La moda globale
La nuova geografia della moda
Il Novecento è stato il secolo dei couturiers e degli stilisti, dell’alta moda parigina e del prêt-à-porter milanese: istituzioni che hanno diffuso la moda occidentale, i suoi modi di creazione, produzione, comunicazione, consumo, e hanno affermato il predominio europeo e occidentale in fatto di lusso e di gusto. Il nuovo secolo si è aperto all’insegna di un ampliamento di questa prospettiva, con l’emergere di una nuova moda globale, contaminata e pluralistica. L’intreccio di complesse traiettorie tra ideazione, creatività, manifattura è da tempo una delle caratteristiche dell’industria della moda. Il processo di internazionalizzazione, tuttavia, non è stato lineare e non è privo di ambivalenze. Se l’Asia, con l’espansione della moda, risulta per molti versi ‘colonizzata’ dai grandi marchi del lusso europei e americani (Louis Vuitton, Gucci, Ferragamo, Prada, per citarne solo alcuni), che esercitano in questi Paesi la massima attrattiva, essa è anche il luogo da cui provengono i fermenti più nuovi e vivaci e dove la sperimentazione è più accelerata. Se, da un lato, la costituzione di un nuovo consumatore da educare, coinvolgere, socializzare alla cultura della moda occidentale è un obiettivo centrale dell’agenda dei grandi marchi del lusso, dall’altro, i cosiddetti nuovi mercati non sono soltanto ricettori passivi, ma parte attiva nella delineazione di assetti inediti la cui fisionomia resta tuttavia ancora sfumata in quanto in rapida e incessante evoluzione. Oggi i Paesi di grande tradizione tessile come Cina, India e Turchia e i Paesi in cui lo sviluppo è più recente, come Brasile e Australia, sono pronti non solo a ricevere suggestioni e prodotti, ma anche a spiccare il grande balzo verso la global fashion, ognuno con una sua propria caratteristica.
La Cina (v. oltre) è l’attore principale di questo cambiamento. Risale al novembre 2001 il suo ingresso nella WTO (World Trade Organization), l’organizzazione del commercio mondiale, un evento che ha segnato il nuovo secolo ed è carico di conseguenze non solo economiche, ma anche intensamente simboliche. L’estetica asiatica o Asian chic, come è stato chiamato il fenomeno a partire dagli anni Novanta, non è esotismo nel senso tradizionale, cioè colonialista, del termine o, meglio, non si esaurisce in esso. I segni dell’interesse per la Cina sono numerosi. Nel 2007 è stata eletta per la prima volta una Miss mondo cinese, Zhang Zi Lin. Nel 2008 Shanghai è stata prescelta come set dal prestigioso calendario Pirelli e dal marchio Ferragamo per celebrare l’ottantesimo anniversario della fondazione dell’azienda. Nello stesso anno Ermenegildo Zegna ha scelto invece Pechino per ambientare la campagna istituzionale Great mind think alike, in cui un gruppo di manager viene fotografato in alcuni dei luoghi più celebri della Cina, come la Città proibita e la Grande muraglia. Si tratta quindi di un esotismo basato sia su un interesse crescente per i mercati da sfruttare, sia sulla fascinazione per gli stili di vita delle nuove metropoli.
Il nuovo secolo appare caratterizzato da un’intensità di contaminazioni che non ha precedenti nel Novecento. Per trovare qualcosa di simile si deve andare a ritroso nel tempo, con le chinoiseries e le cotonine indiane, con i banyan, e gli scialli di cashmere, ossia risalire agli orientalismi che caratterizzarono l’Europa settecentesca e ottocentesca. Il Museum at FIT di New York ha dedicato una mostra dal titolo Exoticism (novembre 2007-maggio 2008) proprio a questo argomento, cioè alla trasformazione dei concetti di esotico dall’epoca coloniale all’attuale global village multiculturale. Presenti le creazioni di couturiers, stilisti e designer che hanno incarnato nel loro lavoro queste trasformazioni, da Paul Poiret a Yves Saint Laurent, da Kenzo (Giappone), a Dries Van Noten (Belgio), da Yeohlee (Malaysia) a Vivienne Tam (Cina), Xuly Bët (Mali), Stoned Cherrie (Repubblica Sudafricana), Alexandre Herchcovitch (Brasile) e Manish Arora (India). In questo nuovo contesto vengono meno anche molte contrapposizioni che hanno contribuito a definire il significato della moda durante il secolo scorso, in particolare quelle tra moda e costume, moda e religione, moda ed etica, moda e modernità, mentre nuove rappresentazioni mentali e nuovi prodotti fanno il loro ingresso nella cultura vestimentaria e nelle idee che la rendono possibile.
Il costume diventa moda: vestiamo tutti etnico
Lo spostamento dell’asse dall’Europa verso l’Asia e l’emergere di potenze quali l’India e la Cina producono, tra l’altro, un diverso modo di pensare l’etnico, la creatività, le relazioni tra le varie regioni del mondo. Uno dei fenomeni più interessanti dell’apertura dei nuovi mercati è dunque una distinzione sempre più sfumata tra moda e costume. La moda è considerata cambiamento e innovazione, mentre il costume è ciò che resta immutato nel tempo. La visione eurocentrica vuole che la moda sia una prerogativa del vestire occidentale, mentre il costume etnico corrisponde al modo di vestire delle altre culture, delle altre etnie, degli ‘Altri’ in senso lato. Il concetto di ispirazione, imitazione, copia e anche, molto spesso, l’organizzazione del copyright e della proprietà intellettuale, derivano da questi rapporti di potere tra l’Occidente e gli ‘Altri’, rapporti venutisi a creare in epoca coloniale e perdurati, se non più direttamente nella politica, sicuramente nel modo in cui si categorizza la moda.
Con il nuovo secolo, tutta una serie di ‘costumi etnici’, compreso il folk che è un etnico europeo, sono entrati nel circuito della moda e nel vestire quotidiano. Etnico e moda dunque tendono a coincidere nel 21° sec. per diversi motivi: sia perché molti capi di abbigliamento della tradizione extraeuropea sono rinnovati e riproposti negli stessi Paesi in cui sono nati, per questioni legate all’identità, alla nazionalità, all’indipendenza, sia perché le migrazioni/diaspore li hanno introdotti in Occidente, sia ancora perché gli stilisti, occidentali e non, li utilizzano e li rilanciano. Capi come il sari indiano (v. oltre Bollywood fashion e moda indiana), il kimono giapponese, l’hanbok coreano, l’ao-dai vietnamita, l’hijab islamico (v. oltre Moda e religione), il thobe arabo sono usciti dal limbo del costume (o della religione o del rituale oppure dell’occasione speciale o dell’‘immutato’ nel tempo) per entrare nel mondo cangiante della moda globale. Il salwar kameez, cioè la tunica portata sui pantaloni, tipico abito indiano e musulmano, non è solo l’abito portato dalle indiane e musulmane che vivono a Londra, ma in India e in Inghilterra è diventato anche un comodo abito delle nuove classi borghesi. Hanbok coreani e ao-dai vietnamiti sono stati presentati sulle passarelle del prêt-à-porter di Parigi nel settembre 2005 da designer coreani e vietnamiti e reinterpretati anche da stilisti come Giorgio Armani, Donna Karan, Calvin Klein, e Ralph Lauren. Il kimono giapponese, per esempio, è stato rilanciato nelle sfilate di Parigi del marzo 2008 dall’italiano Antonio Marras, designer del marchio Kenzo. Lo stilista propone un kimono ‘moderno’, alleggerito cioè dal suo peso, materico e culturale, trasformato in un’ampia cappa. Il qipao, l’abito cinese, già molto noto in Occidente negli anni Trenta del Novecento, è stato riadattato e rilanciato con successo da stilisti cinesi, come Sury & Kay, dopo che il suo uso era stato proibito durante il periodo della Rivoluzione culturale, e anche da stilisti europei.
Moda e religione
Il presupposto che per essere religiosi si debba essere indifferenti alla moda e che per seguire la moda non si possa essere davvero realmente religiosi, come se i due concetti fossero inconciliabili, è contraddetto dall’ampia diversità di stili adottati dalle donne musulmane contemporanee. In ogni parte del mondo le donne musulmane che si interessano di moda, ne modificano l’idea stessa, adattando e adottando mode locali e globali, e partecipano allo sviluppo di nuove tendenze. Un approfondimento sulle pratiche vestimentarie islamiche, estremamente variegate nei diversi Paesi di cultura e religione islamica, esula dagli obiettivi di questa breve rassegna, ma è opportuno sottolineare la presenza di una specifica moda. La moda islamica esiste e offre una diversa topografia, si dirige verso centri differenti e segue differenti circuiti rispetto a quelli convenzionalmente associati al concetto di moda. Per es., nonostante siano influenzati dalle tendenze di Londra, Parigi e Milano, i fashion designers contemporanei che vivono in Egitto e Irān si rivolgono come fonte di ispirazione estetica anche all’India, al Libano e al Marocco, mentre i designer che vivono in Mali si rivolgono all’Africa occidentale francofona, in particolare a Dakar e Abidjan. I musulmani che vivono a Londra creano un guardaroba cosmopolita che deriva dalla circolazione di diversi tipi di abito, come dalla possibilità stessa di viaggiare e dalla conoscenza dei Paesi musulmani. E il medesimo capo di abbigliamento può avere significati diversi in differenti contesti geografici e culturali. Alcune donne del Sud dell’India, dello Yemen, dell’Indonesia e del Mali guardano all’Arabia Saudita come punto di riferimento per i loro capi, e da ciò deriva la diffusione e la popolarità dell’abaya (la nera cappa avvolgente) in luoghi diversi. Mentre in Arabia Saudita l’abaya può essere considerata una forma di costume nazionale imposto dallo Stato, nello Yemen (come dimostra il documentario dell’antropologa svizzera Vanessa Langer The veil unveiled del 2004) e nel Sud dell’India assume differenti connotazioni ed è percepito da molte donne islamiche come un’alternativa sofisticata, metropolitana e di moda alle possibili varietà locali degli abiti che coprono interamente il corpo. Un fenomeno di questi ultimi anni è l’emergere e lo sviluppo del consumo islamico, che crea espliciti legami tra religiosità e moda, e incoraggia le donne musulmane a essere sia coperte sia alla moda, sia modeste sia attraenti. Sempre più spesso, vecchie forme severe e controllate di marketing vengono sostituite da tecniche più glamour. Questa dinamica è particolarmente evidente in Turchia dove capitalismo, consumismo e politica convergono nello sviluppo di una scena fashion islamica fiorente, ricca di sfilate, di pubblicità patinate e boutique specializzate. Sfilate di moda islamica hanno attirato un’ampia pubblicità in Indonesia e in Iran. Nel 2003 in Iran è uscita «Lotus», la prima rivista femminile sulla moda dai tempi della rivoluzione islamica. Strategie di marketing globali spesso coesistono con forme più controllate, come le pubblicità in bianco e nero in cui i volti delle donne sono nascosti. A Rotterdam un gruppo di giovani donne musulmane, immigrate di seconda generazione, ha fondato una rivista e organizzato una mostra dal titolo MSLM che significa sia Medium, Small, Large, cioè le misure della moda, sia Muslim fashion. Queste ragazze, cresciute nei Paesi Bassi, hanno una visione del loro background culturale che fonde la silhouette islamica e quella non islamica in nuove forme. Molta eco ha avuto sui media la creazione di un jeans ‘da preghiera’, cioè più comodo per inginocchiarsi, Al Quds jeans, da parte di un’azienda italiana.
Un commento a sé merita il velo, l’elemento principale del vestire islamico, cioè del vestire modesto, per la quantità di siti web che ne commercializzano versioni moderne, colorate, fashion. Quello che è stato definito il triangolo di stoffa a più alta intensità simbolica è uscito dunque dai confini del puro connotato di indicazione religiosa per addentrarsi nei meandri della moda. È sufficiente uno sguardo ai numerosi siti Internet specializzati in moda islamica che vendono on-line il foulard o velo islamico o hijab, per comprendere che non siamo di fronte a una rinuncia alla moda, bensì all’applicazione della stessa ben al di là del suo originario significato occidentale, sartoriale. In Turchia, dove era stato abolito l’uso del velo dai tempi del laico fondatore e primo presidente della Repubblica Turca, Mustafa Kemal Atatürk (1881-1938), ne è stato nuovamente liberalizzato l’uso per le studentesse universitarie (febbr. 2008). Hayrunisa Gül, moglie del premier Abdullah Gül (eletto presidente il 28 agosto 2007), si presenta in pubblico a capo coperto (e Atil Kutoglu è lo stilista turco ufficialmente incaricato del look della first lady che deve essere islamico e moderno), mentre in Francia una legge (in vigore dal 15 marzo 2004) che impedisce l’uso del foulard nelle scuole pubbliche ha provocato vibranti proteste da parte delle donne islamiche che risiedono nel Paese.
Nel sito della stilista di moda islamica Bin Hejaila, è possibile leggere gli intenti che animano la sua missione, «to serve God and Islam» e «to promove dignity through fashion», ovvero servire Dio e l’islam e promuovere la dignità attraverso la moda.
Cina: da fabbrica del mondo a shopping mall
In Cina è possibile trovare ogni tipo di produzione, in quanto nel Paese vengono prodotti gran parte dei grandi marchi multinazionali, gran parte del made in Italy ed enormi quantitativi di ogni genere di prodotto vestimentario (copie e imitazioni incluse). Basti dire che il 70% della produzione mondiale di calzature è made in China. Considerata fino a pochi anni fa solo come una forza lavoro a basso costo per produrre tessuti, semilavorati e indumenti da esportare, la Cina è invece divenuta uno dei luoghi privilegiati in cui vendere i propri prodotti. Il retail (ossia la distribuzione) è un’attività più remunerativa, data l’attrattiva esercitata dai marchi occidentali, rispetto alla sola produzione, tra l’altro destinata a diminuire percentualmente quando il costo del lavoro cinese si alzerà (secondo una tendenza già in atto) se non a livelli europei e americani, senz’altro a livelli non più competitivi rispetto a quello di altri Paesi in via di sviluppo. Le stesse aziende cinesi e alcune aziende straniere stanno già delocalizzando alcune fasi produttive dalle regioni costiere, più ricche e avanzate, a quelle situate all’interno del Paese, economicamente molto più arretrate, ma anche ad altri Paesi, per es. Tunisia, Vietnam, Corea. Aprire negozi in Cina è oggi l’attività che più di frequente viene effettuata dagli imprenditori della moda, nonostante le difficoltà che comporta per i marchi stranieri inserirsi in un mercato governato da logiche molto diverse rispetto a quelle europee e occidentali. Spesso coordinati da distributori di Hong Kong, i marchi occidentali si stanno imponendo non solo a Shanghai, Pechino e Hangzhou, ma anche nelle cosiddette città di seconda fascia, che hanno comunque dimensioni ragguardevoli, vere e proprie metropoli che contano sette, nove, dieci milioni di abitanti. Una delle prime aziende italiane ad aprire negozi di made in Italy in Cina è stata Ermenegildo Zegna, il cui punto vendita a Pechino risale al 1991. Un’altra attività più recente in cui si sono impegnati italiani e cinesi è quella delle joint ventures produttive e distributive, specificatamente dedicate al mercato cinese. Anche in questo caso uno dei principali protagonisti è Zegna con il marchio in joint venture SharMoon (2003), ma anche Miroglio con il marchio Elegant.Prosper (2004) per l’abbigliamento femminile.
La moda cinese
Fino a un passato recente la moda cinese poteva sembrare una contraddizione in termini, data la sua messa al bando come pratica borghese durante il periodo della Rivoluzione culturale (1966-1969) e sino alla metà degli anni Settanta. L’inizio dell’apertura della Cina all’Occidente risale al 1978, con le riforme di Deng Xiaoping, mentre il decennio più denso di cambiamenti riguardanti i media e la cultura popolare cinese è quello compreso tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta del Novecento. Anche se i primi marchi cinesi risalgono al 1993-94, è solo con l’inizio del 21° sec. che le grandi trasformazioni sono confluite in un modello stilistico che comincia ad assumere un’identità specifica nel mondo della global fashion. In particolare Shanghai, per il fatto di trovarsi al centro della zona industriale più sviluppata e di costituire il luogo delle avanguardie artistiche di ogni tipo, è considerata la città ideale per lo sviluppo della moda, in quanto crocevia di sviluppo industriale, di esperienze artistiche e di consumo. Dai primi anni del nuovo secolo la moda cinese si sta affrancando dalle sudditanze più recenti, non solo da quella occidentale, ma anche da quella della stessa Hong Kong, di Taiwan e del Giappone che costituivano i principali punti di riferimento estetico. È in effetti già possibile indicare un percorso dello stilismo cinese. Mentre gli stilisti della prima generazione (anni Ottanta e Novanta del Novecento), come Han Feng e ZucZug, si sono caratterizzati per un approccio strettamente legato al mondo dell’arte, secondo una pratica ben consolidata in Cina, quelli più recenti hanno scelto un approccio complessivamente più orientato al mercato e al crescente individualismo delle nuove generazioni. Diversamente da quanto hanno fatto i creatori di moda di Hong Kong (il cui esempio più noto è il marchio Shanghai Tang che si è imposto proponendo una moda che oggi ai cinesi appare stereotipata) i giovani designer cinesi propongono la loro personale ricerca e la loro applicazione industriale. Divertimento e decostruzionismo postmoderno sono la cifra estetica della generazione dei più giovani creatori cinesi di moda, come He Yan (che lavora su misura e che ancora non ha un marchio proprio), Alex Ying Jianxia (creatore del marchio Estune), Gao Xin di Evenpenniless, Along di DDR (con negozi aperti a Shanghai e a Pechino). L’«International Herald Tribune» ha dedicato a questo fenomeno un articolo intitolato Shanghai. The allure of individualism (A. Seno, 22 febbr. 2008) segnalando come individualismo e personalizzazione della Me-Gen, cioè Me Generation, siano entrati in modo netto nella definizione dei valori e dei desideri dei giovani cinesi.
Ma il fenomeno non riguarda soltanto marchi di nicchia: la potenza produttiva cinese si accompagna oggi alla creazione di marchi locali della statura di Metersbonwe, colosso dell’abbigliamento casual cinese, con 1300 negozi, il cui imprenditore ha solo 35 anni. La compagnia di cosmetici di Yue-Sai Kan, imprenditrice cinese naturalizzata statunitense, fondata nel 1990, e in continua crescita da allora, è stata acquistata dalla multinazionale francese L’Oréal nel 2004. Risale al 2006 la prima sfilata di stilisti cinesi a Milano, in occasione delle collezioni donna primavera-estate 2007: tra i presenti Lily, Maryma (marchio della ex modella Mary Ma), Uma Wang, Ma Ke (designer di Exception de Mixmind), Xie Feng con il marchio Jefen. Nel gennaio 2008 è stato firmato un accordo tra Mario Boselli, presidente della Camera nazionale della moda italiana, e Cesare Romiti, presidente della Fondazione Italia Cina, il cui primo esito è stata l’organizzazione del primo Annual luxury brands forum (18-19 aprile) a Shanghai. L’accordo tra le due istituzioni prevede l’organizzazione di eventi e manifestazioni per promuovere non solo la moda italiana in Cina, ma anche lo scambio di informazioni nonché il confronto tra stilisti cinesi e stilisti italiani.
La moda australiana
Collegata alla crescita asiatica, ma dotata di una sua fisionomia (casual ma orientata al design e spesso realizzata con fibre d’eccezione, come la celebre lana) e pervasa da una diffusa sensibilità per i temi ambientali, la moda australiana mostra di possedere una propria identità culturalmente vicina a quella cinese con cui spesso si contamina. L’industria della moda australiana, relativamente piccola rispetto a quella europea e americana, comincia ad avere un suo profilo specifico, per quanto non privo di aspetti contrastanti. Se infatti vi sono marchi come Billabong, Rip Curl e Quiksilver, molto noti nel mondo del surf e dei costumi da bagno, altri marchi degli stilisti australiani stentano ancora ad affermarsi. La settimana della moda a Sydney è stata creata proprio allo scopo di favorire la diffusione e la notorietà dei marchi design australiani e non solo di quelli specifici per lo sport e il casual. Tra i più conosciuti vi sono Collette Dinnigan, Akira Isogawa (nato in Giappone e trasferitosi in Australia negli anni Ottanta), Easton Pearson, Willow e Ksubi. Di recente la produzione australiana è arrivata anche in Italia e alcuni tra i più noti stilisti, come il già menzionato Akira Isogawa, Nicola Finetti, Lidia Pearson e altri, sono già da qualche anno distribuiti in Italia da negozi di tendenza come Spazio Lazzari a Treviso e Rosi Biffi a Milano.
Bollywood fashion e moda indiana
Il sari fluttuante indossato da Sushmita Sen, forse l’attrice più nota di Bollywood, è diventato uno dei must della moda urbana indiana. Shamita Shetty, attrice e cantante, ha rilanciato presso le giovani generazioni il sharara, un capo di origine musulmana indossato dalle donne indiane nelle occasioni più eleganti, e l’attrice Priyanka Chopra (già miss Mondo 2000) ha reso la stola rossa (dupatta) un vero e proprio simbolo della moda bollywoodiana. La star di Bollywood Shahrukh Khan – con all’attivo più di 50 film – è in testa alle classifiche di Lovemarks: the future beyond brands, la ricerca gestita da Kevin Roberts per l’agenzia di pubblicità Saatchi & Saatchi. Negli ultimi dieci anni gli stilisti e i costumisti della maggiore industria cinematografica del mondo hanno influenzato il modo di vestire indiano e pakistano, ma nel nuovo secolo Bollywood è andata oltre la dimensione locale e sta influenzando anche lo stile occidentale. Da quando lo stilista Manish Malhotra ha disegnato gli abiti dell’attrice Urmila Matondkar per il film Rangeela (1995) di Ram Gopal Varma si può dire che sia cominciato il successo dello stile Bollywood ben al di là del contesto locale. Con la diffusione della moda in stile Bollywood è aumentata anche l’attrazione per tutta la moda del Sud-Est asiatico: hanno acquistato popolarità e sono divenuti oggetto del desiderio sari, salwar kameez, kurta, churidar. Il sari, una pezza di tessuto lunga fino a cinque metri e mezzo che si porta avvolto intorno ai fianchi e drappeggiato in diversi modi sulla spalla sinistra, combina la tradizione asiatica del drappeggio (la pezza di tessuto non cucita e non tagliata) con la sartorialità generalmente europea (il corpetto è infatti un capo ‘preformato’, cioè cucito e tagliato con una forma specifica). Parallelamente allo stile ispirato a Bollywood si sta sviluppando in India un’industria della moda, suddivisa in alta moda e prêt-à-porter. All’edizione 2007 del Lakmé fashion week era presente la Rinascente di Milano che ha selezionato per il negozio di piazza del Duomo capi dei nuovi stilisti emergenti Anamika Khamma, JJ Valaya, Monisha Jaising, Rina Dhaka, Rohit Bal e Tarun Tahiliani. A Nuova Delhi, alle sfilate della 10a edizione di India fashion week (primavera-estate 2008), in un padiglione di seimila metri quadri, hanno sfilato capi di Tarun Tahiliani, Manish Arora, Rohit Bahl, Ashima Singh, Aparna Wangdi. A Delhi, la boutique multibrand Ogaan, una delle più interessanti a livello internazionale, distribuisce i più noti stilisti indiani: oltre ad Arora e Bahl, anche Ashish Soni, J.J. Valaya, Anu Mafatlal, Raghuvendra Rathod, Madhu Jain, Pallavi Jaikishan, Salim Asgarally, Arjun Khanna.
Le categorie della fashion contemporanea
Il lusso
Le stime che riguardano la crescita del mercato del lusso indicano un giro di un trilione di dollari entro il 2010. Gli analisti concordano che in Europa l’ostentazione di ricchezza è in declino, mentre anche i nuovi ricchi, cioè in particolare russi e cinesi, tendono a considerare il lusso, come già gli euroamericani, un piacere sensoriale, un’esperienza di consumo, più che una manifestazione di status. Il senso del lusso è il titolo di una manifestazione dedicata all’esplorazione del fenomeno (Fiere di Parma 5-8 giugno 2008), a riconoscimento dell’importanza e delle novità associate al concetto di lusso. Il nuovo termine masstige, formato dalle parole mass e prestige a indicare articoli dai prezzi moderati ma con un marchio prestigioso, individua la diffusione del lusso come una delle caratteristiche del 21° secolo. Gli articoli di lusso sono soprattutto accessori, come occhiali, borse e scarpe, più che abiti. Numerose sono le strategie di marketing per stimolare il desiderio di acquistare oggetti di lusso, dalle limited editions (scarsità di offerta) ai tempi di attesa volutamente protratti per accrescere la desiderabilità dei prodotti. Secondo Erica Corbellini e Stefania Saviolo (2007), il lusso oggi è soprattutto esperienza più che manifestazione di un prestigio e garantire l’esperienza del lusso, nelle sue diverse declinazioni, è il compito dei grandi marchi.
Sono identificabili almeno due categorie di acquirenti di beni di lusso che seguono percorsi solo in parte simili, mentre le esperienze e le pratiche di consumo sono molto diverse, anche quando si tratta di acquistare il medesimo prodotto. Sono però le modalità con cui li si acquista a fare la differenza. Un primo target più tradizionale esperisce il lusso nella sua declinazione originaria, quella di prodotto speciale, unico, sempre frutto di una capacità di discernimento, di un saper scegliere maturato negli anni, una dispiegazione di gusto inteso, secondo Pierre Bourdieu, come segno di distinzione e, secondo Thorstein Veblen, come espressione di status: si tratta dei baby boomers, che hanno più di quarant’anni e che ai prodotti di lusso richiedono qualità dei materiali, durata, prestigio, piacere. Pur se l’aspetto esperienziale è importante quanto l’affermazione di status, il valore del prodotto è legato alla percezione del valore materico dell’oggetto. Il secondo target è invece più giovane: si tratta della Millenium generation, come la definisce «Time Magazine» che nel 2008 ha dedicato al fenomeno un’inchiesta secondo la quale i marchi del lusso sono il vocabolario di base con cui questi giovani si esprimono, i principali riferimenti comunicativi in una sorta di linguaggio globale. Rispetto ai Boomers, la Millenium generation, cioè i giovani del nuovo millennio, nati tra il 1980 e il 2000, che siano americani, giapponesi, cinesi, turchi o di Dubai, sono interamente definiti dal concetto di lusso. L’inchiesta del «Time Magazine» sui giovani e il lusso fornisce dati interessanti sul fenomeno: il 98% degli intervistati dichiara di indossare abiti, gioielli e orologi firmati; il 96% preferisce acquistare brand del lusso molto noti e di cui ha fiducia; il 92% afferma di lavorare moltissimo per poterli acquistare, di amare la pubblicità dei beni di lusso e che essere alla moda è importante per sentirsi a proprio agio con sé stessi. Si tratta di oggetti che la Millenium generation compera indifferentemente su Internet (uno dei siti più noti è net-a-porter.com), nei flagship stores e negli outlet, mentre la generazione dei Boomers si attiene a un comportamento di consumo più tradizionale e li acquista principalmente nei negozi e nei department stores più prestigiosi.
Un fenomeno legato al nuovo lusso è quello delle celebrities, ossia dei personaggi dello star system che da testimonial di un brand, diventano essi stessi un mezzo di comunicazione (il caso più emblematico è forse quello di Paris Hilton, celebre in quanto celebre) e che spesso immettono sul mercato il loro brand, come, per es., Jennifer Lopez, Céline Dion, Scarlett Johansson e Kate Moss. È da segnalare anche il fenomeno dello street luxury, tendenza nata a Tokyo e basata sull’incontro tra street fashion e artigianato locale, che grande successo sta ottenendo presso un pubblico giovane che non ama i grandi marchi di lusso, ma cerca prodotti di distinzione. Esempi di questa tendenza, oltre all’ormai noto Evisu, sono il marchio Mastermind Japan di Masaaki Homma e i jeans di Heddie Lovu, che si apprestano a divenire di tendenza anche al di fuori del Giappone. In Italia è da segnalare il brand Care label di Lapo Elkann, lanciato in collaborazione con il designer Leopoldo Durante.
La moda etica
I movimenti per la salvaguardia delle risorse del pianeta, per i diritti umani e per i consumi consapevoli, non potevano non coinvolgere anche la moda, stereotipicamente definita l’industria del superfluo, storicamente prodotta nei sweat shops, i laboratori domestici, industrialmente soggetta a lunghe catene di subappalti, a lungo criticata come industria imperfetta proprio per essere la meno ‘controllabile’ nell’intera sua filiera. L’idea del lusso e del superfluo prodotto con lo sfruttamento dei lavoratori ha colpito la moda sin dai tempi della rivoluzione industriale; messa tra parentesi per tutti gli anni dell’illusione di un mondo pacificato, riprende con grande vigore oggi, in piena globalizzazione, con l’emergere di problematiche relative a produzione, consumo, delocalizzazione, diritti dei lavoratori. Il giornalismo di inchiesta frequentemente evidenzia tali contraddizioni, per es. il notevole e poco onorevole divario tra gli utili di piccole aziende/laboratori (che utilizzano manodopera immigrata e clandestina) e i prezzi finali degli omologhi prodotti al consumatore negli esercizi commerciali di lusso, e le perniciose condizioni in cui si svolge lavoro nei laboratori medesimi.
A volte la moda etica può tradursi anche in una tragica parodia, come è il caso della borsa I’m NOT a plastic bag (2007) di Anya Hindmarch, creata per incoraggiare le sue consumatrici a non usare la plastica, ma poi criticata perché accusata di essere stata prodotta in Cina da lavoratori sottopagati.
Ma che cos’è allora la moda etica? È possibile per l’Occidente e per le grandi produzioni essere etici in tutti gli stadi della filiera? Vanessa Beecroft, un’artista italiana che vive e lavora a New York, ha spesso utilizzato i temi della moda come strumento del suo percorso artistico, e in un’opera recente, il progetto fotografico VB South Sudan (Milano, Galleria Lia Rumma, 2006) ha messo a nudo questo tema. In una delle immagini è presente lei stessa ritratta come una madonna bianca mentre allatta due orfani sudanesi gemelli, vestita con un abito di Martin Margiela il cui orlo è visibilmente bruciato. L’immagine prende spunto da una campagna pubblicitaria del 1989 di United colors of Benetton, in cui una donna nera teneva al seno un bimbo bianco. Al posto del multiculturalismo ingenuo di un pur recente passato, troviamo ora invece perplessità e dubbio. L’immagine di Vanessa Beecroft è ‘vera’, nel senso che quei bambini sono stati da lei realmente allattati (l’artista era diventata madre da poco all’epoca della fotografia), ma al tempo stesso la Beecroft invita a interrogarci su quanto sia ‘vero e reale’ l’aiuto che noi occidentali possiamo dare al Sud del mondo.
L’Ethical fashion show di Parigi è una fiera nata nel 2004 e dedicata interamente alle potenzialità della moda etica. Secondo i suoi organizzatori la moda può essere rispettosa dell’ambiente e dei lavoratori, pur conservando intatta tutta la sua attrattiva. In apertura del catalogo dell’edizione 2007 sono elencati gli obiettivi della manifestazione: provare che la moda etica può essere di tendenza e anche socialmente utile, rispettosa dell’ambiente, aperta alle influenze dei Paesi in via di sviluppo e alle diverse culture. Una moda che può incoraggiare lo sviluppo economico, costituire un luogo di incontro per tutti i designer, gli stilisti e i commercianti di prodotti tessili, promuovere il dibattito sui temi dell’etica e soprattutto dimostrare di poter avere un grande mercato. L’America Meridionale (e in particolare il Brasile) è tra i luoghi più interessanti per gli esperimenti di moda etica che spaziano dalla moda prodotta nelle favelas (quindi di sostegno a popolazioni disagiate), a produzioni ecologiche ottenute nel rispetto della natura, come il cuoio vegetale prodotto con la resina degli alberi di caucciù. Da argomento di nicchia, il tema è diventato negli ultimi anni sempre più diffuso e sentito. Campagne pubblicitarie a diffusione internazionale come Clean clothes e Made in dignity sono state ideate per diffondere presso i consumatori concetti come trasparenza nei controlli e nelle transazioni e rispetto delle leggi internazionali a tutela di tutti i lavoratori. Nel 2006 è uscita in Italia la Guida al vestire critico del Centro nuovo modello di sviluppo, mentre le autrici di La moda della responsabilità (2007) individuano tre diverse possibilità di fare moda responsabile: la moda ‘biologica’, attenta soprattutto alle modalità di produzione (in particolare le coltivazioni biologiche delle fibre, i procedimenti di tintura, quindi l’ecosostenibilità); la moda ‘solidale’, attenta in primo luogo alle condizioni dei lavoratori e alla salvaguardia del lavoro minorile; la moda dell’usato, che pone la pratica del riciclo al centro del consumo consapevole.
Tra le iniziative legate alla moda etica, è di particolare interesse la RelationChip station (realizzata dallo studio Vogt+Weizenegger), una postazione creata per lo scambio interattivo di abiti e accessori di abbigliamento. Negli abiti, sottoposti a restyling, sono inseriti microchip per conservare la memoria di precedenti fasi e possessori. Nella postazione, un apposito lettore consente di leggere la storia di ogni capo e degli stilisti che l’hanno rimodellato. Tra gli esempi più interessanti di moda etica si pone il lavoro di Christina Kim, designer coreana emigrata nel 1971 negli Stati Uniti. Il suo marchio Dosa è prodotto nel rispetto e nella valorizzazione della manodopera artigiana (per la maggior parte donne) e della storia dei tessuti utilizzati. A Ch. Kim l’ISA (Istituto di Studi Avanzati), dell’Università di Bologna, con la collaborazione del Comune di Bologna e del Museo internazionale e biblioteca della musica, ha dedicato nel 2008 una mostra dal titolo Naturale, rigenerato, fatto a mano. La moda etica di Christina Kim.
La moda etica è parte di un più generale movimento che contrasta la velocizzazione della moda e che per tale ragione si può definire slow fashion.
La fast fashion
La fast fashion, o moda veloce (come viene chiamata per distinguerla dal pronto moda, che ha conservato l’accezione negativa di prodotto imitativo e a basso costo che aveva fino a un recente passato), è una delle macrotendenze più significative dei primi anni del nuovo secolo. La velocità si riferisce al breve lasso di tempo che esiste tra l’emergere di un nuovo trend e la capacità dell’azienda di rispondere al trend rendendo il prodotto disponibile sul mercato per essere venduto (Sheridan, Moore, Nobbs 2006). Per es., il brand spagnolo Zara impiega solo tre settimane per portare un prodotto dalla fase di design allo scaffale, a confronto con i nove mesi che rappresentano la media del settore. Le imprese del pronto moda, spiega Roberto Vona (2003), fanno della logica pull la propria strategia, cioè cercano tendenze da tradurre in lanci di campionario di piccole dimensioni. Punti di forza di questo modello sono struttura produttiva reticolare e punti di diffusione all’ingrosso facilmente raggiungibili, nonché largo uso di terzisti. I giganti della fast fashion sono Zara, Mango e H&M. Zara fornisce i suoi punti vendita anche due volte alla settimana con le novità, basandosi sul concetto di scarsità e opportunità, che spinge il cliente a comprare immediatamente un capo che gli piace e che ha un costo ridotto nel timore di non trovarlo in seguito.
Anche in Italia ci sono molti marchi di fast fashion che stanno acquisendo grande notorietà sui mercati internazionali, come Patrizia Pepe, Liu-Jo, Fornarina, Pinko e molti altri, mentre i grossisti del pronto moda si trovano soprattutto a Bologna (Centergross) e a Napoli (CIS Interporto campano). Inoltre a Prato è presente un nucleo molto sviluppato di pronto moda cinese, il cui marchio più noto è Giupel. Nel 2003, in Europa, le vendite nel settore fast fashion sono aumentate del 32% rispetto al 1999. I produttori e i distributori di fast fashion si rivolgono, secondo alcune ricerche di marketing, principalmente ai fashion innovators, persone giovani, interessate a come si vestono i propri idoli e il cui reddito permette loro di comprare abbigliamento alla moda con una certa frequenza. Questi marchi spesso utilizzano codici di pubblicità simili a quelli del lusso, a dimostrazione del fatto che il luxury è ormai una categoria comunicazionale più che una qualifica di prodotto.
La presentazione di più collezioni ravvicinate è una tendenza che accomuna la maggior parte delle aziende di abbigliamento e moda e che rientra nel più generale orientamento della fashion contemporanea alla destagionalizzazione della moda stessa, ossia all’interruzione delle classiche scadenze di presentazione delle collezioni. I tempi si fanno più serrati per tutti, non solo per chi si occupa di pronto moda. Tecnicamente si mira a un semiprogrammato, cioè a una modalità ibrida che cerca di unire i vantaggi della produzione del pronto moda (velocità, riassortimento, attenzione al retail) a quelli del programmato (immagine, prestigio, qualità). Si crea dunque questa doppia contaminazione: la fast fashion adotta i codici comunicativi del luxury e le marche tradizionali traggono spunto dall’innovazione produttiva della fast fashion.
Evoluzione del made in Italy
Let yourself be charmed by an Italian: è questo il titolo della campagna per la diffusione del made in Italy negli Stati Uniti, affidata a Isabella Rossellini, un’italiana particolare, di madre svedese (l’attrice Ingrid Bergman) e padre italiano (il regista Roberto Rossellini), naturalizzata statunitense, dunque molto transnazionale e cosmopolita. Questa scelta sembra emblematicamente sintetizzare il concetto secondo il quale nel nuovo secolo le origini geografiche non servono più a qualificare un prodotto, così l’italianità della produzione è solo uno degli elementi messi in gioco insieme ad altri altrettanto interessanti. Nel secondo quinquennio del Duemila la questione su cosa sia o non sia made in Italy e le varie sfumature alternative come styled in Italy, hand made in Italy, designed in Italy appaiono diatribe terminologiche prive ormai di attualità. I tentativi di ancorare il made in Italy al luogo di produzione si sono arenati quasi subito sulle secche della diffusa pratica di delocalizzazione, iniziata negli anni Ottanta del Novecento e nel 21° sec. divenuta quasi la norma. La questione tuttavia non è risolta. Poiché nella moda vi è un forte contenuto emozionale, l’italianità di un prodotto può indurre o meno il consumatore all’acquisto. D’altra parte l’immagine in alcuni casi è così potente (basti pensare a Prada, a Dolce & Gabbana o a Giorgio Armani) da compensare ampiamente il luogo di produzione. Altre volte l’italianità diventa solo un attributo, come nei casi di Patrizia Pepe Firenze e Liu-jo Italia, due marchi di fast fashion a vocazione luxury. La moda internazionale oggi, e non solo quella italiana, è soprattutto branding e distribuzione e si riferisce a un concetto più ampio di stile di vita. Per questo motivo molti stilisti hanno ampliato la loro offerta coprendo vari altri settori nel campo del benessere: linee cosmetiche, alberghi, bar dove poter mostrare la loro concezione di stile italiano. Vale di più, in certi mercati, offrire uno stile di vita italiano piuttosto che un prodotto made in Italy in senso stretto. Secondo Kevin Roberts (Ideas Company di Saatchi & Saatchi) il concetto deve trasformarsi da made in Italy a made by Italy. L’Italia, quindi, come idea e non come geografia. Ed è proprio il linguaggio del lusso ad aver cancellato le frontiere: è infatti il design che conta e non più il luogo di produzione.
Vi è tuttavia anche una tendenza a riproporre un made in Italy in senso letterale, con prodotti fatti interamente in Italia e destinati a un segmento di nicchia, in cui l’idea e il luogo coincidono: mi riferisco a quel movimento definito demi couture che tanto favore sta incontrando nelle sfilate più recenti. Sartorialità accurata e un prodotto costruito artigianalmente e in uno specifico luogo dell’Italia (come nel caso del marchio Hand made in Tuscany o del local craftmanship di Massimo Alba) contraddistinguono produzioni di elevata qualità interamente realizzate da laboratori artigiani italiani. In effetti le piccole produzioni quasi artigianali, molto elevate per qualità, costituiscono una parte interessante del nuovo made in Italy che intende recuperare, in chiave slow fashion, competenze artigianali locali coniugandole alle tendenze attuali.
Il quadro italiano della moda può dunque essere così sintetizzato: grandi brand del lusso consolidati dagli anni Novanta (come Prada, Gucci, Dolce & Gabbana, Ermenegildo Zegna, Ferragamo, Armani, Versace, Roberto Cavalli ecc.); fast fashion, diffusione veloce con sensibilità alle tendenze del luxury (Pinko, Liu-jo, Patrizia Pepe, Zu Element, Phard, Celyn B., Coconuda, Carpisa, Alcott ecc.); marchi sportswear/jeans (Benetton, Stefanel, Replay ecc.) e marchi giovani (Sweet Years, Guru, A-Style, R35P3C7 ecc.) che fondono i codici del linguaggio giovanile con quelli della rete, della televisione e della cultura urbana. Infine marchi demi couture, basati su attenzione sartoriale, sperimentazione, artigianalità e tecnologia (con la new wave rappresentata dal marchio 6267 di Tommaso Aquilano e Roberto Rimondi, da Albino, Sara Lanzi, Pierluigi Fucci, Giambattista Valli) e la presenza sempre più significativa della moda etica (tra gli esempi il marchio Nathù italian biocouture).
Tessuti intelligenti e moda
Secondo gli esperti la nostra vita sarà sempre più regolata dai dispositivi intelligenti e molti di questi dispositivi riguarderanno i tessili e l’abbigliamento.
I tessuti intelligenti (SMIT, SMart and Interactive Textiles, ossia materiali tessili in grado di elaborare informazioni attraverso l’inserzione di dispositivi elettronici o materiali intelligenti) rappresentano la nuova generazione di fibre e tessuti. Molti di questi, chiamati anche wearable electronics, cioè elettronica indossabile, o e-textile, tessili elettronici, sono considerati veri e propri sistemi informatici a basso costo, portabili, flessibili, indossabili e perfino lavabili (Catellani, Cucchi 2005).
Qual è il rapporto tra tessuti intelligenti e moda? Per alcuni studiosi il futuro della moda risiede in gran parte nella ricerca tessile. I tessuti e le innovazioni nel campo delle fibre sono sempre stati il motore della moda, ma effettivamente in questi ultimi anni è molto forte la relazione con l’innovazione tecnologica. Per poter differenziare il proprio marchio da produzioni sempre più massificate, il tessuto con le sue prestazioni, vuoi tecniche, vuoi estetiche, diventa un elemento di discriminazione fondamentale. Un antesignano di questa categoria è stato il Gore-Tex®, la membrana impermeabile e traspirante. Nato dalla ricerca spaziale e medica, il Gore-Tex® ha conosciuto un successo straordinario nella sua applicazione all’abbigliamento sportivo e tecnico.
La ‘tecnologia indossabile’ ha attraversato negli ultimi anni varie fasi di sofisticazione. In una prima fase era ottenuta semplicemente con l’applicazione di sensori sul tessuto, ma in seguito (Catellani, Cucchi 2005) la ricerca ha consentito di ottenere tessuti ibridi (per es., con fibre ottiche inserite), fino all’integrazione completa dei dispositivi elettronici all’interno dei tessuti con la tecnica del ricamo (e-broidery) o durante la tessitura stessa. L’ultimo ritrovato è la messa a punto di un tessuto elettronico a fibra che lo trasforma in un network di dispositivi interconnessi in grado di operare in modo coordinato.
Il Progetto MATEO, Matching TEchnologies and Opportunities (Stato dell’arte negli Smart Textile e nei tessuti interattivi, http://www.mateo.ntc.zcu.cz/doc/ Stato.doc, p. 2; 9 giugno 2009) ha elaborato una classificazione dei tessuti intelligenti secondo un criterio evolutivo: i tessili intelligenti passivi sono i primi tessuti intelligenti, in grado soltanto di rilevare le condizioni ambientali; i tessili intelligenti attivi sono la seconda generazione e comprendono sia attuatori sia sensori. Gli attuatori agiscono in funzione del segnale rilevato, o direttamente o attraverso un’unità centrale di controllo. I tessili intelligenti attivi determinano tessuti dalle seguenti caratteristiche: a memoria di forma, camaleontici, resistenti all’acqua e permeabili al vapore, ad accumulo di calore, termoregolanti, ad assorbimento di vapore, a sviluppo di calore. I tessili ultraintelligenti sono in grado di sentire, reagire e adattarsi autonomamente alle condizioni ambientali oppure a uno stimolo. Un tessile ultraintelligente consiste essenzialmente in un’unità dotata di capacità di cognizione, elaborazione e reazione.
Il Paese più avanzato nella nanotecnologia applicata al tessile è il Giappone, ma anche in Italia (già molto avanzata nei finissaggi, cioè nella trasformazione dei tessuti) vi sono esempi significativi: i filati antimicotici che proteggono dalle infezioni, i vestiti emollienti per chi soffre di dermatite, la t-shirt che registra l’elettrocardiogramma, la sudorazione e il bilancio idrosalino (De Maria, Goletti, Pace 2008), il progetto Biotex per indumenti intimi muniti di sensori in grado di monitorare i parametri biochimici del paziente/consumatore. La giacca musicale con MP3 integrato, i costumi da bagno che lasciano passare i raggi UVA per abbronzarsi integralmente senza spogliarsi del tutto, la maglia antifumo progettata dal CNR, i pantaloni Dockers autopulenti, il progetto Avirex in associazione con Gore-Tex® per creare un pantalone iperfunzionale sono solo alcuni dei tanti esempi della vitalità di questo settore. La nanotecnologia ha portato alla fabbricazione di tessuti più resistenti, che non si stropicciano e richiedono meno lavaggi. Una delle novità più interessanti è il Luminex, detto tessuto di luce in quanto luminoso per l’utilizzo di fibre ottiche. I tessuti di abbigliamento high-tech e l’ingegnerizzazione della moda sono quindi lo strumento per dare una grande forza propulsiva all’industria tessile. Tra le principali aziende che si occupano dell’e-textile, ricordiamo la Toray e la Smartex. La Toray ha lanciato un tessuto impregnato con microcapsule che rilasciano gradualmente un’essenza di aloe vera, ad azione antibatterica, quando il tessuto si riscalda a contatto con il corpo. La Smartex ha in corso una serie di progetti che spaziano dalla salute all’abbigliamento alla riduzione degli sprechi. Per alcuni aspetti la tecnologia si sposa infatti con le esigenze della moda etica. Abbiamo già citato (v. Le categorie del fashion contemporaneo: La moda etica) i microchip inseriti nei capi per memorizzare la storia dei diversi passaggi. Ma anche l’ipernaturalità – ottenuta con il trattamento tecnologico delle fibre naturali – è connessa alla moda etica e alla ricerca scientifica, per es., nel caso delle coltivazioni di cotone biologico, impermeabile e traspirante, Epic in California, o dei filati Franzoni Futura la cui qualità è stata migliorata dalla tecnologia. Tra gli stilisti che maggiormente hanno sperimentato la relazione con la tecnologia è senz’altro da segnalare Hussein Chalayan tra i primi ad applicare la tecnologia alla progettazione, ma anche Michiko Koshino, con gli abiti gonfiabili e riflettenti, e Boudicca. In collaborazione con la Eleksen, Zegna ha realizzato la iJacket per gestire l’iPod. La stessa Apple ha collaborato con il marchio di abbigliamento e snowboard Burton e con la ditta di tessile tecnologico SOFTswitch, per realizzare una giacca in edizione limitata per gli utilizzatori di iPod, la Burton amp. Si tratta di una giacca a tre strati di Gore-Tex® che include una tecnologia touch inserita direttamente sulla manica. Un altro esempio è Mulberry che ha utilizzato aerogel, un leggerissimo materiale isolante utilizzato dalla NASA per i viaggi spaziali, composto per oltre il 95% di aria, per mettere in commercio la Magic aerogel jacket. L’aerogel è stato utilizzato anche dall’azienda italiana Corpo nove per realizzare la Absolute zero jacket, giacca adatta per i freddi estremi. La camicia confezionata nel tessuto a memoria di forma Oricalco da Grado zero espace è in grado di recuperare qualsiasi forma preprogrammata mediante l’uso del calore. Il tessuto può anche essere completamente accartocciato, ma è sufficiente la semplice esposizione a un getto d’aria calda per fargli riprendere la forma originale.
Si tratta di un settore in continua crescita per il quale è possibile stimare un mercato di un miliardo di dollari entro il 2010.
Bibliografia
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