La mente e il corpo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’ambivalenza dell’uso omerico del termine psyché, riferito da una parte a qualcosa di corporeo (il respiro che esala dal corpo) e dall’altra a qualcosa di incorporeo (le ombre dell’Ade, visibili ma non tangibili) si pone all’origine del dibattito a distanza tra chi, a partire dai naturalisti presocratici, concepisce l’anima come corporea (monismo materialista) e chi, seguendo pitagorici e platonici, la ritiene invece incorporea (dualismo delle sostanze). È Aristotele il primo a offrire una soluzione alternativa a queste due posizioni, considerando l’anima come forma immanente del corpo (ilomorfismo).I termini (**)
Per “problema mente-corpo” si intende la complessa trama di questioni sollevata dalla relazione peculiare tra fenomeni mentali quali percezione e pensiero, e fenomeni naturali, il cui dominio è definito per via empirica dalle scienze, in primis dalla fisica. Il concetto di mente è ricondotto in genere a René Descartes, che lo introduce al posto di anima, intesa come principio di tutte le facoltà psicofisiche del vivente, tradizionale pendant del corpo nella riflessione antica. Depurata dai requisiti più strettamente legati alla corporeità, la mens cartesiana ha come prerogativa essenziale il solo pensiero, i suoi modi propri (la sensazione) e le facoltà ad esso congiunte (l’immaginazione), determinazioni che prefigurano la concezione ancora in uso. Se la mente è il portato della riflessione moderna, l’idea della sua polarità con il corpo ha una gestazione più remota. Le sue prime attestazioni documentate risalgono al mondo classico, all’epica e alla lirica arcaica (VIII-VI sec. a.C.). Omero oppone la psyché al soma, significativamente il cadavere, il corpo morto. Legato a pneuma da una comune radice etimologica, il termine psyché rimanda a sua volta al soffio vitale che si manifesta nel momento in cui abbandona in via temporanea (svenimenti) o definitiva (morte) il corpo, riferimento conservato dagli equivalenti latini anima e spiritus e presente anche in altre culture quali quella ebraica e araba. Forza vitale cosmica e impersonale, al tempo stesso la psyché si insedia in un corpo specifico, contribuendo non soltanto a vitalizzarlo, ma anche a dotarlo, in maniera ancora confusa, di un’identità soggettiva permanente. Sopravvive, infatti, al corpo nell’Ade in quanto eidolon, immagine diafana e tuttavia riconoscibile, copia esangue di un individuo determinato. L’idea di anima come centro unitario della personalità, sede delle funzioni psichiche e cognitive dell’essere umano, oltre che di quelle vitali, è qui solo embrionale; bisogna attendere l’apertura di una discussione propriamente filosofica sulla sua natura, che contribuirà a mettere a punto i rapporti che la legano al corpo. Sebbene non vi sia una perfetta corrispondenza tra le coppie psyché-soma, anima-corpo e mente-corpo, la sintassi profonda che articola il confronto rivela una certa persistenza, gettando un ponte tra le concezioni antiche e quelle moderne e contemporanee. Pertanto, nonostante la distanza che ci separa da esse, è possibile applicare loro classificazioni nate in epoca moderna e ancora in uso nella filosofia della mente contemporanea, distinguendo due orientamenti filosofici di base, il “dualismo” e il “materialismo”, ai quali si aggiunge un terzo paradigma, l’“ilomorfismo”, che caratterizza la posizione sui generis assunta da Aristotele.
Talete di Mileto è considerato il primo “monista materialista”, ossia il primo ad avere ricondotto la realtà fenomenica a un unico principio materiale, l’acqua (DK 11 A 12). Come lui, anche gli altri “naturalisti” (physiologoi) presocratici tentano di comprendere la realtà riconducendola a uno o più principi materiali, in base all’assunto che tutti i fenomeni, compresi quelli psichici, possono essere adeguatamente spiegati facendo riferimento alla sola materia. Le loro indagini sono guidate dal presupposto metodologico secondo cui “il visibile è il segno dell’invisibile” (DK 58 B 21A), dal quale segue anche che è possibile determinare la natura dell’anima a partire da “segni” (semeia) visibili della sua presenza nelle cose. Il fatto che gli esseri viventi respirano (pneo) e si mantengono in vita finché sono capaci di assolvere questa funzione è considerato uno di questi “segni”, forse il più importante. L’aria (aer), che si identifica con il respiro (pneuma), è indispensabile per il mantenimento della vita: questa osservazione porta Anassimandro a sostenere che “la natura dell’anima è simile ad aria” (DK 12 A 29) e il suo successore nella scuola di Mileto, Anassimene, a scegliere l’aria come principio di tutte le cose (DK 13 B 2). A sviluppare una vera e propria concezione “pneumatica” dell’anima sarà poi Diogene di Apollonia, secondo il quale l’aria calda che costituisce la natura degli esseri viventi è responsabile non solo della vita (psyché), ma anche del pensiero (noesis) e della percezione (aisthesis) (DK 64 B 4; B5).
Una seconda caratteristica “manifesta” degli esseri animati è la loro capacità cinetica (kinetikon), ossia la capacità di muovere da sé il corpo proprio o altrui. Di tale capacità è responsabile l’anima, che è considerata la causa prima o il motore (kinoun) del corpo animato: è per la sua capacità di muovere il ferro che il magnete, secondo Talete, possiede un’anima (DK 11 A 22). Sostenendo che ciò che non è in movimento non può essere causa del movimento di un altro ente, i naturalisti pensano che l’anima, per muovere il corpo, debba essere essa stessa in movimento. Per questa ragione Leucippo e Democrito ritengono che l’anima sia costituita da atomi (atoma) di forma sferica, “capaci di insinuarsi dappertutto e di muovere gli altri atomi” (DK 67 A 28): continuamente in moto entro il corpo in cui si trovano, gli atomi dell’anima comunicano il proprio movimento a quelli del corpo, muovendolo così con lo stesso movimento con il quale essi stessi sono mossi (DK 68 A 104). Agli atomi e al loro movimento Democrito riconduce anche percezione e pensiero (DK 68 A 135).
La capacità di conoscere e di percepire gli enti è un’altra proprietà distintiva degli esseri viventi dalla quale è possibile inferire la natura dell’anima. In base al principio “il simile è conosciuto dal simile”, Empedocle stabilisce che l’universo, che è costituito dalle quattro radici o elementi (fuoco, aria, acqua e terra), possa essere conosciuto soltanto da qualcosa che sia a sua volta costituito da tali elementi. Questo “qualcosa” per Empedocle è il sangue (haima): essendo composto da una mescolanza perfettamente proporzionata dei quattro elementi, il sangue è infatti responsabile delle facoltà cognitive dell’uomo (DK 31 A 86), nonché supporto di tutte le funzioni della vita, dalla sua prima e più importante manifestazione, la respirazione (DK 31 A 74; B 100), alla sua fine (DK 31 A 85). L’opinione secondo cui “l’anima è il sangue”, menzionata sia da Aristotele (DK 31 A 4) sia da Platone (DK 31 A 76), potrebbe dunque riferirsi alla concezione “ematica” dell’anima che Empedocle sembra suggerire nel suo Poema sulla natura.
Per Platone l’anima non è identificabile con gli elementi che compongono la realtà sensibile, è una sostanza (ousia) separata dal corpo, per molti versi in conflitto con esso. Principalmente due gli argomenti a sostegno di questa tesi: il primato dell’anima sul corpo, la capacità di imporre la propria volontà opponendosi agli istinti e ai desideri di quest’ultimo; il possesso di una facoltà superiore (nous), in grado di cogliere l’essenza delle cose e di farsi orientare dal bene, dall’ordine teleologico “che lega ogni cosa al suo fine” (Fedone, 99c5-6).
La novità più eclatante è che, in accordo con la lezione socratica, la psyché è prima di tutto luogo dell’identità personale, centro della deliberazione e del carattere, istanza morale interiore e autonoma, contrapposta all’io di superficie, mosso dal perseguimento di beni esterni (onore, ricchezze, piaceri del corpo) su cui non ha il controllo. Un’idea consolidata dalla prospettiva di una vita eterna dopo la morte del corpo, in cui l’anima individuale viene giudicata per la propria condotta, in un aldilà modellato sulla falsariga dell’Ade omerico, ma privo di quegli elementi, come la permanenza dell’anima sotto forma di eidolon, che non si accordano con la sua immaterialità. La psyché si lega, infatti, al mondo delle Idee. Lo testimonia il fatto che, pur avendo un’esperienza della realtà sempre molteplice attraverso i sensi, riesce a cogliere l’essenza dei fenomeni per averla appresa in una fase di preesistenza rispetto al corpo, in cui si misura direttamente con le entità ideali, salvo perderne memoria con l’incarnazione. La conoscenza è anamnesis (reminiscenza) riattivazione di un sapere rimosso, un’idea di ascendenza pitagorica, come altre tesi platoniche sull’anima, la metempsicosi, l’immortalità, la svalutazione della conoscenza sensibile a favore dell’educazione musicale e del ragionamento matematico.
Se la separazione tra psyché e soma è il presupposto della riflessione platonica, il trait d’union che salda l’indagine epistemica al programma morale, è meno chiaro come possa realizzarsi l’interazione tra queste due sostanze e come si configuri la relazione di partecipazione tra psyché e realtà ideale. In contrasto col procedimento socratico, Platone non pone in nessun contesto la domanda conoscitiva par excellance, che cos’è (ti esti) l’anima, affrontando il tema solo indirettamente. Così è nel Fedone, classificato dai commentatori antichi (Diogene Laerzio, III, 56) come dialogo sull’anima (peri psychés), in effetti dedicato alla dimostrazione dell’immortalità di quest’ultima più che a un chiarimento sulla sua natura. Nel dialogo si menziona, per confutarla, un’altra concezione piuttosto diffusa all’epoca, secondo cui l’anima è simile all’harmonia, all’accordo di uno strumento musicale, un equilibrio tra elementi corporei che “sopravviene” alla costituzione materiale e alla disposizione ordinata delle parti del corpo, ma che di certo non gli sopravvive, anzi svanisce prima che quest’ultimo si decomponga. Formulata probabilmente dal pitagorico Filolao di Crotone e spesso sovrapposta per analogia alla concezione medica della salute-armonia, la tesi è riportata per marcare la distanza nei confronti di una tradizione influente per la propria formazione e, tuttavia, pervasa da molte incoerenze. Al termine di un’argomentazione non sempre efficace, stabilito che l’anima è per definizione vivente e non può dunque accogliere il suo contrario (la morte), la cesura tra quest’ultima e il corpo è netta e corre parallela a quella tra mondo delle cose sensibili e mondo delle cose intelligibili. L’etica socratica radicalizza, per di più, la tensione tra individuo e polis, prospettando alla filosofia il compito di allenare l’anima al progressivo distacco dal corpo, ivi compreso il corpo politico, la comunità.
Platone supera la posizione del Fedone elaborando una nuova teoria psicologica, secondo cui la psyché non è più semplice come le entità ideali, ma composta di parti, gerarchicamente organizzate, che assolvono funzioni prima attribuite al solo corpo, spostando al suo interno il conflitto con esso. Sia nel IV libro della Repubblica sia nel Fedro l’anima presenta un’istanza razionale (il logistikon) e una irrazionale, a sua volta suddivisa in due parti, una più direttamente legata alla soddisfazione dei piaceri corporei (l’epithymetikon), l’altra più incline a seguire le indicazioni della ragione, connessa allo thymos omerico (l’impeto del guerriero), al desiderio di affermazione e riconoscimento sociale (lo thymoeides). L’anima agisce come intero, ma l’azione è il risultato del prevalere di una pulsione motivazionale sulle altre. Lo stabilizzarsi di certe condotte individua tipologie caratteriali, destinate, in base all’isomorfismo tra anima e città, a ruoli sociali specifici, non interscambiabili. Se così s’intende salvaguardare la salute della città, quella dell’anima individuale è affidata alla filosofia come paideia (educazione), canalizzazione degli istinti irrazionali verso forme di desiderio più nobili, giustizia e conoscenza. Nel Timeo, infine, Platone approfondisce il tema dei rapporti con il corpo, mettendo a punto una fisiologia dell’anima attraverso l’indicazione delle sedi corporee di ogni sua singola parte, senza però esplicitare le modalità di tale allocazione. L’anima razionale, nel nuovo quadro l’unica divina e immortale, è ospitata dal cervello (enkephalos); contigua ad essa, nella zona intorno al cuore, la parte collerica; in fondo al basso ventre e negli organi genitali, quella desiderante. In tal modo l’anima viene a svolgere un ruolo di mediazione tra livelli di realtà altrimenti inaccessibili, sfere d’interesse (il bene del singolo e della polis) legittime e conflittuali, mentre si salda il suo legame con il corpo, su cui non potrebbe agire con efficacia da una posizione estranea e ostile. Sovrapposta al dualismo tra mondo sensibile e realtà ideale, sembra pertanto emergere un’ontologia più ricca, in cui l’anima rappresenta un terzo polo, con caratteristiche riconducibili all’uno e all’altro piano e perciò punto d’intersezione fra essi.
Aristotele apre la sua ricerca sull’anima (peri tes psychés historia) ammettendo che “in ogni senso e in ogni modo è tra le cose più difficili ottenere una qualche convinzione riguardo ad essa” (De anima I 1, 402 a 10-11). Per riuscire in questo intento, è necessario innanzitutto tracciare una descrizione “a grandi linee” dell’anima, in grado di costituire il principio o punto di partenza (arché) per la successiva determinazione di ciascuna delle sue facoltà in particolare. Il primo abbozzo sulla natura dell’anima si articola così in due nozioni generali, complementari l’una all’altra: l’anima viene descritta come “sostanza nel senso di forma e atto primo di un corpo naturale che ha la vita in potenza, ossia di un corpo dotato di organi” (ivi II 1, 412 a 19-b 6) e come “ciò in virtù di cui viviamo, percepiamo e pensiamo in senso primario” (ivi II 2, 414 a 12-13). Per Aristotele l’anima è sostanza al pari del corpo, ma in un senso diverso: se il corpo è sostanza in quanto materia (hyle), l’anima è sostanza in quanto forma (eidos). L’anima è “forma” poiché è ciò che definisce il corpo vivente come tale, ossia come vivente; essa è il possesso effettivo (atto primo) della capacità di vivere da parte del corpo organico. Il vivere si realizza secondo diversi livelli di attività (atto secondo), ognuno dei quali è caratteristico di una certa facoltà (dynamis) dell’anima e dunque di un certo tipo di vita: la vita delle piante consiste nell’assumere il nutrimento, nel crescere e nel produrre semi di nuove piante (facoltà nutritiva); la vita degli animali consiste anche nella percezione, nel desiderio e nel movimento (facoltà sensitiva); gli esseri umani possiedono in più la capacità di pensare (facoltà intellettiva). L’anima è il principio unitario delle suddette facoltà, ossia la causa primaria in virtù della quale il vivente vive, percepisce e pensa. Una volta stabilita la nozione “più generale” (koinotatos) dell’anima, Aristotele può procedere con la trattazione ad essa “più appropriata” (oikeiotatos), che consiste nell’analisi dettagliata di ciascuna delle sue facoltà, alla fine della quale soltanto sarà possibile avere una piena comprensione dell’anima. La tesi ilomorfista emerge però fin dalla descrizione generale dell’anima: per Aristotele il corpo e l’anima formano un’unità inscindibile, “come la cera e la sua figura e, in generale, la materia di una data cosa e ciò [scil. la forma] che ha per sostrato tale materia” (ivi II 1, 412 b 6-8). Per questa ragione il compito dello scienziato dell’anima, che per Aristotele è il fisico (physikos), consiste nell’indagare questa unità nella sua complessità, studiando l’anima come “forma del corpo vivente” e il corpo come “materia appropriata per l’anima”. Lo stesso discorso vale anche per ciò che l’anima subisce e opera, ossia passioni (pathe) come l’ira e la paura e operazioni (erga) come la percezione e il desiderio, che il fisico studia in quanto “forme materiate” (lgoi enhyloi), ossia “affezioni e operazioni di questo corpo qui e di tale materia” (ivi I 1, 403 a 16-b 19).
La soluzione di Aristotele al problema mente-corpo costituisce un’applicazione, del tutto peculiare, dell’ilomorfismo che caratterizza la sua posizione ontologica in generale. Forse proprio a motivo della sua peculiarità, tale soluzione è stata spesso ripensata dai lettori di Aristotele secondo le categorie concettuali a loro familiari. Un caso esemplare è costituito dall’analisi della percezione sensoriale (aisthesis). Aristotele caratterizza l’atto del percepire come l’esercizio di una facoltà, la facoltà percettiva, che coinvolge essenzialmente degli organi corporei, gli organi di senso; tale esercizio è prodotto dal “contatto”, diretto (tatto e gusto) o mediato (olfatto, udito e vista), dell’oggetto sensibile con l’organo di senso, che riceve così la forma sensibile dell’oggetto “senza la materia”, ed è finalizzato alla discriminazione delle qualità sensibili dell’oggetto. Tale analisi è suscettibile di un’interpretazione “letterale”, secondo cui la percezione è un processo fisiologico in cui l’organo di senso assume in atto e letteralmente le qualità sensibili di un oggetto, e di un’interpretazione “spirituale”, secondo cui la percezione è un atto cognitivo che consiste nell’acquisire consapevolezza delle qualità sensibili di un oggetto. A queste due alternative esegetiche si aggiunge poi una posizione di compromesso, la cosiddetta “teoria dei due aspetti”, secondo la quale la percezione è una funzione cognitiva (aspetto formale), che “si realizza in” o “sopravviene a” un certo processo fisiologico (aspetto materiale). Materialismo (letteralismo), spiritualismo e teoria dei due aspetti, posizioni che possono considerarsi rappresentative del dibattito sulla filosofia della mente aristotelica, condividono lo stesso presupposto concettuale, ossia che nella percezione, come in tutte le altre attività psicofisiche del vivente, sia possibile distinguere una componente “puramente” psicologica (formale) e una componente “puramente” fisiologica (materiale). Nell’ilomorfismo aristotelico, tuttavia, tale distinzione in componenti “pure” sembra non essere possibile. Secondo Aristotele, infatti, l’anima (forma) e il corpo (materia) sono componenti inestricabili e reciprocamente interdipendenti del composto vivente (ilomorfico), al punto che è impossibile parlare dell’anima se non come “forma materiata (incorporata)” e del corpo se non come “materia informata (animata)”.
La tesi ilomorfista non è tuttavia applicabile all’affezione del pensiero (nous). È Aristotele stesso ad ammettere che riguardo al nous “nulla è ancora chiaro”: sembra infatti che esso “sia un genere diverso di anima, e che esso solo possa essere separato, come l’eterno dal corruttibile” (De Anima, II 2, 413 b 24-27); tuttavia, poiché esso non opera senza la facoltà psicofisica dell’immaginazione (phantasia), non può essere del tutto indipendente dal corpo (ivi I 1, 403 a 8-10). Nel corso del De anima gli argomenti in favore della separazione dell’intelletto si alternano agli argomenti in favore della sua inseparabilità; la distinzione che Aristotele introduce tra un intelletto che “diviene tutte le cose” e perciò analogo alla materia, passivo (pathetikos) e corruttibile (intelletto passivo), e un intelletto che “produce tutte le cose” e perciò analogo al principio produttivo (poietikon), impassibile, eterno e immortale (intelletto attivo), ha reso il problema ancora più complesso per gli interpreti. Questa concezione, che nell’opera di Aristotele ha lo spazio di 16 righi Bekker (De anima III 5, 430 a 10-25), nella storia del pensiero ha rivestito un’importanza fondamentale, dando adito a interpretazioni diverse e talvolta conflittuali, già a partire dalla tarda antichità. Esemplari a questo proposito sono le esegesi proposte dall’allievo diretto di Aristotele, Teofrasto, da una parte, e da uno dei suoi più grandi commentatori, Alessandro di Afrodisia, dall’altra. Teofrasto si occupa del problema nel quinto libro del suo trattato sulla Fisica: secondo quanto è stato conservato del testo da Temistio, per Teofrasto l’intelletto passivo e l’intelletto attivo sono due aspetti di un’unica facoltà, la facoltà razionale, che è immanente all’uomo. Alla concezione di Teofrasto dell’intelletto attivo come facoltà umana, seguita anche da Temistio, viene a contrapporsi l’opinione di chi, come Alessandro di Afrodisia, considera l’intelletto attivo come sostanza completamente separata dalla natura dell’uomo e perciò divina; l’intelletto passivo invece, che Alessandro chiama “materiale” (nous hylikos), “sopravviene” a un certo tipo di mescolanza degli elementi del corpo ed è perciò del tutto dipendente da questo e mortale. La concezione aristotelica del nous continua a essere discussa nel Medioevo e nel Rinascimento, soprattutto per l’interesse che suscitano il tema della libertà e immortalità dell’anima, nonché l’astrazione, le operazioni mentali e la natura delle rappresentazioni; sopravvive ancora oggi, talvolta sotto mentite spoglie, in alcuni versanti della filosofia della mente contemporanea, come ad esempio nelle teorie di matrice intenzionalista, per cui ogni fenomeno mentale è caratterizzato dall’essere diretto su un oggetto conosciuto sotto un certo punto di vista (oggetto intenzionale), o nelle teorie funzionaliste, che difendono l’autonomia del mentale grazie all’idea della “realizzabilità multipla” degli stati psichici.
Le due scuole sorte in Atene all’inizio del III secolo a.C. in rottura con il magistero platonico e aristotelico e destinate a innestarsi con successo nel retroterra culturale romano, il giardino di Epicuro e la Stoá, concordano su un punto: l’anima è corpo (soma), pneuma costituito da atomi sottili e leggeri, come già sostenuto da alcuni presocratici. Se così non fosse l’anima non potrebbe agire sul corpo né a sua volta subirne l’azione: solo i corpi, infatti, possono produrre effetti gli uni sugli altri. Tali concezioni “materialiste”, in quanto individuano una sola sostanza corporea di cui sono fatti sia l’anima sia il corpo, prevedono comunque l’esistenza di due entità, due “corpi” con funzioni e poteri causali specifici, fusi in un unico composto.
Da queste premesse, ribaltando la tesi platonica del Fedone, Epicuro ricava che l’anima è mortale. Sparsa all’interno dell’aggregato (athroisma) – l’insieme di parti che compone l’organismo e a cui, grazie alla diversa distribuzione dei suoi atomi, comunica il movimento e la quiete, la capacità di percepire e pensare – l’anima svanisce prima del corpo, che invece permane per un certo periodo dopo il decesso, privo delle suddette facoltà. Un argomento questo che richiama la tesi dell’anima harmonia, citata polemicamente da Platone. Secondo Epicuro, è proprio in virtù della sua mortalità che l’anima individuale non deve temere la morte: in quanto assenza di sensazione e, perciò, di dolore, la morte non è un male per l’uomo. Gli epicurei accolgono le indicazioni platoniche sulla scissione interna all’anima in due poli, razionale e irrazionale. Nella terminologia di Lucrezio, l’animus è responsabile della vita cognitiva e sentimentale dell’essere umano; l’anima, invece, è preposta alla ricezione delle impressioni sensoriali – sempre vere, al contrario delle operazioni della mente su di esse in cui può annidarsi l’errore – e alla trasmissione degli impulsi di quest’ultima al resto del corpo.
Pur muovendo da presupposti comuni, il materialismo stoico giunge a conclusioni del tutto diverse. Per gli stoici l’intera natura è pervasa dal pneuma, un’entità corporea composta da atomi di aria e fuoco che si insinua nella materia e, a seconda del proprio stato di aggregazione, “anima” le cose disponendole su quattro livelli, in una scala naturale che va dagli enti inorganici agli esseri razionali. A ogni grado corrispondono funzioni via via più complesse; analogamente al modello aristotelico, le facoltà più elevate includono quelle di livello più basso. Il pneuma propriamente psichico, comune sia all’uomo sia agli animali, possiede le capacità di percepire (aisthesis), formarsi rappresentazioni della realtà esterna (phantasia) e rispondere ai suoi stimoli (hormé). Negli esseri umani, la configurazione “pneumatica” superiore, il pneuma razionale, è però dominante (hegemonikon) e allunga i propri tentacoli in tutti gli altri distretti psichici (i cinque sensi, lo sperma e la fonazione), come accade all’anima del mondo, il logos divino, diffuso in tutto il cosmo e riflesso in quello umano. Il primo stoicismo insiste, pertanto, sulla completa razionalità della psiche umana, in seguito contestata da altri esponenti della scuola, in particolare Posidonio. Il punto di maggiore dissenso riguarda l’analisi delle passioni (páthe), per i primi “giudizi” falsi della mente, per gli altri moti irrazionali di un’anima frazionata. Ad ogni modo, diversamente da quanto sostenuto dagli epicurei, per gli stoici l’anima razionale sopravvive alla morte del corpo, separandosi da esso, per poi disperdersi dopo un periodo di tempo limitato. Solo le anime dei sapienti come Socrate si conservano, secondo Crisippo, fino al termine del ciclo cosmico a cui appartengono, grazie al grado di coesione maggiore raggiunto in virtù del proprio autocontrollo. Evidente il richiamo alle tesi platoniche del Timeo – la persistenza dell’anima razionale rispetto al corpo e la sua partecipazione al nous divino e universale – con la differenza che qui si ha a che fare con entità corporee, a loro volta integrate nella materia e inserite in un universo finito. Superando le diffidenze platoniche, il pensiero stoico riserva, inoltre, un ruolo centrale alla percezione nel processo di formazione delle rappresentazioni concettuali (phantasiai), a loro volta determinanti per lo sviluppo della ragione (logos). Lo stoicismo si configura, pertanto, come un razionalismo sui generis, intessuto di elementi religiosi e vitalistici, e, tuttavia, contraddistinto da un’opzione decisamente materialista ed empirista, tanto sul fronte ontologico quanto su quello epistemico.
Con l’affievolirsi delle tradizioni filosofiche ellenistiche si assiste a un’inversione di tendenza. Il confronto con culti orientali, credenze e movimenti religiosi in rapida ascesa, come il cristianesimo, favorisce il ritorno delle dottrine pitagoriche e, in seguito, platoniche, che più si prestano a riletture spirituali. Riprende quota l’idea di un’anima incorporea e immortale, mentre si accentuano gli elementi di contrapposizione con il corpo. Plotino, fondatore e principale esponente del neoplatonismo, rielabora le tesi del Timeo sullo sfondo di un’indagine metafisica e teologica più unitaria di quella platonica, che, grazie a questa revisione, assume il carattere di sistema attribuitogli in seguito. Così, in continuità con quanto affermato in tal contesto, la psyché media tra mondo sensibile e intelligibile, usando il corpo come mero strumento durante la sua esistenza incarnata, per poi tornare a far parte dell’anima del mondo da cui deriva. Al tempo stesso essa è la causa del desiderio per quel che le è connaturato ma non immediatamente dato, le Idee appunto, a cui giunge ripiegandosi su se stessa, in un percorso che va dall’astrazione concettuale all’ascesi mistica e che, attraverso pratiche e rituali di purificazione dal corpo, può guadagnarle l’estasi e la fusione con l’Uno. Il corpo, con i suoi appetiti e le sue emozioni, è un elemento perturbante lungo questo cammino. Non solo, esso è ontologicamente subordinato all’anima, da cui deriva per emanazione, come accade a quest’ultima che, a sua volta, discende dall’ipostasi a lei superiore (l’Intelletto), in un ordinamento che vede al vertice l’Uno, principio e causa di tutto quel che è. Plotino supera in tal modo la concezione platonica, per cui esistono comunque due livelli di realtà distinti, riconoscendo una priorità ontologica, oltre che epistemica, al mondo intelligibile e inaugurando così una tendenza che, in termini moderni, potremmo definire “idealistica”.
Grazie all’incontro con la tradizione neoplatonica, l’idea dell’incorporeità dell’anima fa il suo ingresso nella dottrina cristiana, divenendone un tratto permanente. La riflessione di Agostino è il luogo in cui si realizza tale innesto – operazione affatto scontata dal momento che in precedenza molti pensatori cristiani, tra cui Tertulliano e lo stesso Agostino avevano sostenuto concezioni materialistiche dell’anima, subendo l’influsso del pensiero stoico. Numerosi i temi neoplatonici confluiti nella psicologia agostiniana: l’immaterialità dell’anima (in generale, anima), la conoscenza come attività peculiare della parte razionale (mens, ratio, animus o anima rationalis), il rapporto privilegiato con verità ideali non attingibili attraverso l’esperienza, il ruolo gnoseologico fondamentale riservato all’introspezione. Per Agostino, infatti, l’anima non è un’emanazione dell’Intelletto divino che in qualche modo la identifica con esso, ma una creatura di Dio e da sola non può colmare la distanza che li separa. D’altro canto, creature di Dio sono anche la materia e il corpo, e in quanto tali non possono essere il principio e la causa del male. Agostino rivaluta il ruolo del corpo, strumento come volevano i neoplatonici, ma tanto del male quanto del bene. È l’anima a reggere, cioè a essere responsabile del suo buon uso ed è per questo che assume un valore decisivo la sua descrizione in termini di attenzione e voluntas. “Mi sono rivolto a me stesso e mi sono chiesto: “Tu chi sei?” “un uomo”. Ecco qui: corpo e anima, l’uno esterno, l’altro interiore (…) quello interiore è migliore”” (Confessioni X 6,9).
Nel percorso conoscitivo che lega il mondo esterno a quello mentale, quello dell’anima e dell’uomo interiore, l’uomo diviene consapevole di esistere come soggetto conoscente. Ciò avviene attraverso l’introspezione e l’attenzione volontaria (intentio) sulla propria attività percettiva; all’anima, infatti, sempre attiva e continuamente diretta verso gli oggetti che rientrano sotto la sua attenzione, non sfugge (non latet) nulla di quello che accade al corpo. In altri termini, l’anima non subisce passivamente le sensazioni del corpo, piuttosto le accompagna come soggetto unitario, conferendo loro la sintesi di cui sarebbero prive. E in quanto tale conosce se stessa. Non dall’esterno, indagando la propria natura come un oggetto di ricerca tra gli altri e perciò comprensibile, come tutti, solo attraverso l’analisi interiore, in accordo al modello neoplatonico. Dall’interno invece, in quanto soggetto di un’esperienza in prima persona, per il primato esercitato dalla coscienza in tale ambito specifico: così l’anima diventa consapevole della propria essenza e della propria distinzione dal corpo. Il primato dell’interiorità dell’anima, articolata trinitariamente in memoria, intelligenza, e volontà (mens, notitia e amor) impronta analogica del mistero trinitario divino, consente ad Agostino di condividere l’antimaterialismo della soluzione neoplatonica con una concezione antropologica che non nega il valore della corporeità, ma ne fa lo specchio delle intenzioni custodite nell’anima.