La modificazione della città europea
Uno scenario in fase di trasformazione
All’alba del nuovo secolo le grandi città d’Europa hanno attuato sistematici programmi di modificazione delle strutture urbane per rispondere alle attese della contemporaneità. Al di là delle diverse soluzioni adottate, resta in comune un interrogativo teorico di fondo, che verte non sul ‘se’, bensì sul ‘come’ realizzare il processo di modernizzazione senza deformare l’identità culturale ereditata dalla storia. Va preso atto, infatti, che nell’attuale era della globalizzazione la crescita urbana rappresenta un inarrestabile fenomeno a scala planetaria, che ha raggiunto livelli esponenziali nelle megalopoli asiatiche e statunitensi negli anni a cavallo tra 20° e 21° sec. (Città. Architettura e società, 2006). Lo comprova peraltro il trend statistico già evidenziato da Crispin Tickell nella prefazione al saggio del 1997 di Richard Rogers pubblicato a cura di Philip Gumuchdjian, Cities for a small planet. Nel 1950 solo il 29% della popolazione mondiale risiedeva nelle grandi città, ma nel 2005 tale percentuale è salita al 50%, e nel giro di due decenni potrebbe superare la soglia del 75%. Di fronte a tale fenomenologia, non resta che prepararsi a garantire il ‘diritto alla città’ con una pianificazione lungimirante, vale a dire a rispondere con adeguate tecniche alla crescente domanda di coloro che aspirano a vivere nelle aree urbanizzate.
Se ciò è vero, resta altresì innegabile che le città europee hanno radici storiche profonde al punto tale da non poter consentire che siano recise da una modernizzazione incontrollata, affidata alla mera dinamica finanziaria del ciclo edilizio. Civitas e civilitas hanno un etimo comune. La civiltà dell’abitare si è manifestata al suo più alto livello proprio nella città, definita non a torto da Claude Levi-Strauss «la cosa umana per eccellenza». Nella forma urbis delle città storiche si è sedimentata non solo una struttura fisica dello spazio sociale costruito, ma anche una costellazione immateriale di valori culturali e di simboli collettivi che orienta la civile convivenza. Pertanto, nella prefigurazione del futuro sarebbe insensato sottovalutare la valenza simbolica racchiusa nella ‘seduzione del luogo’ (Rykwert 2002). Dalla memoria del passato può essere distillata se non altro l’aspirazione alla qualità diffusa, vale a dire la capacità di edificare con equilibrio le parti urbane. Pur senza pervenire a un assoluto isomorfismo egalitario, nelle città europee si è teso finora a evitare l’esasperazione dei conflitti sociali mostrata dall’eclatante contrasto tra le favelas dei diseredati e i grattacieli delle classi agiate.
Ciò nonostante, l’orizzonte problematico dischiuso dalle sfide del nuovo tempo rivela molte incognite. Certo, «la forme d’une ville – aveva già notato Charles Baudelaire – change plus vite, hélas! que le cœur d’un mortel» (Le cygne, in Fleurs du mal, 1857). Ma la velocità e l’imprevedibilità delle metamorfosi metropolitane hanno raggiunto nell’attuale scenario vertici tali da imporre una radicale revisione della maniera di concepire la pianificazione urbana e territoriale. Basti pensare alle questioni scaturite dall’incessante flusso dell’immigrazione proveniente dai Paesi extraeuropei, che solleva inediti interrogativi sull’opportunità di integrare nella conformazione stessa delle città il caleidoscopico paesaggio multiculturale delle diversità etniche. Senza contare la rapidità evolutiva delle tecnologie produttive, dei sistemi cognitivi, dei mezzi di comunicazione e delle dinamiche comportamentali nel lavoro, nel tempo libero, nella sfera privata e nello spazio collettivo. Il trapasso dalla prima civiltà industriale, fondata sulle macchine, al nuovo modo di produrre ricchezza è paradigmaticamente segnato dalla dissoluzione della catena di montaggio dell’età tayloristica nella ‘modernità liquida’ della fabbrica ‘invisibile’, leggera e fluttuante in un mondo «privo di recinti, barriere, confini e posti di frontiera» (Bauman 2000; trad. it. 2002, p. XXII). Ne è derivata anche la crisi delle certezze metodologiche del tradizionale piano regolatore generale, fondate sui rigidi assiomi dell’urbanistica funzionalista otto-novecentesca. In sintesi, le più accreditate teorie sulla gestione dello sviluppo urbano oscillano dialetticamente su tre binomi concettuali: piano-progetto, globale-locale ed espansione-densificazione.
Piano e progetto
Incalzata dalla velocità dell’innovazione in atto in ogni campo dello scibile, è mutata recentemente anche la maniera di concepire la relazione tra la pianificazione dello sviluppo urbanistico e la costruzione delle nuove architetture. Alla convenzionale metodologia ‘consequenziale’ – fondata sul principio di sancire ‘prima’ il disegno coerente e onnicomprensivo del piano urbanistico generale e, solo ‘dopo’, procedere alla definizione dei progetti attuativi – è subentrata una più dialettica visione ‘contestuale’. La teoria canonica del processo decisionale articolato in due tempi implica ineluttabilmente il carattere astratto e atemporale del piano generale, che resta sospeso nella virtuale enunciazione dei puri intenti, in quanto privo di definite risorse finanziarie e di cronoprogrammi esecutivi. Sta diffondendosi invece sempre più in Europa l’esigenza di prefigurare simultaneamente la strategia urbanistica e la visione tridimensionale delle opere da realizzare.
La ‘contestualità’ tra piano e progetto offre peraltro il vantaggio di poter valutare l’attendibilità di un disegno urbanistico dal grado di comprovata ‘fattibilità’ delle previsioni, da attuare in base a risorse preventivate in tempi di breve o di media durata. È l’imprevedibilità del futuro in una civiltà in sempre più rapida metamorfosi che induce a preferire la concretezza delle ‘buone pratiche’ all’intangibilità delle ‘buone intenzioni’ proiettate in prospettive a lungo termine. Il che non deve tuttavia indurre all’equivoco di ritenere irrilevante o superflua la definizione di una condivisa strategia urbanistica d’insieme, relegando lo sviluppo allo spontaneismo della diretta costruzione di isolate architetture. Al contrario, il metodo della progettazione urbana – proteso verso la tridimensionalità delle visions – introduce un livello di controllo della crescita e della modificazione della città ancor più rigorosamente definito rispetto alla bidimensionalità dei retini colorati attaccati sulle planimetrie per fissare gli indici quantitativi dell’urbanistica tradizionale.
Va da sé che il nuovo corso dell’urban design abbia alle spalle un lungo e articolato processo di gestazione. Non sono le lancette dell’orologio a segnare il trapasso alle innovazioni teoriche che affiorano sul confine di un secolo. Tant’è che la genesi di questa nuova maniera di pensare la pianificazione affonda le sue radici negli ultimi due decenni del 20° secolo. I semi concettuali vanno rintracciati in saggi di orientamento ‘diverso’ – ma convergenti nella critica contro l’anacronistica rigidità della logica funzionalistica ereditata dalla Carta d’Atene (1933) – disseminati da autori quali Oriol Bohigas, Rem Koolhaas, R. Rogers, Joseph Paul Kleiheus, Léon e Rob Krier, Bernardo Secchi, Vittorio Gregotti, Joseph Rykwert, Jean-Louis Cohen e Marc Augé, per citarne solo alcuni: propugnatori di idee nuove emergenti quali punte di iceberg dalla profonda e diffusa revisione teoretica. L’urbanista François Ascher ha proposto un’agile sintesi nel suo decalogo Les nou-veaux principes de l’urbanisme (2001). Il postulato basilare muove dalla constatazione della ‘complessità’ della pianificazione nell’età contemporanea, irriducibile alla schematica razionalità tardopositivistica della ‘paleourbanistica’. Le molte incognite di un processo decisionale e attuativo, che coinvolge una pluralità di soggetti e di interessi conflittuali, suggeriscono di interpretare il campo dell’urbanistica alla luce delle nuove acquisizioni epistemologiche sulla teoria dei giochi, sul calcolo delle probabilità, insomma sulle più aggiornate analisi cognitive, sulle fenomenologie del caos. A corollario di tale tesi si impone il superamento della concezione dirigistica del piano urbanistico, aprioristicamente definito in ogni sua parte, a vantaggio di una più duttile strategia gestionale dello sviluppo guidata dalla sapiente regia della governance. «La governance urbana – chiarisce Ascher – implica l’arricchimento della democrazia rappresentativa attraverso nuove procedure deliberative e consultive […]. In altri termini è una prospettiva molto ambiziosa, che necessita di più saperi, più esperienze e più democrazia» (2001; trad. it. 2006, p. 96).
Tra gli obiettivi del new deal si staglia al di sopra di tutti l’idea di ridurre la ‘quantità’ della crescita a vantaggio della ‘qualità’, coniugando più strettamente la pianificazione urbanistica con l’eccellenza delle nuove architetture. In tale ottica le opere pubbliche – affidate tramite concorsi ad autori di alta caratura – rappresentano i progetti-pilota che fungono da volano per attrarre investimenti privati finalizzati alla riqualificazione di più vaste aree. Valga, per es., la ‘mossa del cavallo’ giocata sulla scacchiera urbana di Bilbao sul finire del secolo scorso con la costruzione, in un’area industriale dismessa, del Guggenheim Museum (1997), progettato dall’architetto statunitense Frank O. Gehry. Senza dubbio il costo dell’opera è stato abnorme, ma si è trattato di un investimento lungimirante e a suo modo avveduto, ampiamente ripagato dalle benefiche ricadute sull’economia e sull’immagine non solo della città, ma dell’intera regione basca. Non fosse altro che per lo straordinario successo di pubblico e di critica, il museo di Bilbao è ormai divenuto un paradigma internazionalmente emulato per catalizzare con l’eccezionalità dell’architettura d’autore lo sviluppo urbano all’insegna della new economy.
Globale e locale
Per quanto possa apparire paradossale, è stato proprio il trionfo della globalizzazione a esaltare (per antitesi) il valore delle tradizioni locali. Quanto più diventa fluida la circolazione delle merci, in un mondo dove stanno cadendo una dopo l’altra tutte le frontiere, tanto più aumenta il rischio dell’omologazione. Fermo restando il sacro principio dell’universalità delle cose e delle idee, è tuttavia comprensibile la resistenza delle comunità locali tesa a difendere l’identità delle molte e affascinanti diversità culturali contro il livellante conformismo del ‘pensiero unico’ che gli interessi mercantili mirerebbero a imporre. Non resta, dunque, che declinare la dialettica tra globale e locale anche nello specifico campo dell’architettura e della città.
Tale dialettica trova d’altronde in Europa un fertile terreno, non solo per il radicamento di variegate culture regionali millenarie, ma anche per l’approfondito confronto teorico sulla dicotomia tra civiltà e civilizzazione che ha raggiunto vette insuperabili nel dibattito tedesco del 20° secolo. Resta tutt’altro che scontata la compatibilità tra la modernizzazione e il rispetto dei valori culturali collettivi, nei quali una civiltà si identifica. Per la sua intrinseca logica, il processo di modernizzazione fa leva sulla forza dirompente di una razionalità astratta, indifferente alla storia e alla natura dei luoghi. Da questo deriva un inesorabile divario tra ragione e memoria, tra innovazione tecnologica e conservazione dei simboli identitari di una comunità locale.
Come un essere umano non può sopravvivere senza memoria, così una civiltà senza coscienza storica sarebbe condannata al disorientamento culturale. Non a caso nel clima intellettuale europeo l’attenzione critica è stata incentrata sul valore inestimabile dei luoghi, delle città e dei paesaggi ereditati dal passato. Non solo gli architetti, ma anche i filosofi, i sociologi, i poeti, gli economisti e gli uomini di cultura in senso lato hanno posto l’accento sull’opportunità di tutelare i caratteri distintivi delle morfologie urbane. La città è l’immenso archivio in cui sono sedimentati non solo i tipi, le forme e le tecniche del costruire, ma anche i miti, i simboli e i sogni dell’immaginario collettivo. Nella scena urbana il passato si mostra ‘in presenza’, nella tangibile evidenza dei monumenti sopravvissuti alle distruzioni dell’uomo e alle calamità del tempo. Il dovere etico di trasmettere questo prezioso retaggio storico alle future generazioni ha spinto la parte più raziocinante della cultura architettonica non tanto a opporsi all’evoluzione tecnologica in nome di un idilliaco ritorno alla civiltà premoderna, quanto piuttosto a guidare le trasformazioni urbane, sottomettendo le energie tecniche e finanziarie della modernizzazione a un progetto di armonia.
Va da sé che non esistono – non possono esistere – regole aprioristicamente valide per orientare le scelte della progettazione urbana superando tale ineludibile, ma per molti versi affascinante, dialettica tra innovazione e memoria. Solo la cultura può dare, di volta in volta, risposte ideative al dilemma, introducendo un nuovo ‘testo’ nel ‘contesto’ trovato, in assonanza o in deliberata dissonanza con il palinsesto preesistente.
Non può in sostanza essere eletto a dogma l’ambientamento delle nuove costruzioni nel contesto preesistente. L’architettura contemporanea adotta tecniche e linguaggi inediti che non possono essere mimetizzati con forme pseudostoricistiche. Sarebbe per altri versi ridicolo, prima ancora che impraticabile, innalzare anacronistiche dogane contro gli architetti ‘stranieri’. Non è di certo il certificato di nascita a garantire il rispetto della civiltà europea del costruire. Anche se, per contro, non basta sventolare il nome di un architetto di fama internazionale per tacitare la valutazione critica nel merito dell’adeguatezza di un dato progetto in relazione al luogo. La crisi di rigetto che nell’opinione pubblica provoca il trapianto di bizzarre costruzioni, deliberatamente aliene ai tessuti storici, risulta in alcuni casi motivata da ragioni così valide da essere condivise anche da parte di coloro che non sono pregiudizialmente ostili all’innovazione.
Espansione e densificazione
Dopo gli sprechi ambientali del recente passato, si è imposta all’attenzione della critica più avvertita la necessità di porre un freno alle espansioni edilizie immotivate per incentivare all’inverso programmi di recupero e valorizzazione dei tessuti urbani preesistenti, se non altro perché il territorio è una risorsa pregiata, in quanto finita e non riproducibile. A maggior ragione in Europa, dove ormai le aree verdi superstiti sono rare, l’edificato è divenuto ovunque patrimonio di notevole valore potenziale.
Non a caso, dunque, la maggior parte degli interventi contemporanei sulle città europee rientra nella sfera della ‘modificazione’, per dirla con Gregotti. Si tratta quasi sempre di ‘costruire nel costruito’, sia pure oscillando tra i poli estremi del recupero storicistico o della radicale ristrutturazione, del restauro urbano o della rigenerazione qualitativa. Le stesse periferie urbane – che potremmo in linea di massima definire non luoghi nell’accezione indicata da Augé in Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité (1992; trad. it. 1993) – rivelano una straordinaria (benché virtuale) potenzialità di riqualificazione laddove vengano sottoposte a programmi strategici tesi a ridisegnarne le fisionomie per conferire loro il ruolo di nuove ‘centralità’ nello scenario metropolitano. L’urban design finalizzato alla modificazione qualitativa rappresenta attualmente uno dei più validi strumenti operativi per la valorizzazione del paesaggio europeo, sia naturale sia antropizzato.
Non deve peraltro sorprendere che la virata teoretica verso il ritorno all’idea della ‘città compatta’, assunta quale paradigma preferenziale per il prossimo futuro, provenga proprio dalle punte critiche dell’urban planning anglosassone. Londra è stata storicamente la culla del movimento antiurbano delle Garden cities of tomorrow, idea sviluppata da Ebenezer Howard nel 1902 e per molti versi attuata da Patrick Abercrombie nel 1946, con il piano delle tredici New towns dislocate in un raggio di circa 50 km dal capoluogo. Tuttavia è proprio là dove tale dottrina è stata verificata, prima e a più alto livello, che si sono rivelate, anche e con maggiore evidenza, le criticità implicite nel teorema. A determinare il feedback è stata innanzitutto la delusione che i nuovi insediamenti suburbani, tranne rare eccezioni, hanno provocato sul banco di prova della concreta realizzazione rispetto alla fantasticata palingenesi ascritta alle città-giardino. Ma ancor più decisiva in tale inversione di tendenza è stata la doppia considerazione sull’eccessivo consumo di suolo agricolo indotto dall’espansione urbana ‘orizzontale’ a bassa densità e, dall’altro lato, la spinta derivante dalla larga domanda sociale di voler risiedere nel cuore stesso della metropoli, dove più pulsante è la vita associativa e, di conseguenza, più ampio il ventaglio delle possibilità di lavoro, di svago e di successo.
A caldeggiare questa svolta teorica di portata storica è stato, più di ogni altro, R. Rogers nel suo pionieristico (e già citato) saggio Cities for a small planet del 1997. Senza perifrasi, in questo testo è stato prefigurato un processo di ‘densificazione’ della metropoli londinese, riqualificando le aree degradate e recuperando i siti industriali dismessi. In tale tracciato prospettico, il potenziamento delle infrastrutture rappresenta un passaggio obbligato per invertire la convenzionale tendenza al decentramento. Senza indulgere nelle elucubrazioni apologetiche della cosiddetta urbanizzazione diffusa – che mirano a ribaltare in positivo il giudizio sul caos delle amorfe conurbazioni contemporanee indicandolo come un fenomeno di affascinante labirinto reticolare posturbano nell’era telematica – la meta finale verso cui tende questa nuova rotta del pensiero urbanistico consiste nel conferire una nitida, efficiente e solida ‘struttura’ alle sempre più vaste aree metropolitane.
Se è vero che il mutamento in fieri a Londra rappresenta un esempio inequivocabile in tal senso, resta altresì innegabile che il ritorno alla densificazione ‘strutturata’ sia una tendenza riscontrabile anche in altre grandi città all’avanguardia nelle innovazioni. L’Europa ha raggiunto un’unità monetaria, ma non ancora un’autentica coesione politica. Allo stato attuale è solo una confederazione dal perimetro incerto e dai confini interni alquanto mobili, per l’inarrestabile fermento delle rivendicazioni di Stati nazionali. Il vero collante di questo arcipelago di etnie e linguaggi eterogenei resta quindi l’aspirazione a costruire sulle macerie dei conflitti storici un continente mentale nuovo, unito dalla cultura o, per meglio dire, dal dialogo tra tutte le culture.
Ciò nonostante, vista dall’alto l’Europa mostra la sua incipiente fisionomia continentale innanzitutto nei grandi assi infrastrutturali di collegamento viario e ferroviario tra le aree metropolitane egemoni quali Londra, Parigi, Berlino, Madrid e così via. Non meno significativo è il ruolo che in tale geografia giocano le città-porto bagnate dalle acque del Baltico, dell’Atlantico e del Mediterraneo. Senza dimenticare la rilevanza della Mitteleuropa che confina a Oriente con l’immenso continente asiatico. Non è pertanto irrilevante, dopo aver individuato poche ma fondamentali questioni comuni, tentare una sia pur rapida rassegna delle metamorfosi in atto in alcune città-modello che possano valere a esemplificare la varietà dei processi innovativi in corso di sperimentazione. In tale quadro analitico si rivela tutt’altro che trascurabile l’interrelazione tra la fattibilità della pianificazione strategica e la qualità delle nuove architetture.
Londra
Quando la Clock Tower ha segnato il passaggio al 21° sec., Londra era pronta a inaugurare una concatenata serie di nuove architetture allegoricamente dedicate all’alba del Duemila. Ancor più che in altre città europee l’innovazione della scena urbana è stata programmata con deliberato anticipo, senza disdegnare la seduzione rivolta al turismo di massa, anche con trovate di gusto discutibile come il London Eye (un’iperrealistica ruota di bicicletta ideata dagli architetti David Marks e Julia Barfield per far ammirare il panorama urbano dall’alto di 132 m, a pochi passi dal Westminster Bridge) e la ricostruzione dello Shakespeare’s Globe Theatre (inaugurato nel 1997 su disegno di Theo Crosby, riproducendo la forma circolare dell’originario teatro elisabettiano, a 200 m dal sito dove sorse nel 1599). Nel fervore delle iniziative non sono però mancati alcuni disguidi. Valga come esempio l’imprevista labilità del Millennium Bridge, suggestivo ponte pedonale (ideato da Norman Foster) che, per l’eccessiva essenzialità minimalista, ha dato luogo a oscillazioni così rischiose da richiedere drastiche opere di consolidamento statico durate circa due anni. Senza contare il sostanziale insuccesso gestionale del Millennium Dome, la colossale tensostruttura, simile alla tenda di un circo equestre, concepita da Rogers come simbolica cupola della rigenerazione di Greenwich.
Nonostante questo avvio traballante, sarebbe un errore sottovalutare la reale portata innovativa della profonda trasformazione urbana attuata a Londra nei primi anni del nuovo secolo. Così come sarebbe ingenuo lasciarsi abbagliare dallo spettacolare luccichio metallico delle costruzioni high-tech senza interrogarsi sul disegno strategico lucidamente perseguito dal nuovo corso dell’urbanistica londinese. L’obiettivo verso cui mira il London plan – approvato nel 2004 sotto l’egida del sindaco Ken Livingstone, con la consulenza di Rogers – è con tutta evidenza il ritorno alla pianificazione territoriale della Grande Londra. Lo scioglimento nel 1985 del mitico ufficio piani del Great-er London council – a seguito della precedente e discussa dissoluzione dell’unitarietà amministrativa della metropoli per dar vita a 33 distinte municipalità (differenziando la City dai 32 boroughs) – aveva lasciato un evidente vuoto gestionale. Per colmare tale lacuna nel 1998 è stato indetto un referendum, che ha indicato la scelta di ricomporre l’unità amministrativa dell’intera area metropolitana. La volontà popolare è stata ulteriormente rafforzata dalle elezioni, svoltesi nel maggio 2000, che hanno di nuovo designato il mayor della Grande Londra. Nei poteri del sindaco è rientrato soprattutto il controllo della pianificazione territoriale nel suo insieme, esercitato anche attraverso nuovi organismi tra i quali, per es., il TFL (Trans-port For London, il Dipartimento dei trasporti) e l’LDA (London Development Agency, l’Agenzia per lo sviluppo economico).
L’ideogramma della città futura, elaborato sull’onda del rinnovato impegno strategico a grande scala, è illustrato con esemplare nitore nello spazio attrezzato della NLA (New London Architecture). In questo centro di informazione multimediale (rivolto ai cittadini, prima ancora che ai turisti), intorno a un grande plastico della città, sono esposti progetti in corso d’opera per lasciar valutare anche le conformazioni architettoniche del programma di trasformazione. Quel che più conta è tuttavia la prefigurazione della metamorfosi alla macroscala, articolata su due principali assi di sviluppo – in direzione nord ed est – imperniati nella zona-cerniera di Greenwich.
Verso nord, tra la Lower Valley e Stratford, si estende l’area interessata dal nuovo Olympic Village per i Giochi del 2012. Si tratta del più imponente centro sportivo della storia delle olimpiadi, nel cui masterplan è incluso anche il fantascientifico Acquatic Centre, assegnato per concorso a Zaha Hadid. Non è irrilevante notare che questa ambiziosa espansione a settentrione mira a recuperare aree industriali dismesse e verrà collegata al centro da due nuove linee ferroviarie, nonché da arterie viarie confluenti nel grande raccordo anulare che delinea nei fatti il perimetro della metropoli londinese.
Verso est è stata programmata la fondazione di una nuova area urbana, ad alta densità, chiamata Thames Gateway. A simbolo di tale sobborgo high-tech verrà eretto un nuovo ponte, il Thames Gateway Bridge. Non sono però mancate polemiche da parte degli ambientalisti sull’inopportunità di tale decisione, stigmatizzata come gigantesca operazione immobiliare e sarcasticamente definita London-hai (ovvero la ‘Shanghai’ londinese, dove i grattacieli spunteranno come funghi). Il rammarico deriva dalla mancata ricezione della proposta (ritenuta troppo bucolica) di Terry Farrel di destinare l’area a parco nazionale al fine di preservare la biodiversità della flora e della fauna di quel peculiare paesaggio fluviale. Nel disegno d’insieme, il London plan ha tuttavia dedicato notevole attenzione al tema del verde, a partire proprio dalla Green Grid che attraversa la stessa Thames Gateway fino alla creazione di tre nuovi grandi parchi (mediamente di circa 20 ettari): il Central, il Southern e il Greenwich. È stata così proiettata nel futuro la memoria degli ampi polmoni di verde che ha contraddistinto il passato londinese. Basti pensare ai tre celebri parchi storici di Hyde, Regent e Holland.
Immerso nel verde del Greenwich Park sorgerà il Millennium Village disegnato da Ralph Erskine, un quartiere residenziale di 1300 alloggi, la cui edificazione è stata avviata alla metà degli anni Ottanta. La politica dello housing rappresenta a sua volta un tema cardine del London plan. Per rispondere all’ingente domanda di alloggi a prezzi controllati sono stati varati programmi di recupero dei tessuti degradati del centro urbano, e in particolar modo nell’area orientale della città tradizionalmente destinata a sobborgo operaio, non limitandosi all’edificazione di case low-cost, ma sperimentando anche costruzioni low-tech per i servizi sociali. Emblematica, in tal senso, è la Moss-bourne Community Academy (2004), una scuola pubblica finalizzata all’istruzione gratuita, progettata da Rogers utilizzando con raffinata sagacia materiali poveri come il legno (che conforma l’intera struttura) e lo zinco (che riveste le coperture). All’estremo opposto si colloca il Laban Dance Centre (2002) di Herzog & de Meuron, che riscatta il degrado dell’ex area industriale di Deptford Creek con l’avanzatissima ricerca su materiali sofisticati, quali i pannelli di vetro temperato, policromi e traslucidi, che lasciano intravedere i coreografici movimenti dei corpi mentre danzano all’interno, proiettandone nel contempo le ombre all’esterno, sulle avvolgenti pareti ondulate.
Alla pianificazione dello sviluppo e del recupero delle periferie fa da contrappeso la spettacolare valorizzazione della riva meridionale del Tamigi che rappresenta, a ben vedere, l’autentica novità di portata storica di questo inizio secolo. Se è vero infatti che il carattere distintivo (e per molti versi singolare) di Londra è stato, a partire dal Medioevo, il policentrismo, che l’ha contraddistinta dalle altre città europee (come ha notato Steen Eiler Rasmussen nel suo celebre saggio del 1934, varie volte ripubblicato, London; trad. it. Londra città unica, 1972), resta altresì innegabile che fino alla seconda metà del Novecento lo sviluppo urbano più rappresentativo e prestigioso è stato incentrato esclusivamente lungo la riva settentrionale del Tamigi, dalla City a Westminster. I primi segnali di verso opposto risalgono agli anni Cinquanta del 20° sec., con la concentrazione nel Southbank Centre della Royal Festival Hall, del National Theatre, della Hayward Gallery e del National Film Theater. Ma soltanto con l’avvento del 21° sec. è stato definitivamente portato a termine il riscatto qualitativo del Millennium Mile, vale a dire di quell’arco della riva sud che dal London Eye arriva fino alla City Hall, passando per la Tate Modern.
Il fine ultimo del London plan è dunque ben sintetizzato dallo slogan «more London», non a caso prescelto dalla società di development che gestisce il programma di riqualificazione dell’area centrale che ruota intorno alla City Hall. «Più Londra» significa più città, più infrastrutture, più cultura, più architettura, più parchi, più bellezza, più vita sociale. Come si è accennato, il presupposto logico per ritornare ad attrarre nella City ingenti flussi di popolazione sta nel rafforzamento dell’ossatura portante dei trasporti su ferro nell’intera area metropolitana. Tant’è che Londra – che è stata la prima città al mondo a dotarsi di una metropolitana (l’underground del 1863, popolarmente nota come tube) e che può vantare il network di ben 13 reti – ha esaltato con motivata enfasi l’inaugurazione, all’alba del secolo, del prolungamento della Jubilee Line (con 6 nuove stazioni, in aggiunta alle preesistenti 5 ristrutturate). Il nuovo tratto di linea ferrata ha valorizzato non solo il centro direzionale dei Docklands, ma anche i quartieri orientali, ed è previsto il suo collegamento con l’Olympic park tramite l’aggancio con la crossrail, ferrovia sotterranea di notevole rilevanza. Molta cura è stata inoltre riservata al fascino delle nuove stazioni, affidando di volta in volta i progetti ad architetti diversi, per creare, con l’abile regia di Roland Paoletti, una calibrata varietà di soluzioni estetiche in relazione al mutare dei contesti urbani nelle uscite in superficie. Ma c’è dell’altro. Il pianificato potenziamento del sistema dei trasporti verte non solo sul ferro, ma anche sulla gomma (con nuovi tunnel di attraversamento sotterraneo dell’alveo del Tamigi) e sull’acqua (mettendo in rete i canali navigabili); senza contare le piste ciclabili e i percorsi pedonali lungo le rive e nei parchi.
Alla luce di questa nuova ‘visione’ del futuro si può meglio comprendere il ruolo giocato dalle architetture d’eccellenza come fari di irradiazione della qualità nella rigenerazione di più ampie aree urbane. Si chiarisce in tale ottica, come esito di un’inequivocabile strategia, la scelta di concentrare lungo la riva sud del Tamigi – non a caso collegata all’altra metà della storia con ponti pedonali e passeggiate paesaggistiche – una mirabile collana di perle d’autore: dalla City Hall (2002) ideata da Foster come metaforico palazzo ‘trasparente’ della democrazia (dalla singolare sagoma a uovo sbilenco in cui è racchiusa una rampa che si inerpica a spirale, culminando nella Sala civica) fino al celebre Tate Modern Museum (2000), progettato da Herzog & de Meuron ripristinando l’austero opificio in mattoni della preesistente centrale elettrica del Bankside (1963) di Giles Gilbert Scott.
Allo stesso Foster si devono peraltro gli eleganti innesti della suggestiva piazza coperta dal reticolato triangolare di vetro nella Great Court del British Museum (2003) e dell’ecologico grattacielo della Swiss Re (2004), che sovrasta per la dirompente carica espressiva, prima ancora che per l’altezza, l’esibizione tecnologica ormai datata dello skyscraper dei Lloyd’s, incastonato nel cuore della City da Rogers tra il 1978 e il 1986. Nello scenario di questa ‘multicittà’, che ogni anno cambia pelle, il grattacielo ha perso l’originario carattere statunitense di oggetto seriale, tipologicamente reiterato sulla fitta scacchiera metropolitana, per elevarsi al ruolo di isolata torre babelica, dall’eloquente pregnanza simbolica. Un esempio paradigmatico è costituito dalla London Bridge Tower progettata da Renzo Piano nel 2000: tagliente obelisco di cristallo destinato a imporsi quale nuova icona dell’inarrestabile metamorfosi di una metropoli in costante crescita economica e culturale.
Parigi
Direttamente collegata a Londra dal tunnel sottomarino della Manica, Parigi è a sua volta una metropoli emblematica delle modificazioni in corso di sperimentazione. Questa grande città rappresenta peraltro un nodo cruciale di interconnessione tra i grandi assi del trasporto nella fascia settentrionale d’Europa. Basti pensare che nella capitale della Francia convergono, provenienti dalle più disparate regioni, i TGV (Trains Grande Vitesse) che si intrecciano al network locale dei trasporti su ferro (dalla RER – Réseau Express Régional – alle 14 linee della metropolitana); il trasporto fluviale, che vi giunge dall’Oceano Atlantico muovendo dalla città-porto di Le Havre alla foce della Senna; il traffico aereo, che fa scalo nei due aeroporti internazionali di Roissy-Charles de Gaulle e Orly; nonché le grandi arterie autostradali. Va da sé pertanto che mutamenti urbanistici collaudati in questa capitale si riverberino con riflessi emulativi in altre città.
Parigi è stata al centro dei riflettori internazionali soprattutto negli anni dei grands travaux effettuati dal presidente François Mitterrand per celebrare il bicentenario della rivoluzione nel 1989. La Pyramide incastonata da Ieoh Ming Pei nella corte del Louvre, la Bibliothèque nationale de France di Dominique Perrault nel quartiere di Tolbiac, la Grande arche di Johan Otto von Spreckelsen alla Défense, l’Institut du monde arabe di Jean Nouvel a Jussieu, la Cité de la musique di Christian de Portzamparc alla Villette e l’Opéra de la Bastille di Carl Ott restano i simboli di un rinnovamento sotteso dalla malcelata sindrome della grandeur. Ai nuovi monumenti (in stile high-tech) si è tuttavia affiancata (già a partire da quella fase) una non trascurabile attenzione verso la riqualificazione della banlieue.
Parigi è una ‘città-regione’ per antonomasia, con un centro storico di notevole fascino che funge da magnete gravitazionale non solo degli ingenti flussi del turismo internazionale (circa 20 milioni di visitatori l’anno), ma anche di una vasta periferia, abitata da una popolazione multietnica. Quest’area metropolitana (contrassegnata da una densità abitativa tra le più alte d’Europa) costituisce nei fatti un organismo unitario, nonostante le irrisolte diseguaglianze tra le sue parti, che sono all’origine dei conflitti sociali esplosi con violenza nei primi anni del nuovo secolo.
Proseguendo lungo il tracciato logico dell’ampia visione territoriale dello Schéma directeur de la région parisienne (1965) – che ha dislocato le villes nouvelles in un raggio di circa 30 km dalla cattedrale di Notre- Dame – il PADD (Plan d’Aménagement et Développement Durable), caldeggiato dal sindaco Bertrand Delanoë, mira con tutta evidenza a una pianificazione a scala sovracomunale. Lo sviluppo economico e sociale dell’intera area metropolitana fa leva sull’interazione concettuale tra il programma infrastrutturale teso all’incremento della rete dei trasporti, il renouvellement dei quartieri residenziali nelle periferie e il vero e proprio piano comunale di Parigi (PLU, Plan Local d’Urbanisme, 2006).
L’osmosi tra la pianificazione strategica e le nuove architetture è illustrata con dovizia di dati nell’esposizione permanente allestita presso il Pavillon de l’Arsenal. Questo spazio attrezzato – istituito nel 1987 dall’allora sindaco Jacques Chirac e potenziato nel 2002 dalle video-installazioni progettate da Christian Biecher – resta il paradigma che ha anticipato la formula degli urban center, attualmente diffusi in quasi tutte le grandi città degli Stati Uniti e d’Europa. Al Pavillon si è peraltro aggiunta nel 2007 la Cité de l’architecture et du patrimoine, inserita all’interno del preesistente Palais de Chaillot (1937) al Trocadéro e finalizzata a documentare l’evoluzione storica della cultura del costruire dal Medioevo a oggi.
Come si è accennato, tra gli obiettivi strategici del PADD si staglia la riqualificazione dei quartieri residenziali sia nelle banlieues sia nelle aree marginali del centro. La domanda abitativa resta molto alta. Ma piuttosto che perseverare nella fondazione di altre villes nouvelles (rivelatesi quasi sempre deludenti), è stata scelta l’antitetica metodologia del recupero dei tessuti urbani degradati o delle aree industriali dismesse. Nel solco della collaudata esperienza delle ZAC (Zones d’Aménagement Concerté) sono state individuate le aree prioritarie d’intervento nelle quali far convergere i progetti pilota atti a rigenerare l’ambiente urbano nel suo insieme. Non solo case, ma anche parchi, servizi e spazi di aggregazione mirano a rivitalizzare gli ambienti decaduti applicando il criterio della mixité, vale a dire la commistione tra le funzioni urbane e tra le classi sociali. Il laboratorio d’eccellenza per le sperimentazioni sia tecniche sia linguistiche resta tuttavia la progettazione dei complessi residenziali. Ne sono esempi probanti gli alloggi sociali dell’Îlot Candie Saint-Bernard (1996), assemblati da Massimiliano Fuksas sotto forma di una grande onda, o quelli di Rue des Suisses (2000) ideati da Herzog & de Meuron adottando ampi balconi protetti dall’inedita tecnologia delle persiane metalliche scorrevoli.
L’altro campo d’eccellenza riservato all’innovazione va individuato nell’ampliamento della Défense, il noto centro direzionale realizzato negli anni Sessanta del 20° sec. per volere di Charles de Gaulle, ma già potenziato nei successivi anni Ottanta con l’innesto di Les 4 temps (una delle più imponenti macrostrutture commerciali), oltre che della stessa Grande arche. È soprattutto in quest’area che gli architetti possono liberamente esercitarsi nella progettazione di nuovi grattacieli dalle conformazioni insolite, come la Tour EDF (2001) di Henry Cobb e Ieoh Ming Pei, i colossi gemelli delle Tours Coeur (2001) di Jean-Paul Viguier o la vela della Tour Exaltis (2005) di Bernardo Fort-Brescia. Tra le novità di maggior pregio si distinguono piuttosto la ristrutturazione del Musée des arts asiatiques Guimet (2001), opera di Bruno e Henri Gaudin, e la Fondation d’art contemporain François Pinault (2007), progettata da Tadao Ando.
Nel panorama di novità del 21° sec. si erge però, al di sopra di ogni altra opera, il Musée du Quai Branly (2006), dedicato alle arti e alle culture antropologiche dell’Africa, dell’Asia, dell’Australia e delle Americhe. La vocazione cosmopolita di Parigi – che aspira al ruolo di occhio critico del mondo – trova un poetico riscontro in questo avveniristico condensatore di civiltà autres che Nouvel, coadiuvato dai paesaggisti Patrick Blanc e Gilles Clement, ha voluto filtrare dietro un metaforico paravento-giardino, profumato da fiori tropicali, eretto lungo le acque del fiume per evocare i misteri della foresta ancestrale che lo sguardo deve attraversare prima di esplorare la collezione di simboli e di oggetti esotici raccolti nel museo.
Berlino
La città di Berlino è stata nel corso del Novecento e resta a tutt’oggi uno dei più significativi laboratori della progettazione urbana in Europa. La rilevanza delle sperimentazioni deriva anche dalla drammaticità degli eventi che si sono succeduti in tale scenario: dalle Siedlungen razionaliste della Repubblica di Weimar all’esaltato monumentalismo del Terzo Reich fino al famigerato muro, eretto all’alba del 13 agosto del 1961 dalla Repubblica democratica tedesca e demolito nella notte del 9 novembre 1989 in un impeto di liberazione corale.
Non è stato facile, dunque, ‘ri-costruire’ in pochi anni il tessuto urbano lacerato non solo dalle bombe, ma anche dall’irriducibile conflittualità tra le due ideologie dominanti a Est e a Ovest di questa città, tornata a essere capitale a seguito della deliberazione assunta nel 1991 dal Parlamento della Germania riunificata. La delicata e complessa missione di ricomporre l’infranto è stata affidata a Hans Stimmann, architetto e figura di spicco del pensiero socialdemocratico, che ha ricoperto il ruolo di direttore dell’ufficio di pianificazione urbana dal 1991 al 2006. Sotto la sua guida è stata immediatamente varata nel 1992 la normativa architettonica che ha dettato le regole del costruire e, a partire dal 1996, è stato elaborato (in soli tre anni) il Planwerk Innenstadt, definitivamente approvato dal Senato di Berlino nel 1999.
«Con la riunificazione delle due parti della città si è innescata, soprattutto nel centro storico, un’attività progettuale e di costruzione che, per estensione e per intensità, non trova l’uguale in nessun’altra città europea. Per essere all’altezza delle attese degli investitori privati dopo la svolta, definite le prescrizioni di partenza chiare e precise, il Senato doveva in breve tempo prendere decisioni strategiche e si dovevano altrettanto celermente redigere i progetti urbanistici ed architettonici per il centro storico» (Berlino Berlin, 2000, p. 15). Per controbilanciare la straordinaria rapidità del processo decisionale con la partecipazione democratica alle scelte strategiche, lo stesso Stimmann ha promosso l’esperienza dello Stadtforum. Con periodica sistematicità, nella storica sala degli Orsi, sono stati discussi i principali temi d’architettura della città in pubbliche assemblee, che hanno visto mediamente una partecipazione di circa 500 cittadini, tra i quali spiccavano molti noti esponenti della cultura tedesca. In questo modo, senza comunque esautorare il Senato dal diritto-dovere di deliberare, è stata coniata un’inedita formula che potrebbe essere definita del consulente collettivo: autorevole e dialettico.
La prassi attuativa del Planwerk è stata orientata da un condiviso programma teso al connubio tra memoria e innovazione, mirando a coniugare l’attenta valorizzazione dei tracciati urbani preesistenti con l’immissione di nuove architetture, contraddistinte da linguaggi inequivocabilmente contemporanei. Stando alle intenzioni dichiarate, il paradigma referenziale al quale consapevolmente si è riallacciata la ricostruzione di Berlino all’alba del nuovo secolo resta la precedente esperienza dell’IBA (Internationale Bauausstellung) del 1984, ovvero l’Esposizione internazionale di architettura, coordinata da Josef Paul Kleihues e da Hardt-Walter Hämer per riqualificare la città occidentale prima della caduta del muro. Nella nuova versione, Stimmann ha tuttavia ripreso il tema della ‘ricucitura’ dei tessuti storici liberandolo dalla nostalgia di un ritorno alla ‘città di pietra’, finalità che Kleihues aveva perseguito con il contributo teoretico del belga Maurice Culot e dei fratelli lussemburghesi Léon e Rob Krier. Tant’è che, anche sotto il profilo linguistico, al neorazionalismo profuso nel recupero dei quartieri della Friedrichstadt e del Tiergarten-sud per opera di Oswald Mathias Ungers, Hans Kollhoff, Aldo Rossi, Giorgio Grassi, Gregotti, Krier, Álvaro Siza e altri, è subentrata la spettacolarizzazione high-tech che ha disegnato il volto nuovo del Mitte dopo la caduta del muro, con l’avvento degli archistars, vincitori delle gare internazionali a inviti, bandite (a partire dal 1993) dal concorso per Berlino capitale.
La grande cupola di acciaio e vetro, poggiata da Foster sul rinnovato Parlamento (inaugurato il 19 aprile 1999), oggi si staglia nel cielo di Berlino come inequivocabile emblema del nuovo corso. Il preesistente palazzo neoclassico, costruito tra il 1884 e il 1894 da Paul Wallot come sede parlamentare del Secondo Reich, fu polemicamente distrutto dall’incendio fatto appiccare da Adolf Hitler il 27 febbraio 1933, offrendo poi il fondale scenico per la bandiera rossa che sventolò su quelle macerie il 30 aprile del 1945. L’emisfera di cristallo, percorribile al suo interno lungo l’avvolgente spirale di un percorso sospeso che consente di intravedere i lavori della sottostante assemblea, è dunque il simbolo della riconquistata ‘trasparenza’ della democrazia.
Altrettanto densi di allegorie sono lo Jüdisches Museum (2001), ideato da Daniel Libeskind come un’emozionale scultura di luce, e il Denkmal für die ermordeten Juden Europas (2005), il memoriale per le vittime dell’Olocausto, concepito da Peter Eisenman, e inizialmente anche da Richard Serra, come lirica opera di land art. Il metaforico labirinto lapideo evoca, nella ritmica serialità delle 2700 stele di cemento nero, il pathos di quell’indelebile tragedia, costringendo il visitatore a ripercorrerne la memoria, in silenziosa solitudine, attraverso stretti sentieri che si inerpicano su un suolo in declivio. A pochi passi dal Denkmal, superata la Porta di Brandeburgo, Gehry ha incastonato nel severo spazio interno della DG Bank (2001) in Pariser Platz una sorta di ‘ventre della balena’, con un libero gioco di elegante fantasia. Queste punte di diamante non devono tuttavia indurre a sottovalutare la qualità diffusa delle mille nuove costruzioni che costellano lo scenario urbano, documentate nel monumentale volume di Stimmann e Martin Kieren dal titolo Die Architektur des neuen Berlin (2005).
Il paradigma della ricostruzione innovativa resta per molti aspetti la Potsdamer Platz. In questo luogo è confluita la più significativa concentrazione di investimenti privati dalla Sony alla Asea Brown Bovery, fino alla Daimler-Benz e ad altre cordate finanziarie che si sono affrettate ad acquisire la proprietà dei suoli dell’ex demanio della Repubblica democratica tedesca. Ad attrarre le corporation è stata la chiara indicazione del piano strategico tesa a ridare una nuova centralità simbolica a questa piazza, che era mitica negli anni Venti del 20° sec. (quando intorno all’intreccio di linee tranviarie e ferroviarie sorsero i più seducenti cabaret e centri di incontro per gli intellettuali d’avanguardia, come il Café Josty), ma che fu rasa al suolo dai bombardamenti e poi relegata in un desolante abbandono ai margini del Mauer. Si deve a R. Piano il masterplan (1993) del rinato quartiere, che ha offerto la partitura basilare sulla quale si sono poi inseriti i virtuosistici assoli di Arata Isozaki, Rogers, Rafael Moneo e altri. Sui nuovi fabbricati emergono le due alte torri che dominano la scena urbana. Da un lato la raffinata torre (1999) disegnata da Kollhoff con timbro espressionistico nella sua tagliente sagoma realizzata in mattoni rossi; dall’altro il Sony Center (2000), colossale grattacielo in acciaio e vetro progettato da Helmut Jahn, che ingloba nel proprio ventre una grande piazza commerciale coperta da un tetto a forma di tenda di cristallo.
Esemplare, per altri versi, è anche il programma di ricostruzione dell’attigua Leipziger Platz, impostato su un doppio gioco: da un lato sul rigoroso rispetto dell’impianto planimetrico ottagonale e dell’uniforme altezza della preesistente cortina settecentesca e, dall’altro, la libertà di innovazione linguistica concessa nel ridisegno delle quinte architettoniche. Meno meditata è stata la rigenerazione della restante parte del Mitte di Berlino. Gli interstizi rimasti vuoti nel tessuto urbano sono stati prevalentemente colmati dalla new wave delle costruzioni in acciaio e vetro, con alcune punte di elevata qualità, come, per es., i tre nuovi spettacolari centri polifunzionali (1996) che si susseguono lungo la galleria dei Friedrichstadt-Passagen: il Quartier 205 di Oswald Mathias Ungers; il Quartier 206 di Ieoh Ming Pei e il Quartier 207 con le Galeries Lafayette di Nouvel. A prima vista questo trionfo del vetro potrebbe apparire come l’avvento della trasognata Glasarchitektur, inneggiata dal poeta Paul Scheerbart nel 1914 e prefigurata da Ludwig Mies van der Rohe nell’irrealizzato grattacielo sulla Friedrichstrasse nel 1921. A ben vedere, invece, l’eccessiva reiterazione del rivestimento prefabbricato in acciaio e vetro si rivela piuttosto un Verkleidung, una «maschera» di cristallo che tradisce il cedimento all’ultima voga dello stile internazionale.
A questo tentativo del Planwerk – solo in parte riuscito – di ridare al cuore di Berlino il carattere di metropoli ultramoderna si è affiancato l’encomiabile impegno sociale per la riqualificazione dei quartieri popolari periferici, da Märkishes Viertel, a ovest, a Marzahan, a est. Senza contare l’eccellente piano di recupero del Museumsinsel, coordinato da David Chipperfield, che ha firmato di proprio pugno anche il restauro del Neues Museum (2009, con Julian Harrap) e la nuova galleria Am Kupfergraben 10 (2007).
Madrid e Barcellona
Ancor più della Germania, la Spagna ha strutturato un governo della nazione fondato sul riconoscimento alle regioni di ampie autonomie gestionali. In questo quadro federale, per valutare l’orientamento delle strategie innovative in corso nelle città spagnole, risulta indispensabile almeno un confronto tra Madrid e Barcellona, ferma restando l’importanza del già menzionato caso di Bilbao e delle esperienze esemplari attuate in città come Valencia, Siviglia, Santiago de Compostela e in altre ancora.
A dischiudere il sipario sulla rinnovata immagine di Madrid può valere l’avveniristico Terminal 4 (T4) dell’aeroporto di Barajas, che accoglie i flussi turistici internazionali come una nuova ‘porta del cielo’. Inaugurato nel febbraio 2006, questo luminoso spazio ideato da Rogers conferma la sua gaia visione dell’alta tecnologia. L’emozione plastica è trasmessa con immediatezza alla folla dei viaggiatori dalla luce zenitale filtrata dai moderni brises-soleils, incastonati negli oculi ellittici che bucano l’onda sinuosa della copertura, sospesa su coppie di pilastri d’acciaio arditamente inclinati e colorati di giallo. Il ricercato effetto scenografico non deve tuttavia far perdere di vista la vera finalità di tale innovazione, protesa verso il potenziamento delle infrastrutture. Tant’è che il nuovo aeroporto è stato opportunamente allacciato al sistema dei trasporti su ferro, garantendo così un rapido collegamento con la città, dotata peraltro di un’efficiente rete di dieci linee metropolitane. A rafforzare ulteriormente il ruolo di capitale di questa metropoli di tre milioni d’abitanti concorrono le linee ferroviarie di collegamento ad alta velocità con Siviglia e Barcellona.
Tra gli obiettivi più significativi del Plan general de urbanismo (approvato nel 1997) si staglia la valorizzazione del centro storico. Negli ultimi decenni la Spagna ha investito con lungimiranza sull’incremento del turismo, raggiungendo in tale settore il terzo posto al mondo, dopo gli Stati Uniti e la Francia. Coerentemente con tale linea nazionale, Madrid ha migliorato l’offerta museale, concentrando lungo il settecentesco viale alberato del Paseo del Prado, il cosiddetto Triangulo de oro de la cultura. Si tratta di tre storici musei – il Prado, il Thyssen-Bornemisza e il Reina Sofía – che sono stati valorizzati da seducenti addizioni di architettura contemporanea effettuate sui preesistenti monumenti.
Si deve a R. Moneo l’ampliamento del Prado (progettato nel 1996, inaugurato nel 2007) che prolunga lo spazio espositivo del celebre palazzo neoclassico, ideato e compiuto tra il 1785 e il 1808 da Juan de Villanueva, in un’ala ipogea coperta da un tetto-giardino disegnato da un labirinto di siepi di bosso. A fianco della chiesa di San Jerónimo è stato eretto con sobria maestria il nuovo corpo prismatico destinato agli uffici, che evoca nelle nuances del granito e dei mattoni rossi l’elegante bicromia materica del prospiciente palazzo settecentesco. Completa l’opera il restauro del Casón del buen retiro, adibito a mostre temporanee.
Lo stesso Moneo ha progettato il bianco volume dell’ampliamento del Museo Thyssen-Bornemisza (1992), raffinatamente affiancato al Palacio de Villahermosa, sempre risalente al Settecento, dove è custodita una collezione di capolavori d’arte dall’impressionismo all’informale. A pochi passi di distanza è ubicato il Museo nacional centro de arte Reina Sofía, luogo-culto del lascito di Pablo Picasso, imperniato sulla grande tela di Guernica, dipinta nel 1937 come urlo contro la strage perpetrata nella cittadina basca dall’aviazione nazista della Luftwaffe. Anche in questo caso il preesistente museo, insediato nell’Hospital general disegnato da Francesco Sabatini (1722-1797) su incarico di Carlo III, è stato integrato nel 2005 da una nuova architettura d’autore, ideata da Nouvel come un’emozionante boîte à malice (ossia una vera e propria scatola a sorpresa), contraddistinta dalla presenza di una piastra dalla copertura in acciaio librata ad altezza vertiginosa e forata da taglienti ‘finestre’ aperte sull’azzurro del cielo.
Vi è però anche altro: nell’intervallo tra i due musei è stato inaugurato nel marzo 2008 il nuovo centro culturale Caixa forum. Tale complesso espositivo ruota sul perno della stupefacente invenzione di Herzog & de Meuron di sospendere la vecchia fabbrica in mattoni della Central Eléctrica al di sopra di una piastra di cemento retta da colossali pilotis arretrati rispetto al sedime del preesistente basamento. La metafora dell’energia elettrica che si trasforma in energia culturale è declinata sul sagace trompe l’œil di un rudere che sembra sospeso sulla sua ombra. A corollario di tale suggestiva innovazione si aggiungono il ‘giardino verticale’, con quindicimila fiori tropicali incastonati su di un muro vegetale, curato dal botanico francese P. Blanc, nonché le sculture di bronzo del polacco Igor Mitoraj, che evocano il mito di Icaro in frammenti. Ancora sul fondale del Paseo del Prado svetta la torre della nuova Stazione Ferroviaria di Atocha, a sua volta ristrutturata da Moneo (1992). La novità più strabiliante si trova al suo interno, nel rigoglioso giardino tropicale impiantato sotto la capriata di ferro e vetro della stazione ottocentesca, prima ancora che all’esterno, dove è stata edificata un’ampia piazza civica conclusa dal moderno volume cilindrico ritmato dagli alti setti di mattoni.
Fin qui un accenno al fascino delle architetture contemporanee calibratamente inscritte nel contesto storico. Il Plan general de urbanismo prevede inoltre un deciso incremento ai margini del perimetro urbano delle aree verdi, con nuovi grandi parchi quali il Tierno Galván, il Juan Carlos ed El Campo de las Naciones, nonché nuovi centri congressuali corredati da assi viari, da anelli di circonvallazione e da una serie di parcheggi sotterranei di interscambio che giungono fino alla centralissima Plaza de Oriente, di fronte al Palacio real. Facendo leva sulla comprovata rapidità attuativa degli interventi strategici, la città di Madrid è stata autorevolmente candidata a ospitare le Olimpiadi del 2016. In tale prospettiva si inscrive il Tennis Center (progetto del 2002) ideato da Dominique Perrault, lasciando presagire la nuova avventura dell’architettura sportiva da realizzare nell’area di espansione-nord, come ideale prolungamento del Paseo de la Castellana, al di là dello Stadio Bernabeu (ristrutturato nel 1982) e della simbolica Puerta de Europa (1996) delineata dai grattacieli gemelli di Burgee & Johnson.
Un analogo livello di rapidità e di efficienza gestionale sottende la metamorfosi di Barcellona agli albori del 21° secolo. Anche se diverso, per ovvie ragioni, è il fine ultimo del disegno strategico, che mira a valorizzare il carattere distintivo di questa città-porto del Mediterraneo. La ‘riconquista del mare’ è stata la meta prescelta con lungimiranza prospettica per il nuovo sviluppo dell’urbanistica barcellonese a partire dall’immediata fase postfranchista. L’indicazione di tale tracciato logico si deve soprattutto a O. Bohigas, che ha saputo anche guidare il lungo percorso attuativo alla luce di una radicale revisione teoretica della maniera stessa di concepire la relazione tra la pianificazione dello sviluppo economico e la progettazione architettonica e urbana.
In Pasión por la ciudad (1999) e in altri saggi più brevi, Bohigas ha motivato la sua critica alla presunta razionalità del Piano regolatore generale, che rappresenta a suo avviso uno strumento ormai anacronistico, non idoneo a controllare la complessità dei processi di crescita urbana. Lo scetticismo sull’utilità di un disegno globale e onnicomprensivo ha spinto, dopo la morte di Francisco Franco nel 1975, ad avviare la concreta modificazione di Barcellona attraverso una programmatica scelta sulle priorità degli interventi urbani e delle opere pubbliche da realizzare in aree puntuali, rinunciando alla rimessa in discussione del Piano approvato proprio nel 1975.
Fin dagli anni Ottanta del 20° sec. è stato avviato il processo di modernizzazione di Barcellona, contrassegnato non solo dal rispetto, ma anche dal rafforzamento della sua storica identità. La città è stata interpretata come un collage, ovvero una somma di quartieri da dotare di un elevato grado di autosufficienza, non solo nell’equa distribuzione dei servizi sociali, ma anche e soprattutto nella civile conformazione urbana. Per superare il divario qualitativo tra le parti urbane è stato coniato lo slogan ‘igienizzare il centro e monumentalizzare la periferia’. Il tema-chiave della riqualificazione è stato però il ridisegno del fronte sul mare.
Una tappa decisiva per il raggiungimento di tale meta è stata offerta dai Giochi olimpici del 1992, colti come un’occasione per realizzare interventi strutturali di modificazione urbana, piuttosto che limitarsi ad allestire effimere attrezzature sportive. Con l’avveduta regia del sindaco Pasqual Maragall e il coordinamento strategico di Bohigas sono stati invitati anche architetti di fama internazionale (Foster, Siza, Gregotti, Gehry e altri) a coadiuvare gli architetti catalani (Manuel de Solá Morales, Eduard Bru, Enric Miralles, Carlos Ferrater, Oscar Tusquets Blanca e altri) nel programma di riqualificazione urbana.
La rinnovata fisionomia del waterfront è partita dal recupero della collina di Montjuic per procedere lungo l’intera fascia litoranea fino a raggiungere la Villa olimpica, la «Città olimpica» disegnata da Bohigas-Martorell-Mackay nell’area industriale dismessa di Poblenou, a oriente. L’innovazione di maggior rilievo resta la ‘ricucitura’ della città storica con l’ariosa spiaggia (lunga circa 14 km), attuata interrando la barriera della linea ferrata e dell’arteria viaria con il Mol de la fusta, su progetto di de Solá Morales. Da allora il Port Vell si è trasformato in uno spazio attrezzato per il tempo libero che dà accesso a un nuovo brano di città dischiuso sull’orizzonte marino.
Al fine di prolungare questo disegno strategico di riqualificazione del fronte sull’acqua, per l’insediamento del Fòrum universal de les cultures del 2004 è stata coerentemente individuata un’ulteriore area industriale dismessa nell’estrema propaggine orientale. A dettare le linee-guida di tale intervento di trasformazione urbana – ultimo in ordine di tempo, ma non di importanza – è stato, su indicazione del nuovo sindaco Joan Clos, un gruppo di architetti barcellonesi coordinato dallo stesso Miralles: Eduard Bru, Josep Acebillo e Josep Lluís Mateo. L’ideogramma della ‘nuova geografia urbana’ del Fòrum 2004 è stato illustrato da Acebillo sulla rivista «Arquitectura viva» (2004). Il planovolumetrico ruota intorno alla grande piazza dominata dal Triángulo Azul di Herzog & de Meuron, circondato dal Centro Congressi di Josep Lluís Mateo, dalla spettacolare Pérgola di José Antonio Martínez Lapeña ed Elías Torres Tur, dall’Hotel Princess di Oscar Tusquets, dal porto turistico e le attrezzature balneari di Beth Galí, nonché dalla costellazione dei suggestivi parchi, come il Parque de la Paz (di Abalos y Herreros), de los Auditorios (di Teresa Galí), de la Diagonal Mar (di Miralles) e das Dunas (di Alejandro Zaera-Polo).
L’architettura simbolo che disegna il profilo del ‘cielo nuovo’ di Barcellona resta per molti versi la Torre Agbar (2005), eretta da Nouvel lungo il grande asse della Diagonal che conduce al mare verso oriente. Si tratta di un grattacielo high-tech che di giorno si erge solitario come un’aerodinamica icona simile a un missile, ma che con il sopraggiungere della notte si staglia sullo sfondo della volta stellata brillando con i colori dell’arcobaleno, grazie all’impiego dei 4500 leds dell’impianto d’illuminazione.
Le città-porto dal Baltico al Mediterraneo
Il territorio europeo è bagnato dal mare su tutti i lati del suo esteso e frastagliato perimetro, tranne che a est, dove confina con il continente asiatico. Nel corso del tempo molte città sono state fondate lungo le linee di costa, ma non tutti gli insediamenti urbani costieri sono dotati di porti, e ancor più rari sono quelli muniti di moderne attrezzature per i traffici marittimi intercontinentali. Nell’attuale geografia dell’Europa, le città-porto rappresentano pertanto i luoghi d’eccellenza per gli scambi commerciali e per l’incontro tra genti, linguaggi e culture diverse.
Nel panorama costiero del Mare del Nord, Copenaghen è la città-porto che svolge un ruolo nodale come varco di transito e al tempo stesso come cerniera di interconnessione nella civiltà del Baltico. Questo ruolo millenario è stato ulteriormente rafforzato dal notevole potenziamento del sistema infrastrutturale realizzato nell’ultimo decennio. Di straordinaria rilevanza in tale ottica è stata l’inaugurazione, nel luglio del 2000, del ponte stradale e ferroviario sull’Ôresund di diretto collegamento, al di sopra delle onde, con la città svedese di Malmö, dalla quale si dipartono due ulteriori direttrici che conducono verso nord-est a Stoccolma e verso nord-ovest a Oslo, passando per Göteborg. Questa novità di portata storica del trasporto su ferro e su gomma viene così ad aggiungersi alla tradizionale interrelazione marittima intessuta da Copenaghen con le altre città-porto del Baltico, tra le quali Kiel, Rostok, Danzica, Riga, Tallin, San Pietroburgo, Helsinki e la stessa Stoccolma.
L’altra innovazione, tutt’altro che sottovalutabile, è la realizzazione di una linea metropolitana (2002) che collega in tempi rapidi la centralissima piazza Kongens Nytorv con le periferie. Tale infrastruttura si inscrive in un disegno strategico che mira a ridare alla città storica il ruolo di magnete gravitazionale dell’intera area metropolitana, ribaltando la tendenza centrifuga del cosiddetto Piano delle cinque dita, varato nel 1945 sulla scia delle teorie decentralistiche caldeggiate da Steen Eiler Rasmussen. Senza dubbio l’aspirazione a risiedere nei verdi sobborghi resta radicata nella mentalità danese e, più in generale, scandinava. Tuttavia il ‘richiamo al centro’ è stato incentivato, nell’ultimo decennio, con il varo di un articolato programma di ‘densificazione’ della città storica, giocato sull’attrazione delle nuove architetture d’eccellenza, nonché su imponenti complessi ricettivi e residenziali dislocati prevalentemente lungo il waterfront dei canali navigabili.
Nel rinnovato scenario urbano si impongono all’attenzione la colossale Opera House (2004) progettata da Henning Larsen, che rispecchia, sull’altra sponda del canale, in asse percettivo, la storica Place Royale (Kungliga Slottet) di Amalienborg, e il Den Sorte Diamant, il «diamante nero» (2005) ideato dallo studio Schmidt-Hammer-Lassen come ampliamento ultramoderno (in granito nero polito e vetro) della storica Biblioteca reale, fondata nel 1670 dal re Federico III; mentre nelle sale coperte a volte di un’annessa corte seicentesca in mattoni a faccia vista, Libeskind ha incastonato l’allestimento plastico del Danish Jewish Museum (2003). Infine fuori dal centro, nei pressi del sobborgo residenziale di Klampenborg, Hadid ha aggiunto un nuovo suggestivo spazio espositivo per la collezione d’arte contemporanea dell’Ordrupgaard Art Museum (2005).
Fin qui un accenno ad alcune opere esemplari della nuova Copenaghen. Nelle altre città baltiche l’innovazione ha mirato a interventi puntuali e, in quanto tali, significativi per la qualità piuttosto che per l’entità dell’area modificata. Tra i tanti, valgano come esempio il Modern Museum and Swedish Museum of architecture (1997) di Moneo, ubicato sull’isola di Skeppsholmen a Stoccolma, nonché il Kiasma Museum of Contemporary Art (1998) di Steven Holl e la sede della Sonoma Corporation (1999-2002) di Jan Söderlund e Anti-Matti Siikala entrambi a Helsinki. Va registrato infine lo sviluppo prevalentemente orizzontale di Oslo, altra città emblematica della civiltà scandinava benché dischiusa sull’oceano, in netta controtendenza rispetto alla città baltica di San Pietroburgo, che aspira a competere con Mosca nella gara per realizzare grattacieli strabilianti, come quello previsto per l’Okhta Center della Gazprom corporation, progettato (2006) dallo studio inglese RMJM, non ancora realizzato, ma già aspramente criticato dall’UNESCO.
Lungo il tratto settentrionale della costa atlantica, che va da Amburgo a Le Havre, si segnalano per l’elevato livello di sperimentazione soprattutto le città-porto dei Paesi Bassi. Dopo una breve fase di declino delle aree portuali, nell’ultimo decennio si è manifestata una significativa inversione di rotta che ha fatto registrare un rinnovato incremento dei traffici marittimi. Sull’onda galvanizzante di tale trend sono state varate nuove strategie di sviluppo e di razionalizzazione del waterfront, senza più limitarsi al mero recupero delle aree dismesse.
Anversa ha affidato il ridisegno dell’area portuale alla collaudata esperienza dell’architetto spagnolo de Solá Morales. Rotterdam – che resta in assoluto il più importante scalo intercontinentale e ha costituito fin dagli anni della ricostruzione postbellica il laboratorio per antonomasia della modernità – continua a trainare nella direzione della più ardita sperimentazione tecnica e linguistica, emblematicamente rappresentata dall’Erasmusbrug, il ponte sulla Mosa lungo 880 m, realizzato nel 1996 su progetto di Ben van Berkel. Amsterdam, a sua volta, resta in prima linea nella ricerca sia architettonica sia urbanistica contemporanea. La metamorfosi in fieri è estesa su tutto il territorio urbanizzato, con punte avanzate non solo nel campo dell’edilizia residenziale, ma anche nel sistema infrastrutturale. Sono soprattutto le grandi opere di ingegneria a imporsi come nuove icone sulla scena urbana: dalla Stazione centrale che racchiude sotto la smisurata volta l’intero network dei trasporti (treni, metro, bus, traghetti) progettata nel 2004 da Benthem Crouwel Architecten, al Bicycle Storage (2001) di VMX Architects, con le piattaforme dei vari piani librate in aggetti azzardati, fino agli avveniristici ponti Borneo Sporenburg (2000) di West 8 ed Enneus Heerma (2001) di Nicolas Grimshaw and partners. Simbolo del nuovo corso resta comunque New Metropolis (1997; dal 2000 è chiamato Nemo), centro nazionale delle scienze e delle tecnologie, ideato da R. Piano come un’allegorica arca di Noè, con la grande poppa metallica sollevata da terra dal taglio vetrato del pianterreno.
Proseguendo lungo la costa atlantica occidentale, nella parabola che va da Brest fino a La Coruña, si trovano prevalentemente le città-porto fluviali – quali Nantes e Bordeaux – dove i programmi di innovazione sono stati meno radicali. Un inciso a parte si impone per l’eccezione di Bilbao, della cui paradigmatica mutazione si è già accennato. Altrettanto significativi sono stati gli interventi di trasformazione attuati nelle città portoghesi, sia pure con diversi caratteri distintivi.
Osservata sulla carta topografica, la linea di costa del Portogallo disegna il profilo del volto dell’Europa che guarda verso l’oceano, con la città di Oporto al posto dell’occhio e Lisbona simile a una bocca aperta per recepire i venti esotici delle culture d’oltremare. Fuor di metafora, anche se il 25 aprile 1974 la Rivoluzione dei garofani ha posto definitivamente fine alle ambizioni coloniali di un plurisecolare impero mercantile esteso dal Brasile all’Africa, fino all’Estremo Oriente, il nomadismo culturale resta il contrassegno più autentico di questo popolo di naviganti. Non a caso il tema prescelto per l’Esposizione universale svoltasi a Lisbona nel 1998 è stato Gli oceani, un patrimonio per il futuro. Sulla soglia del 21° sec. la metamorfosi urbana è stata in tal senso attuata recuperando un’area dismessa del porto fluviale ubicata nella periferia della città. In questa zona orientale, che si estende per circa 5 km lungo la sponda del fiume Tago, è sorto il Parque das Naçöes, inteso quale simbolico crocevia delle civiltà del mondo. Nello scenario avveniristico – delimitato sullo sfondo dal Ponte Vasco da Gama (un tracciato carrabile ondulato, di circa 17 km, sospeso con cavi d’acciaio) – si stagliano l’Ocenarium di Peter Chermayeff, che simula l’habitat della vita sottomarina nel più grande acquario d’Europa, nonché la metaforica ‘tenda’ del Padiglione del Portogallo di Siza. A quest’ultimo si deve anche il restauro urbano del quartiere Chiado, andato distrutto in un incendio divampato la notte del 25 agosto 1988, ma successivamente ricostruito con raffinata maestria e nel più scrupoloso rispetto della memoria storica.
A sua volta ubicata in un profondo estuario del fiume Duero, Oporto gioca un ruolo di leader nel settore industriale e commerciale più che in quello turistico. La vocazione imprenditoriale non eclissa tuttavia l’avanzata ricerca nel campo dell’architettura e del design. Eletta capitale europea della cultura nel 2001, la ‘città d’acciaio’ (per i suoi ponti à la Eiffel) ha saputo potenziare le moderne attrezzature tecniche del porto di Leixöes, valorizzare il centro storico con un attento restauro dei monumenti e incrementare la rete infrastrutturale con nuove stazioni della metropolitana.
L’altro grande bacino di scambi culturali resta il Mediterraneo. Nell’etimo del termine tardo latino medium terrarum è preservato il senso latente di ‘mezzo di unione’, dispiegato fin dall’antichità dalle acque del mare tra le terre della presunta culla delle civiltà del mondo. Nella lunga durata del tempo, la molteplicità delle culture provenienti dall’Africa e dal vicino Oriente, mescolandosi a quelle europee, hanno dato luogo a una civiltà cosmopolita a tutt’oggi riconoscibile pur nella diversità delle etnie e delle fedi religiose. Come il fascino sommerso del Mediterraneo che, lo ha notato lo storico Fernand Braudel negli anni Quaranta del Novecento deriva proprio da una fitta rete di città che si tengono per mano.
Certamente il mare nel corso della storia non solo ha favorito la circolazione di merci e culture, ma è stato anche teatro di conflitti cruenti. Come antidoto contro i rischi di una recrudescenza della conflittualità, attualmente già molto elevata, è stata stilata, già a partire dal 1995, una politica internazionale di accordi commerciali probabilmente destinata a sfociare in un’area euromediterranea di libero mercato. Se a ciò si aggiunge il sensibile incremento dei traffici marittimi (sia crocieristici, sia mercantili), si può comprendere la spinta propulsiva che ha indotto le città-porto a investire ingenti risorse nei programmi di ridisegno del waterfront. Esula dai limiti di questo saggio una disanima estesa alle città magrebine (quali Algeri, Tripoli e Alessandria d’Egitto), a quelle mediorientali (da Beirut a Istanbul), nonché alle stesse città-porto italiane (Genova, Livorno, Napoli, Palermo, Bari, Venezia, Trieste e altre). Limitiamo l’analisi a tre casi esemplari: Valencia, Marsiglia e Atene.
Il passaggio al nuovo secolo è stato a Valencia anticipato negli anni Ottanta del Novecento dal Jardí del Turia, splendido parco di palme e fiori disegnato da Ricardo Bofill per recuperare il vuoto dell’alveo prosciugato del fiume, le cui acque erano state deviate a seguito della devastante inondazione della città nel 1957. Da allora è stato questo suggestivo ‘fiume di alberi’ a connettere con un filo verde unitario le due distinte città: il nucleo storico di Valencia e l’insediamento costiero del Grao ruotante intorno alla darsena marittima. Nell’ambito di questo sinuoso parco è stata edificata tra il 1991 e il 2006, su progetto di Santiago Calatrava, la Ciutat de les arts i les ciències, articolata intorno a tre opere emblematiche del suo zoomorfismo tecnologico – il Museu de les ciències Príncipe Felipe (2001), il Palau de les arts Reina Sofía (2005) e l’Hemisféric (2005) a forma d’occhio – interconnesse dal fitomorfico Umbracle (2006), una pergola ad archi parabolici (lunga 320 m e alta 60) concepita per essere ricoperta da piante rampicanti. Prescelta nel 2003 come sede della America’s cup 2007, Valencia ha inoltre bandito un concorso internazionale per completare il recupero urbanistico nell’area di interconnessione tra l’alveo fluviale e il fronte sul mare; concorso dal quale sono scaturite nuove opere di alta qualità («Arquitectura viva», 2007, 103, n. monografico) tra le quali la Sede oficial de la competición (2006) ideata da Chipperfield.
Marsiglia, pur avendo perso il tradizionale ruolo di capitale coloniale, resta l’epicentro economico e infrastrutturale di una vasta area metropolitana alimentata dai flussi merceologici del porto. L’area industriale limitrofa al moderno Port de la Jolliette è stata oggetto di un imponente progetto di riqualificazione urbana noto come Euroméditerranée (dal nome dell’agenzia pubblica di gestione del piano). Il coordinamento dell’ambizioso programma è stato affidato a Yves Lion e ha dato luogo a una sorprendente costellazione di architetture d’autore, firmate tra gli altri da Nouvel, Hadid, Rudy Ricciotti e Stefano Boeri.
Atene ha raggiunto l’apice del rinnovamento urbano in occasione delle Olimpiadi del 2004. Per tale evento sono state messe in cantiere più di cento opere disseminate nel territorio metropolitano, spaziando dal recupero dei tessuti storici all’edificazione di nuove architetture ideate da noti architetti greci, tra i quali Vassilis Baskozos, Daria Tsangaraki, Irene Sakellaridou e Murpho Papanikolau. L’emblema del nuovo secolo è stato però siglato da Calatrava con l’avveniristico Stadio olimpico (2004).
Le nuove icone
Nel 1968 Stanley Kubrick, in uno dei suoi film più famosi, aveva immaginato che nel 2001 si sarebbero dischiusi gli emozionanti orizzonti di un’odissea nello spazio. L’11 settembre, invece, il mondo è stato sconvolto dall’attentato terroristico alle Twin Towers di New York. Con troppa fretta, tuttavia, alcuni critici hanno pronosticato che quell’evento e la paura innescata avrebbe sepolto in maniera definitiva il mito del grattacielo. Al contrario, all’alba del 21° sec., non solo in Europa ma in ogni angolo del mondo, si è progressivamente diffusa la volontà di costruire sempre più in alto, fino a raggiungere vette vertiginose, quasi a voler imitare la biblica torre di Babele.
Peraltro, nell’universo telematico nel quale siamo immersi, il confine tra realtà e virtualità si è assottigliato fin quasi a dissolversi. Il cinema, la televisione, Internet e altre reti di comunicazione elettronica trasformano alchemicamente le architetture costruite in ‘icone’ dell’immaginario globale. Si è giunti a un punto tale che la ripresa televisiva degli aerei che si sono abbattuti l’11 settembre 2001 contro le Twin Towers (tante volte rivista) si colloca ai confini della realtà, nell’astratta perfezione rappresentativa di una videosimulazione da war game. L’obiettivo primo di quell’atto terroristico – perseguito con lucida predeterminazione ideologica – è stato l’iconoclastia dei simboli dell’imperialismo americano. Pochi hanno colto il nesso analogico di quella ‘Pearl Harbour mediatica’ con il precedente episodio di furor destruens compiuto il 12 marzo dello stesso fatidico anno 2001, quando i talebani demolirono nella valle di Bāmiyān le statue colossali di Buddha. Eppure, quel gesto barbarico di annientamento dei simboli di un’altra fede avrebbe dovuto lasciar presagire tutta la devastante potenzialità della tribale ‘guerra santa’ contro le immagini. Non a torto, nel film Escape from New York (1981; 1997 – Fuga da New York) di John Carpenter le due torri sono profeticamente indicate come i bersagli preferenziali del fondamentalismo islamico, proprio per il loro totemico simbolismo.
Se ciò è vero, allora anche in Europa la costruzione dei nuovi grattacieli scaturisce non solo dalle dichiarate motivazioni logiche sulla riduzione di consumo del suolo edificabile, ma anche e soprattutto da eloquenti finalità simboliche. Nel rinnovato panorama delle città europee, i grattacieli si ergono come solitari totem iconici. Tale fenomeno sta dilagando dalle dinamiche metropoli, quali Londra, Parigi, Berlino, Madrid, ai più tranquilli scenari urbani di quasi tutte le città medie o grandi. Valga come esempio Dublino, città nella quale sta per essere eretto, tra vivaci polemiche, l’U2 Tower, un grattacielo residenziale estrosamente inclinato, nell’area dismessa dei Docklands, su progetto di N. Foster.
La città ai confini dell’Europa dove la corsa a costruire verso l’alto si manifesta con più spasmodica evidenza è Mosca. Non va dimenticato d’altronde che già negli anni staliniani il grattacielo venne qui reinterpretato da un’angolazione ‘russa’ come guglia monumentale, a partire dall’irrealizzato Palazzo dei Soviet (1931, che con la statua di Lenin avrebbe dovuto superare l’altezza dell’Empire State Building di New York) fino ai sovrumani sette grattacieli degli anni Cinquanta del 20° sec., sormontati dalle rifrangenti stelle metalliche che affiorano, a distanza strategica, dalla nebbia delle periferie come simbolici obelischi di uno scenografico piano propagandistico. Oggi invece a catalizzare il vivace cantiere dei nove grattacieli di Moscow City è stata una deliberata deregulation. L’assenza di vincoli, se da un lato alimenta la gara tecnica tesa a superare ogni record in altezza, dall’altro determina un caotico accumulo di scatole di vetro addensate disordinatamente in questa vasta landa periferica di circa 60 ettari. L’eccezione qualitativa che conferma la tendenza verso la verticalizzazione sempre più spinta sarà portata a compimento dalla Russia Tower, progettata da Foster, una torre che, superando nelle intenzioni progettuali l’altezza di 600 m, è candidata a conseguire l’assoluto primato europeo.
D’altronde il fantasma iconico del grattacielo high-tech si aggira anche lungo il valico transnazionale della Mitteleuropa, da Vienna alle Alpi, ovvero dalle Porr Towers (2005) di Hans Hollein, che disegnano la porta d’accesso meridionale alla capitale austriaca nel quartiere Monte Laa, fino alle contestate quattro torri di cristallo (2008) prefigurate da Mario Botta per il piccolo insediamento montano di Celerina, nei pressi di Sankt Moritz. Non sempre tuttavia il nuovo si manifesta in altezza; al contrario nella fascia centrale d’Europa, lungo il corridoio infrastrutturale che dalla Svizzera giunge fino ai Paesi orientali, si è innestato un notevole sviluppo, prevalentemente orizzontale, contraddistinto da industrie ad alta tecnologia disseminate nelle vallate boschive.
Tra le tante aziende all’avanguardia, rifulge come allegorico paradigma della città contemporanea l’insediamento industriale della Vitra a Weil am Rhein. Con raffinata sagacia l’imprenditore Rolf Fehlbaum ha concepito la fabbrica come un modello di città in miniatura, ubicandola in questo borgo della Germania ai confini con la Svizzera e la Francia. All’interno del Campus Vitra sono stati invitati a progettare architetture a valenza simbolica alcuni dei protagonisti dell’attuale scenario senza frontiere nazionali. Uno dopo l’altro, seguendo una sequenza estetica prima ancora che cronologica, hanno realizzato opere emblematiche, nel recinto incantato di questa Künstlerkolonie a cavallo dei due secoli, Grimshaw (1983), Claes Oldenbug (1984), Gehry (1989), Tadao Ando (1993), Hadid (1993), Siza (1994), Jasper Morrison (2006) e Herzog & de Meuron (2006). Così, nel laboratorio di questa piccola città-fabbrica è stata sperimentata la fusione di forme eterogenee in un inedito amalgama linguistico che simula l’eclettismo babelico della metropoli europea del 21° secolo.
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