sforzo bellico angloamericano. Numerose sono poi le opere letterarie e/o memorialistiche, tanto di parte italiana che alleata, in cui la descrizione della diffusione delle pratiche di contrabbando, della prostituzione, di ogni genere di traffici in qualche modo legati al rapporto occupato/liberatore, finisce con il rendere decisamente meno lineare e pacificata la ‘memoria’ della presenza degli angloamericani, ma a partire, appunto, dalla loro dimensione di occupanti.
La storiografia ha iniziato a interessarsi del tema in un’ottica di ‘genere’, segnalando le contraddizioni prodotte dall’ampia gamma di relazioni, sentimentali e non, nate tra donne italiane e soldati angloamericani, causa di notevoli tensioni all’interno del campo maschile e dentro le comunità locali. Il peso della sconfitta e dell’occupazione di un esercito vincitore riconquistano spazio, e riemerge una memoria più complessa dove convivono elementi dissonanti. Si tratta allora di comprendere come e perché si formi l’immagine di una ‘invasione amica’ e al contempo, quanto rimane nella memoria pubblica del duplice ruolo di vincitore e occupante degli Alleati.
Leonardo Sciascia nel racconto “Una kermesse” (1949) ricostruiva il primo incontro tra siciliani e americani in un paese tra Gela e Licata, sottolineando l’assoluta mancanza di resistenza da parte di civili e militari italiani, i quali anzi si sbarazzarono rapidamente dei simboli del vecchio regime, accogliendo a braccia aperte i nuovi arrivati:
Eravamo al 14 luglio. Nel pomeriggio si diffuse la notizia che gli americani arrivavano. Il podestà, l’arciprete e un interprete si avviarono ad incontrarli. La popolazione in attesa si preoccupò di bruciare, ciascuno nella sua casa, tessere, ritratti di Mussolini, opuscoli di propaganda. Dagli occhielli i distintivi scivolarono nelle fogne. Ma gli americani ancora non venivano […]. L’indomani a mezzogiorno passarono ancora due tedeschi con una automobile munita di radio […]. Due ore dopo la loro partenza, cinque soldati con un lungo fucile abbassato sbucarono improvvisamente nella piazza, indecisi. Videro, davanti una porta semiaperta, qualche uomo in divisa e si mossero sicuri. I carabinieri si trovarono puntati addosso i fucili senza ancora capire che gli americani erano finalmente arrivati. Le loro pistole penzolarono nelle mani di uno della pattuglia. Un applauso scrosciò. Una voce chiese sigarette; e il caporale americano tastò le tasche del brigadiere dei carabinieri, ne tirò fuori un pacchetto di Africa e lo lanciò agli spettatori (L. Sciascia, Il fuoco nel mare: racconti dispersi (1947-1975), a cura di P. Squillacioti, 2010, p. 20).
La festa è, per lo scrittore di Racalmuto, il segno distintivo della relazione tra gli ex nemici, ormai non più tali:
la festa era cominciata. Da tutte le strade la popolazione affluiva. Non si sa come, “cannate” di vino passate di mano in mano sorvolarono la folla, bicchieri si arrubinarono, pieni e grondanti venivano offerti con dolce violenza alla pattuglia che li rifiutava. L’inglese degli emigranti sciamava goffo e servile intorno a quei cinque uomini stupefatti: tutti coloro che in America avevano guadagnato quel po’ di denaro che in patria era divenuto casa o podere, erano corsi come ad un appuntamento felice. Una enorme bandiera di seta lacera, la bandiera degli Stati Uniti fu tolta a quel pover’uomo che l’aveva tirata fuori […]. La kermesse era giunta al suo vertice. Camionette e carri blindati affluivano tra ali plaudenti di popolo. Alquanto nervoso, e nervosamente sorridendo, un soldato dalla faccia di meticcio puntava, dall’alto di un carro, la mitragliatrice sulla folla. In cambio ne riceveva un sorriso cordiale riflesso su centinaia di facce, un ammicco d’intesa: “vuoi scherzare; lo sappiamo; ma domani mangeremo insieme tutte le cose buone che ti porti dietro, i biscotti salati e gli spaghetti in scatola” (p. 21).
Assenza di resistenza, accoglienza trionfale e convinzione che gli americani possano risolvere i problemi alimentari: Sciascia riassume quelli che appaiono i tratti salienti del primo incontro con le truppe alleate. Evidente il motivo della festa: per i civili l’arrivo degli angloamericani segna la fine della guerra, almeno quella vissuta da loro. In un volume che raccoglie testimonianze sul passaggio del conflitto a Caltagirone, Alfio Caruso ricorda che l’entrata degli americani in città fu accompagnata da grida inneggianti alla fine della guerra, in un clima di festa e con i balconi addobbati da lenzuola bianche. «L’ingresso degli americani fu un tripudio. Entrarono da Gela, si disse, e salirono dalla via Roma. Tutti applaudivano e li accoglievano come “liberatori” dai tedeschi, la folla, come impazzita, scandiva aritmicamente “Viva gli Americani”», è il racconto di Francesco Turrisi (A. Caruso, Caltagirone e gli Alleati, 2004, p. 179). «Una grande festa in tutta via Roma», conferma Vincenzo Alberghina, che associa gli Alleati al cibo regalato: «entravano gli americani e distribuivano non solo sorrisi, ma gallette e caramelle» (p. 157).
Le stesse testimonianze di molti soldati italiani impegnati in Sicilia ricordano questo comportamento della popolazione italiana.
Il tenente colonnello Dante Ugo Leonardi della divisione Livorno, in un volume del 1947, scritto per difendere i suoi commilitoni dall’accusa di scarsa combattività, riconosceva che «tra i due mali […] “fascismo” con continuazione della guerra, e “occupazione anglo-americana” con fine della guerra, buona parte del popolo siciliano scelse quest’ultimo per liberarsi definitivamente del primo, senza tuttavia misurare, in quel tragico momento, la portata morale di taluni suoi atti» (Luglio 1943 in Sicilia, 1947, pp. 36-37).
La fraternizzazione con il ‘nemico liberatore’ era, del resto, favorita dalla presenza tra gli invasori di non pochi discendenti degli emigranti meridionali partiti qualche decennio prima. Viene raccontato che non di rado «qualcuno di questi soldati americani or ora giunti, dice il nome di un casato del luogo, chiede un indirizzo del quartiere contadinesco: che ha da portare saluti e notizie da New Jork (sic) o da Philadelphia» (N. Savarese, Cronachetta siciliana dell’estate 1943, 1984, p. 49). Nel racconto “E come il cielo avrebbe potuto non essere...” dedicato allo sbarco della divisione Texas a Gela, Sciascia ricordava che «noi in Sicilia aspettavamo gli americani: quei nipoti, cugini, figli di amici, che non avevamo mai visto e che venivano da lontano, carichi della ricchezza e della potenza americana». A sbarcare era, a suo dire, «la terza generazione di quelli che erano andati a costruire la ferrovia New York-Brownsville» che ora stavano «per la prima volta mettendo piedi nella terra dei loro avi», tanto che «due soldati su cinque erano di origini siciliana e parlavano il dialetto» (in Fatti diversi di storia letteraria e civile, 1989, pp. 125-26).
La presenza degli angloamericani torna anche nelle testimonianze orali. Alfonso Di Leo, un soldato sbandato che si era nascosto nei pressi di Caltagirone, ricorda la presenza nelle fila americane di soldati di origine siciliana e napoletana: «a mia quannu mi incontraru ni lu straduni mi disseru: paisà, te li sicarette e mi li ittaru d’incoddu»; e Giuseppe Gudemmi di Ribera, dei due soldati americani, che lanciavano caramelle e scatole di carne alla popolazione, dice che uno era di colore e l’altro invece parlava in napoletano, quasi a volere segnalare come alterità e vicinanza si tenessero fortemente insieme (S. Stabile, La memoria della seconda guerra mondiale a Ribera, tesi di laurea, Facoltà di Scienze politiche, Università di Palermo 2011, p. 147).
È nota la presenza di italoamericani nelle truppe statunitensi impegnate in Italia. L’esercito a stelle e strisce scelse di usare i figli degli emigrati negli Stati Uniti tra le milizie di sbarco in Sicilia per instaurare un rapporto positivo con la popolazione locale, e veicolare, anche per questa via, l’immagine della democrazia americana quale modello politico da imitare. Tuttavia, nella centralità che tale presenza ha nelle narrazioni orali e letterarie incide un elemento metaforico. La presenza dei discendenti degli emigranti serviva a dimostrare che gli invasori, in verità, non erano poi veramente nemici. Potevano forse essere crudeli avversari i cugini lontani, i discendenti dei parenti partiti dal proprio paese? Solo apparentemente – sembrano dire questi racconti – i soldati americani erano stranieri, e difatti il riconoscimento (l’agnizione) che si realizza grazie alla comunanza del dialetto, uguale o simile, disvela la loro natura di amici e di soccorritori, come confermano i ricordi di Anna Milioto di Ribera:
Quannu traserunu […] propriu facivanu sta strata di lu corsu Margherita. Iddi prima di trasiri s’avianu alloggiutu prima di lu paisi, ni lu Ponte Verdura [...] proprio ni la nostra terra e quannu si carmarunu li cosi me patri i dda. Vitti sti sudati c’avianu craputu tutti li zuccini d’invernu scangianuli pi mulina però u nsi pottiru mangiari […] eranu duri […]. Po un surdatu italu-miricanu si misi a parlari cu me patri e ficiru amicizia insumma […]. Doppu ci ragalà scatoletti di carne, cioccolati, caramelli […]. (S. Stabile, cit., p. 127).
Gli americani si presentano come i vincitori miliari, risalgono il corso cittadino e occupano i terreni della famiglia della testimone. La loro estraneità alla comunità locale appare evidente dall’incidente ‘ortofrutticolo’ dello scambio tra meloni e zucchine. La lontananza però si trasforma subito in vicinanza. La comunanza linguistica emerge presto e getta le basi per un’amicizia, che diviene anche sostegno materiale alla famiglia siciliana. È dentro questa cornice che si realizza il rovesciamento tra alleati e nemici, che ha spinto Savarese a scrivere che «per amara e assurda che possa sembrare, […] l’invasione della Sicilia è stata scontata coi tedeschi» (N. Savarese, Cronachetta siciliana, cit., p. 48).
Si chiude in questo modo la ricostruzione da parte della popolazione dell’arrivo degli Alleati come ‘liberazione’ dalla guerra e da coloro che volevano comunque continuarla. Su questa base si sarebbe creata la vulgata, già stigmatizzata da Nino Recupero, di una Sicilia «mai stata veramente fascista»e, quindi, non in grado di offrire «nessuna reale, seria resistenza alle truppe alleate» (La guerra e la Sicilia, 1995, in N. Recupero, Le stelle sono morte. Scritti sulla guerra (1961-2003), a cura di S. Torre, 2006, p. 105).
In realtà il processo di distacco dal regime fu estremamente articolato. L’allontanamento dal fascismo passò per il progressivo peggioramento della situazione alimentare e le tante sconfitte militari, a cui si aggiunse il peso determinante dei bombardamenti subiti. Il mercato nero e la pratica dell’‘intrallazzo’, per riprendere un termine molto usato in Sicilia, acuirono poi la crisi della società locale, esasperando i rancori. Filippo Napoli, di Mazara del Vallo, scriveva nel suo diario:
così, tanto l’ammasso del grano a prezzo basso, a cui la maggior parte dei produttori cerca di sottrarsi per vendere clandestinamente la parte accantonata, quanto il razionamento insufficiente ai bisogni individuali concorrevano a mantenere il mercato nero nelle mani dei cosiddetti “intrallazisti” che facevano scomparire, acquistandola, la merce nel mercato nero per renderla più ricercata e rivenderla poi a tempo opportuno a prezzi proibitivi, realizzando guadagni spesso vistosi (Diario 1943-44. Mazara durante la seconda guerra mondiale, 2002, pp. 29-30).
Non era migliore la situazione nelle campagne, dove – ha scritto Nicola Gallerano ragionando sull’intero Mezzogiorno – «la politica degli enti ammassatori e la fiscalità delle operazioni di rastrellamento del grano e degli altri prodotti agricoli presso i piccoli proprietari esasperarono l’ostilità dei contadini contro il sistema esistente» (1974, p. 458).
Vincenzo Rabito, all’epoca giovane contadino semialfabetizzato, diventato sorvegliante del mulino del marchese La Motta nell’aprile del 1943, ricorda che per ordine del segretario politico del fascio di Chiaromonte Gulfi, in provincia di Ragusa, era costretto a prendere 3 chili di farina per ogni 18 che si macinavano (Terra matta, 2007, p. 269).
Pressate dalla richiesta della consegna del grano, le campagne furono attraversate da una forte tensione sociale, e molti lavoratori della terra si trovarono in difficoltà. Negli ultimi mesi della guerra in Sicilia, Salvatore Platania, ufficiale italiano tornato nell’isola in vista dello sbarco alleato, così scriveva nelle sue memorie:
i braccianti si nutrivano di legumi e verdura raccolta nei campi, erbe che la fame aveva imparato a riconoscere come commestibili; e venivano cucinate insieme alle fave secche. Se nelle campagne, nei piccoli centri agricoli, il baratto avveniva con commestibili – ormai la lira valeva ben poco – nei grossi borghi, nelle città e nei paesi di montagna, ove mancava quasi del tutto la cultura del grano, il baratto era impossibile e la fame si leggeva sui volti (Memorie di Sicilia del 1943, 1949, p. 35).
Incapace di dominare questi fenomeni, al fascismo non restò che prendere atto dello sfaldamento del fronte interno con i bombardamenti alleati capaci di spezzare ulteriormente il morale della popolazione. Prima dello sbarco, le incursioni aeree si intensificarono, provocando già nel mese di giugno il sostanziale collasso. I fonogrammi dei questori registravano decine e decine di civili morti nei raid aerei, effettuati a sostegno dell’avanzata americana, mentre si realizzava il ritorno a una sorta di stato di natura, con grotte e anfratti come rifugio contro i bombardamenti, anche nell’entroterra siciliano.
Savarese, sfollato nei dintorni di Enna, raccontava che «nei quartieri estremi e contadineschi sono state utilizzate le caverne aperte nella roccia da tempo immemorabile, e che certamente furono abitazioni trogloditiche». Da lì gli sfollati erano poi fuoriusciti «come da un battesimo primordiale», portando «dal buio delle caverne il bestiale impulso della preda. Si aggirano – annotava lo scrittore ennese – come animali, tra le macerie, prendono quel che loro capita nelle case scoperchiate dove non trovano donne che piangono sedute sulle macerie: entrano in quelle abbandonate da padroni fuggiti in campagna» (N. Savarese, Cronachetta siciliana, cit., pp. 34-35).
Perciò, più che una sorta di immunità antropologica della Sicilia al fascismo, furono piuttosto gli eventi bellici e la parallela crisi del regime a scompaginare la struttura di potere fascista nell’isola, portando «alla genesi dello stato d’animo prevalente nel 1943 di resa e di rinunzia» (N. Recupero, La guerra e la Sicilia, cit., p. 107). Ed è proprio quello specifico stato d’animo, di pace e rifiuto della guerra, che la memoria dell’‘alleato liberatore’ fotografa, consegnando una narrazione capace di durare nel tempo, così efficace da egemonizzare anche la memoria degli eventi militari, riunendo civili e soldati italiani in un unico frame. La dissoluzione della società civile, frutto dell’incapacità della dittatura fascista di reggere la guerra totale in cui si era trasformato il secondo conflitto mondiale, viene estesa all’esercito italiano, trasmettendo l’immagine di un popolo che da subito e immediatamente non combatte e si arrende agli Alleati. Nata in ambito fascista per giustificare la sconfitta, dandone la responsabilità ai militari, l’idea di una subitanea dissoluzione dell’esercito regio si è scolpita nella memoria collettiva. I militari italiani, chiamati a combattere gli angloamericani, avrebbero realizzato una sorta di ‘8 settembre anticipato’, disertando in massa e sottraendosi allo scontro. In realtà in Sicilia nell’estate del 1943 le truppe alleate incontrarono non poche difficoltà. Se i reparti costieri, male armati e raccogliticci, non opposero adeguata resistenza allo sbarco americano a Gela e a quello inglese a Pachino, anche per la netta inferiorità aerea e navale, frutto della decisione di Mussolini di non impegnare in combattimento la flotta italiana, le unità mobili di riserva, soprattutto nei primissimi giorni dell’invasione alleata, si batterono accanitamente. Le divisioni di manovra come la ‘Livorno’ e la ‘Napoli’ – ha scritto lo storico militare Alberto Santoni – andarono incontro a un «sanguinoso stillicidio sacrificandosi nei coraggiosi quanto vani contrattacchi dei primi giorni contro Gela e Siracusa-Augusta». Per questo «cessarono […] presto di costituire delle unità omogenee e i loro residui reparti finirono per essere inseriti in modo frazionato tra le file germaniche e agli ordini superiori tedeschi». Analoga sorte conobbero i reparti dell’‘Aosta’ e dell’‘Assietta’, che dopo essere stati decimati dagli attacchi nemici e dalle diserzioni, furono inseriti nel sistema di difesa germanico nella parte nordorientale (A. Santoni, Le operazioni in Sicilia e in Calabria: luglio-settembre 1943, 1983, p. 411).
Fu quindi soprattutto la superiorità tecnica e tecnologica degli Alleati ad assicurarne il successo, sul quale incise il progressivo sbandamento dell’esercito italiano. Questo tuttavia fu il frutto della presa d’atto della assoluta inferiorità di mezzi e risorse. La caduta di Palermo, il 22 e poi il 25 luglio, smontò ogni velleità di resistenza verso gli Alleati. Con la caduta di Mussolini diventa evidente «che la guerra è ormai persa e finita. Ciò che non era mai stato ammesso prima in modo così esplicito e autorevole è chiaro a tutti infatti a quel punto», ha ricordato Giorgio Chiesura nel suo diario dedicato alla campagna di Sicilia (Sicilia 1943, 1993, p. 80). Ciò nonostante non solo i tedeschi, ma anche diversi reparti dell’esercito italiano continuarono a combattere, riuscendo a traghettare almeno una parte di uomini e mezzi oltre lo Stretto di Messina. Con tali considerazioni non si vuole ovviamente discutere il giudizio generale sul comportamento dell’esercito italiano. La resa di Augusta e di Siracusa, che tanto sconcertò l’opinione pubblica, al pari delle diserzioni di massa, confermate dall’alto numero di prigionieri caduti in mano alleata nei primi giorni del conflitto, testimoniano che vi fu una drastico mutamento di atteggiamento da parte dei soldati italiani verso il conflitto (Mangiameli 2003).
Non si tratta dunque di negare lo sfaldamento delle forze armate italiane all’interno della più generale crisi del regime fascista. Il punto è, invece, interrogarsi sul perché dalla memoria sia scomparso quel pezzo di guerra, pure combattuta tra mille difficoltà, in favore di un appiattimento sui fenomeni di resa di massa, che certo vi furono. Una simile discrasia tra la complessità degli eventi e l’uniformità della memoria pubblica si spiega soltanto considerando la forte spinta, di civili e militari, ad assolutizzare, a posteriori, le ragioni dell’impossibilità di una qualsiasi resistenza agli Alleati.
In questo senso vanno forse lette le numerose e ripetute osservazioni sulla superiorità tecnologica angloamericana e sulle sue ricadute concrete negli eventi bellici. È talmente stupefacente la superiorità alleata da produrre una lunga serie di false notizie e leggende, sul modello già analizzato da Marc Bloch (1886-1944) per la Prima guerra mondiale. Chiesura ricordava alcuni di questi miti diffusi tra i soldati italiani, dagli aerei americani guidati da donne nude, ai possenti soldati di colore che improvvisamente si mettono a parlare in italiano, fino all’esaltazione delle virtù magiche di «certe tavolette di una sostanza grigia che sembra gesso e che verrebbe di buttarle via ed invece un soldato spergiura di aver provato a mangiarne una e per due giorni non ha avuto più fame e si sentiva forte come un leone». C’è in questi racconti fantastici «la coscienza della schiacciante superiorità avversaria, ma senza ira, anzi con ammirazione» (Sicilia 1943, cit., p. 69).
Per intendersi: la percezione dell’impossibilità di contrastare efficacemente gli Alleati aveva ragioni reali. Qui si vuole evidenziare la funzionalità di tale dato alla coerenza interna del racconto del ‘nemico liberatore’, a cui aveva tanto meno senso resistere quanto più lo si riconosceva imbattibile per via della sua superiorità. Si tratta di un discorso valido anche per i civili, chiamati a dare conto del loro comportamento accogliente verso i ‘nemici’.
Non a caso in molte interviste agli abitanti dei paesi coinvolti nei pesanti bombardamenti collegati allo sbarco, torna il tema delle donne pilota di aereo. A Butera tre diversi testimoni raccontano di un aereo americano pilotato da una donna, poi abbattuto (C. Zangara, Inventari della memoria, 2006, p. 87). Anche ad Agrigento, dove le vittime dei bombardamenti collegati allo sbarco furono almeno 200, si trova un racconto analogo. «Passato qualche giorno dallo sbarco» – dice Settimio Biondi – mio padre vide «due signore. Erano alte, robuste, sorridenti, vestite con la divisa militare color cachi». Un suo amico gli avrebbe detto che le donne «erano al seguito dell’esercito americano» e guidavano gli aerei, intendendo implicitamente che «per essere ad Agrigento, erano state loro a bombardare la città» (pp. 38-39).
Non risultano, in realtà, donne pilota impegnate direttamente dall’aviazione statunitense nei bombardamenti sulle città. Si è quindi dinanzi all’ennesima leggenda, nata probabilmente dalla volontà di sottolineare a tal punto la potenza e la superiorità tecnologica americana da attribuirgli la trasformazione delle generatrici della vita in spietate portatrici di una terribile morte seriale, quale era quella aerea.
C’è dell’altro però nella memoria popolare: oltre al tema della superiorità tecnologica e materiale degli Alleati, tornano con insistenza questioni interne, legate al presunto tradimento dei vertici militari e alla presenza delle spie nemiche (Mangiameli 2003, pp. 33-34). In alcune memorie si citano addirittura assunzioni di comando da parte di generali italiani in nome dell’esercito statunitense, come nel caso di Alcamo, e si segnala al contempo l’esistenza di una vasta rete di spionaggio, organizzato «da ufficiali americani che parlavano benissimo l’italiano e qualcuno anche il dialetto siciliano», tanto che, scrive Filippo Napoli, «non furono pochi i falsi commercianti di vino visti passare da una provincia all’altra, riconosciuti poi in divisa da ufficiali americani nella sede del Comando americano di Palermo» (Diario 1943-44. Mazara durante la seconda guerra mondiale, 2002, pp. 36-38).
Si tratta anche qui di ‘false notizie’ di guerra, la cui diffusione merita però un approfondimento. Se i generali hanno tradito e dovunque c’erano spie, significa – dicono queste leggende – che il nemico era già dentro di noi, e quindi non vi era possibilità di opposizione. Il richiamo, anche in questo caso molto frequente, agli italoamericani segnala l’ulteriore peculiarità di una esternità, quella dell’avversario, non riconoscibile perché non veramente tale, essendo in realtà ‘figlia’ della comunità. La stessa querelle sul presunto ruolo della mafia italoamericana nell’invasione dell’estate del 1943, pare rappresentare un altro e più accattivante tassello di questa narrazione assolutoria, che in qualche modo, evocando tradimenti, spie e mafiosi, finisce per ribadire l’insensatezza di qualsiasi resistenza contro forze a tal punto ramificate (S. Lupo, Quando la mafia trovò l’America. Storia di un intreccio intercontinentale, 2008).
In un simile quadro si spiega la forte presa egemonica dell’immagine del ‘liberatore amico’, che è quella che meglio rinsalda una società attraversata da molteplici fratture, scaricando attese e speranze sugli ex nemici, divenuti ‘soccorritori fraterni’. Resta comunque una certa distonia, che si lega alla tradizionale paura femminile verso i comportamenti dei maschi vincitori. «Noi, le donne, ci nascondevamo sugli alberi per non farci vedere, perché comunque si trattava di “uomini” e noi con i mariti lontani dovevamo stare attente […] si trattava di uomini e a noi avevano detto che in certi posti avevano violentato le donne […] sempre soldati erano, che ne potevamo sapere, che cosa ci potevano fare», racconta Giuseppa Catanzaro di Ribera (S. Stabile, La memoria della seconda guerra mondiale, cit., p. 136).
Sono però soprattutto i soldati di colore, nella memoria popolare, a rappresentare il lato oscuro del vincitore, la minaccia di violenza e saccheggio tradizionalmente legata alla conquista militare. «Ricordo poi lo stato d’apprensione – dice Settimio Biondi di Agrigento – che accompagnava la possibilità di imbattersi in soldati di colore, avevano elmetti bianchi che mettevano maggiormente in risalto il colore scuro della pelle e lunghi bastoni anch’essi bianchi che servivano come arma» (C. Zangara, Inventari della memoria, cit., p. 38). Ancora più esplicito il racconto di Francesco Ciffo di Caltagirone, che accusa i soldati canadesi e neozelandesi, peraltro inclusi tutti nella categoria dei ‘neri’, di ubriacarsi e uccidere senza motivo per impossessarsi di oggetti anche senza valore (A. Caruso, Caltagirone e gli alleati, 2004, p. 203).
In tali narrazioni i ‘neri’, siano essi americani, maori, indiani e così via, rappresentano l’alterità esotica che fa da polo opposto agli italoamericani, percepiti invece come parte della comunità locale. Su di loro è possibile allora scaricare più facilmente gli atti di vessazione compiuti dall’esercito vincitore. La presenza di un piccolo contingente di truppe coloniali francesi, con il loro carico di violenze reali e immaginarie, complicava ulteriormente il quadro. Nascevano infatti vere e proprie leggende di offese perpetrate dai soldati coloniali e riparate con il sangue dai locali, come nel racconto di Onofrio Sanfilippo:
A Favara alla liberazione succedette un momento di anarchia in cui i soldati di colore si macchiarono di nefandezze e di abusi sulle donne, vendicate da uomini inferociti che li freddarono seduta stante quando li trovarono sul posto. Si diceva fossero stati due o tre casi. Di fatto queste sono soltanto cose che ho sentito raccontare essendo allora ancora ragazzo, storie che rimangono nella memoria collettiva (C. Zangara, cit., p. 79).
Accanto a questa violenza occasionale ed episodica, collegata nella memoria alla parte non ‘civilizzata’, nel senso di non bianca e occidentale, delle truppe alleate, ne emerge un’altra di diverso tenore. Per chi ha subito i bombardamenti, perdendo magari i propri cari, questo resta un trauma non facilmente superabile, e fa affiorare critiche e sentimenti di avversione verso gli esecutori:
«C’era motivo da temere, perché gli aerei non appena notavano persone, bombardavano. Mia sorella Angelica ed io fummo mitragliati mentre prendevamo l’acqua alla fonte», raccontava Francesco Parisi, ricordando, poi l’abitudine alleata a cannoneggiare e bombardare «tutto ciò che era nelle adiacenze delle strade che avrebbero dovuto percorrere nei mesi seguenti». In qualche caso tale pratica diventava motivo di un’accusa diretta, e palesemente critica, di uccidere volontariamente i civili inermi e impreparati (A. Caruso, Caltagirone, cit., p. 202).
Più che costituire una contromemoria antialleata, questi racconti, contenenti critiche più o meno velate alla conduzione della guerra degli angloamericani, restituiscono un’immagine più realistica del conflitto combattuto nell’estate del 1943, ben lontana dallo stereotipo della ‘facile passeggiata’ degli Alleati accolti da una popolazione festante. Del resto anche i rapporti con i vincitori mutarono presto di segno. La decisione angloamericana di tenere in piedi il sistema degli ammassi creato dal fascismo non migliorò la situazione alimentare delle città, aggravando la crisi sociale delle campagne.
Salvatore Baldacchino di Agrigento, sfollato nelle campagne vicine, in data 16 ottobre 1943 commentava il manifesto con il quale si chiedeva ai coltivatori di versare all’ammasso fino a 50 chilogrammi di grano a persona, ricordando le dimostrazioni scoppiate a Raffadali e a Santo Stefano di Quisquina conclusesi con una cinquantina di fermi (Lo sbarco e l’occupazione. 64 anni dopo, 2007, p. 46). Un mese prima si era detto deluso «per la mancanza di tutti i generi, compreso il grano» e delle medicine, auspicando «che il caos abbia a finire subito, e che l’ordine e la tranquillità siano ripristinati» (p. 43).
Il fenomeno del mercato nero stava infatti dilagando, approfittando dell’ulteriore indebolimento dei pubblici poteri. Ne scaturì una forte delusione verso gli Alleati. Da qui, da un lato il diffondersi di recriminazioni verso gli angloamericani da parte della popolazione, la quale si era lasciata «troppo entusiasmare dalla magnanimità degli Alleati e credette che fosse venuta la tanta sospirata età dell’oro», e d’all’altro il dilatarsi di forme di illegalismo di massa, destinate talvolta a trasformarsi in circuiti criminali (p. 47).
È questo il caso del bandito più famoso dell’isola, Salvatore Giuliano, che iniziò come semplice ‘intrallazzatore’, dandosi poi alla macchia dopo l’uccisione di un carabiniere in seguito a un tentativo di fermo. Nella ricostruzione del salto criminale di Giuliano da parte dell’entourage del bandito di Montelepre, suo paese natio, si sottolineano due elementi: la larghissima diffusione della pratica del contrabbando e la convinzione che questo fosse tollerato quando gestito dai grandi proprietari terrieri e, invece, represso se praticato dal piccolo contrabbandiere. Ha raccontato Giuseppe Di Noto:
Nel periodo della guerra ci fu l’obbligo che chi produceva frumento lo doveva denunziare quanto ne faceva, perché davano la tessera per l’alimentazione al Comune, e quindi il grano diventò una cosa pregiata, superiore a tutte le cose […]. Praticamente a quel tempo i signorotti che amministravano il Comune erano un pochettino la categoria più dominante perché non ci mancava niente, perché attraverso il Comune c’era la fornitura del grano che con le bollette di accompagnamento andavano a comprare questo grano in questi paesi interni e lo consegnavano al comune e quindi da lì partiva l’imbroglio, perché con un buono […] trovavano buona parte di grano che non era stato denunziato e quindi ci veniva facile, con un buono per un viaggio facevano due viaggi, trasportando quello legale e non, e poi se lo spartevano […] ecco che Giuliano si trovava in quel contesto […] come Giuliano c’è n’erano tanti, tanti con l’asino, con il mulo, il cavallo, la bicicletta, che andavano a cercare questo frumento […] e quindi […] i signori con i camion caricati con il buono del Comune viaggiavano tranquillamente, invece il povero pe’ vinti, trenta chili di frumento si denunziava, quando le forze dell’ordine lo incontravano dovevano verbalizzare, sequestrarci il frumento come ci capitò a Giuliano […] che era un ragazzetto così vivo che sapeva del più e del meno l’andazzo del paese, praticamente c’è venuta una rabbia di dire “i grossi sono protetti dai documenti e i poveracci […] dobbiamo pagare il conto”, e quindi ci è nata una rabbia (M.G. Motisi, Il Banditismo e il separatismo nella Sicilia del dopoguerra. Salvatore Giuliano tra mito e storia, tesi di laurea, Facoltà di Scienze politiche, Università di Palermo, 2009-10, pp. 166-67).
Si è dinanzi, chiaramente, a una memoria ‘giustificatrice’, ma la sottolineatura della generalizzazione del contrabbando anche per mano di contadini poveri, coglieva un dato reale, figlio delle forti tensioni che attraversarono le campagne siciliane in tema di ammassi. Il caso di Giuliano è infatti solo il più noto, per via delle sue successive scelte stragistiche in senso mafioso e anticontadino, in un quadro dominato dal dilagare del banditismo. Rabito, nelle sue memorie, ricordando l’arrivo di banditi a cavallo nella masseria vicino Chiaromonte in cui era tornato a lavorare, descrive una scena da Far West, con uomini a cavallo armati di pistole e fucili, venuti a minacciarlo e a richiedere un pagamento in denaro per non ostacolare gli ‘intrallazzi’ con il grano del proprietario che lo aveva assunto (Terra matta, 2007, pp. 299-300).
L’intreccio tra crollo delle forze dell’ordine, crescita del mercato nero e sviluppo del banditismo ha disegnato dunque una situazione di grande disagio, in cui l’idea di partenza angloamericana di una Sicilia in grado di essere autosufficiente dal punto di vista alimentare dovrà alla fine essere accantonata. Lo stesso ritorno della sovranità italiana, sia pure sotto la supervisione alleata, assunse in primo luogo la forma odiosa delle cartoline precetto inviate alla fine del 1944 ai giovani dai venti ai trent’anni. Il timore di essere impegnati a fianco degli Alleati contro i tedeschi nel Nord d’Italia portò a numerose manifestazioni di proteste in tutta l’isola, che culminarono in vere e proprie sollevazioni popolari nell’area sud-orientale, e in particolare nel ragusano, dove il capoluogo di provincia e altri centri limitrofi furono ripresi dai militari italiani nel gennaio del 1945 con decine di morti e feriti e centinaia di arresti.
Rabito, a distanza di anni, rievocando il movimento dei ‘non si parte’, guidato appunto da quanti scelsero di rifiutare il richiamo alle armi, ricordava che:
c’erino tante stodente e tanta acente che non volevano fare li partecipante e non volevano partere, e poi nei mure ci scrivevano: “non si parte per soldato, che, la guerra, gli italiani, l’avevino perso, e quinte non voliammo compatere contra i nostre fratelle”. Tutte i paese erino in revoltta. Ficoriamoce che casa del diavolo che c’era in tutte i paese! Che il coverno Batoglio chiamava soldate per combattere fratelle contro fratelle! E quinte, i soldate siceleane non ni volevino sentire più di combattere e a tutte queste che pezavino manifeste la polizia li prenteva e li metteva in calera. E poi, tutte queste isticatore hanno dato fuoco a tutte le esatorieie allo scopo che, brucianto li carte delle esattoriei, si credeva, il popolo stubito, che tasse più non zi ne pagavino e certe monecipie forino bruciate (V. Rabito, Terra matta, cit., p. 295).
Come si può intuire dalla rapida descrizione, il richiamo alle armi fece da detonatore di una più generale situazione di disagio, che vedeva oramai evaporate le speranze legate all’arrivo degli angloamericani e il fragile governo badogliano richiedere da subito un inaccettabile (dopo la disgregazione statale seguita all’8 settembre) tributo di sangue ai suoi concittadini ‘liberati’. Nelle proteste non mancò certamente una componente legata al separatismo e/o ai vecchi ambienti fascisti, come denunciò con enfasi la stampa socialcomunista, ma le ragioni sociali che stavano dietro lo scoppio delle proteste erano reali, e apparivano anche il frutto di ritardi ed errori commessi nella gestione del dopo Liberazione.
Maria Occhipinti, una delle protagoniste della rivolta di Ragusa, ha scritto:
al di sopra di ogni speculazione di fascisti e separatisti, la ribellione dei giovani contro la chiamata alle armi era spontanea e sincera [...]. La Sicilia si era arresa perché stanca della guerra e del fascismo […]. La guerra aveva aperto gli occhi alla gente. I contadini avevano subito l’ingiustizia dell’ammasso obbligatorio, avevano visto entrare i camion del signor Tizio e del signor Caio, le riverenze e gli inchini ai grandi proprietari e l’umiliazione delle loro donne alle quali era stato strappato il sacchettino di grano raccolto spiga per spiga dopo la mietitura […]. Non si poteva dunque richiedere, ancora, sacrifici ed entusiasmo a cittadini per i quali la patria non aveva mai avuto alcuna considerazione e rispetto. Cos’è la patria per i contadini del Sud? (Occhipinti 1976, pp. 93-94).
Certo non era più accettabile che significasse soltanto morte, distruzione e povertà, dovendo, dopo il dramma del secondo conflitto mondiale, ribaltarsi il rapporto tra governati e governanti, con questi ultimi chiamati a occuparsi del benessere dei primi. Il complesso e magmatico ribollire della Sicilia nel lungo secondo dopoguerra andrebbe letto, forse, come richiesta non sempre lineare e chiara, di questo capovolgimento, e reinserito quindi nella più generale storia nazionale del periodo. È quanto ha fatto Rosario Mangiameli per il 1943, partendo dalla memoria delle stragi compiute dagli americani e dai tedeschi. Le gravi violazioni commesse dall’esercito americano, fucilando prigionieri italiani appena arresisi (aeroporto di Biscari), assassinando piccoli gerarchi locali (Acate), oppure uccidendo civili trovatisi involontariamente sulla linea del fronte (Piano Stella) si confermano, come si evince dall’attenta ricostruzione di Mangiameli (2012), legate, nei tempi e nei luoghi, alle dinamiche dello scontro militare.
Come accertato anche dai processi che si tennero per alcuni di questi episodi, gli americani temevano un’accanita resistenza italiana. Adottarono perciò misure molto dure, e questo indusse in alcuni casi soldati e ufficiali a stelle e strisce a palesi violazioni del diritto di guerra. Queste situazioni si verificarono a ridosso dello sbarco o nei giorni immediatamente successivi, in momenti quindi di grande stress emotivo e di difficoltà militare per i soldati yankee. Altri episodi rimandano invece alla difficoltà di gestire l’ordine pubblico da parte degli Alleati, che in realtà erano usciti profondamente sconvolti dal passaggio del fronte, durato soltanto quaranta giorni, ma terribilmente devastante, anticipazione di scenari destinati a ripetersi in altre regioni della penisola (pp. 144-59).
Analogo contributo ha fornito l’attento lavoro di ricostruzione delle stragi naziste nella Sicilia, con la segnalazione di 65 episodi di violenza, con 133 vittime, di cui 49 rimaste uccise da truppe della Wehrmacht. Le dinamiche che innescano le stragi da parte di reparti tedeschi sono assai simili a quelle dell’Italia meridionale; dalle requisizioni di bestiame e/o animali da soma da parte dei tedeschi ai furti compiuti dai civili italiani a danno dei soldati in località interessate dai combattimenti, e quindi sottoposte a pesanti bombardamenti, al centro dello scontro tra civili siciliani e truppe germaniche vi è la contesa per le scarse e insufficienti risorse alimentari (pp. 159-64).
Sciascia, occupatosi in più riprese della vicenda più nota, quella di Castiglione, dove secondo alcuni a far scattare la reazione tedesca fu il furto di un camion di viveri da parte dei locali, coglieva un dato cruciale, ponendo il tema della ‘roba’ al centro del conflitto, ma non ne valutava correttamente il senso. Allo scrittore siciliano quel richiamo serviva a dimostrare il carattere spurio di quelle prime forme di resistenza al tedesco, rispetto al ‘vero’ movimento partigiano dell’Italia del Nord costruitosi sulla base, a suo avviso, di una più chiara motivazione politica (L. Sciascia, I paesi dell’Etna, in id., Cruciverba, 1983, p. 285). Si trattava di un errore prospettico che finiva per cancellare la reale esperienza di contrapposizione ai tedeschi, realizzata da una parte della popolazione meridionale, favorendo una lettura del passaggio della guerra tutta incentrata sul tema della passività e della continuità all’interno della società meridionale. Come dimostrato da Mangiameli, la vicenda siciliana di scontri tra gli abitanti dell’isola e i soldati tedeschi anticipò dinamiche e comportamenti destinati a ripetersi nel corso della ritirata dall’Italia meridionale, ma anche nel Settentrione dove le prime forme di resistenza armata ai tedeschi si svilupparono inizialmente su base locale, seguendo logiche comunitarie. Anche per questa incapacità di leggere il protagonismo, che pure ci fu, la memoria predominante del passaggio della guerra in Sicilia rimane legata al momento dello sbarco e dell’incontro con gli Alleati.
Se in Sicilia lo sbarco si trova al centro del discorso pubblico, nel resto del Mezzogiorno, e a Napoli in particolare, la memoria del conflitto si concentra non sull’arrivo degli Alleati, ma sulla loro permanenza.
A dominare l’immaginario pubblico è la lunga presenza angloamericana nella città partenopea. In questa memoria della guerra la nota prevalente non è tanto la ‘liberazione festosa’, ma la difficile situazione materiale della popolazione civile, a cui neppure gli Alleati riuscirono a fornire risposte efficaci. Al centro delle rappresentazioni si pone allora il complesso e difficile rapporto tra vinti e vincitori, recuperando l’asimmetria di questo rapporto cancellata dall’immagine degli incontri felici tra liberati e liberatori. Si tratta di un dato che si staglia prepotentemente nell’immaginario nazionale già nell’immediato dopoguerra. Il giovanissimo Pasquale, lo scugnizzo protagonista dell’episodio dedicato a Napoli e raccontato da Roberto Rossellini nel film Paisà (1946), il quale ruba le scarpe a Joe, il soldato di colore della polizia americana ubriacatosi, appare l’esempio paradigmatico della complessità delle relazioni affermatesi tra italiani e militari alleati dopo la Liberazione. L’auspicata fine dell’indigenza non c’è stata; anzi l’Italia distrutta dalla guerra è sempre più dominata dalla povertà e dalla fame. In tale quadro del Paese sotto l’amministrazione alleata, i civili italiani, e le popolazioni meridionali in particolare, sopravvivono solo grazie a un umiliante rapporto di dipendenza materiale con i vincitori. Il tema della ricchezza materiale degli Alleati ritorna allora prepotentemente nella memoria pubblica, legandosi però indissolubilmente ai traffici illeciti, alla prostituzione o, anche, all’accompagnamento ad americani e inglesi al fine di procurarsi cibo e vestiti.
È la Napoli raccontata da Norman Lewis (1908-2003), il quale prima dell’ingresso in città delle truppe alleate, in una nota del 4 ottobre 1943, commentava che la «realtà aveva tradito il sogno», descrivendo facce «comuni, pulite e perbene di massaie, di popolane che vedi in giro a spettegolare o a fare la spesa» spinte «dalle dispense vuote» a prostituirsi con i soldati americani (Napoli ’44, 1993, pp. 30-31). A quasi un anno dall’ingresso alleato, la situazione della città rimaneva estremamente critica, secondo le autorità pubbliche. Si denunciavano soprattutto l’illegalità e la corruzione dilagante tra le classi più umili. Il prefetto di Napoli segnalava che:
[il] ceto popolare, costituito delle classi tradizionalmente meno abbienti, gode attualmente specie nel capoluogo e nei centri maggiori della provincia, di un fittizio benessere, conseguente alla presenza di importanti contingenti di militari alleati, che con larghe disponibilità finanziarie danno vita ad una infinità di piccoli commerci, di prestazioni, il più delle volte illecite ed immorali. [Definiva] inoltre preoccupante il fenomeno della prostituzione, che ha assunto proporzioni forse mai raggiunte, cui segue il dilagare di malattie veneree, specie fra donne minorenni. La impossibilità di procurarsi un onesto lavoro, tale da garantire almeno il soddisfacimento dei più elementari bisogni, spinge sempre più gli appartenenti al ceto popolare sulla via della disonestà, della corruzione e dei facili lucri, incrementando la triste categoria dei lenoni, degli sfruttatori e dei contrabbandieri (ACS, MI DGPS 44-46, b. 21 f. Napoli. Relazione dei prefetti del 3 sett. 1944).
Sono queste dunque le immagini che dominano la memoria dell’immediato dopoguerra: una città schiacciata dalla fame e controllata dal mercato nero, in cui sono saltate le tradizionali gerarchie sociali e di genere, e dove i ceti popolari e le donne sono divenuti protagonisti del rapporto con gli Alleati, provocando sconcerto e preoccupazioni tra i benpensanti. Persino la linea del colore sembra infrangersi. «Nire comm’ acchè» è infatti il bambino celebrato nella canzone “Tammurriata nera”, scritta proprio nel 1944, e presente anche nel film Ladri di biciclette (1947-1948) di Vittorio De Sica, a conferma del grandissimo successo del brano e, indirettamente, della diffusione del fenomeno.
Si tratta di trasformazioni che aprono contraddizioni enormi nella società italiana. Film, canzoni, inchieste giornalistiche raccontano questa sorta di interregno della legalità fatto di mercato nero, di prepotenze di banditi e disertori, di comportamenti spesso arroganti dei soldati alleati. Si affievolisce fino quasi a scomparire, dinanzi a questi fenomeni, la memoria degli anni di guerra e quella della liberazione dai tedeschi. O meglio l’immagine della Napoli occupata dagli Alleati oscura la memoria del tempo di guerra, privandola di uno spazio pubblico di riconoscimento e permettendone la sopravvivenza soltanto a livello individuale. Indirettamente anche la riflessione storiografica ha favorito questo slittamento. Rispetto al tema dei bombardamenti, gli storici hanno sottolineato la nascita di un sentimento filoalleato nella popolazione italiana.
L’opposizione noi/loro, ha scritto Nicola Gallerano, da parte della popolazione civile, viene progressivamente trasferita «dal nemico dichiarato (gli eserciti alleati) verso altri “nemici” (i tedeschi, in primo luogo), o addirittura verso i nemici interni», e alla «straordinaria equanimità verso i responsabili per così dire meccanici della distruzione e dei lutti» si accompagna «una sempre più accentuata messa in causa dei responsabili ultimi, i tedeschi, i fascisti, Mussolini» (Gallerano 1988, p. 314).
Questo giudizio sulle incursioni aeree, riproposto spesso in maniera meccanica, ha finito per cancellare l’oscillazione tra l’accettazione delle bombe e la recriminazione contro di esse, pur presente nella ‘memoria complessa’ dei bombardamenti.
L’incursione aerea su Napoli del 4 agosto 1943, che fece almeno 342 vittime, è così raccontata da Antonio Amoretti:
Il 4 agosto venne l’allarme, come di solito succedeva spessissimo in questi bombardamenti, prima erano i disturbi, poi i bombardamenti a tappeto e c’era un grosso rifugio antiaereo, ubicato alla Piazza Mario Pagano, il quartiere Stella, proprio di fronte […] l’ingresso era di fronte alla scuola Andrea Angiulli, un grosso edificio, una scuola elementare […]. Il nonno andò all’ingresso principale, perché era più agevole, più spaziosa l’entrata del palazzo, ed ha cominciato a scendere, invece il figlio è entrato dall’altro civico, dove la strada era meno agevole. So’ arrivate le bombe e il nonno c’è rimasto sotto, lo zio si è salvato […]. È bene precisare questo: che il 4 agosto non fu colpito solo l’edificio 14 di via Mario Pagano, ma fu colpito anche l’edificio di via Arena alla Sanità […]. Nella scuola Angiulli venivano portati i corpi man mano che venivano estratti dalle macerie, delle vittime anche del civico 14, che era un rifugio importantissimo perché abbracciava tutta la zona della Stella: salita Stella, via Mario Pagano, piazza Cavour, via Arena alla Sanità, piazza dei Vergini, perché era ritenuto un rifugio abbastanza sicuro, perché andava parecchio sotto le viscere della terra, si scendeva di molti metri […]. Allora ci sono stati centinaia di morti, non decine di morti, centinaia e centinaia di morti solo in quel posto, non so come i giornali dell’epoca […]. Il palazzo di don Federico è crollato, poi di fronte a questo c’era il bar Runino allora […], questo palazzo dove c’era la torrefazione Rubino fu bombardato, nella zona ci furono anche altri palazzi […]. Questa fu una giornata terribile perché non ci fu una strada di Napoli che non fosse colpita dalla bomba (Gribaudi 2005, pp. 149-51).
Dinanzi a simili distruzioni i liberatori non apparvero più tali, come spiegava Patrizio Mazzone di Ceppaloni, in Campania, paese bombardato più volte dagli Alleati nei primi giorni del settembre 1943 (p. 326). I pesanti bombardamenti che si abbatterono sulle città meridionali, dalla Puglia alla Campania, passando per la Calabria, anticipando o accompagnando lo sbarco alleato del 9 settembre 1943 a Salerno, ingenerarono nella popolazione una convinzione destinata a radicarsi nella memoria popolare, almeno a livello individuale. Gli Alleati venivano accusati infatti di distruggere tutto quello che si trovavano di fronte prima di avanzare (civili compresi) al fine di preservare i loro uomini, senza farsi problema con gli abitanti, come raccontava Antonio Feo di Benevento (pp. 400-401).
Si tratta di una semplificazione, ma la cui diffusione segnala l’esistenza di un atteggiamento estremo, critico verso le tattiche militari angloamericane da parte della popolazione locale, rimosso poi dal discorso pubblico. Quella delle violenze aeree alleate non è l’unica memoria affievolitasi. Il Mezzogiorno ha conosciuto una seconda grande rimozione collettiva, quella degli eccidi perpetrati dell’esercito tedesco. Le politiche della memoria di molte amministrazioni locali hanno glissato sulle forme di opposizione praticate dagli abitanti nei confronti dei tedeschi, e la stessa sinistra socialcomunista ha scelto quale suo evento fondativo non la lotta della Resistenza ma la stagione del movimento contadino, nella convinzione che il Sud non avesse conosciuto forme di opposizione ‘resistenziale’ (L. Masella, Antifascismo e anticomunismo nel Mezzogiorno, «Italia contemporanea», 2002, 228, pp. 498-99).
È quanto è accaduto con un intellettuale del valore di Sciascia che, pur tornando più volte sulla vicenda di Castiglione, lo ha sempre considerato frutto di un atteggiamento impolitico, quando non conservatore, degli abitanti del paese, invece che un evento da incorporare all’interno della genesi del movimento partigiano.
È un dato particolarmente importante, tanto più se si considera che la ritirata dell’esercito tedesco dall’Italia meridionale fu costellata da una lunga serie di stragi contro i civili. Tra il settembre e il dicembre del 1943, prima dell’assestarsi della Linea Gustav, tra Cassino e Ortona, i reparti della Wehrmacht si resero responsabili di numerosi eccidi che coinvolsero civili e militari, specie soldati sbandati, nonostante l’assenza di un movimento armato di resistenza, che potesse ‘giustificare’ simili comportamenti. Ai dati della Sicilia, bisogna aggiungere le ‘rappresaglie’ tedesche verificatesi in cinque località della provincia di Bari, per un totale di 63 vittime. Nel foggiano i centri coinvolti dallo stragismo germanico furono undici, con 71 morti, mentre in provincia di Taranto si verificò l’eccidio di 25 civili, tra cui 7 bambini. Anche due centri della Basilicata furono toccati dallo ‘stragismo’ tedesco, con il massacro di 37 persone (P. Pezzino, Guerra ai civili. Le stragi tra storia e memoria, «Passato e presente», 2003, 58, p. 120).
Come si evince dalla tragicità di tali numeri, la violenza nazista toccò le principali regioni meridionali. Ciò accadde nonostante il riuscito sbarco angloamericano a Salerno, nei primi giorni del settembre 1943, che costrinse i tedeschi a ritirarsi assai rapidamente dall’Italia meridionale, attestandosi in Campania, dove si è concentrato il maggior numero di episodi stragisti compiuti al Sud. Nella regione collocata tra il litorale salernitano e il fiume Garigliano, la conquista militare si combinò con la strategia della ‘terra bruciata’ (che aveva lo scopo di non lasciare risorse e mezzi in mano nemica) e con la necessità di sfruttare la popolazione, costringendola con la forza a costruire sistemi di difesa, linee di fortificazioni e trincee. In questo quadro la ‘resistenza’ degli abitanti, che evitavano lo sfollamento nella speranza di un rapido passaggio del fronte, ma evitavano anche il lavoro coatto, e cercavano di salvaguardare le scarse risorse alimentari a disposizione, apparve ai tedeschi il prodromo di una possibile opposizione armata e politicamente motivata, in realtà assente in questa fase. Si sviluppò così verso i civili un crescendo di violenze sempre più drammatico: dai saccheggi e dalle razzie di uomini si giunse, praticamente in contemporanea, ai massacri e alle stragi indiscriminate. Il lavoro di ricerca sulle stragi naziste in Campania – coordinato da Gabriella Gribaudi e pubblicato nel 2005 –, che ha interessato tutte le province della regione, ha calcolato le vittime delle ‘rappresaglie’ della Wehrmacht in circa 1600 caduti, di cui 507 uccisi in stragi, e 470 in episodi sparsi, con 663 morti nella sola città di Napoli, segnalando la forte sottovalutazione di questi fenomeni compiuta dalla storiografia precedente. Un numero così elevato di vittime civili nel territorio campano fu la diretta conseguenza della scelta tedesca di condurre una politica di occupazione durissima, limitando la possibilità della popolazione locale di servirsi delle risorse di cui disponeva. Requisizioni e rastrellamenti, accompagnati dall’uccisione di quanti tra gli abitanti cercavano di opporsi a tali pratiche, finirono per creare un continuo contenzioso tra l’occupante tedesco e la popolazione. Come documentato dalla ricerca, sono le razzie di uomini a provocare la rivolta dei napoletani negli ultimi giorni del settembre 1943. «Il motivo principale per cui il popolo napoletano si è ribellato ai tedeschi è stato quello che i tedeschi razziavano i giovani, deportavano, è stato un senso di difesa ed è stato un movimento spontaneo di popolo» confermava Antonio Amoretti (Gribaudi 2005, p. 193).
Anche Filippo Caracciolo, tornato a Napoli nei giorni precedenti la rivolta, ricordava nel suo diario che a spingere la popolazione alla lotta era stato il «risentimento per la caccia all’uomo posta in atto delle Autorità di occupazione per rifornire i contingenti del loro esercito del lavoro». Il futuro dirigente del Partito d’azione spiegava: «Volendo sfuggire alle retate sempre insistenti, migliaia di uomini si sono nascosti nelle soffitte delle case, sui tetti, nelle fogne, nei cunicoli, nei resti delle antiche fosse granarie che formano l’intrico inesplorabile della Napoli sotterranea». Scriveva Caracciolo che alla notizia dei primi scontri una «frotta di giovani armati di vecchi moschetti “91” e di pistole varie» era poi scesa in strada e già il 29 settembre il quartiere in cui si trovava era «nelle mani di armati che ostentano varia e fantasiosa attrezzatura militare. Sono quasi tutti giovanotti e ragazzi che imbracciano ed impugnano moschetti, fucili, vecchie doppiette da caccia e pistole di ogni genere. La maggioranza deve accontentarsi di randelli ed armi bianche» (Diario di Napoli, 1992, pp. 59-61).
La rivolta antitedesca ha quindi una forte identità territoriale, di quartiere, e si lega a fenomeni di solidarietà comunitaria. Ribadiva Anna Lobascio: «Pigliavano così. Ma i giovani andavano scappando tutt’intorno, andavano scappando, ma prima che si rivoltassero le quattro giornate […]. Fu una scintilla, fu una cosa per tutto il quartiere, una rivoluzione, scendevano tutti quanti con le bombe a mano, con le pistole» (Gribaudi 2005, p. 217).
A lungo identificate con la sollevazione degli scugnizzi, le ‘Quattro giornate’ hanno visto invece combattere bande di quartiere che ne rispecchiavano le stratificazioni sociali. Furono coinvolti vecchi noti antifascisti, giovani ragazzi di strada, ma anche un variegato mondo di artigiani, piccoli commercianti, lavoratori manuali, e persino dipendenti pubblici, soldati e donne. Una rivolta popolare, generalizzata, scatenatasi per resistere alle razzie e violenze dei tedeschi, contro i quali fu combattuta una dura battaglia, lasciando sul terreno circa 600 morti nei diversi giorni di scontri (pp. 233-34).
Qualcosa di molto simile – ha scritto Gribaudi – accadde anche ad Acerra. Nella cittadina in provincia di Napoli, il contenzioso della popolazione con i soldati del Reich andò avanti per tutto il mese di settembre: prima (pare) per alcune violenze sessuali, poi per il sequestro di automobili e mezzi di trasporto, e ancora per della legna stipata in alcuni vagoni ferroviari, (scontro che portò all’uccisione di una giovanissima ragazza per mano di un militare germanico) e, infine, per la politica di rastrellamento dei giovani del luogo. Questi allora si unirono per fare fronte comune contro le pratiche repressive adottate dalla Wehrmacht. Ferdinando Goglia, che all’epoca era un giovane che cercava di sottrarsi alle retate dei soldati nazisti, reccontava:
Visto e considerato che sti nazifascisti che stavano ad Acerra spadroneggiavano dopo l’armistizio, jeveno requisendo macchine, jeveno accidendo gente […]. Visto e considerato, io, approfittando di avere molti amici, aggio accominciato a dicere: sentite, perché non ci riuniamo e vediamo di fare una resistenza contro i tedeschi? E io sono del ’20 […]. E approfittammo della riunione: e vidimo che dobbiamo fare. Noi ci dobbiamo difendere. Ma nuie ce vulevame difendere nuje personalmente […]. Ca poi succedette che avettem’a fa a guerriglia (“Città distrutta, abitanti sterminati”: Acerra, 2 ottobre 1943, in Terra bruciata, 2003, pp. 233-34).
Come si è visto, le bande ‘partigiane’ nascevano su base locale, e amicale, rispondendo al bisogno dei ragazzi del posto di contrapporsi alle sopraffazioni tedesche. Progressivamente l’azione, da mera difesa individuale, diventava collettiva e cercava anche di supportare la popolazione, per es. contro le deportazioni in Germania, attaccando i camion della Wehrmacht. Si tratta di dinamiche che evocano la genesi delle prime formazioni resistenziali anche nelle regioni settentrionali (S. Peli, La Resistenza difficile, 1999, pp. 38-39). I tedeschi, comunque, reagirono duramente: il 1° ottobre entrarono in città e incendiarono tutti i palazzi più importanti, mentre i maschi del luogo venivano rastrellati e deportati verso il Nord. Dinanzi a tali comportamenti, l’indomani, al ritorno delle truppe germaniche, la popolazione insorse, erigendo barricate contro i carri armati tedeschi penetrati nell’abitato e attaccando i militari che in risposta uccisero 88 persone, tra cui donne e bambini (Terra bruciata, 2003, pp. 231-50).
Nel Mezzogiorno vi sono dunque diverse realtà, da Napoli ad Acerra (ma anche altre città come Lanciano in Abruzzo), che hanno conosciuto questa resistenza spontanea e popolare, nata non tanto per una convinta adesione all’antifascismo, inteso come ideologia politica, quanto per una assai più concreta necessità di salvaguardare le basi stesse della propria esistenza materiale, di fatto messa in discussione costantemente dall’occupazione tedesca. Questa ‘resistenza’ tuttavia non è riuscita a trovare uno spazio pubblico nella memoria. I suoi promotori non rientravano nell’immagine del partigiano ideologicamente motivato e incorporato in bande politicizzate legate alle formazioni politiche del Comitato di liberazione nazionale (CLN). In realtà, questa narrazione del movimento partigiano del Nord è figlia della formalizzazione successiva di un processo più fluido nel suo formarsi, simile per molti aspetti, nella sua fase iniziale, ai fenomeni di resistenza spontanea che si verificarono nel Mezzogiorno.
Fuori dai codici del patriottismo militare, ma anche del partigianato politico, la ‘resistenza’ meridionale, non collegata ai partiti antifascisti protagonisti della vita politica nazionale, ha finito per essere occultata dentro le stesse comunità locali. L’egemonia moderata, quando non conservatrice, che ha caratterizzato il quadro politico e amministrativo meridionale negli anni Cinquanta, ha prodotto una memoria aconflittuale del passaggio della guerra, rappresentando i giovani che si erano armati per opporsi ai tedeschi come degli esagitati pericolosi, il cui attivismo aveva avuto il torto di attirare le rappresaglie naziste sulla popolazione inerme. Accanto a questa prima lettura, in parallelo, se ne è sviluppata una seconda, tutta tesa a ‘depotenziare’ il valore politico e militare di quelle forme di opposizione ai tedeschi, sfociate in taluni casi in vere e proprie insurrezioni capaci di liberare le città prima dell’arrivo degli Alleati. Non riconducibili alle élites tradizionali, né al ceto politico che si sarebbe affermato con i partiti di massa, le rivolte popolari antitedesche del Mezzogiorno sono state rappresentate come effervescenze ribellistiche, irrilevanti militarmente e opera dei ‘marginali’ della città. Cose da ‘scugnizzi’ appunto, da bambini di strada, magari pericolose, ma politicamente insignificanti, risultati della tradizionale propensione anarcoide alla rivolta delle plebi meridionali. Si tratta di un discorso che si sviluppa negli ambienti moderati, ma trova consenso anche a sinistra, nelle forze che si richiamano alla tradizione marxista e alla sua impostazione classista, diventando presto egemone, anche in ambienti critici verso quelle due diverse tradizioni politico-culturali. Il “Canto allo scugnizzo”, che il gruppo musicale napoletano Musicanova ha dedicato, nel 1978, alle ‘Quattro giornate’, celebra i giovanissimi che, spinti dalla fame – dice il testo –, combattono i tedeschi morendo per liberare la loro città, tanto da apparire dei novelli Masaniello alle forze dell’ordine, riproponendo l’immagine anarchica della rivolta spontanea dei ragazzini di strada spinti meramente dal bisogno. Rinchiuse dentro questo cliché, le rivolte antitedesche del Mezzogiorno non si fanno memoria pubblica e appaiono inadeguate rispetto al canone resistenziale, modellato sulle bande partigiane del Nord, e il loro legame con i partiti politici antifascisti. Della guerra nel Meridione restano così nell’immaginario collettivo soltanto le accoglienze festose ai soldati angloamericani e poi la rappresentazione dolorosa dell’occupazione alleata.
Rispetto al resto del Mezzogiorno, le regioni centromeridionali, Lazio, Abruzzo e Molise, hanno conosciuto una loro specifica esperienza della guerra totale. Il fronte si stabilizzò in queste aeree e gli eserciti si affrontarono per un lungo periodo, dal dicembre 1943 fino alla metà del maggio 1944, data di sfondamento della Linea Gustav.
La guerra vissuta da questa parte del Mezzogiorno coinvolse quindi completamente gli abitanti e il loro territorio: lungo la linea Gaeta-Cassino-Ortona lo spazio geografico e umano si trasformò in una gigantesca ‘terra bruciata’, dove «migliaia sono i civili morti sotto i bombardamenti e numerosissimi quelli uccisi per rappresaglia dai nazisti, senza considerare gli innumerevoli feriti e le masse di sfollati» (Felice 1994, p. 253), mentre le bombe e le mine sconvolgevano le forme abituali del paesaggio, cancellando strade e ponti, e riducendo a cumuli di macerie interi paesi. In questo quadro si inasprì ancor più da parte germanica la contesa con gli abitanti per il controllo delle risorse. I tedeschi finirono allora per mostrare, come ha scritto Costantino Felice ricostruendo il passaggio del fronte in Abruzzo e in Molise, una «particolare ferocia usata nei continui rastrellamenti di uomini e bestiame» e «nelle interminabili e odiose razzie di viveri ed altri generi» (p. 253).
Proprio la necessità di eludere tali pratiche ha costituito il tratto unificante dell’esperienza bellica vissuta dalla popolazione a sud della Linea Gustav, e da quella collocata invece a nord dello stesso tracciato difensivo. Nella zona dell’alto Volturno, tra i fiumi Biferno e Trigno, uno dei primi eccidi compiuti dai nazisti nell’ottobre del 1943 scaturì dall’opposizione di un militare italiano sbandato a una razzia di bestiame da parte di soldati tedeschi. Ucciso dallo scoppio di una bomba a mano uno dei razziatori, i militari germanici fermarono sedici persone nei comuni di Castello e Fornelli, tra cui il podestà. Processati ad Alfadena, sei dei fermati vennero uccisi e lasciati volutamente insepolti per due settimane, con lo scopo di terrorizzare i locali (G. Artese, La guerra in Abruzzo e Molise 1943-44, 1° vol., Le battaglie del Biferno, del Trigno e dell’Alto Volturno: l’avanzata dell’8a armata fino al fiume Sangro, 1993, pp. 143-44).
Si è quindi dinanzi a una ‘violenza diffusa’, tradottasi, come già in Campania, in decine di microstragi, in cui uno o più contadini, o più in generale civili sfollati, vengono uccisi per aver resistito al sequestro di una pecora o di una mucca, come accadde in provincia di Frosinone, dove delle complessive 334 vittime dell’esercito tedesco, ben 236 vennero eliminate in occasione di razzie di bestiame o rastrellamenti per catturare renitenti alla leva (T. Baris, Le stragi naziste nella provincia di Frosinone tra storia e memoria, in Terra bruciata, 2003, pp. 311-65).
Il racconto di Giovanna Di Raimo di Castelnuovo Parano, paese vicino al fronte, sottolinea proprio l’aspetto delle razzie: gli abitanti del luogo, costretti a sfollare per i bombardamenti, erano rimasti «senza niente» anche perchè i «tedeschi c’erano preso tutto, c’erano prese le mucche, c’erano prese le pecore, i maiali, tutto [...]. Li ammazzavano e li mangiavano loro» (Voci dal passato. Fascismo, seconda guerra mondiale e ricostruzione nelle testimonianze degli abitanti della Valle dei Santi, a cura di T. Baris, 2009, p. 86).
Benedetto La Valle di Coreno Ausonio ricordava, invece, i continui rastrellamenti di uomini: «Durante il periodo della guerra non si pensava altro che a nascondersi […] e a non fare altro, perché lavorare, non si poteva lavorare, e perché non c’era la possibilità di stare, di mettersi a vista, perché c’era sempre il pericolo che i soldati tedeschi venissero e ci portassero via» (p. 157).
L’atteggiamento di crudeltà dei tedeschi è rimasto scolpito nella memoria individuale. Maria Civita Capraio di Sant’Ambrogio del Garigliano, altro paesino vicino all’omonimo fiume divenuto linea del fronte, raccontava le continue razzie di uomini condotti al fronte per lavori di vario tipo, sottolineando il rischio che correva chi provava a sottrarvisi, come aveva tentato di fare il fratello: «non poteva uscire perché se gli acchippavano gli ammazzavano» (p. 44).
Nella memoria individuale è dunque rimasta impressa la forte propensione degli appartenenti alle forze armate naziste a considerare i civili presenti nelle vicinanze del fronte, e non disposti a collaborare, un fastidioso ‘ostacolo’. Diventano allora, per così dire, più facili da comprendere le motivazioni alla base dei massacri più gravi compiuti lungo la Linea Gustav. Questi hanno una comune caratteristica: sono infatti compiuti da reparti d’élites, spesso provenienti dal fronte orientale e abituati quindi a intervenire contro gruppi di sfollati o popolazioni di piccoli centri abitati, colpevoli di aver disatteso gli ordini di evacuazione emessi precedentemente, uccidendo donne e bambini. Si ritrova tale dinamica nel massacro di Collelungo, frazione di Vallerotonda, in provincia di Frosinone, dove il 28 dicembre del 1943 vennero uccise 42 persone, tra cui 14 bambini e 19 donne, e nel caso del più grande massacro avvenuto nel Mezzogiorno, a Pietransieri, frazione di Roccaraso, in provincia dell’Aquila, dove le vittime della strage del 20 novembre furono 122, tra cui 50 donne e 31 bambini sotto i dieci anni (G. Schreiber, La vendetta tedesca 1943-1945. Le rappresaglie naziste in Italia, 2001, pp. 157-62).
Parallelamente, con la stabilizzazione del fronte e il conseguente ritorno a una sorta di guerra di trincea, sul modello del primo conflitto mondiale, anche i bombardamenti angloamericani si fecero più cruenti e, se possibile, apparvero ancor più indiscriminati. La popolazione si sentì dunque vittima di una gigantesca rappresaglia, in termini numerici nettamente più gravi delle stragi naziste. Solo a Cassino, nel Frusinate, le ripetute incursioni che si susseguirono fino al 15 marzo 1944, giorno della totale distruzione della città, fecero oltre 2000 morti, a cui bisogna aggiungere le oltre 500 persone cadute in occasione della distruzione, avvenuta il 14 febbraio, dell’Abbazia di Montecassino, dove molti abitanti dei paesi vicini si erano rifugiati, sperando nel rispetto della neutralità dell’antico monastero (E. Pistilli, Il martirio di Cassino e di Montecassino, in «Studi Cassinati», 2001, 2, pp. 76-121).
Analoga la situazione in Abruzzo, dove non solo divennero oggetto delle incursioni aeree i centri urbani della regione, sedi di importanti nodi ferroviari, come Pescara, bombardata il 29 agosto e il 14 settembre del 1943, con un numero di vittime oscillante tra 2200 e 3600, ma anche «altre cittadine abruzzesi (Avezzano, Teramo, ecc.)», le quali «pur non rivestendo particolare importanza sul piano strategico e militare vengono fatte bersaglio dell’aviazione inglese e americana» (Felice 1994, p. 254).
Ne conseguiva una totale devastazione del territorio, sconvolto dai bombardamenti alleati, non meno che dalle deliberate distruzioni di infrastrutture praticate dai tedeschi per rafforzare le loro linee di difesa. Ha raccontato Corrado Di Clemente di Sant’Apollinare, rievocando i mesi di guerra: «Ci fu un bombardamento, per esempio, che ad un certo momento la nostra zona sembrava che volevano distruggere tutto» (Voci dal passato, cit., p. 59).
Maria Angela Santa Mallozzi, abitante dello stesso comune, ricordava che:
po cominciereno a venì sempe le cannonate, sempre le cannonate a nui. Poco dopo ce ne imma ire. Prima stavamo renta na casa antica, loco a “Niceso”, allà addo so’ nata io, poi sparette la cannonata annanze alla casa, accirette nu zio e na cugina, la scanette[…] si chiamava Dalia, come era bella, na pienezza de giovane, la scanetta […] da chello poi rente là nun ce putevamo stare chiù […] e ne iemme alle grotte, allà a “Pasticelle” […] e poi vennero chissà quante cannonate pure allà, che sprufundierono le rotte, sprufundierono le grotte, e morirono chissà quanta gente, solamente tririci persone […] e ne iemme a gli “Rutto” […]. Manca là potevamo staà. Venevamo e te recavano, sparavano, sparavano sempre, sempre sempre e la fame ce steva a caccià gli uoccie, la fame (p. 183).
Una simile esperienza della guerra era destinata, alla fine del conflitto armato, a produrre una ‘memoria divisa’ degli eventi bellici, qui non intesa nel senso, ormai divenuto abituale, di una divisione fra memorie separate o antagonistiche di soggetti diversi, ma in quello più drammatico e profondo di un ricordo lacerato nel proprio interno: una doppia coscienza inconciliata dentro ogni individuo, all’interno di ciascun gruppo. Alla ‘terra di nessuno’ creata materialmente dal passaggio degli eserciti segue quella della coscienza, indice della difficoltà della popolazione di riuscire a tenere, negli schemi proposti dalla retorica pubblica delle istituzioni repubblicane, la propria concreta esperienza di guerra.
Tra le esperienze impossibili da accogliere nelle retorica pubblica va annoverata la stessa liberazione del Lazio meridionale, avvenuta nella primavera del 1944 in forme altamente traumatiche, per mano delle truppe del Corpo di spedizione francese. Organizzate in bande di circa settanta uomini, i cosiddetti goums, guidati da ufficiali francesi, le avanguardie del contingente gollista conquistarono, a partire dal 12 maggio, le dorsali montuose degli Ausoni, degli Aurunci e dei Lepini, aprendosi così la via verso Roma. I tedeschi furono costretti a una precipitosa ritirata per evitare il completo accerchiamento. Nel corso della loro vittoriosa avanzata, fermata a Valmontone, a pochi chilometri da Roma, le truppe francesi, composte da soldati algerini, tunisini e marocchini, si resero responsabili di gravi episodi di violenze e soprusi, commettendo furti, rapine, violenze carnali, omicidi, saccheggi. Il trauma psicologico per la popolazione fu molto forte. Dopo aver atteso lungamente l’arrivo degli angloamericani gli abitanti si erano diretti fiduciosi verso i ‘liberatori’, imbattendosi invece nelle truppe coloniali, autorizzate di fatto a considerare i civili e i loro averi come preda di guerra.
Benedetta Piccolino di Ausonia, uno dei primi paesi ‘liberati’, ricordava così quell’evento:
Poi durante sta grande guerra, […] so’ incominciati a venì gli americani, ma non erano americani, erano truppe di colore […], erano neri, gialli, ‘nse sa, co’ gli orecchini al naso […] ma loro erano tutti lunghi, cogli orecchini al naso, alle orecchie, proprio chella gentaglia marocchina […] era brutta allora […]. E allora tutte chelle ragazze che so’ andate su in montagna, proprio in montagna alta à vede e truppe che steano ad arrivà, le hanno violentate, gli marocchini le hanno violentate chelle ragazze, tutte (p. 206).
Il passaggio dei soldati coloniali è rievocato come un momento di estrema violenza: l’aggressività delle truppe nordafricane parve agli abitanti superare di gran lunga la tracotanza dei vincitori verso la popolazione civile. Difficile tracciare un bilancio delle violenze. Tuttavia, considerando l’alto numero dei comuni interessati dal passaggio delle truppe francesi, oltre 40, fino alla liberazione di Roma, e la lunga estensione nel tempo delle violenze sessuali, la cifra di 12.000 donne stuprate – avanzata, dopo un’accurata indagine, dall’Unione donne italiane, l’organizzazione femminile comunista, che nel secondo dopoguerra seguì il problema dell’assistenza alle donne violentate – non appare troppo inverosimile. Le cifre indicate aiutano comunque a farsi un’idea dell’ampiezza delle violenze, e spiegano anche la difficoltà delle popolazioni dell’area a ricordare in termini positivi la ‘liberazione’.
Giovanna Di Raimo ricordava che dicevano tutti: «“ecco gli americani, ecco gli americani” […] e così amo capito che ce stavano a liberà dai tedeschi […] però poi è stato peggio ancora, perché so stati più severi chigli là”» (p. 89).
La delusione porta, nella memoria del Lazio meridionale, a rivalutare in termini positivi la presenza tedesca. La loro violenza appare più controllata e quindi gestibile. È evidente, comunque, che il giudizio positivo sui tedeschi si costruisce attraverso il parallelo con il comportamento tenuto dalle truppe coloniali degli Alleati, in particolare rispetto alle donne.
Raccontava ancora Benedetta Piccolino: «Gli tedeschi, so stati cattivi, come posso dire so’ stati cattivi […] però c’avevano pure ragione perché avevano dettato ‘na legge […] i tedeschi, non c’era pericolo che un tedesco se metteva co ‘na ragazza italiana, perché la legge diceva no […]. Ma invece i marocchini quanno so arrivati hanno fatto piazza pulita» (p. 212).
Analogamente la drammaticità del passaggio delle truppe francesi ha fatto risaltare il buon comportamento dei soldati alleati, e degli americani, in special modo, identificati con coloro che cercarono di difendere, pur senza successo, la popolazione e che, comunque, la sfamarono. «Gli americani pure sono stati bravi […] da sopra il camion gli americani davano cioccolata, biscotti, davano tutto […] gli marocchini so’ stati all’ussi, ma gli americani erano bravi», spiegava Margherita Colici (Voci dal passato, cit., p. 51).
L’aiuto immediato e il successivo sostegno economico hanno consentito, quindi, un recupero in positivo del mito ‘americano’, collegandolo alla Liberazione.
A Roma, la fine dell’occupazione tedesca, lungamente attesa, scatenò la gioia della popolazione. Padre Libero Raganella, parroco del quartiere popolare di San Lorenzo, ha scritto:
di gente impazzita dalla gioia, come se fosse la più grande festa popolare mai vista e tutti fossero gli attori unici di questa grande manifestazione di giubilo. Le finestre sono abbellite dal tricolore in vari punti della città, le jeep sono prese d’assalto, circondate e bloccate e gli americani come fanciulli ridono beatamente, distribuiscono sigarette, caramelle, cioccolata, gomma da masticare, danno grandi manate a destra e a manca, ne ricevono soddisfatti come segno di grande fratellanza, e quando adocchiano nei pressi della jeep una signorina, una donna, l’abbracciano e la ricolmano di baci tra gli applausi generali. Sembra un carnevale generale o la notte di S. Giovanni, come si svolgeva in altri tempi, ricordi di fanciullezza (Senza sapere da che parte stanno, 2000, p. 280).
Anche nella capitale l’ingresso alleato sembra assicurare la fine della fame. Ricorda ancora il sacerdote:
La carestia, specialmente la fame dell’occupazione tedesca è finita davanti all’abbondanza, senza risparmio che gli americani profondono ovunque […]. I fornai sono riforniti con certa farina bianca americana, siglata doppio zero, che solamente a vederla riscalda la vista. Il pane bianchissimo, soffice, appetitoso, acquistato a volontà senza tessera annonaria, si assapora come un dolce natalizio dei tempi passati, si ritrova il gusto gastronomico, dimenticato, dei bei piatti di spaghetti, saporosi e della minestra fumante. Al mercato le massaie possono di nuovo scegliere e scartare i prodotti, e anche la carne non è più un lusso da invidiare ai borsaneristi (pp. 298-99).
Dietro la ritrovata gioia c’era però anche il ricordo della drammatica occupazione nazista e fascista. «Che sollievo, quale risveglio dall’incubo atroce! Voglia di uscire, vederli, salutarli», scrive Trieste De Amici Algardi, descrivendo le ultime ore della presenza tedesca in città e l’irrefrenabile desiderio di riappropriazione della città in sicurezza, non appena diffusasi la notizia dell’arrivo degli angloamericani (Stellevato, in IRSIFAR 2009, p. 430).
In altre testimonianze, soprattutto in quelle raccolte in alcuni quartieri periferici, si rivendica con orgoglio la capacità di aver anticipato gli stessi liberatori nell’allontanare gli occupanti nazisti. «Perché qui da noi i fascisti e i tedeschi erano stati cacciati un po’ prima dell’arrivo degli Alleati», dice Aldo Venturelli per spiegare, nel corso di un’intervista, la diffusione delle armi dopo la guerra nella zona di Pietralata (Camarda in IRSIFAR 2009, p. 355).
Addirittura, in qualche intervista, si registra una curiosa inversione dei ruoli tra i soldati angloamericani e i partigiani romani, con i secondi elevati al rango di protagonisti principali della liberazione, con una evidente forzatura della realtà.
Angelo Laurenti, rievocando i terribili scontri tra tedeschi e partigiani avvenuti nella zona di Centocelle, raccontava che:
i tedeschi hanno visto le brutte si so’ ritirarti prima che arrivassero gli americani. Quando so’ arrivati gli americani loro avevano già visto con le cicogne […] che i tedeschi si stavano ritirando, però so’ venuti con tutte le cautele possibili e noi li invitavamo: “Paisà”, e questi tranquilli accucciati andavano passo passo (Ficacci, in IRSIFAR 2009, p. 389).
La memoria della guerra dunque anche a Roma è estremamente articolata. L’affanno della città nei primi anni, i bombardamenti alleati su alcuni quartieri, la caduta del fascismo, il plumbeo dominio nazista, le deportazioni razziali, la ramificazione della Resistenza nelle periferie ma anche le sue difficoltà a raggiungere dimensioni di massa, la presenza del Vaticano e la sua politica di contenimento del conflitto, sono stati mirabilmente raccontati da Alessandro Portelli, a partire dalla vicende del massacro delle Fosse ardeatine. Il periodo 1943-44 è stato raccontato attraverso i diari raccolti nell’Archivio diaristico di Pieve di Santo Stefano, confermando le forti differenze tra le memorie, in base al ceto sociale e al quartiere di appartenenza, ma anche, accanto alla fame e alla paura per i rastrellamenti tedeschi, il timore per le incursioni aeree degli Alleati e per il loro comportamento al momento dell’ingresso in città.
Clelia Curti, madre ventitreenne sfollata alla Magliana, il 5 giugno, parlando degli americani, scriveva che:
c’è intorno a loro una ressa generale che chiede cioccolata, caramelle, sigarette con la stessa espressione avida che se stessero chiedendo il pane e non vedono o fingono di non vedere l’espressione di disprezzo che quelli hanno per noi e con quanta ragione. Sembra di stare allo zoo, con la differenza che i visitatori stanno dentro al recinto [gli Alleati] e le bestie fuori [noi] (Stellevato, in IRSIFAR 2009, p. 429).
Sono i primi segnali di un disagio che crescerà nel corso del tempo. Due i motivi di lamentele nei confronti dei vincitori, segnalati da padre Raganella: il ritorno, dopo i primi giorni di festa, di una certa penuria alimentare e il clima di licenziosità creatosi in città. «Ci hanno sorpreso con la loro magnificenza, hanno attirato la nostra simpatia e riconoscenza con una larga e generosa distribuzione di ogni ben di Dio, ma si vede che anche questa era una mossa strategica e psicologica», spiegava il sacerdote, lamentando il ritorno delle ristrettezze e delle carte annonarie, «che tutti credevano abolite per sempre» mentre aumentavano i clienti delle mense ecclesiastiche (L. Raganella, cit., p. 303).
Era però soprattutto il clima (a)morale creatosi in città a preoccupare l’uomo di fede (e i benpensanti). Continuava padre Raganella:
nessuno ha da ridire e tutti concordano sul fatto che gli americani hanno liberato Roma dai fascisti e dai tedeschi […] ma il vedere molte donne, specialmente giovani, fino a ieri riservate e pudibonde, accompagnarsi, sfacciatamente per le strade con i soldati americani bianchi e negri [viene] giudicato dalla maggior parte della gente che assiste senza poter intervenire, non un segno di amicizia o fratellanza, ma una degenerazione deplorevole, una prostituzione indecorosa di una civiltà millenaria […]. È uno spettacolo continuo in tutte le ore del giorno e della notte, in tutte le strade e locali di Roma, e in molte case, anche di famiglie una volta stimate, è un via via incessante di soldati i quali con la cioccolata, con le sigarette, con le scatolette e le am-lire ottengono quanto desiderato [...]. La libertà si è trasformata immediatamente in licenza, avendo molte persone perso l’uso della libertà, non avendola potuta usare per più di vent’anni (pp. 300-301).
Dopo breve tempo, come già la Sicilia e Napoli, anche Roma conobbe il dilagare del mercato nero, la diffusione della prostituzione, dei commerci illegali con i nuovi occupanti, e anche acute forme di banditismo sociale, specie in alcune sue periferie (I. Rossini, Riottosi e ribelli, 2012, pp. 19-71). La capitale del Paese non fu estranea alle dinamiche che il Mezzogiorno aveva già conosciuto nei mesi precedenti e, soprattutto, nonostante spesso si dica il contrario, è stata anch’essa pesantemente coinvolta nel conflitto e nei suoi traumi profondi. Ciò è ben rappresentato in un film del 1945, La vita ricomincia, diretto da Mario Mattoli, tra i cui protagonisti è Alida Valli nei panni di una giovane moglie e madre che riaccoglie il marito chimico, partito per la guerra nel 1940 e rimasto a lungo prigioniero degli inglesi in India, dopo essere rimasta da sola ad accudire il figlio. Ricomposta l’unità della famiglia borghese, quando la normalità sembra riprendere il suo corso, giunge inatteso a riaprire ferite apparentemente chiuse l’arresto della donna, accusata dell’assassinio di un facoltoso personaggio, perpetrato per resistere a un tentativo di violenza dell’uomo, al quale si era concessa durante la guerra per poter salvare il figlio gravemente malato. Chiamato a difendere la moglie dalle accuse processuali, ma soprattutto ad accettare il tradimento subito, il marito sarà aiutato a ‘ricominciare’ da uno strano vicino di casa, professore di filosofia. E proprio questo personaggio, interpretato da Eduardo De Filippo, spiegherà al reduce che «questa guerra non ha risparmiato niente, non ha rispettato niente», smentendo già allora quanti andavano dicendo che «la guerra a Roma è passata senza toccarla» (pp. 9-14).
Anche Roma dunque non si è ‘salvata’, ma anzi è al pari delle altre città – nonostante la sua storia millenaria e la presenza protettiva del papa – interamente coinvolta nelle logiche drammatiche del conflitto mondiale.
La ‘città aperta’ non c’è stata, come raccontava Rossellini nell’omonimo film Roma città aperta (1945), e la guerra aveva direttamente o indirettamente lasciato ferite profonde. Queste ultime tuttavia vennero curate attraverso una sorta di processo di rimozione che, al contrario dell’invito del professore di filosofia a comprendere e quindi capire, comportava un generale occultamento dei traumi in favore del recupero di una memoria ‘pacificata’ e ‘rassicurante’ del conflitto.
Dentro tale tendenza va dunque letta la scelta degli enti locali di agire sul piano della memoria pubblica, riconnettendo la complessa e variegata esperienza della guerra e della liberazione a retoriche sostanzialmente tradizionali e incardinate intorno a valori consolidati. Si prenda in considerazione, per es., l’area del Cassinate. Lì la complessa esperienza della guerra da parte della popolazione civile, fatta di stragi e uccisioni dell’esercito tedesco, ma anche dei bombardamenti alleati e poi delle violenze sessuali delle truppe francesi, veniva tutta ricondotta alla riproposizione di una ‘religione civile’ di tipo patriottico. Alla città di Cassino nel 1949 veniva concessa la medaglia d’oro al valor militare, avendo quel centro abitato rappresentato «per lunghi mesi, tra il 1943 e il 1944 […] il tormentato limite, fatto di sangue e di rovina, della più aspra e lunga lotta combattuta sul suo suolo in nome della libertà e della civiltà contro l’oppressione e la tirannide». «Il suo aspro calvario, il suo lungo martirio, le sue immani rovine» erano elevate «nella passione del popolo per la indipendenza e la libertà della Patria» ad «altare di dolore per il trionfo della giustizia e della millenaria civiltà italica», come recitava il trafiletto Medaglia d’oro al Comune di Cassino («Il Popolo», 31 marzo 1949), dove le vittime civili, involontariamente coinvolte, erano equiparate ai combattimenti, ai soldati regolari mandati invece a combattere.
Il tema del sacrificio delle popolazioni e del loro martirio si presentava dunque come il contesto in cui incasellare sistematicamente l’esperienza della guerra, e a cui facevano ricorso tutte le forze politiche. ‘Martiri’ venivano definiti i 54 civili trucidati dai tedeschi a Bellona, in Campania, in seguito a una rappresaglia. Qui anche il luogo fisico del massacro, consumato in una cavità naturale, favoriva il paragone con le Fosse ardeatine, richiamato dall’onorevole democristiano Giovanni Caso che, scrivendo a Giulio Andreotti (1919-2013) per ottenere finanziamenti per la costruzione di un mausoleo, ricordava al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, il sacrificio «dei nostri fratelli, che hanno perduto la vita per la libertà della nostra Patria né più né meno di quelli delle Fosse Ardeatine e di tanti altri che sono caduti vittime innocenti dei Nazisti» (ACS, Presidenza del Consiglio dei ministri [poi sempre PCM] Gab. 1948-50, 14-6, n. 48.355, f. Bellona (Caserta). Onoranze a 54 cittadini trucidati dai tedeschi. Lettera del senatore Caso al sottosegretario Andreotti del 16 sett. 1949).
Si è dinanzi a un linguaggio di chiara matrice religiosa, che se ha il merito di incontrare il bisogno delle popolazioni locali di ricomprendere nel loro patrimonio valoriale l’esperienza delle grandi tragedie vissute, veniva usato dalle forze politiche per «riportare sotto la categoria della testimonianza anche la violenza e i patimenti subiti, per così dire, oggettivamente» (C. Pavone, Una guerra civile, 1991, p. 478).
Si creava così un modello commemorativo dall’efficacia assai parziale, i cui limiti sono stati evidenziati da numerosi studi, capaci di rimarcare la difficile accettazione della sovrapposizione tra coloro che cercarono primariamente di ‘scansare’ la guerra e quanti invece scelsero consapevolmente di mettere in gioco la propria vita lottando contro fascisti e tedeschi. La commemorazione della Seconda guerra mondiale infatti unifica, ancora una volta, le vittime in nome della ‘morte per la patria’.
Anche nel Mezzogiorno i monumenti dedicati ai caduti non si limitano a equiparare i combattenti dei tanti differenti conflitti, presentandoli tutti ugualmente degni di rispetto, ma inglobano le vittime civili, privandole del loro specifico tratto distintivo. Sul monumento destinato a ricordare le vittime della strage tedesca di Pietransieri, a Roccaraso, accanto ai «122 Innocenti, tra vecchi, donne, e bambine […] trucidati dai tedeschi», il comitato cittadino per le onoranze, spiegava, in una lettera per la Presidenza del Consiglio, di voler apporre i nomi di «tutti gli altri Eroici caduti per ordigni esplosivi, nelle opere di pace o caduti nei deserti africani, nei monti dell’Epiro e nella lande sconfinate delle Russia per operazioni di guerra», ricordando così «degnamente ai posteri quell’ora tragica, sacra alla Storia e al Martirologio Italiano» (ACS, PCM Gab. 1948-50 14-6, n. 67.532 f. Pietransieri (frazione di Roccaraso). Onoranze 122 martiri trucidati dai tedeschi il 21-11-1943. Lettera del Comitato per le onoranze dei 122 martiri alla Presidenza del Consiglio dei ministri del 18 nov. 1949).
I fanti caduti nella Prima guerra mondiale finivano quindi per figurare accanto ai morti provocati dai bombardamenti angloamericani, i civili uccisi dai tedeschi assieme ai soldati italiani morti combattendo accanto ai nazisti nelle guerre di conquista volute dalla dittatura fascista. In taluni casi il risultato finale fu abbastanza paradossale, anche visivamente: a Cassino al vecchio monumento per i caduti della Grande guerra, inaugurato nel 1929 dal fascismo, è stato aggiunto un carro armato americano a simboleggiare la tragedia della drammatica ‘liberazione’ della città, con un evidente cortocircuito intellettuale. Anche le vittime dei bombardamenti venivano quindi, in tal senso, ‘militarizzate’.
Esemplificativa di questa tendenza fu la decisione di celebrare «la solenne commemorazione delle vittime civili di guerra che si ebbero […] a lamentare» a Foggia «per effetto dei bombardamenti aerei» condotti dagli angloamericani «nell’ultimo conflitto», nel 1954, con una «grande parata militare», a cui parteciparono «oltre» ai «reparti di truppa di stanza nel capoluogo» e ad «aliquote dei reparti di P.s. – anche […] truppe di altri presidi militari», alla presenza del ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani (ACS, MI Gab. 1953-56, b. 53, f. Foggia. Cerimonie. Nota del prefetto del 30 sett. 1954).
Dentro tali limiti generali, i sindaci provarono talvolta a recuperare l’esperienza drammatica della guerra vissuta dalla popolazione, come dimostra il carteggio tra la Presidenza del Consiglio e le singole amministrazioni locali. Queste ultime sollecitarono le autorità centrali alla costruzione di monumenti e mausolei, nei quali tuttavia alcuni capisaldi della memoria collettiva dei civili meridionali restarono fuori. Questo avvenne anche quando, a partire dagli anni Sessanta, si riconobbe più esplicitamente la centralità del movimento resistenziale nella nascita della Repubblica e nella conquista della democrazia. Dalla rimozione si passò all’ufficializzazione retorica della Resistenza.
Nell’inaugurazione nel 1964 del Monumento alla mamma ciociara a Castro dei Volsci (nel Frusinate), voluto dalla amministrazione provinciale di centrosinistra, non trovavano spazio, nei discorsi pubblici, né la politica di ‘bombardamento a tappeto’ perseguita dagli angloamericani né, incredibilmente – inaugurando un’opera dedicata al tema degli stupri avvenuti nella provincia – un chiaro riferimento alla responsabilità delle truppe francesi inglobate negli eserciti angloamericani. Al contrario invece le azioni di resistenza ai tedeschi verificatesi nel piccolo paese, come l’opposizione alle requisizioni dei soldati o, addirittura, la difesa armata del proprio bestiame contro le loro razzie, diventavano la conferma della volontà di quella comunità locale di essere «presente intenzionalmente, e col cuore e col sangue, alle lotte per il secondo Risorgimento», partecipando allo scontro ideologico in atto durante il secondo conflitto mondiale (G. Minocci, I Ciociari e la Resistenza, in id., Il sacrificio della mamma ciociara, 1964, pp. 19-29).
Si cercava così di realizzare una sorta di ‘nazionalizzazione antifascista’ delle sofferenze patite dagli abitanti del Mezzogiorno, creando «una memoria storica estremamente selettiva», in cui «le situazioni complesse e ambigue non si inseriscono – o si inseriscono solo difficilmente» (L. Paggi, L’antifascismo e la ricostruzione del consenso democratico in Italia dopo il 1945, in Antifascismi e Resistenze, a cura di F. De Felice, 1997, p. 448, 450). Così finiva per essere esclusa dalla rappresentazione pubblica della Resistenza proprio «quella ampia fascia di popolazione che aveva dovuto scegliersi autonomamente un comportamento di “resistenza civile”, frutto più di un moto di reazione di sentimenti che di consapevolezze ideali». Da qui lo svilupparsi di «un contrasto tra la lettura politica, assai più lineare e spendibile sul confronto tra schieramenti e partiti, e la dimensione sociale, assai complessa, problematica e talvolta anche contraddittoria» (A. Ballone, La Resistenza, in I Luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, 1997, pp. 411-12).
Naturalmente le rivolte antitedesche del Mezzogiorno si collocavano in questa seconda sfera, con il risultato di finire cancellate o strumentalizzate dal discorso pubblico e ricondotte, anche dalla storiografia più attenta, alla categoria della jacquerie contadina o del riot urbano. In un tale quadro l’avvento delle regioni non ha segnato uno spartiacque significativo. La questione delle vittime civili della guerra, nel corso degli anni Settanta, passava in secondo piano, e anche la riconosciuta centralità della Resistenza nel discorso pubblico nazionale si declinava attraverso una ulteriore accentuazione dell’immagine politico-militare del movimento partigiano. Grazie alla nuova stagione di storia sociale della guerra, la questione del passaggio del conflitto mondiale nel Mezzogiorno è tornata a interessare le amministrazioni locali. Si è riattivato per questa via, peraltro non senza alcuni cortocircuiti legati alla fine del paradigma antifascista con il crollo della prima repubblica e all’arrivo ai vertici degli enti locali di esponenti provenienti dalla destra postfascista, un interesse per le memorie ‘eterodosse’ della guerra. È in tale quadro che sono nate strutture come il Museo della sbarco alleato, realizzato a Catania nel 2000 su iniziativa dell’amministrazione provinciale, o il Museo dello sbarco e di Salerno capitale, aperto con il sostegno logistico della Regione Campania. Nel 2004, per iniziativa del comune di Cassino, e con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività culturali e del Ministero della Difesa, era sorto l’Historiale di Cassino, dedicato alla battaglia di Montecassino, ma anche alle vicissitudini della popolazione locale coinvolta nei combattimenti. Inoltre, già dal 1994, era nato il Museo dello sbarco di Anzio, a opera del privato Centro di ricerca e documentazione sullo sbarco e la battaglia di Anzio. È ancora presto, tuttavia, per comprendere se si è dinanzi all’inizio di una nuova ‘politica della memoria’ condotta dalle amministrazioni locali, compensando quella che è stata finora una lunghissima assenza che dura, almeno per le regioni, sin dalla loro istituzione.
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Si ringraziano Nino Blando e Manoela Patti per i preziosi suggerimenti; Salvatore Lupo, Matteo Di Figlia, Vittorio Coco e Carlo Verri per i fruttuosi dibattiti. Un ringraziamento speciale a Gabriella Gribaudi per il prezioso confronto.