La mitologia eroica e i cicli leggendari
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Accanto ai racconti cosmogonici e teogonici, esiste un insieme di racconti tradizionali che ha per protagonisti gli eroi, di cui si rivelano le qualità e i difetti che li distinguono dalla comune umanità. La dimensione narrativa è l’essenza fondamentale della mitologia eroica, ma parlare della biografia di un eroe presuppone un’elaborazione a partire da tradizioni che possono essere in origine diverse, sia nel tempo sia nello spazio. Ogni storia è infatti corredata da una fitta rete di varianti e storie parallele che ricorrono in fonti diverse.
I Greci amano raccontare le antiche vicende eroiche in cicli mitologici, ossia in un insieme di composizioni poetiche collegate tra loro (kyklos indica il "cerchio"), organizzate attorno a un eroe, un evento o una città, di cui narrano la storia sin dai remoti antefatti. Sono diversi gli insiemi mitici tramandatici. Per esempio il ciclo tebano racconta le gesta del fenicio Cadmo, partito alla ricerca di sua sorella Europa, con la vittoria sul drago, la nascita degli Sparti, la fondazione di Tebe e le nozze con Armonia, fino ai primi re leggendari e ai conflitti legati alla successione di Edipo e dei suoi discendenti. Vi sono anche miti che raggruppano in un’impresa collettiva eroi nati da cicli diversi, come la spedizione degli Argonauti e, nella generazione successiva, la spedizione achea contro Troia.
Ogni città ha i suoi eroi, con i suoi culti e le sue leggende, ma i cicli mitologici più ricchi sono imperniati intorno alle città di Atene, Tebe, Argo, alla Tessaglia, a Creta e alla zona nord-occidentale dell’Asia minore.
Esattamente come gli uomini, gli eroi nascono, soffrono e muoiono, elementi potenzialmente sufficienti a delineare un ritratto biografico. Eppure ripercorrere la vita di un eroe in maniera sistematica, costruendo un racconto coerente e unificato delle avventure che la scandiscono, è impresa ardua, spesso impossibile, che esige una scelta a volte forzata e artificiale tra le diverse versioni che della sua leggenda restituiscono le fonti antiche. Una scelta che non tiene conto del carattere plastico, fluido e composito della mitologia greca, aperta a un’infinità di sviluppi narrativi, ma che è tuttavia inevitabile, se si vuole darne una lettura accessibile.
Gli eroi vivono in un mondo dominato da conflitti politici, rivalità per la conquista del trono, guerre che dilaniano i popoli, ma anche da situazioni familiari tese, dolorose, esasperate, che conducono all’esposizione di neonati, a incesti, adulteri e omicidi.
Le situazioni di crisi costituiscono il nucleo e il motore fondamentale della mitologia eroica. Il tessuto narrativo dei racconti mitici è ricco di imprevisti, coincidenze, metamorfosi, sogni, presagi, avventure meravigliose e oggetti magici (spesso d’oro, elemento simbolico anche nelle fiabe). Le grandi tappe dell’esistenza dell’eroe, sin dalla nascita, sono avvolte da un’atmosfera grandiosa, soprannaturale, fuori dal comune.
Il mythodes, il "favoloso", è in effetti un ingrediente fondamentale di queste storie, spesso assurde e paradossali agli occhi di filosofi e storici, che a partire dal V secolo a.C. non cessano di screditarle in opposizione al discorso propriamente storico, veritiero, perché descrive senza orpelli il passato, e verificabile, perché raggiungibile dalla memoria umana.
In effetti i Greci non si accontentano di creare e raccontare i miti, ma sono i primi a proporne alcune interpretazioni, perché i mythoi sono profondamente radicati nella loro tradizione culturale, politica e religiosa.
Ancora oggi, alcune espressioni idiomatiche fanno rivivere le imprese degli antichi eroi e dei mostri straordinari che sconfiggono: il "tallone di Achille", il "filo di Arianna", "inseguire una Chimera", "essere un Cerbero", "patire il supplizio di Tantalo", "resistere al canto delle Sirene" o "lasciarsi ammaliare dal canto delle Sirene", "essere misterioso come una Sfinge" ecc.
I racconti mitici presentano una tale diversità che è impossibile ridurli a uno schema di base, convenzionale, anche se le vicende degli eroi (quasi sempre principi o re) presentano molto spesso tratti comuni, come l’immancabile appoggio o l’ostilità degli dèi e la presenza di compiti difficili da superare: sempre in un altrove lontano e diverso, dove l’eroe si avventura prima di ritornare vittorioso e rinnovato al punto di partenza.
Non si tratta però di individuare strutture mitiche ricorrenti, semantiche o formali. La mitologia eroica invita piuttosto a interrogarsi sul senso e sui contesti delle realizzazioni narrative (testuali o figurative) di questi racconti e sulle funzioni che sono chiamate a svolgere. L’insieme dei miti che raccontano le avventure degli eroi evolve con il trasformarsi della società e della cultura di cui è espressione, arricchendosi e adattandosi non solo alle esigenze della comunità ma anche alle forme narrative e poetiche assunte dai racconti eroici. Le "metamorfosi del mito", secondo la felice espressione di un saggio curato da Claude Calame (Métamorphoses du mythe en Grèce antique, 1988), lasciano intendere che il patrimonio mitico, costantemente rielaborato, modificato, ampliato, non è fissato in un testo di riferimento che stabilisce una volta per tutte i limiti di una storia e il carattere di un eroe, ma è un insieme in perpetuo movimento, costituito da una molteplicità di versioni che conferiscono un’impressionante ricchezza di trattamenti a un nucleo narrativo originario. Gli eroi viaggiano e con loro anche i miti che ne raccontano le imprese. Naturalmente le gesta eroiche sono più o meno ricche e articolate a seconda della gloria dell’eroe e dell’importanza della comunità che lo celebra. Le avventure di Eracle, Teseo, Giasone, Cadmo, Perseo sono estremamente lunghe e complesse e presentano temi comuni che comunque nulla tolgono all’emergenza di varianti e dettagli legati alle tradizioni locali.
L’inesauribile varietà dei miti eroici è dovuta anche alle loro condizioni di diffusione e circolazione. Anche se sono giunti fino a noi principalmente attraverso i testi scritti della tradizione letteraria, questi racconti, prima di essere trascritti e fatti oggetto di un lavoro di erudizione che ne moltiplica le varianti, sono composti, trasmessi e diffusi per via orale, attraverso la straordinaria memoria di poeti cantori che si spostano da una città all’altra e accompagnati dalla lira cantano (aedi) e recitano (rapsodi) in pubblico le antiche storie di dèi ed eroi, adattando la narrazione di episodi e particolari al contesto della performance, ossia dell’esecuzione.
Anche se il contenuto della mitologia eroica ci è noto nelle sue diverse forme soprattutto tramite le opere letterarie, non va dimenticato che non si esaurisce certo in esse. Le rappresentazioni figurate che ornano vasi, oggetti ed edifici sono numerosissime e molto utili per conoscere i nomi, le azioni e il carattere dei principali eroi. A tal proposito è interessante notare che alcuni eroi hanno un nome "parlante", che contiene cioè un’allusione alla storia di cui sono protagonisti. Edipo (Oidipous) è l’uomo "dai piedi gonfi", perché alla nascita è stato esposto con i piedi forati e gonfi, ma è anche l’uomo che "sa" (oida); Achille è l’eroe che causa la "sofferenza" (achos) del "popolo" (laos) greco, ritirandosi dalla battaglia; Odysseus, Odisseo, è colui che "è odiato" (odyssomai); Deianira, che causa la morte di Eracle, è colei che "distrugge e brucia (deioo) suo marito (aner)".
La mitologia eroica non è pura finzione, intesa a intrattenere e a far conoscere gli eroi e le loro azioni, né si risolve in un intento estetico, ma esige un ritorno al reale, che prende spesso un’esplicita forma eziologica, stabilendo un legame tra gli eroi del lontano passato e la configurazione attuale di fenomeni, comportamenti e istituzioni. Il richiamo alle origini mitiche è onnipresente nella cultura greca. Molti miti sono la narrazione di imprese eroiche che fondano la cultura e i valori di una comunità che in essi riconosce la propria identità, in quanto rivelatori di modelli esemplari delle attività umane significative (matrimonio, educazione, alimentazione ecc.). In tal modo gli eroi conferiscono un carattere distintivo ai culti, ai riti e alla mitologia delle singole poleis greche, rivelandosi parte integrante della cultura e del sistema religioso dei Greci.
L’impresa degli Argonauti, gli eroi greci che accompagnano Giasone alla conquista del vello d’oro nella lontana Colchide (l’attuale Georgia), è uno dei miti più noti e fecondi della mitologia classica, elaborato in epoche e forme letterarie differenti. Il viaggio di questi eroi esploratori ci è narrato soprattutto dalle Argonautiche di Apollonio Rodio, l’unico poema epico greco tramandato integralmente dopo i poemi omerici. Il mito degli Argonauti si fa l’eco del momento in cui i Greci travalicano i confini del mondo conosciuto ed entrano in contatto con popoli lontani e diversi. È un viaggio verso l’ignoto, alla scoperta di spazi invalicabili, orizzonti sfuggenti, distese marine senza mete a tracciarne il cammino. Un periplo la cui memoria accompagna ancora il viaggio di Odisseo, che nell’Odissea ricorda la nave Argo "celebrata da tutti" (XII, 70).
La storia racconta che Pelia, re di Iolco in Tessaglia, dopo aver usurpato il trono si ritrova a fare i conti con il nipote Giasone, figlio del suo fratellastro Esone ed erede legittimo del regno. Quando Giasone, ormai adulto ed esperto grazie alle cure del centauro Chirone (che gli insegna l’arte della guerra, la caccia, la musica e la medicina), si presenta con un solo sandalo al cospetto dello zio, l’usurpatore decide di sbarazzarsi del pericoloso nipote perché riconosce in lui l’uomo "calzato a un solo piede" (monosandalos) di cui un oracolo gli ha consigliato di diffidare. Pelia incarica dunque Giasone di conquistare il vello d’oro, ossia la pelle di un favoloso ariete alato, sorvegliata da un drago insonne in un bosco sacro sulle sponde del Mar Nero. In cambio della preziosa spoglia, tipico oggetto magico conservato in un luogo remoto, Pelia, sicuro che Giasone non sarebbe mai riuscito nell’ardua impresa, gli promette di cedergli il trono al suo ritorno in patria.
Al tema eroico delle prove da affrontare si affianca dunque quello del viaggio. Comincia così una lunga serie di avventurose tappe verso le ignote sponde orientali. Giasone raduna infatti il fior fiore degli eroi e li fa imbarcare sulla nave più bella mai vista, la prima che avesse mai solcato il mare: "Argo", costruita dall’omonimo eroe con l’aiuto della sapiente dea Atena. Diverse versioni della leggenda propongono una lista degli eroi che fanno parte dell’equipaggio, il che rivela la volontà delle città greche di onorare ciascuna il proprio eroe locale. Tra i cinquanta compagni che accorrono per partecipare alla spedizione figurano in ogni caso i più celebri: Eracle, Orfeo, Teseo, Peleo, Telamone, Castore e Polluce.
Gli Argonauti fanno una prima tappa a Lemno, dove si uniscono alle donne dell’isola, che avevano massacrato i loro uomini. Lasciata Lemno, proseguono poi il loro viaggio e, durante il tragitto, si scontrano con uomini provvisti di sei braccia ciascuno, affrontano una gara di pugilato e, in Bitinia, mettono in fuga le Arpie, mostruose creature "rapitrici" dal corpo di uccello, che divorano ogni cosa: bambini, anime e cibo. Grazie ai preziosi consigli di Fineo, riconoscente per l’aiuto fornito, gli Argonauti attraversano le terribili Simplegadi, rocce erranti avvolte in dense nebbie poste all’entrata del Ponto Eusino (l’attuale Mar Nero), che si scontrano tra di loro senza posa, sospinte dai venti, aprendo e chiudendo minacciosamente il varco alle navi. Dopo due anni di navigazione e mille avventure, che hanno per teatro luoghi e popoli spesso favolosi, gli Argonauti approdano infine alle rive della Colchide, nel Caucaso, e si presentano al re Eeta per ottenere il vello d’oro, simbolo di regalità e di potere.
Questi, temendo che gli Argonauti vogliano usurpargli il trono, ordina a Giasone di affrontare un’impresa molto pericolosa: l’eroe deve aggiogare due tori dai piedi di bronzo e dal soffio infuocato, seminare un campo con denti di drago, ararlo e in seguito uccidere i guerrieri sorti dal suolo. Giasone accetta le prove imposte e riesce a superarle grazie alla collaborazione di Medea, bellissima figlia del re, discendente del dio Sole, che si è follemente innamorata dell’eroe e lo aiuta grazie ai poteri magici di cui è dotata, non senza avergli prima strappato la promessa di portarla via con sé. Grazie al filtro prodigioso fornito da Medea, Giasone addormenta il drago messo a custodia del vello d’oro e impadronitosi della preziosa spoglia si precipita sulla nave alla volta di Iolco. Medea lo accompagna nella fuga e per salvarlo dall’inseguimento dei Colchi non esita a sviare la nave del padre: a quanto raccontano Seneca e Apollodoro, presunto autore della Biblioteca, Medea ne avrebbe ritardato la corsa gettando in mare il corpo smembrato del fratello Absirto, di cui Eeta raccoglie uno a uno i pezzi per dare al figlio una degna sepoltura. Così gli Argonauti riprendono il viaggio di ritorno, ricco di peripezie, secondo un itinerario diverso da quello dell’andata, che li spinge ora dal Danubio al Po fino al Rodano, e raggiungono infine la Tessaglia, da dove appunto erano partiti. Va notato a tal proposito che gli Argonauti, a differenza dei reduci della guerra troiana, ritornano quasi tutti in patria.
Una volta consegnato il vello d’oro a Pelia, Giasone apprende che suo padre è morto e che il re non intende restituirgli il trono, venendo meno alla promessa iniziale. Le versioni tramandate differiscono, come capita spesso, ma accordano tutte un ruolo di primo piano a Medea nella crudele vendetta contro l’usurpatore. Grazie ai suoi incantesimi, la donna causa la morte di Pelia, persuadendo con l’inganno le ingenue figlie del vecchio re a far bollire le carni del padre in un calderone magico al fine di restituirgli la giovinezza. Ed è così che la (presunta) ricetta di ringiovanimento mediante cottura, messa a punto da Medea (quasi che la pentola/ventre dovesse dare alla luce una vita nuova), si risolve invece in un mostruoso e inconsapevole parricidio.
Giasone e Medea, cacciati da Iolco dopo il misfatto, si rifugiano a Corinto, dove trascorrono anni felici, coronati dalla nascita dei loro due figli. L’eroe si invaghisce però della figlia del re Creonte (Creusa o Glauce), che può assicurare ai suoi figli un vero inserimento nelle strutture politiche e sociali della città. Ripudia dunque Medea, che si vede inoltre costretta da un decreto del re all’esilio da Corinto. Il motivo dell’abbandono della donna è uno schema mitologico ricorrente, ma in questo caso la vendetta femminile è delle più terribili. Rompendo il patto di fedeltà giurato a Medea, l’ingrato e incauto Giasone sottovaluta infatti l’atroce reazione della donna barbara, che si finge rassegnata e comprensiva, e regala alla promessa sposa una veste nuziale che finisce tuttavia per avvolgere la figlia del re in una fiamma inestinguibile; nell’incendio, estesosi prontamente a tutto il palazzo reale, trova la morte lo stesso re Creonte, accorso in aiuto della figlia. La vendetta ordita da Medea non può peraltro risparmiare Giasone. L’alleata preziosa si muta in nemica accanita. Euripide e Seneca tramandano l’immagine spaventosa della donna che, dopo aver ucciso i propri figli e averne mostrato i cadaveri al marito, fugge sul carro del Sole trainato da draghi alati, dirigendosi là dove troverà ospitalità: ad Atene. Qui il ciclo degli Argonauti converge con la storia di Teseo.
Viaggi, avventure, battaglie, mostri, incantesimi, divinità che intervengono nelle vicende umane: la storia degli Argonauti presenta l’armamentario tradizionale del racconto epico, cui si aggiunge un’altra costante del mito, la fuga degli amanti, all’insegna della violenza e del tradimento. Medea, selvaggia, passionale e vendicativa, erompe prepotentemente come figura eroica caratterizzata da uno slancio senza riserve, animata da passioni squassanti, ossessive e innominabili, completamente votata alla passione amorosa che l’attanaglia e di cui gli autori si soffermano a ripercorrere tutte le sfumature psicologiche così come i suoi effetti dolorosi e funesti.
Perseo è uno degli eroi più importanti del ciclo di miti legati alla città di Argo, nel Peloponneso. Come Giasone, Perseo è privato del suo regno e spinto a intraprendere una ricerca impossibile per rientrare in possesso del potere. Le gesta di Perseo si articolano in tre tappe fondamentali, il cui elemento unificatore è la micidiale arma di cui l’eroe si serve, la testa della Medusa, un oggetto magico che gli permette di affrontare le diverse prove, vincendo i suoi nemici secondo lo stesso e identico principio: vedere senza essere visto.
Come Eracle, di cui è l’antenato, Perseo è figlio di Zeus e di una mortale, ed è dunque un eroe semidivino. La sua storia comincia con un motivo ricorrente, reso celebre dalla vicenda di Edipo: l’oracolo di Delfi avverte Acrisio, re di Argo, che dalla sua unica figlia Danae sarebbe nato un erede che lo avrebbe spodestato e ucciso. Preso dal terrore, il re cerca di sfuggire al responso rinchiudendo Danae in una torre (o in una stanza sotterranea, a seconda delle fonti) affinché nessun uomo si unisca a lei. Ma queste precauzioni non possono frenare l’ardore di Zeus che, terribilmente attratto dalla principessa, riesce a fecondarla penetrando dall’alto della torre come pioggia d’oro. Che sia o meno un’allusione al potere persuasivo del denaro, come malignamente insinuano taluni autori antichi (Menandro, La donna di Samo, 761-767), questa metamorfosi di Zeus (immortalata da un celebre quadro di Klimt, 1907) è senza dubbio una delle più incredibili cui il dio ricorre per sedurre le vittime dei suoi desideri.
La prigioniera concepisce un figlio, Perseo, che alleva segretamente per qualche anno. Le grida infantili attirano però l’attenzione di Acrisio che, sorpreso e terrorizzato dalla nascita misteriosa, rifiutandosi di credere alla rivelazione di Danae sull’identità del padre del bambino, la getta in mare insieme al figlio dopo averli rinchiusi in una cassa di legno perché divenga la loro bara. Il patetismo di questo dramma familiare trova un’eco commovente nei versi di Simonide, ispirati dai lamenti angoscianti di Danae, sepolta viva e abbandonata ai flutti (Lamento di Danae).
Simonide
Lamento di Danae
Lamento di Danae
Quando nell’arca regale l’impeto del vento
e l’acqua agitata la trascinarono al largo,
Danae con sgomento, piangendo, distese amorosa
le mani su Perseo e disse: "O figlio,
quale pena soffro! Il tuo cuore non sa;
e profondamente tu dormi
così raccolto in questa notte senza luce di cielo,
nel buio del legno serrato da chiodi di rame.
E l’onda lunga dell’acqua che passa
sul tuo capo, non odi; né il rombo
dell’aria: nella rossa
vestina di lana, giaci; reclinato
al sonno il tuo bel viso.
Se tu sapessi ciò che è da temere,
il tuo piccolo orecchio sveglieresti alla mia voce.
Ma io prego: tu riposa, o figlio, e quiete
abbia il mare; ed il male senza fine,
riposi. Un mutamento
avvenga ad un tuo gesto, Zeus padre;
e qualunque parola temeraria
io urli, perdonami,
la ragione m’abbandona".
in Lirici greci, a cura di Salvatore Quasimodo, Milano, Mondadori, 1960
L’erranza marina di Danae, che diverse fonti latine fanno arrivare fino alle coste dell’Italia, nella tradizione greca finisce sulle rive dell’isola di Serifo, proverbiale per la sua povertà. I due naufraghi trascorrono diversi anni felici grazie all’ospitalità di Ditti, il pescatore che li ha trovati, e di suo fratello Polidette, re dell’isola. La situazione prende però una brutta piega quando Danae rifiuta l’amore del re.
Per cercare di ottenerne la mano, Polidette decide di sbarazzarsi di Perseo, che protegge costantemente la madre dalle sue profferte amorose. Con un pretesto, il giovane è inviato alla ricerca della testa di Medusa, l’unica mortale delle tre Gorgoni, mostruose sorelle che trasformano in pietra chiunque incroci il loro sguardo.
L’impresa, che si annuncia molto pericolosa, è l’inizio della carriera eroica di Perseo, che parte alla conquista del lugubre trofeo dalla spaventosa capigliatura serpentina, dalle terribili zanne di cinghiale e dall’enorme lingua pendula. L’aspetto orrendo, ripugnante e grottesco delle Gorgoni non impedisce ai Greci di raffigurarle dovunque. Il luogo di residenza delle Gorgoni è ignoto a tutti, ma è situato in ogni caso in una zona ai confini estremi della terra abitata. Perseo lo apprende grazie alle terrificanti Graie, tre mostruose sorelle "decrepite" (grays) dotate di un unico occhio e di un unico dente che usano a turno.
L’eroe ha inoltre l’appoggio degli dèi. Al suo fianco sono Atena, Ermes e le Ninfe, che gli permettono di entrare in possesso di tre oggetti magici indispensabili per compiere con successo la sua impresa: i sandali alati, con cui Perseo sorvola rapidamente l’Oceano e tutto il mondo conosciuto fino a raggiungere l’estremo occidente; l’elmo di Ade (kynee), che lo rende invisibile; e per finire una sacca magica (kibisis) nella quale l’eroe ripone la pesante testa della Medusa, sorpresa nel sonno e decapitata grazie a un falcetto affilatissimo (harpe), opera di Efesto, già utilizzato da Crono per castrare suo padre Urano.
Perseo riesce a uccidere Medusa grazie a uno scudo offertogli da Atena, lucido come uno specchio, nel quale l’eroe può osservare l’immagine riflessa della Gorgone e mozzarne la testa, ancora dotata del suo potere pietrificante, senza rischiare di essere vittima dei suoi occhi mortali.
La via del ritorno è però ancora irta di ostacoli, perché Perseo deve sfuggire all’inseguimento di Steno ed Euriale, sorelle di Medusa. L’eroe riesce a seminarle indossando l’elmo di Ade, che lo rende invisibile, e mettendosi in volo grazie ai suoi calzari prodigiosi o al cavallo alato Pegaso, sorto dal collo mutilato della Medusa insieme al gigante Crisaore.
A partire da questo momento, la dimensione geografica prende molto rilievo nella vicenda di Perseo, che compie lunghi viaggi attraverso paesi e contrade che le diverse fonti variano e arricchiscono a loro piacimento. È comunque in Etiopia che tutte le fonti fanno approdare Perseo per renderlo protagonista di un episodio memorabile, messo in scena soprattutto da tragedie per noi perdute, da cui emergono non solo la sua indole avventurosa, il suo coraggio e la sua ambizione, ma anche la sua anima cavalleresca.
Una splendida fanciulla, incatenata a uno scoglio, è sul punto di essere divorata da un mostro marino. Non è altri che la principessa Andromeda, vittima innocente della collera di Poseidone, dio del mare offeso per le insolenti parole della madre della fanciulla, Cassiopea, che si è vantata della propria bellezza, dichiarandola di gran lunga superiore a quella di tutte le Nereidi, le immortali ninfe marine. Infuriato e deciso a punire la sciocca vanesia, Poseidone invia un drago marino che devasta il regno, seminando ovunque il terrore. L’oracolo svela che il paese sarà liberato dal flagello in cambio del sacrificio della figlia del re: come Ifigenia è offerta per scontare la colpa di suo padre, così Andromeda è votata a pagare la colpa di sua madre e attende inerme il suo crudele destino.
Il mostro si accinge a divorare la sua preda, quando sopraggiunge Perseo, dall’alto del cielo, come il deus ex machina nella tragedia: alla vista della vergine, senza un attimo di esitazione, si offre di liberare il paese dal drago e di salvare Andromeda purché il re consenta a dargliela in sposa. Concluso rapidamente l’accordo, Perseo libera la principessa grazie alle sue armi magiche e ne ottiene come giusta ricompensa la mano. Ancora una volta il lieto fine è però ritardato e le qualità di Perseo messe alla prova. Esibendo la preziosa testa di Medusa, l’eroe riesce a sventare un complotto imprevisto, durante i festeggiamenti di nozze, e quando ritorna a Serifo, dove scopre che Polidette non ha smesso di insidiare sua madre Danae, si vendica in un istante trasformando tutti i nemici in statue di pietra. Lungo il tragitto di Perseo, il potere pietrificatore della Medusa dilaga senza freni, imprimendo al viaggio di ritorno dell’eroe l’aspetto distruttore cui deve il nome (nel nome "Perseo" sarebbe racchiusa infatti un’allusione al "distruggere" e al "saccheggiare", in greco pertho).
Riconoscente per l’aiuto ricevuto dagli dei, Perseo restituisce le armi magiche a Ermes e offre ad Atena la testa della Gorgone, che d’ora in avanti ornerà la celebre egida posta sul petto della dea.
Ormai sguarnito di ogni potere magico, Perseo torna in Grecia continentale, da vincitore. La maledizione che lo condanna all’omicidio deve ancora trovare compimento, nonostante tutte le precauzioni prese da Acrisio e le prove che portano Perseo lontano da Argo. Prima di tornare in patria, l’eroe partecipa a una competizione sportiva a Larissa, in Tessaglia, e nel lanciare il disco, di cui secondo Pausania sarebbe l’inventore, finisce per uccidere accidentalmente suo nonno, fuggito da Argo proprio per il timore di incorrere nella profezia annunciatagli dall’oracolo, profezia che trova così compimento.
Macchiatosi di un crimine orribile e involontario, come Edipo, Perseo, prostrato nell’apprendere l’identità della vittima, rinuncia al trono di Argo. Preferisce invece regnare sulla regione di Tirinto, dove fonda Micene, costruita con mura colossali. Quest’eroe pieno di coraggio e di generosità è onorato con un culto eroico a Serifo e nella sua città natia, Argo, di cui è considerato il protettore.
Teseo è l’unico eroe di cui abbiamo una biografia completa, grazie a Plutarco, che gli consacra una delle sue Vite parallele, abbinandolo a Romolo, fondatore leggendario di Roma. Mito e leggenda non vanno però confusi: la ricostruzione operata da Plutarco e la cronologia delle imprese politiche, sportive e guerriere attribuite all’eroe non coincidono con il progressivo formarsi del mito, narrato anche dal poeta Bacchilide e nelle numerose raffigurazioni della pittura vascolare a figure rosse.
Emulo di Eracle, cui è spesso associato, Teseo è sia un eroe civilizzatore che libera la terra da esseri malvagi, sia un eroe guerriero. A differenza di Eracle, tuttavia, le imprese di Teseo non hanno una dimensione panellenica, ma prendono senso soprattutto all’interno della storia ateniese, in cui l’eroe ha un’importante dimensione politica.
Figlio di Egeo, re di Atene, Teseo trascorre i primi anni della sua vita a Trezene (sulla costa della penisola argolica), alla corte di Pitteo, suo nonno materno. È in questa città che suo padre si reca nel tentativo di scongiurare la sterilità dei suoi precedenti matrimoni, spinto da un enigmatico e stravagante responso dell’oracolo di Delfi. Egeo si unisce alla figlia del re, Etra, che nella stessa notte, ingannata da un sogno inviato da Atena, corre su un’isola vicina dove è violentata da Poseidone. Il motivo della concezione simultanea, umana e divina, accosta la nascita di Teseo a quella di Eracle e di altri celebri eroi semidivini.
Egeo deve però lasciare Etra a Trezene, incinta, e prima di partire le affida un compito importante: se il figlio sarà abbastanza forte da sollevare l’enorme masso dove Egeo nasconde la sua spada e i suoi sandali, Etra lo invierà in incognito ad Atene, munito di questi segni di riconoscimento. Stando all’etimologia riportata da Plutarco, il nome dell’eroe deriverebbe da questo "deposito" (thesis) di oggetti segreti. Ancor prima di nascere, la vita di Teseo è dunque segnata da un destino eroico, fatto di misteri, prove da superare e incontri imprevisti. Teseo apprende il segreto della sua nascita a sedici anni, età delle prove iniziatiche e dell’efebia (l’ephebos è il "giovane" di cui la città si occupa provvedendo alla sua educazione, soprattutto militare). L’eroe recupera gli oggetti lasciati dal padre spostando con facilità il masso che li dissimula. Si mette dunque in cammino verso Atene.
Per mostrare il suo coraggio, l’ambizioso eroe, piuttosto che passare comodamente dal mare, come gli viene consigliato per evitare pericoli e insidie, preferisce prendere la strada che costeggia l’Istmo di Corinto. È l’inizio di una lunga serie di avventure che vedono Teseo affrontare furfanti di ogni tipo, spesso puniti dall’eroe secondo il principio della lex talionis, ossia sottoposti allo stesso trattamento che essi infliggono alle loro vittime.
Questo primo ciclo di avventure in cui Teseo appare come punitore dei malfattori presenta evidenti analogie con la leggenda di Eracle. Anche Teseo, munito della sua forza, opera per il bene dell’umanità, sbarazzando la terra da enormi e feroci animali (come la scrofa Fea di Crommione) o da banditi e ladroni crudeli: Perifete che elimina i viandanti con una clava di bronzo di cui Teseo si impossessa; Sinis, detto anche Piziocante, perché uccide i passanti legandoli alle cime di due alberi fissate a terra da corde che poi recide, squartando così il corpo dei malcapitati; Scirone, che costringe quanti passano da Megara a lavargli i piedi su una scogliera da cui poi li spinge in mare, dove sono divorati da una mostruosa tartaruga marina; Cercione, che sfida alla lotta quanti incontra e dopo averli sconfitti li uccide. L’ultima tappa del viaggio è anche la più celebre: Teseo affronta Procuste, brigante che propone ai viaggiatori tra Megara e Atene di stendersi su un letto per riposarsi, senza esitare ad adattarli alle dimensioni dello strumento di tortura che ha escogitato, stirandone o mozzandone le membra (prokrouein in greco significa "adattare a forza di colpi").
Quando Teseo giunge ad Atene, dopo queste sei fatiche, deve fare i conti con la terribile Medea, che indovina subito l’identità dell’eroe e temendo che possa rivelarsi un rivale per il proprio figlio Medo, avuto nel frattempo da Egeo, cerca di persuadere suo marito a sbarazzarsi dell’inquietante sconosciuto. Ma nel momento stesso in cui Teseo sta per bere la pozione avvelenata somministratagli, Egeo riconosce il figlio e gli strappa la coppa di vino dalle mani. Alla fine del suo percorso iniziatico, Teseo conquista dunque lo statuto di figlio legittimo del re di Atene e afferma subito il proprio valore sconfiggendo da abile cacciatore il toro di Maratona e sterminando i suoi cugini Pallantidi, desiderosi di spartirsi il regno di Egeo. La sua matrigna Medea, smascherata, è ripudiata ed esiliata, questa volta in direzione della Colchide. La storia dell’errante barbara sul suolo greco si chiude dunque nella sua terra natia e selvaggia, principio e fine del suo destino.
L’impresa più celebre di Teseo è legata all’isola di Creta, dove vive il Minotauro, mostro con il corpo umano e la testa taurina, nato dall’unione della regina Pasifae con un toro impazzito inviato da Poseidone per punire il sacrilego re Minosse. Rinchiuso a Cnosso in un labirinto intricatissimo costruito dal celebre artista ateniese Dedalo, il Minotauro divora periodicamente sette ragazzi e sette fanciulle ateniesi: sono queste le condizioni imposte alla città di Atene dal re Minosse, che tramite il sacrificio di questi giovani vuole vendicare suo figlio Androgeo, morto in Attica in circostanze sospette. Quando gli emissari di Minosse giungono ad Atene per prelevare il tributo dovuto, Teseo si offre volontario per la spedizione sacrificale a Creta e durante il tragitto mostra fieramente la sua origine divina (Bacchilide, Ditirambo XVII, 57-63, 81-85, 97-124).
Bacchilide
L’origine divina di Teseo
Ditirambo XVII
"Ma tu, se al dio che scuote il mondo la trezenia
Etra ti generò,
ecco un anello d’oro
lucente: tu riportalo dal fondo marino,
tuffati ardito nel paterno regno". […]
Né all’altro il cuore si piegava:
si piantò sulle tavole compatte, si spiccò
d’un balzo, il mare sacro lo raccolse. […]
Rapidi i delfini
Vivi nel mare portano
dal padre suo, signore di cavalli,
Teseo. Giunse alle stanze
della reggia divina. Si turbò,
come le figlie splendide
di Nereo vide: lampeggiava lume
come di fuoco dalle membra, nastri
d’oro ai capelli, uno svolio, un vorticare – e un gusto
dolce di gambe duttili nel ballo.
Vide Amfitrite, moglie
del padre, d’occhi immensi, nelle stanze
adorabili. Lei
d’un mantello di porpora l’avvolse,
pose un serto perfetto sulla chioma
crespa – nuziale
omaggio d’Afrodite
subdola, scuro d’un’ombra di rose.
Nulla d’assurdo v’è,
per i saggi, di ciò che voglia Iddio.
Presso la nave dalla prora snella
apparve. E come il re di Creta strema,
ahi, d’angoscia, dal pelago
affiorando! Su lui
acqua non v’era. Maraviglia. Brillano
d’intorno alle membra i divini
doni.
in I lirici corali greci, a cura di F.M. Pontani, Torino, Einaudi, 1976
Per sconfiggere il Minotauro l’eroe può contare sull’aiuto della figlia del re, Arianna, che si innamora di lui appena sbarca a Creta. Un po’ come Medea, la principessa svela al suo amato tutti i segreti per portare a compimento la sua impresa. Teseo riesce infatti a uccidere il Minotauro e a portare in salvo i giovani: ed è grazie a un gomitolo di filo, un oggetto datogli da Arianna, in apparenza insignificante, che l’eroe riesce a uscire incolume dal labirinto, ripercorrendo a ritroso il percorso fatto. Arianna lo aspetta all’uscita.
Lo schema mitico vuole che i due fuggano insieme, esattamente come Giasone e Medea. E così avviene. Teseo, però, durante il viaggio di ritorno verso Atene abbandona la fanciulla sull’isola di Nasso, mentre dorme (Ovidio, Eroidi, X, 1-46).
Ovidio
Ovidio fa di Teseo l’amante incostante e ingrato
Eroidi X, 1-46
Quella donna lasciata alla fiere ancora è viva, Teseo malvagio (improbus); e tu vorresti a questo sentirti indifferente.
Ho trovato più mite di te ogni qualsiasi fiera; a nessuno peggio che a te mi sarei potuta affidare. Quanto leggi ti mando, Teseo, da quel litorale da cui le vele portaron lontano senza di me la tua nave e sul quale malignamente io fui tradita dal sonno e da te che spiavi i miei sonni con perfida insidia.
Volgeva l’ora in cui appena il terreno si copre della guazza cristallina e gli uccelli mandan lamenti al riparo del fogliame; non proprio sveglia, nel languore lasciato dal sonno, pur senza levarmi, per stringer Teseo mossi le mani: non c’era! Ritraggo le mani, riprovo a tentoni, allungo nel letto le braccia: non c’era! Fu la paura che scosse via il sonno; mi levo atterrita e fuori del giaciglio desolato si gettarono le membra; diede tonfi subito il petto all’urto delle mie mani e ne fu devastata la chioma già scomposta com’era dal sonno.
C’era la luna; guardo se vedo qualcosa o spiagge soltanto, ma da vedere gli occhi non hanno che spiaggia. Io corro ora qui ora là per ventura; da una parte e dall’altra la rena profonda trattiene i passi d’una fanciulla. "Teseo", intanto gridavo per tutto il lido, in cerchio le rupi rimandavano ancora il tuo nome, ogni volta insieme con me il luogo medesimo ti richiamava, voleva il luogo medesimo alla meschina recare soccorso.
C’era un monte; sulla cima si drizzano radi gli arbusti, uno scheggione lì sta sospeso sopra le acque roche che l’hanno scavato. M’inerpico con forze che dava la passione e percorro così con il mio sguardo le più vaste, profonde distese. E vidi di lì (anche i venti son stati crudeli con me) le vole gonfiate dal Noto impetuoso; lo vidi oppure era quanto avrei di vedere pensato; rimasi più fredda del ghiaccio e priva quasi di vita. Ma non mi lascia il dolore intorpidita per molto tempo; mi desto per quello, mi desto e invoco Teseo con tutta la voce, "Dove fuggi?" io grido. "Ritorna, inverti la rotta, o scellerato Teseo, non è al completo la nave".
Gridavo così; a quel che mancava di voce supplivo con le percosse e s’alternavano i colpi con le mie parole. Nel caso che tu non mi udissi, perché almeno vedermi potessi sbracciandosi diedero larghi segnali le mani e su legno ben lungo appesi candide stoffe per ricordarmi a chi s’era davvero scordato di me. E già ti eri sottratto ai miei occhi. Piansi allora, alla fine; si erano già intorpidite le morbide gote per il dolore; che altro avrebbero dovuto fare i miei occhi se non pianger su me quand’ebbero cessato di vedere le vele tue?
Publio Ovidio Nasone, Eroidi, a cura di P. Fornaro, Torino, Edizioni dell'Orso, 1999
Di questo episodio si hanno versioni molto diverse. In una di esse, l’inconsolabile Arianna, che come Medea abbandona e tradisce i suoi per seguire lo straniero, ritrova il sorriso unicamente grazie all’amore del dio Dioniso. In un’altra versione, la più celebre e pessimista, la fanciulla abbandonata si suicida. In ogni caso, il destino sembra punire la slealtà e crudeltà di Teseo, che sulla via del ritorno dimentica di spiegare le vele bianche, come promesso a suo padre il giorno della partenza. Nel vedere le vele nere, credendo il figlio morto, Egeo, che aspetta impaziente il segno convenuto della vittoria, si uccide gettandosi nel mare che da allora porta il suo nome.
Le imprese civilizzatrici e fondatrici attribuite all’eroe durante l’età della maturità sono ispirate da eventi storici e politici legati alla città di Atene. Salito al trono, Teseo diventa un re illuminato, che si impegna a organizzare la società e il territorio della sua città: mette fine all’autonomia delle comunità locali dell’Attica, riunendo i suoi abitanti in un unico stato che ha per capitale Atene (misura nota come sinecismo, che in greco indica il "far abitare insieme"); dota Atene degli organi democratici fondamentali; istituisce la festa delle Panatenee. La tragedia classica presenta inoltre Teseo come un sovrano generoso, ospitale e magnanimo, che accorda la sua protezione ai più deboli e disperati (Edipo a Colono di Sofocle; Eracle furente e Le supplici di Euripide).
L’importanza di questo eroe nel panorama culturale e politico di Atene emerge da uno studio approfondito della formazione della sua leggenda. Nel corso del V secolo a.C. la ceramica e la scultura monumentale mostrano una predilezione per alcuni episodi delle gesta di Teseo (fino ad allora conosciuto principalmente per la sua lotta contro il Minotauro), che ne fanno una personificazione indiscussa del patriottismo ateniese e delle mire espansionistiche della città egemone della Grecia: tali episodi sono la difesa dell’Attica dall’invasione delle Amazzoni e la lotta contro i Centauri durante le nozze del suo fedele e incrollabile amico Piritoo, re dei Lapiti.
Con Piritoo, Teseo prende parte alla caccia al cinghiale Calidone, al ratto di Elena fanciulla (che lo porta in seguito ad affrontare i Dioscuri Castore e Polluce, giunti in Attica per liberare la sorella) e alla discesa negli Inferi per rapire la dea Persefone. Se queste due imprese mettono in luce il carattere smisurato e trasgressivo dell’eroe, l’Amazzonomachia e la Centauromachia incarnano perfettamente lo spirito della guerra vittoriosa della civilizzazione contro la barbarie, prefigurando il trionfo storico contro i Persiani.
Non a caso i due conflitti sono rappresentati sui più grandi monumenti scultorei della Grecia: le metope del Partenone e il frontone occidentale del tempio di Zeus a Olimpia. Il legame di Teseo con la città di Atene resta impresso nell’immaginario greco per secoli, se è vero quanto si racconta a proposito dell’iscrizione sulla porta eretta dall’imperatore Adriano, nel II secolo d.C.: “questa è Atene, la città di Teseo”.
In alcuni episodi del ciclo eroico di Teseo emergono figure di eroine molto celebri, rapite, sedotte o abbandonate dall’eroe. Queste avventure amorose fanno emergere un aspetto poco diffuso della personalità di Teseo, eroe intemperante e ingrato come pochi altri, che mosso dall’eros si imbarca in complicate e avventurose peripezie.
Ancora più celebre di Arianna è sua sorella minore Fedra, che Teseo sposa dopo aver avuto un figlio, Ippolito, da Antiope, regina delle Amazzoni. Euripide dedica l’Ippolito incoronato all’infausta passione di Fedra per il giovane, casto seguace della dea Artemide. Temendo di essere denunciata, l’eroina, offesa e in preda a un odio feroce contro il figliastro misogino che respinge scandalizzato il suo amore sconvolgente e inconfessabile, decide di accusarlo di tentativo di stupro. Prima di impiccarsi, lascia per iscritto la sua calunnia, nella speranza di salvaguardare il suo onore. Questo motivo è molto diffuso ed è noto anche nella tradizione biblica, dove coinvolge Giuseppe e la moglie di Putifarre (Genesi 39).
In preda all’ira, Teseo crede senza esitazione all’accusa della moglie, resa efficace anche perché postuma. Il re scaglia una maledizione terribile contro suo figlio, che muore travolto dai cavalli che trainano il suo carro, imbizzarriti alla vista di un mostro marino inviato da Poseidone, padre divino di Teseo. Artemide interviene però come dea ex machina per rivelare la verità e assicurare al suo devoto un culto.
Teseo muore lontano dalla città che ne consacra la gloria, a Sciro, dove è precipitato in mare, vittima di un tranello del suo rivale al trono, ma Atene, alla fine delle guerre persiane, organizza in grande pompa il ritorno delle reliquie dell’eroe consacrandogli un santuario, il Theseion, e istituendo importanti feste in suo onore.
Eracle, il più celebre degli eroi greci, è una figura eccezionale per diversi aspetti: eroe panellenico, ossia noto in tutta la Grecia, onorato sia come eroe sia come dio, la sua biografia è un coacervo impressionante di avventure e conquiste, ampiamente raffigurate su ceramiche e rilievi sin dal VII secolo a.C. In ogni parte della Grecia si raccontano storie su questo eroe, spesso contrastanti e sottoposte a continui ampliamenti e rivisitazioni, nonostante i tentativi fatti già dai mitografi antichi per articolare i diversi aspetti della sua leggenda eroica in una narrazione unitaria e coerente. La grande popolarità di Eracle, anche nel mondo romano, che lo celebra col nome latinizzato Ercole, è dovuta anche alle molteplici interpretazioni cui si prestano la sua personalità e le sue azioni.
Come altri eroi, Eracle è un semidio, figlio di Zeus e di una mortale sedotta con l’inganno: la tebana Alcmena, cui il padre degli dèi si unisce dopo aver assunto le fattezze del marito di questa, Anfitrione, partito in guerra. Frutto di un’unione adultera, Eracle è l’oggetto dell’insidiosa e inesorabile gelosia di Era. La sua esistenza è scandita dai continui interventi della dea, che lo perseguita col suo odio implacabile e ne consacra al tempo stesso la gloria: il nome dell’eroe, "Eracle", indica in effetti colui al quale Era dà la gloria (kleos). Dopo averne ritardato la nascita per impedirgli di salire al trono d’Argolide, la regina degli dèi invia nella culla del neonato due enormi serpenti che Eracle afferra e strangola senza difficoltà, a differenza del suo gemello Ificle (nato dal padre mortale Anfitrione), che piange terrorizzato. L’eroe esibisce dunque la sua forza sovrumana sin dalla più tenera infanzia. Già prima di affrontare le sue dodici celebri fatiche, Eracle porta del resto il nome di Alcide, "discendente di Alceo", che contiene un’allusione all’alke, la "forza", termine contenuto anche nel nome di sua madre Alcmena.
Eracle personifica in effetti la forza fisica ed è un eroe protettore delle palestre e delle attività atletiche, cui si attribuisce talvolta la fondazione dei giochi olimpici.
Il ciclo di leggende in cui Eracle figura è molto ricco, ma sono senza dubbio le dodici fatiche (ponoi, erga) che ne consacrano la fama incontestata di eroe polyponos, "che sopporta molte pene e fatiche".
Stando a una delle versioni della leggenda, queste imprese sono compiute da Eracle allo scopo di espiare una colpa e purificarsi da un mostruoso delitto: Era spinge infatti l’eroe a compiere un crimine terribile, che il tragediografo Euripide racconta nell’Eracle.
In un accesso di follia selvaggia, scatenato dalla sua nemica giurata, Eracle massacra la moglie Megara, figlia del re di Tebe, e i loro figli. Rinsavito, e su ordine dell’oracolo di Apollo a Delfi (che gli attribuisce a questo punto il nome di Eracle al posto di Alcide), l’eroe si reca dal cugino Euristeo per mettersi al suo servizio. Il sovrano del regno di Argo, Tirinto e Micene lo obbliga allora a compiere dodici imprese incredibili, solitarie, spesso pericolose ma anche indegne e umilianti (tutte rappresentate sulle metope del tempio di Zeus a Olimpia), e considerate irrealizzabili per un comune mortale.
La forza bruta di Eracle erompe già in occasione della prima fatica, che vede l’eroe affrontare il leone di Nemea, soffocandolo con la semplice forza delle mani. La pelle leonina, al tempo stesso trofeo e armatura invulnerabile che lo proteggeranno nel corso delle altre avventure, è insieme alla clava un attributo tipico di Eracle, ampiamente rappresentato nell’arte classica. Il motivo dell’invulnerabiltà, molto frequente nei racconti mitici, informa anche la seconda prova che Eracle deve affrontare: sconfiggere l’Idra di Lerna, un serpente acquatico le cui numerose teste rinascono rapidamente appena recise. Anche in questa occasione Eracle trae profitto dal mostro sconfitto: riesce infatti a intingere le proprie frecce nel sangue dell’Idra, un veleno mortale che rende inguaribili le ferite inferte.
Eracle riesce a portare a termine le sue imprese non solo grazie alla forza, ma anche grazie alla resistenza, al coraggio e all’astuzia. Oltre a essere fisicamente possente, il figlio di Zeus riceve infatti un’educazione molto completa nell’arte della musica, della poesia, dello sport e della caccia. È da abile e infaticabile cacciatore che l’eroe cattura il cinghiale di Erimanto e la splendida cerva di Cerinea dalle corna d’oro (in Arcadia), così come il leggendario toro cretese da cui la regina Pasifae concepisce il Minotauro. Quando si tratta di eliminare i mostruosi uccelli che devastano il lago Stinfalo, Eracle ricorre invece soprattutto all’astuzia: con nacchere di bronzo fornitegli da Atena, l’eroe spaventa i terribili volatili dotati di piume d’acciaio e poi, essendo questi divenuti ormai un facile bersaglio, li colpisce in volo con le sue frecce infallibili. La forza si coniuga con l’astuzia nell’ultima prova compiuta da Eracle nel Peloponneso: la pulizia delle immense stalle di Augia. L’eroe affronta l’ingrata corvée e riesce a ripulire il letamaio in un solo giorno, deviando le acque di due fiumi tumultuosi che si riversano all’interno delle stalle.
Tutti i racconti mitici in cui Eracle figura sono imperniati sul tema dello scontro tra l’eroe benefattore, dedito al bene dell’umanità, e i suoi antagonisti mostruosi, devastatori e selvaggi. Queste imprese lo consacrano come l’eroe civilizzatore par excellence, che affronta insidie di ogni sorta e sgombera la terra da mostri enormi, deformi, spesso invulnerabili, che causano paura, fame, sterilità, dolore. Ogni tappa della lotta contro i mostri è accompagnata da incontri meno noti o da avventure secondarie da cui Eracle esce comunque vincitore. Per esempio, nel corso del suo viaggio verso il giardino delle Esperidi (penultima fatica) Eracle prende sulle spalle la volta celeste al posto del gigante Atlante, che poi inganna, costringendolo a riprendere il suo fardello; in un’altra occasione, l’eroe libera Prometeo incatenato sul Caucaso, trafiggendo con una freccia l’aquila che gli divora il fegato.
Al di là dei dettagli di ogni racconto di cui si compone il ciclo eroico di Eracle, è significativo sottolineare che i nemici con cui l’eroe si misura sono spesso forze animali o naturali tali da mettere in valore il carattere eccezionale del suo vigore e del suo coraggio. Quando invece si tratta di affrontare altri esseri umani, questi sono il più delle volte personaggi crudeli e disonesti, che l’eroe sconfigge affermando i principi della giustizia e della virtù, nonostante la violenza delle azioni necessarie a imporre tali valori: si pensi all’episodio delle cavalle di Diomede, che si nutrono di carne umana e a cui l’eroe non esita a dare in pasto il loro spietato proprietario, ripagato così con la sua stessa moneta.
Da questi molteplici racconti emergono comunque diversi aspetti del carattere di Eracle, eroe dalla forza eccezionale, determinato, ma a volte finanche troppo "umano" nelle sue smisurate passioni per il cibo, il vino e le donne.
Nella commedia e nella ceramica, Eracle è spesso rappresentato come un personaggio eccessivo, ingordo, avido di piaceri e ignorante, come negli Uccelli (414 a.C.) di Aristofane, in cui Poseidone si rivolge all’eroe definendolo un "disgraziato" (kakodaimon) e uno "stupido pancione" (elithios kai gastris, v. 1604).
La lista delle fatiche compiute da Eracle non cambia molto da una fonte all’altra, ma il loro ordine non è fisso. In ogni caso le prime sei hanno luogo nella sua patria, il Peloponneso, le altre portano l’eroe dorico in terre sempre più lontane: verso il nord, in Tracia; sul mar Nero, dove l’eroe si impossessa della cintura di Ippolita, la regina delle Amazzoni; oltre i confini del fiume Oceano, al di là della terra allora conosciuta, dove l’eroe fissa le colonne che da lui prendono il nome e che marcano il limite occidentale del Mediterraneo, nello stretto di Gibilterra, "illustre testimonianza del termine estremo della sua navigazione", come ricorda Pindaro nella III Nemea. L’eroe viaggiatore e conquistatore, che nel suo cammino avventuroso verso l’occidente sconfigge mostri e briganti, percorre terre sconosciute, creando le condizioni della civilizzazione e giustificando l’insediamento dei Greci che si stabiliranno nei luoghi in cui è passato.
La vita di Eracle è interamente dedita al superamento dei confini del mondo abitato e dei limiti della condizione umana. L’eroe dalla forza sovrumana, senza tregua in lotta contro mostri mortiferi, al tempo stesso bestia, uomo e dio, incarna persino il trionfo sulla morte. Già dal racconto dell’Iliade sappiamo che Eracle avrebbe un giorno ferito Ade, il Signore degli Inferi, ma è soprattutto nelle sue ultime fatiche che l’eroe affronta vittorioso le forze della morte.
Dopo aver ucciso Gerione, un gigante tricefalo la cui mostruosità evoca quella di un demone infernale, Eracle si dirige ancora più a ovest, verso il giardino delle Esperidi: qui l’eroe coglie i pomi d’oro (dono di nozze della dea Gea a Zeus ed Era), simbolo dell’immortalità, riuscendo a neutralizzare il drago Ladone incaricato di sorvegliare l’incantevole giardino.
Infine Eracle scende negli Inferi, dove Ade lo autorizza a riportare sulla terra Cerbero, il terribile cane a tre teste, guardiano del mondo delle tenebre. In questa occasione Eracle riporta anche Teseo tra i vivi: si tratta di uno dei tanti episodi che legano i cicli leggendari di questi due eroi.
Eppure il figlio di Zeus sconta brutalmente l’esperienza della morte. Protagonista imbattuto di avventure sovrumane, trionfatore accanto agli dèi olimpici nella lotta contro i Giganti, eroe virile capace di deflorare in una sola notte le cinquanta figlie del re di Tespi, Eracle è sconfitto dalla gelosia di una donna. La vicenda è narrata nelle Trachinie di Sofocle (1046-1063 e 1070-1075).
Sofocle
Eracle sconfitto dalla gelosia di una donna
Trachinie
Ne hanno sopportato di fatiche, di lotte contro i nemici reali, le mie mani, le mie spalle, ma né la sposa di Zeus né l’odioso Euristeo mi hanno mai imposto una prova così tremenda, come questa che mi ha buttato addosso la subdola figlia di Oineo con la tunica tessuta dalle Erinni, che mi uccide. Si è incollata al mio corpo, la veste, mi corrode la carne, i visceri, il suo veleno si insinua nelle arterie, nei polmoni, li inaridisce. Si è bevuta tutto il mio sangue giovane, il mio corpo è disfatto; no, non c’è parola: catene sempre più strette mi imprigionano. Nessuna cosa è riuscita a ridurmi così: non le battaglie campali, lo scontro con i Giganti, figli della terra, non la violenza ferina dei Centauri, e nessuna città greca o barbara, nessun paese da me percorso e liberato dai mostri: una donna, sola, senz’aiuto, senza forza, una donna ha fatto strazio di me in questo modo. Figlio […] abbi compassione di tuo padre, che a tutti fa tanta pena e si torce e geme come una donnetta. No, nessuno mi ha mai visto così, sempre ho tenuto testa al male senza un solo lamento. Ora mi sono mutato in una femmina.
Sofocle, Aiace - Trachinie, trad. it. di U. Albini e V. Faggi, Milano, Mondadori, 1983
Eracle muore consumato dal fuoco, tra atroci spasimi, vittima della sua passione per la giovane Iole e dell’ignara complicità criminale di sua moglie Deianira, che cerca di riconquistare l’amore del marito inviandogli una tunica intrisa del sangue avvelenato del Centauro Nesso.
A costui si collega uno dei molteplici episodi che arricchiscono la trama della leggenda eroica di Eracle. Nesso, trafitto da una delle frecce avvelenate di Eracle, per aver tentato di violentare Deianira, rivela in punto di morte alla donna che il sangue della sua ferita è un filtro d’amore imbattibile. Si tratta invece di un veleno terribile. L’ingenua donna, vittima della propria gelosia, causa dunque la morte dello sposo che vuole riconquistare, e si suicida.
Mentre le sue carni bruciano dilaniate dal fuoco, Eracle fa preparare un rogo funebre sul monte Eta, ma nel momento in cui sta per essere divorato dalle fiamme, suo padre Zeus interviene per sottrarlo al rogo e portarlo tra gli dèi dell’Olimpo, dove l’eroe, finalmente liberato dalle sofferenze vissute e riconciliatosi infine con Era, è divinizzato e si unisce a Ebe, dea della giovinezza (Inni omerici, XV, 1-8).
A Eracle dal cuor di leone, 1-8
Inni omerici, Inno XV - A Eracle
Eracle, figlio di Zeus, canterò, che, di gran lunga il più forte
degli uomini, generò a Tebe dalle belle danze
Alcmena, unitasi al Cronide dagli oscuri nembi;
Eracle, che dapprima, sulla terra infinita e sul mare,
errando agli ordini del re Euristeo,
molte cose inaudite compì egli stesso, e molte sofferse:
ma ora, nella bella dimora dell’Olimpo nevoso
vive lieto, e ha come sposa Ebe dalle belle caviglie.
Inni omerici, a cura di G. Zanetto, Milano, BUR, 1996
La morte e l’apoteosi di Eracle, motivo prediletto dai pittori di vasi, sono emblematiche del carattere ambiguo dell’eroismo. L’eroe più grande è anche quello che soffre di più: nonostante la sua audacia e la sua forza, Eracle è vittima delle sue passioni e del suo successo.
Ma Eracle è spesso citato anche come modello di forza morale e di coraggio, in lotta contro le pulsioni e le debolezze, e la sua figura si presta a esegesi allegoriche di ogni sorta, già per i filosofi antichi (soprattutto pitagorici e cinici). Emblematica è in tal senso l’interpretazione del sofista Prodico di Ceo, che nell’apologo di Eracle al bivio immagina l’eroe di fronte alla scelta tra "Vizio" (Kakia) e "Virtù" (Arete), personificati da due donne. Rifiutando una vita di piaceri, tramite le sue fatiche Eracle ha mostrato che la pena e lo sforzo permettono di raggiungere la vera felicità, come se l’unico riscatto possibile fosse la prova del dolore. Non è un caso che Eracle sia persino messo in parallelo con i tratti tipici del Cristo, di cui è ritenuto talvolta essere un precursore.
Nonostante lo scetticismo diffuso sulla realtà storica della guerra di Troia cantata da Omero, molti studiosi, per secoli, hanno cercato di scoprire quali eventi storici siano all’origine della leggenda troiana, cercando persino di identificare i luoghi che ne furono teatro. Gli scavi condotti nel XIX secolo dall’archeologo tedesco Heinrich Schliemann sulla collinetta di Hissarlik, in Asia Minore, riconoscono il presunto sito di Troia. Victor Bérard (Les navigations d’Ulysse, Parigi, 1927-1929) ricostruisce invece tutto il periplo del nostos di Odisseo. Storica o leggendaria, la guerra di Troia, ampiamente rappresentata nell’iconografia, è per i Greci il conflitto che segna la fine dell’età eroica e costituisce il terminus ante quem di un mondo popolato da eroi.
L’intera saga troiana, dagli antefatti della guerra fino alla morte di Odisseo, oltre che nell’Iliade e nell’Odissea, è esposta in altri sei poemi del ciclo troiano, formatisi progressivamente per via orale tra il VII e il VI secolo a.C. e giuntici solo in pochi frammenti: Ciprie, Etiopide, Piccola Iliade, Distruzione di Ilio, Ritorni, Telegonia.
Le leggende del ciclo troiano, diffuse in tutta la Grecia dai rapsodi, ossia i cantori che recitavano in pubblico le composizioni epiche, sono ampiamente riprese nelle tragedie del V secolo a.C. (basti pensare all’Aiace e al Filottete di Sofocle, o alle Troiane di Euripide) e restano una fonte d’ispirazione anche nei secoli successivi (nel III o IV secolo d.C. il poeta epico Quinto Smirneo compone i Posthomerica, in cui racconta le vicende degli eroi achei dall’uccisione di Ettore alla partenza da Troia).
Stando alla versione raccontata nelle Ciprie, il conflitto troiano è scatenato per volere di Zeus allo scopo di alleggerire la Terra, oppressa dal peso di una popolazione troppo numerosa.
Il padre degli dèi e degli uomini si serve a tal scopo di Elena, la più bella delle donne. Altri racconti esplicitano il pretesto a cui risale il conflitto. Il mito del pomo della discordia è tanto noto da essere entrato nel linguaggio corrente. Durante il banchetto di nozze di Peleo e Teti, che riunisce tutti gli dèi sul monte Pelio, Eris, dea della Discordia, adirata per essere stata esclusa dai festeggiamenti, lancia una mela d’oro destinata alla dea più bella (kalliste), come è inciso sul frutto.
Nessuno osa decidere chi meriti un titolo così lusinghiero e di fronte all’imbarazzante astensione generale si decide di far attribuire l’ambito premio a un pastore, Paride, chiamato anche Alessandro, che viene designato da Zeus come giudice della contesa. Tre dèe si presentano a lui e per ingraziarselo gli promettono ognuna una cospicua ricompensa. Era gli offre il regno dell’Asia; Atena, la vittoria in guerra; Afrodite, la donna più bella della terra: Elena. Paride accorda la sua preferenza ad Afrodite e, allestita una flotta, si reca a Sparta per portar via la splendida donna al marito Menelao.
Gli autori antichi hanno a lungo discusso se Elena sia una vittima innocente o se segua Paride consenziente. Il processo alla più bella tra le donne però non interessa Omero, che nell’Iliade attribuisce all’eroina un ruolo chiave come coscienza critica della guerra e figura emblematica delle ambiguità dello statuto eroico. La sua partenza per Troia ha comunque conseguenze molto nefaste, perché Paride è figlio dei sovrani di Troia, Priamo ed Ecuba, esposto alla nascita sul monte Ida per scongiurare un presagio nefasto avuto dalla regina in procinto di partorire: il nascituro avrebbe causato la rovina del suo popolo.
Come capita spesso in queste occasioni, piuttosto che uccidere il figlio, i genitori decidono di abbandonarlo, ma il neonato è salvato da un pastore che lo alleva sui monti. Il destino trova comunque la sua strada. L’esempio di Edipo è emblematico.
Menelao, vittima di questo grave crimine (l’ospitalità è un valore sacro per i Greci), decide di vendicare l’offesa subita e riunisce un’importante contingente di eroi per la sua spedizione punitiva contro Troia, comandata dal fratello Agamennone. Tra questi celebri eroi figurano principalmente quanti nel passato hanno preteso alla mano di Elena, impegnandosi allora con un solenne giuramento ad aiutare il marito della donna se un giorno ve ne fosse stato bisogno.
Al momento di salpare, l’esercito greco è però bloccato nel porto di Aulide dall’assenza di venti. In questi casi è d’uopo sollecitare l’intervento di un indovino e Calcante rivela l’arcano: la dea Artemide, corrucciata contro Agamennone che l’ha offesa, reclama per espiazione il sacrificio di Ifigenia, figlia di Agamennone e Clitennestra. Sotto il peso delle sue responsabilità di capo della spedizione, Agamennone finisce per accettare e con un pretesto conduce la fanciulla davanti all’altare sacrificale. La flotta greca può finalmente partire verso l’odiata Ilio.
La guerra di Troia dura dieci anni, ma non conosciamo nel dettaglio le diverse fasi del conflitto, raccontate nei poemi del ciclo. L’Iliade narra gli eventi che hanno luogo dopo nove anni di assedio ininterrotto da parte dei Greci, prendendo le mosse dalla contesa tra Achille e Agamennone, che costringe il migliore degli Achei a cedergli la schiava Briseide in sostituzione di Criseide, privandolo così del suo geras ("segno d’onore", "privilegio", "prerogativa") e disonorandolo, fino alla vendetta consumata da Achille contro Ettore, che aveva ucciso il suo fedele amico Patroclo (Iliade, XVIII, 73-96).
Omero
Teti parla al figlio Achille della morte di Patroclo
Iliade, Libro XVIII Creatura, perché piangi? Che strazio ha colto il tuo cuore?
Parla, non lo nascondere! Poiché t’è stato fatto
da Zeus come hai pregato, levando le mani:
che tutti presso le poppe fuggissero i figli degli Achei,
bisognosi di te, soffrissero casi indegni".
Ma con un gemito grave le disse Achille piede rapido:
"Madre mia, sì, questo me l’ha fatto il Cronide;
ma che dolcezza è per me, s’è morto il mio amico,
Patroclo, quello che sopra tutti i compagni onoravo,
anzi alla pari di me? L’ho perduto! Ed Ettore che l’ha ucciso
l’armi giganti ha spogliato, meraviglia a vederle,
bellissime; i numi a Peleo l’avevano date, nobile dono,
il giorno che te fecero entrare nel letto d’un uomo mortale.
Oh, era meglio che tu restassi fra le immortali del mare
e Peleo conducesse una sposa mortale.
Ora anche per te sarà strazio infinito nel cuore,
ucciso il figlio, e non lo potrai riabbracciare
tornato in patria, perché il cuore non mi spinge
a vivere, a stare fra gli uomini, s’Ettore
prima non perda la vita, colto dalla mia lancia,
il rapimento non paghi del Meneziade Patroclo".
Teti allora versando lacrime disse:
"Ah! sei vicino alla morte, creatura, come mi parli.
Subito dopo Ettore t’è preparata la Moira.
Omero, Iliade, trad. it. di R. Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 1977
La morte del campione troiano fa perdere all’antica Ilio ogni speranza di salvezza; tuttavia un altro poema, l’Etiopide, racconta l’arrivo di due popoli alleati intenzionati a soccorrerla: le Amazzoni, comandate dalla regina Pentesilea, uccisa da Achille giusto nell’attimo in cui se ne innamora, e gli Etiopi, guidati da Memnone, figlio semidivino dell’Aurora, che trova anch’egli la morte per mano del Pelide. Il poema si conclude con l’uccisione di Achille, le sue esequie e la successiva contesa tra Aiace Telamonio e Odisseo per il possesso delle armi del campione acheo. Achille muore trafitto da una freccia scagliata da Paride. Anche un grande eroe ha il suo punto debole nascosto: il tallone di Achille, la parte del corpo con cui la madre Teti lo teneva da bambino, mentre lo immergeva nelle acque del fiume Stige per renderlo immortale, e quindi unico punto vulnerabile, si rivela fatalmente anche l’unica parte scoperta della sua armatura.
Il racconto delle ultime fasi della guerra è contenuto in un altro poema, la Piccola Iliade: vi sono narrati l’assegnazione delle armi di Achille a Odisseo, motivo scatenante della follia di Aiace e del suo suicidio; l’uccisione di Paride per mano di Filottete, che lo trafigge con le frecce dategli un giorno da Eracle; e infine la costruzione del cavallo di legno escogitato da Odisseo, che nasconde al suo interno gli eroi greci pronti a saccheggiare la città una volta che i Troiani avranno accolto il cavallo dentro le mura. La Distruzione di Ilio, che racconta di Troia scempiata e incendiata, la cui fine è simboleggiata dall’immagine atroce del figlioletto di Ettore, Astianatte, che Odisseo butta giù dalle mura della città, trova più tardi una qualche eco nel II libro dell’Eneide di Virgilio.
I "ritorni" in patria dei grandi condottieri achei al termine della guerra sono raccontati nei Nostoi. La tragedia classica ha reso celebre la drammatica fine di Agamennone, ucciso con un tranello dalla moglie Clitennestra e poi vendicato da suo figlio Oreste. La narrazione dell’avventuroso viaggio di Odisseo, figlio di Laerte e di Anticlea, costituisce invece il fulcro centrale dell’Odissea, in cui l’eroe, archetipo essenziale della cultura europea, dopo venti anni di assenza e di stenti, rientra in patria, luogo degli affetti e dei ricordi, dove ritrova la fedele e casta moglie Penelope e riconquista il potere usurpato dagli insolenti e numerosi (centoventinove) pretendenti. Il ritorno di Odisseo, irto di insidie e difficoltà, è ostacolato principalmente da Poseidone, irritato contro l’eroe che ha accecato suo figlio Polifemo, il Ciclope.
Per sfuggire al gigantesco mangiatore di uomini dotato di un occhio solo, l’astuto e beffardo Odisseo gli dice infatti di chiamarsi Outis, "Nessuno". E quando Polifemo accecato chiama in aiuto gli altri Ciclopi, urlando "Nessuno mi uccide", quelli se ne tornano tranquilli nelle proprie caverne. L’eroe "dalle mille astuzie" (polymetis), "pieno di risorse" (polymechanos) e dalle ingegnose prodezze ha l’appoggio della dea della metis, Atena, sua complice e fedele alleata (Odissea, XIII, 291-298).
Omero
Atena si rivolge a Odisseo
Odissea, Libro XIII, vv. 291-301
Furbo sarebbe e scaltrito chi te superasse
in tutti gli inganni, anche se è un dio che ti incontra.
Impudente, fecondo inventore, mai sazio di frodi, non vuoi
neppur ora, in patria, lasciar da parte le astuzie,
e i racconti bugiardi, che ti son cari fin dalle fasce.
Via, non parliamone più, perché ben conosciamo
le astuzie entrambi: tu sei il migliore fra tutti i mortali
per consiglio e parola, e io fra tutti gli dèi
sono famosa per saggezza e accortezza: neanche tu hai conosciuto
Pallade Atena, la figlia di Zeus, che pur sempre
in ogni pericolo ti sono vicina e ti salvo.
Omero, Odissea, trad. it. di R. Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 1989
È grazie a questa forma d’intelligenza pratica, che implica scaltrezza, intuizione, capacità di cavarsela in ogni occasione, prudenza e lucidità, che Odisseo riesce a sormontare tutti gli ostacoli che incontra sul suo cammino. L’eroe incappa in tempeste, affronta mostri favolosi (i Ciconi di Tracia, i Lotofagi mangiatori di loto, i selvaggi Ciclopi, i giganteschi cannibali Lestrigoni, le mostruose Scilla e Cariddi), scampa alle insidie delle Sirene incantatrici, resiste alle tentazioni dell’amore che gli offrono la maga Circe e la ninfa Calipso, che gli promettono anche l’immortalità (Odissea, V, 203-220), e la giovane Nausicaa.
Omero
Dialogo tra Calipso e Odisseo
Odissea, Libro V, vv. 203-220
"Divino figlio di Laerte, Odisseo pieno di astuzie,
e così vuoi ora andartene a casa, subito,
nella cara terra dei padri? e tu sii felice, comunque.
Ma se tu nella mente sapessi quante pene
ti è destino patire prima di giungere in patria,
qui resteresti con me a custodire questa dimora,
e saresti immortale, benché voglioso di vedere
tua moglie, che tu ogni giorno desideri.
Eppure mi vanto di non essere inferiore a lei
per aspetto o figura, perché non è giusto
che le mortali gareggino con le immortali per aspetto e beltà".
Rispondendo le disse l’astuto Odisseo;
"Dea possente, non ti adirare per questo con me: lo so
bene anche io, che la saggia Penelope
a vederla è inferiore a te per beltà e statura:
lei infatti è mortale, e tu immortale e senza vecchiaia.
Ma anche così desidero e voglio ogni giorno
Giungere a casa e vedere il dì del ritorno".
Omero, Odissea, trad. it. di G. Aurelio Privitera,, Milano, Fondazione Lorenzo Valla, 1982
Alla corte dei Feaci, Odisseo diviene persino narratore in prima persona delle sue avventure e peregrinazioni affidandosi al ricordo che di esse conserva, come un vero e proprio cantore. A differenza delle imprese di Giasone, Perseo o Eracle, nel viaggio di Odisseo il tempo della memoria si sovrappone dunque a quello della realtà.
I diversi momenti del nostos portano Odisseo ad attraversare paesi sconosciuti e misteriosi, di cui è impossibile rintracciare i luoghi precisi, spesso volutamente avvolti di mistero.
Al ritorno in patria, dopo una serie di riconoscimenti che lo restituiscono ai suoi affetti, Odisseo progetta, insieme al figlio Telemaco e al fedele porcaio Eumeo, un piano per vendicarsi degli oltraggi subiti. Sconfigge così i pretendenti, che spadroneggiano nella sua casa e dilapidano il suo patrimonio, riportando nell’isola l’armonia di un tempo.
Al suo fianco è l’inviolabile Penelope, che durante la lunga assenza del marito riesce a salvaguardare la sua virtù coniugale frenando le profferte pressanti dei suoi spasimanti grazie a uno stratagemma molto astuto: la donna disfa di notte la tela che tesse di giorno, tela al cui compimento aveva promesso di concedere se stessa e il trono a uno dei pretendenti, e ritarda così il momento in cui risposarsi.
Odisseo è l’eroe che conquista con pazienza e fatica la meta del suo viaggio, ritrovandosi più volte a lottare da solo contro difficoltà insormontabili. I personaggi e i popoli che incontra appartengono spesso a mondi lontani, favolosi, ora spaventosi, ora affascinanti, ma comunque strani e diversi dal mondo quotidiano e concreto della patria. Il tema centrale del ritorno, che riecheggia racconti di marinai e viaggiatori, si arricchisce di numerosi motivi che si innestano sul dinamico mutare dei luoghi e delle situazioni sempre diverse in cui l’eroe si ritrova.
Odisseo sopporta infiniti dolori (polytlas), conosce nuovi mondi, incontra personaggi ambigui e pericolosi, ma alla fine del viaggio, cambiato e reso consapevole dalle sue esperienze, matura il senso della misura, della riflessione e della prudenza, e può infine tornare in patria.
Si assiste così a un’evoluzione significativa rispetto al modello dell’eroe iliadico. E dopo Omero l’immagine di Odisseo si modifica sensibilmente.
Nella tragedia classica l’eroe dalla proverbiale pazienza è presentato soprattutto come un personaggio cinico, demagogo e opportunista, mentre i filosofi e gli autori latini fanno del più umano degli eroi il simbolo del saggio che sopporta con pazienza tutte le prove e i pericoli, senza lasciarsi abbattere dal destino avverso né sommergere dalle passioni. Dante invece coglierà e sottolineerà la libido sciendi dell’eroe (Inferno, XXVI, 94-99).
Dante Alighieri
Odisseo racconta il suo ultimo viaggio
Inferno, XXVI, 94-99
Né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelope far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i ebbi a devenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore.
Dante Alighieri, Divina Commedia
Esistono diverse versioni sulla fine della vita di Odisseo. La più celebre si trova nell’ultimo poema del ciclo troiano, la Telegonia, che racconta l’arrivo a Itaca di Telegono, "Nato lontano" (dal padre), il figlio che Odisseo ha avuto da Circe e che si è messo alla ricerca del padre. La storia somiglia molto a quella di Edipo e ne porta all’estremo il nucleo incestuoso: il figlio ignoto finisce per uccidere fortuitamente suo padre e per sposare sua madre Penelope.
Quanto all’altro figlio di Odisseo, Telemaco, sposa Circe, che in chiusura del poema dona a tutti l’immortalità.
Il ciclo di Enea comincia con la fine della guerra di Troia. Enea è l’unico eroe troiano che riesce a sfuggire alla caduta della città. L’eroe ha ricevuto dal Fato la missione di portare in salvo la sua gente e di andare in Italia per fondare una nuova città, in cui il sangue troiano si unirà a quello latino per dare inizio a un grande impero. Su questo mito Virgilio impernia tutta la narrazione dell’Eneide, poema epico scritto nel I secolo a.C. per celebrare l’avvento del principato augusteo e la missione di Roma.
Nato dall’unione della dea Venere con il mortale Anchise, l’eroe semidivino riesce a fuggire dalla città in fiamme insieme ai suoi compagni, seguito dal padre e dal figlioletto Ascanio. Enea giunge nel Lazio dopo un lungo periplo che lo porta ad affrontare estenuanti prove e lo costringe anche a fuggire l’amore dell’infelix Didone, regina cartaginese che si consuma in preda a una passione divorante e si uccide dopo aver maledetto il futuro popolo romano. Nel Lazio l’eroe si stabilisce con i suoi compagni, dopo aver vinto i popoli della regione.
Alla sua morte, il figlio fonda la città di Albalonga e alcuni secoli dopo i suoi discendenti, Romolo e Remo, fondano Roma. La vicenda di Enea si presenta dunque come un mito sulle origini della città di Roma, situandosi a metà strada tra la storia e la leggenda. Il mito offre ai Romani la grandezza di un passato eroico che si ricollega alla nuova era della storia romana, inaugurata dall’impero di Augusto, un’epoca di conciliazione, di concordia e di pace dopo anni di guerre civili.
Le peregrinazioni di Enea sono molto simili al nostos di Odisseo, segnato da tempeste, naufragi, viaggi avventurosi, discesa agli Inferi, interventi divini e battaglie. Accanto ai tipici temi dell’epica omerica figurano tuttavia novità significative, come la centralità dell’amore tra Enea e Didone, che si ispira piuttosto alla passione di Medea raccontata nel ciclo degli Argonauti, e soprattutto il tema del potere del Fato.
Quello di Enea è un viaggio-missione, compiuto all’insegna della pietas, che implica accettazione della sofferenza individuale, consapevolezza dei limiti umani e attaccamento ai valori della patria e degli affetti familiari. La sua meta non è il ritorno nella sua terra, come nel caso di Odisseo, ossessionato dalla memoria del luogo natio, ma ricerca della sede destinatagli dall’imperscrutabile e invincibile Fato.
Enea, consapevole del suo dovere, che va rispettato anche se oscuro e pieno di dolorose rinunce (sunt lacrimae rerum), porta a termine un’impresa eroica che non ha scelto (Italiam non sponte sequor, "non di mia volontà ricerco l’Italia") e pesa su di lui come una responsabilità immensa, che lo abbatte, lo spossa, lo angoscia (Virgilio, Eneide, IV, 340-346).
Virgilio
Enea parla a Didone: Hic amor, haec patria est ("Ecco l’amore, la patria")
Eneide, Libro IV, vv. 340-346
Se il destino mi desse di viver secondo il mio cuore,
se potessi a mio modo ricomporre gli affanni,
a Troia, prima di tutto, le dolci reliquie dei miei
avrei raccolto, in piedi sarebbe il palazzo di Priamo,
Pergamo, due volte per terra, l’avrei rifatta pei vinti!
Invece la grande Italia m’ordina Apollo Grineo,
le sorti di Licia m’impongono di cercare l’Italia.
Virgilio, Eneide trad. it. di R. Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 1967
La leggenda troiana, che nel mondo greco arcaico esalta l’impresa eroica come una possibile via per la gloria immortale, diventa nell’orizzonte culturale romano un dovere di cui il pio Enea si incarica, solcando i mari come Odisseo e trionfando in duelli gloriosi come Achille ed Ettore, eroi la cui fama rimane intatta per secoli.