La morale familiare
La disciplina morale della famiglia e delle relazioni che la compongono ha assunto nel corso del tempo un ruolo sempre più centrale nel discorso della Chiesa cattolica. Il matrimonio e il suo statuto, l’interruzione di gravidanza e le forme di procreazione assistita, le relazioni tra i sessi e il loro impatto nel definire il ruolo dei soggetti nella società, per arrivare alla stessa idea di famiglia, sono temi ormai decisivi nel disegnare il profilo della morale familiare cattolica e nel distinguerlo nettamente nella sfera pubblica. Lo sguardo storico mostra come questa situazione sia l’esito di un complesso processo di lungo periodo, che ha le proprie radici remote nella patristica e nelle prime esperienze del cristianesimo organizzato, vede un primo cambiamento nella frattura riformista e nella reazione cattolica tridentina e trova infine nella nascita dello Stato moderno il terminus a quo di una ridefinizione profonda dei rapporti di potere attorno alla famiglia e a ciò che la riguarda.
Da allora, al tentativo di costruire e definire una continuità di lungo periodo nelle proprie posizioni, il discorso morale della Chiesa ha affiancato un confronto attivo con i meccanismi dello Stato e delle sue istituzioni, per interagire e influire sulla definizione di norme e regole. Ma se lo spazio della produzione normativa è stato storicamente riorientato dall’ingresso dello Stato, un secondo elemento ha assunto un ruolo sempre più incisivo nel plasmare la famiglia e il discorso morale su di essa: la dimensione scientifica del naturale, il riferimento al dato biologico riconosciuto come base della conoscenza sul corpo del singolo e della collettività. Si è trattato di un cambiamento denso di implicazioni che ha inciso in profondità anche sulla disciplina morale familiare. La presenza attiva e preponderante dello Stato in materia familiare ha infatti innescato una graduale perdita di competenza pubblica da parte della disciplina cattolica. Per far fronte a questa tendenza, che aveva mostrato in breve tempo i caratteri dell’irreversibilità, la morale cattolica ha cercato e trovato nel biologico l’opportunità di recuperare una parola pubblica autorevole e influente, costruendosi quale autorità sull’umano e sul vivente, attivamente presente nel confronto con le scienze biomediche e con le loro pratiche. Queste ultime e la loro presa sempre più attiva ed efficace sul vivente hanno rappresentato per la disciplina morale della Chiesa l’opportunità di uscire dalla strada senza uscita nella quale l’esordio del matrimonio civile l’aveva spinta. Il rapporto con queste scienze si è così definito in termini di conflitto competitivo, dove la posta in gioco si è trasformata nel controllo della verità e del significato del vivente e, di conseguenza, dei caratteri e degli scopi del suo governo; o, in altri termini, della competenza sulle radici e le qualità dell’umano.
Le norme morali del discorso cattolico sulla famiglia sono venute così formandosi e delineandosi nel dettaglio, prima attraverso il conflitto-competizione con lo Stato e con la legge (meno sul merito e più sulla forma del controllo), poi nel confronto con la concreta dimensione del biologico e delle sue implicazioni sulle possibilità di azione e scelta di individui e comunità, quello che è stato considerato, sulla scorta degli studi di Foucault, il biopolitico1. Nella seconda metà dell’Ottocento, che per molti versi rappresenta un tornante decisivo nella storia del discorso morale, si è espresso un duplice movimento disciplinare, che da una parte ha visto i papi reagire al matrimonio civile con interventi e documenti che ne ribadivano il carattere sacramentale, esito di una rilevanza del matrimonio per la Chiesa che datava almeno dal concilio di Trento e premessa necessaria per rivendicarne la gestione esclusiva da parte della Chiesa cattolica; dall’altra, con la metà del secolo, ha mostrato la Congregazione del Sant’Uffizio disciplinare nel dettaglio pratiche e comportamenti legati alla sessualità e alla procreazione, dalla contraccezione all’aborto terapeutico, alla fecondazione artificiale. Mentre il primo sentiero si avviava a una progressiva restrizione, stante l’irreversibilità del processo di giuridificazione della famiglia e del matrimonio da parte dello Stato, dall’altra si espandeva invece il percorso di confronto con il naturale, identificato come il terreno su cui riaffermare una centralità della morale e della disciplina cattolica nello spazio pubblico. Queste due strade si sono poi ricongiunte il 31 dicembre 1930, nell’enciclica Casti connubii di Pio XI, su cui il discorso pubblico sul matrimonio quale sacramento si incontra con l’insieme di interventi disciplinari del Sant’Uffizio, nel merito del dispositivo biopolitico che stava mutando il modo di pensare e di governare la procreazione e la sessualità. È in questo frangente storico che il matrimonio iniziò a diventare, per la morale cattolica, il baricentro della famiglia: mentre la ridefinizione giuridica della paternità e del matrimonio si presentava come l’esito dell’intervento dello Stato e delle sue regole scritte, ciò che ruota attorno alla procreazione aveva iniziato a mutare prima, con l’azione concreta della pratica medica e solo in un secondo momento con l’intervento della legge.
Con l’approdo del matrimonio civile si è dunque innescato un conflitto competitivo con lo Stato e le sue istituzioni attorno al governo della famiglia; un conflitto che non si è incentrato tanto sul merito delle scelte, quanto sulla titolarità a normare la famiglia. L’ingresso dello Stato nello spazio della normazione familiare sottraeva definitivamente alla Chiesa la gestione della chiave giuridica, benché fin dall’inizio dell’esperienza legislativa dell’Italia unita fosse prevalsa un’idea organicistica della famiglia come base della società che coincideva in non pochi tratti con quella del diritto canonico. Questa mutazione negli equilibri della normazione ha indotto la disciplina morale cattolica a muovere verso il confronto con i saperi biomedici, le loro pratiche e le conoscenze prodotte sul naturale e sul vivente, trovando qui il terreno per un recupero di parola pubblica autorevole e influente. La maggior parte delle questioni affrontate dal Sant’Uffizio in questo scorcio di secolo, infatti, riguardavano pratiche o comportamenti che non erano stati ancora presi in carico dalla lettera della legge, principalmente perché si trattava di fenomeni relativi dal punto di vista quantitativo o, comunque, agiti in privato, ma pubblicamente non ancora nominati. Il giudizio e le norme sulla contraccezione, le terapie abortive, la fecondazione artificiale furono prodotte prima dalle istituzioni della Chiesa e dal suo discorso, mentre la lettera dei codici sarebbe arrivata molto tempo dopo la loro comparsa sulla scena pubblica. In questa prospettiva, la disciplina morale familiare fu sì in parte condizionata dalla realtà italiana, in primis dalla frattura risorgimentale e dagli esiti del processo unitario, ma fu sagomata soprattutto da quei paesi che prima e con più forza stavano mostrando gli effetti più eclatanti del processo di modernizzazione e di secolarizzazione sul tessuto sociale e sul modo di pensare la famiglia e le sue relazioni.
La famiglia è diventata in età contemporanea un campo di tensione, in cui si sono sedimentati tanti effetti del processo di modernizzazione che ne hanno mutato in profondità gli equilibri, le relazioni, lo statuto, al punto che l’interrogativo su cosa essa sia è divenuto uno snodo costante delle discussioni politiche e dei dibattiti sulla società contemporanea. Gli ultimi due secoli, infatti, sono stati attraversati dall’interrogativo se la famiglia sia una rete di relazioni data a priori perché inscritta nell’ordine naturale che precede qualsiasi organizzazione sociale e, come tale, immutabile nei suoi caratteri di fondo, oppure, al contrario, se essa sia l’esito di una complessa costruzione sociale e culturale, plasmata dalle variabili contingenti legate allo spazio e al tempo e, per questo, di per sé mutevole e plurima. È un’alternativa che definisce implicazioni rilevanti sul piano sociale e politico. La famiglia, infatti, è il luogo in cui si definiscono le relazioni tra le generazioni, in cui gli individui adulti costruiscono il proprio modo di vivere la riproduzione quotidiana e la generazione di nuove persone ed è, per questo, uno spazio strategico attraverso il quale un ordine sociale organizza la propria riproduzione nel corso del tempo. Parlare di famiglia, di cosa sia o di cosa debba essere, significa quindi mobilitare idee e concezioni sul rapporto tra i sessi e tra le generazioni, discutere del significato della sessualità e della procreazione e di se e come la differenza sessuale tra maschile e femminile definisca il ruolo e l’autonomia degli individui nella società. In quanto tale, dunque, è uno spazio in cui si sedimentano visioni politiche e culturali, relazioni sociali e rapporti di potere, ideologie e prospettive normative, si confrontano modelli di ordine sociale. Come è stato sottolineato di recente2, la famiglia vive una sorta di paradosso normativo, laddove la sua presenza in ogni società e tempo si riflette nell’impossibilità di convergere su un modello di famiglia universale, che nell’idea di famiglia naturale cerca il sinonimo che ne fissi la stabilità e immutabilità nel tempo e nello spazio. Allo sguardo delle scienze sociali e storiche, invece, la famiglia presenta una forte pluralità di forme. I modi con i quali le strutture della parentela si sono organizzate o sono stati attribuiti gli statuti ai nati in relazione ai legami tra i genitori biologici sono stati vari e multiformi nel corso del tempo, a riprova di un rapporto dinamico e complesso tra l’esperienza sociale e la dimensione del naturale. Da questo punto di vista, la famiglia appare piuttosto come il prodotto di norme diverse, definite dalla società, dalla religione e dal diritto, che hanno disegnato di volta in volta il suo perimetro, ciò che essa comprendeva e ciò che ne era invece escluso, selezionando che cosa della natura poteva essere legittimato. Il riferimento a un dato naturale come punto di partenza per definire i limiti e i caratteri della morale familiare è probabilmente divenuto nel corso del tempo probabilmente il riferimento più forte, quasi egemonico per la costruzione di una morale sulla famiglia e le sue relazioni, sia dal punto di vista laico sia dal punto di vista cattolico. E la valutazione delle scelte e delle decisioni che gli attori sociali prendono su alcune questioni di morale familiare – dall’aborto alla contraccezione, dal divorzio alla convivenza – hanno chiaramente mutato la chiave di lettura: segnali della degenerazione di un ordine naturale originario, oppure esito di analisi e opzioni razionali da parte degli stessi attori sociali.
Le norme che hanno formato la famiglia e definito il suo dover essere nel corso del tempo sono state prodotte soprattutto dalla Chiesa cattolica e dallo Stato moderno. In momenti diversi entrambe queste istituzioni hanno scritto regole, definito criteri di inclusione ed esclusione nella definizione di famiglia, con una rilevante trasformazione quando, a partire dal Medioevo, il matrimonio ha cominciato a essere considerato un contratto civile, affiancando questa dimensione a quella sacramentale sulla quale si era fondata la giurisdizione esclusiva della Chiesa cattolica. La famiglia è divenuta allora un affare dello Stato, soprattutto nel Settecento con l’avvio dei processi di nazionalizzazione, per i quali è stata considerata come luogo strategico per costruire il cittadino e il corpo della nazione. Così lo Stato ne ha progressivamente preso in carico la definizione, producendo regole e codici che ne hanno organizzato la vita e il funzionamento. Non si è peraltro limitato a questo piano, se è vero che la politica stessa ha attinto molto alla semantica della famiglia per nutrire e rafforzare il proprio discorso nazionale, e attraverso la metafora della famiglia naturalizzare un ordine sociale e politico, i suoi equilibri e le sue gerarchie interne3.
La giurisdizione esclusiva della Chiesa sul matrimonio e il conseguente suo primato nella disciplina è stato quindi definitivamente incrinato dall’ingresso dello Stato moderno e dal suo progetto di costruzione della nazione4. Il matrimonio civile si è così configurato come lo spartiacque in questo processo, laddove, pur rimasto sostanzialmente identico nel merito a quello regolato dal diritto canonico della Chiesa, è però diventato mutevole e, dunque, pericoloso per la disciplina morale cattolica in quanto sottratto definitivamente alla competenza della Chiesa stessa. In questa prospettiva di contrapposizione allo Stato – attivata già all’esordio della vicenda storica unitaria quando a pochi anni da Porta Pia cominciavano ad arrivare in parlamento i primi progetti di legge per il divorzio5 – la disciplina morale della Chiesa ha messo a fuoco un modello di famiglia cristiana da opporre ai multiformi processi di normazione portati avanti dallo Stato nelle diverse stagioni della storia italiana. E mentre la regolazione statale dava gradualmente più forza alla dimensione personale nelle relazioni familiari, nel discorso morale della Chiesa acquisiva invece sempre più peso il riferimento al naturale scientificamente definito come base per l’identificazione dell’umano e della sua disciplina morale.
In una prospettiva comparativa, l’Italia è emersa come spazio in qualche misura paradigmatico rispetto alla storia della famiglia, che da una parte chiama in causa le caratteristiche della storia politica e istituzionale italiana, dall’altra mobilita il piano culturale e sociale e, con esso, il rapporto con la morale cattolica. Il profilo demografico della popolazione italiana disegnato dalla statistica e dalla demografia, infatti, presenta segni particolari rispetto agli altri paesi europei6. A scarse misure di politica sociale a tutela della famiglia, in particolare attorno al suo nucleo centrale della procreazione, si accompagna infatti un tasso di natalità tra i più bassi del mondo che ha portato l’Italia al di sotto del tasso di sostituzione7. In questa prospettiva, per le scienze sociali il caso italiano manifesta un’ulteriore esemplarità, riferita principalmente ai paesi europei dell’area mediterranea (Portogallo, Spagna, Grecia), in quanto le caratteristiche dei sistemi di welfare e le politiche sociali verso la famiglia, così come più in generale il rapporto culturale, sociale e politico verso la famiglia e i suoi problemi sono considerati segnati in maniera significativa dalla cultura cattolica, sul piano delle pratiche sociali come su quello delle forme giuridiche, in particolare attorno alla riproduzione e alla sessualità8. Eppure, al di là di una forte capacità di pressione del cattolicesimo organizzato sulle istituzioni legislative e sull’azione politica – dai due milioni di firme cattoliche depositate in parlamento nel 1882 a contrastare il progetto di legge sul divorzio presentato dal guardasigilli Tommaso Villa alle migliaia di persone che nel 2007 hanno manifestato nel cosiddetto ‘Family day’ contro l’ipotesi di riconoscimento giuridico delle coppie conviventi, eterosessuali e omosessuali – nella vicenda storica dello Stato unitario, si è comunque modificato il modo di porsi della popolazione italiana rispetto alla sessualità, alla procreazione e all’istituto familiare.
Dopo il culmine della natalità degli anni Sessanta, l’Italia approda alla cosiddetta seconda transizione demografica,vale a dire a quella ridefinizione dell’equilibrio tra tassi di natalità e di mortalità determinata dalla riduzione della fecondità tale da portare alcuni paesi sviluppati, come l’Italia, al di sotto del tasso di sostituzione. Rispetto agli altri paesi europei, in Italia si presenta un ‘imponente fenomeno’ del rinvio e della riduzione di matrimoni e nascite che non appartiene a una dinamica congiunturale, ma appare come un elemento in qualche misura legato a caratteri più profondi della vicenda storica italiana9. Un ulteriore fenomeno che caratterizza il contesto italiano è quello della lunga permanenza nella famiglia d’origine, soprattutto delle donne (87% sotto i 25 anni). In questo senso, il rapporto con la sessualità e la procreazione appaiono dalle più recenti indagini10 legati in maniera significativa alla dimensione religiosa, anche se il peso della religione nell’orientare le decisioni degli individui rispetto alla sessualità, alla famiglia e alla procreazione appare decrescente. Quanto alle forme di famiglia, le statistiche segnalano un progressivo avvicinamento della situazione italiana a quella dei paesi europei, anche se «le trasformazioni del diritto sono state più radicali che altrove, perché avvenute in un intervallo più breve»11. L’introduzione nel 1970 del divorzio è andata a sommarsi alla possibilità della separazione legale, che era presente già nel primo codice unitario oltre che nel diritto canonico, e alla sentenza della Corte costituzionale, che nel 1969 aveva abolito la disparità di trattamento in tema di adulterio. Era l’esordio di un decennio che avrebbe portato nel 1975 alla riforma del diritto di famiglia, che ridefiniva in termini puerocentrici l’equilibrio della famiglia, centrando nella figura dei figli il punto di equilibrio rispetto all’individualità dei genitori e alla loro autonomia, e che si sarebbe concluso nel 1978 con la legge 194 sull’interruzione di gravidanza12. Esordio e termine del decennio furono tanto più significativi per la storia del diritto di famiglia, in quanto entrambi videro una potente conferma del voto attraverso l’istituto del referendum abrogativo, che fu attivato proprio per la legge sul divorzio, la cui abrogazione nel 1974 fu respinta da diciannove milioni di voti che costituirono il «vero e proprio spartiacque nella storia del diritto di famiglia italiano»13, mentre nel 1981 il voto referendario confermò la legge sull’interruzione di gravidanza14. Non è un caso allora che proprio in questo frangente storico la famiglia cominci a diventare un termine di riferimento nella dottrina della Chiesa e nel suo magistero, acquisendo uno spazio che prima di allora non aveva avuto in questi termini. Un passaggio può essere identificato appunto nella Dichiarazione sul procurato aborto, con la quale la Congregazione per la dottrina della fede nel 1974 chiuse ogni margine a qualsiasi possibilità di legittimare moralmente l’interruzione terapeutica di gravidanza per la morale cattolica. In un periodo in cui diversi paesi europei stavano approvando leggi che legalizzavano forme di interruzione di gravidanza15, nella teologia morale e nella riflessione cattolica si erano moltiplicati infatti i tentativi di argomentare la liceità morale di questa soluzione dal punto di vista cattolico, anche guardando allo sviluppo storico delle posizioni della Chiesa sull’aborto16.
Per la morale della Chiesa la famiglia è dunque diventata con la metà dell’Ottocento uno spazio di investimento disciplinare, quando, in risposta all’arrivo dello Stato e al suo controllo sull’istituto matrimoniale, ha fatto la sua comparsa anche l’idea di famiglia tradizionale, intesa, principalmente, come quella fondata sul matrimonio indissolubile. Peraltro è la stessa semantica del termine famiglia ad essere variata molto nel corso del tempo, arrivando all’attuale riferimento in tempi piuttosto recenti17.
La storia della disciplina morale cattolica ha remote origini nelle riflessioni antiche sulla sessualità, dalla patristica, in particolare Agostino d’Ippona, ai movimenti gnostici che propugnavano l’idea della peccaminosità di qualsiasi pratica sessuale, il rifiuto totale della vita matrimoniale e la promozione di forme di ascetismo. L’interpretazione pessimistica agostiniana ha segnato la visione cattolica della sessualità e della corporeità in generale, contribuendo in maniera decisiva a fare del principio del rispetto dell’ordine procreativo la premessa necessaria per la moralità di atti e comportamenti18. Il matrimonio ha acquisito in questa prospettiva un significato rilevante proprio in quanto spazio che attraverso la finalità procreativa ordina la corporeità e la sessualità. La violazione di quest’ordine procreativo, soprattutto attraverso la dispersione del seme maschile, simboleggiata in Gn. 38 dal gesto di Onan, si è configurata come il parametro decisivo con il quale per secoli la disciplina morale cattolica ha tracciato il confine tra moralità e immoralità nei comportamenti sessuali. Poi nel 1760 il medico ginevrino Samuel Tissot nel suo volumetto De onania trasferì questa condanna morale sul piano fisiologico, introducendo l’idea che lo spreco del seme maschile, dalla masturbazione alle pratiche di coitus interruptus, avesse conseguenze negative sull’organismo19. Qui le ragioni di genere di lungo periodo, che dalla biologia aristotelico-ippocratica in avanti consideravano il seme maschile come portatore dell’ontologia dell’essere umano, e le dinamiche biopolitiche del nuovo Stato si coniugavano nel fare, per la morale cattolica come per quella laica, del contronatura un elemento da contrastare.
Il secolo XIX, come detto, è però per molti versi un tornante decisivo dove la disciplina morale familiare della Chiesa trova e articola molti degli assunti che diverranno nel corso del Novecento punti fermi e distintivi della posizione cattolica sui temi familiari. Al peso determinante dei dispositivi giuridici nella costruzione e regolamentazione minuziosa della famiglia si è aggiunto il crescente rilievo che la natura, il bios, ha acquisito nel dare significato, senso e norme all’individuo e alle sue relazioni. Embriologia, biologia, fisiologia hanno riscritto in questo periodo la grammatica del vivente, acquisendo sul funzionamento del corpo, della sessualità, della procreazione conoscenze nuove che da una parte hanno obbligato il discorso morale a confrontarsi con nuove realtà fisiche, dall’altra hanno aperto all’agire medico e terapeutico possibilità sempre più concrete ed efficaci di intervento sul corpo fino ad allora impensabili.
Fin dalle sue origini la disciplina cattolica della sessualità aveva posto l’ordine procreativo come punto di riferimento per la misura del giudizio morale: laddove l’atto o il comportamento rendeva attivamente impossibile la procreazione, la condanna morale era netta. In questa stessa prospettiva, il giudizio morale, teologico e dottrinale sulla sessualità – dalla masturbazione alla sessualità prematrimoniale, dall’adulterio all’omosessualità – si è definito riguardo all’ordine naturale e alla funzionalità procreativa degli organi genitali, con il matrimonio come suo naturale e unico spazio di espressione. Con i secoli VIII e IX il riferimento al matrimonio e alla sua disciplina morale ha acquisito una crescente rilevanza nel discorso della Chiesa per rispondere ai movimenti religiosi che postulavano la totale condanna della corporeità e, dunque, della convivenza matrimoniale. Con lo Stato moderno, poi, è cresciuto l’investimento normativo sulla famiglia, e allora codici, leggi, provvedimenti di diverso tipo hanno iniziato a dare e chiedere una forma alle relazioni tra le generazioni, alla definizione dello statuto dei singoli o alla procreazione. Il simbolo e monumento di questa nuova attenzione statale verso la famiglia è stato il Code civil des français emanato da Napoleone Bonaparte nel 1804 e divenuto punto di riferimento per la civilistica in tutti i paesi europei conquistati dalle truppe napoleoniche. Il codice faceva dell’individuo – maschio, adulto, proprietario, eterosessuale – il proprio punto di riferimento ma lo avvolgeva in «un fascio di incentivi e divieti volti a determinarne l’agire volontario. La famiglia, intesa come luogo primario di socializzazione, [veniva] ridisegnata in maniera del tutto artificiale, attribuendo soprattutto ai rapporti patrimoniali […] la garanzia della sua stabilità»20. Con uno sguardo attento più alle possibili evoluzioni dello Stato liberale che alla sua realtà concreta, l’attenzione morale della Chiesa cattolica, dalla Restaurazione in avanti, passando attraverso l’intransigentismo, si definirà al fondo proprio in opposizione a quest’idea di famiglia e di primato dell’individuale, considerato come l’elemento negativo da contrastare e combattere per ripristinare una dimensione in ultima istanza organicistica delle relazioni familiari, che apparivano vigenti più nella prospettiva che nella realtà dello Stato liberale. Su una linea analoga, infatti, si era collocato lo stesso codice civile italiano, che pur aderendo alle intenzioni egualitarie e individualistiche del modello francese, aveva riconosciuto alla famiglia un margine di autonomia, individuandola come base in qualche misura organica della società, dotata di proprie regole e gerarchie interne che cozzavano con i principi individualistico-proprietari del Code Napoléon, ma sulle quali non ritenne di intervenire, mantenendo aperta l’aporia tra queste due dimensioni21.
La costruzione di un irrigidimento del discorso morale della Chiesa sui temi familiari e delle conseguenti consegne pastorali, che culminerà nella forma netta e rigida della Casti connubii, si definì in un momento storico di forti e traumatici cambiamenti per la Chiesa cattolica e il cattolicesimo. Dalla perdita del potere temporale, alla riorganizzazione interna della stessa Chiesa, con il dogma dell’infallibilità pontificia e il primato papale, al confronto con la forza del discorso scientifico. Nell’Italia post-risorgimentale il cattolicesimo pensò al ritorno alla filosofia e teologia di Tommaso d’Aquino come allo strumento attraverso il quale ricostruire il primato pontificio e l’egemonia culturale del cattolicesimo e, soprattutto, contrastare il positivismo e il materialismo. Con l’enciclica Aeterni patris nel 1879, Leone XIII cercò di trovare nel ritorno alla teologia di Tommaso d’Aquino e nel recupero dell’ilemorfismo – che forniva la chiave per un’interpretazione organicistica della realtà spendibile sul piano sociale, politico e culturale, attraverso l’idea che l’unità di materia e forma è la sostanza individuale – lo strumento con il quale fornire ai cattolici una risposta unitaria ed efficace per agire22. C’erano da contrastare gli effetti rivoluzionari de On the origin of the species, che nel 1859 aveva cambiato definitivamente l’ordine del discorso sulla vita, sull’uomo e sul vivente, con quell’interpretazione evoluzionista che incrinava alla radice il discorso sulla natura come spazio ordinato fisso e dato ab origine e, come tale, immutabile23. Le iniziative di Mastai Ferretti, soprattutto nella parte finale del suo pontificato, avevano già posto le basi per un’organizzata riabilitazione del tomismo, insieme alla fondazione de «La Civiltà cattolica» e all’impegno della Compagnia di Gesù, il tomismo si era diffuso nei canali della formazione del clero, nei seminari, e più in generale nel dibattito cattolico, come provano le tante accademie o società intestate all’Aquinate create in questo periodo, dall’Accademia Romana di San Tommaso a quella dell’Apollinare, all’Accademia medico-filosofica di San Tommaso d’Aquino, fondata da Giuseppe Pecci e da suo fratello, allora cardinale di Perugia, Gioachino, poi futuro Leone XIII24.
La Chiesa cattolica nel secondo Ottocento cercò quindi di definire in maniera più netta e unitaria il proprio discorso morale, per differenziarlo in maniera sempre più precisa rispetto alle posizioni dei saperi biopolitici laici e rispetto alle crescenti capacità dell’agire scientifico sul corpo degli individui come delle collettività. Nell’arco di tempo che va dalla metà del secolo XIX ai decenni del pontificato di Pio XI fu la Congregazione del Sant’Uffizio – detta la Suprema, perché dotata di una giurisdizione superiore alle altre congregazioni – che si assunse il compito di sagomare il discorso morale della Chiesa a partire dal confronto diretto con le concrete realtà della fisiologia e della terapeutica prodotte e agite dalle scienze biomediche in questi anni. La stessa teologia morale, anche all’esterno del Sant’Uffizio, ricorse sempre più spesso al biologico come riferimento forte per dare forma alla norma morale, come ad esempio nel frequente ricorso all’idea di degenerazione rispetto a un modello originario, per spiegare comportamenti e pratiche considerati contrari alla morale, dal divorzio alla contraccezione all’aborto. L’idea che la causa prima della degenerazione fosse l’abbandono del primato della Chiesa e della religione, dovuto alle rivoluzioni settecentesche e al razionalismo illuminista, resterà l’asse di fondo della disciplina morale familiare, con il corollario che la restaurazione di quel primato fosse l’unica strada per invertire quel processo degenerativo. Degenerazione era una delle parole più fortunate del dibattito politico e culturale ottocentesco, lo psichiatra francese Benedict August Morel l’aveva rilanciata nel 1859 nel suo Traité des dégénérescences physiques, intellectuelles et morales de l’espèce humaine pubblicato a Parigi ed era diventata uno dei termini più usati, perché, nonostante la sua semantica debole, offriva una spiegazione ai cambiamenti introdotti dal processo di modernizzazione e permetteva al tempo stesso di dare forma e corpo alle paure verso di essi, mobilitando implicitamente l’idea di regresso, che sarà alla base di un duplice intervento sul vivente, dal neomalthusianismo all’eugenica passando per le politiche di educazione25.
In questa fase storica, dunque, la definizione della morale familiare procedeva su due binari, da una parte con l’intervento papale, che segnava il piano politico-culturale, e dall’altra con l’azione della congregazione del Sant’Uffizio che agiva sulla microfisica delle relazioni familiari e dei loro mutamenti. Ma mentre l’azione inquisitoriale aveva un’eco relativa, gli interventi papali e le encicliche segnavano non di rado tappe decisive nella politica della Chiesa e nel suo modo di concepire il rapporto con il mondo. Per la disciplina morale familiare, in questa fase storica il nemico principale appariva essere il liberalismo, nel suo versante politico come in quello economico, posto che l’autodeterminazione dell’individuo e l’economia di mercato figuravano come i due motori che stavano cambiando volto alla famiglia e a ciò che la riguardava. Le trasformazioni dello statuto del matrimonio ne erano l’emblema. Da sacramento incardinato in un ordine trascendente e in una gestione esclusiva della Chiesa cattolica, per larga parte della storia, a contratto civile, e come tale assunto sempre di più in gestione diretta da parte dello Stato che poi vi avrebbe visto un elemento cardine per garantire la linea ereditaria e con essa un equilibrio nella riproduzione di un ordine sociale nelle generazioni.
Sul finire dell’Ottocento, dunque, la difesa del primato sacramentale del matrimonio fu al centro dell’azione della Chiesa e del papato. Pio IX nel 1864 tra gli ottanta errori menzionati nel Sillabo aveva inserito dieci «errores de matrimonio christiano» (65-74), che condannavano precisamente tutte le affermazioni che negavano il carattere sacramentale del matrimonio, la sua indissolubilità e di conseguenza contestavano il ruolo primario della Chiesa nella sua gestione. Erano gli anni in cui in diversi paesi europei si affacciavano legislazioni favorevoli al divorzio. In Francia, era stato introdotto e poi abolito nel 1816, e infine ripristinato dalla Terza Repubblica nel 188426, mentre si stava diffondendo soprattutto nei paesi del Nord Europa, di matrice protestante. Nei paesi cattolici si stava affacciando la separazione legale, in Spagna nel 1870, in Portogallo nel 1867 e nel codice Pisanelli del 1865 in Italia era comparsa la separazione legale ma non il divorzio, in nome di un’idea di indissolubilità del vincolo matrimoniale che «faceva capo a un modello di famiglia capace di trascendere gli interessi dei singoli componenti»27. Per quanto ispirato al codice napoleonico e più liberale di esso in qualche punto, il codice del nuovo Stato cercò infatti un «prudente contemperamento fra quanto dei principi rivoluzionari si era in esso mantenuto e lo spirito della tradizionale famiglia italiana delle classi medie e agricole»28, al di là dell’influenza cattolica, anche se di fronte alla presentazione di un progetto di legge per il divorzio da parte del ministro di Grazia e Giustizia Tommaso Villa l’Opera dei congressi organizzò una risposta forte che si concretizzò nei due milioni di firme cattoliche depositate in parlamento, e in una dura opposizione. «La Civiltà cattolica» bollò l’idea come proveniente «dall’arsenale della framassoneria», e «da poche migliaia di israeliti», i movimenti si organizzarono agendo soprattutto sulla popolazione femminile, vista sia dai cattolici sia dai laici come il settore dell’opinione pubblica più sensibile29. Peraltro, il Codice Zanardelli del 1889 catalogava i delitti sessuali tra i «delitti contro il buon costume e l’ordine della famiglia», a riprova della rilevanza di letture più o meno latamente organiciste anche nel diritto positivo30.
A cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento, dunque, l’azione della Chiesa in merito alla morale familiare si compatta lungo la difesa della sacramentalità del matrimonio, ribadendo a più riprese quanto per i battezzati vi fosse un legame inscindibile tra contratto matrimoniale e sacramentalità, premessa necessaria per affermare implicitamente il primato ecclesiastico nella gestione del matrimonio. Se Pio IX aveva inquadrato la difesa del sacramento del matrimonio nel quadro del più generale conflitto con la modernità tracciato dagli ottanta errori elencati nel Sillabo, con Leone XIII questa difesa divenne esplicito tema di conflitto politico-religioso per contrastare quelle legislazioni civili che scindendo contratto da sacramento avevano fondato il controllo statale e civilistico sul matrimonio. Anticipato nelle encicliche Incrustabili e Quod apostolici muneris del 1878, il punto divenne esplicito nella prima enciclica interamente dedicata al matrimonio, la Arcanum divinae sapientiae del 1880, incentrata sull’affermazione della sua sacramentalità (sua vi, sua natura, sua sponte sacrum). Di nuovo, al centro dell’azione della Chiesa c’era il paese che più aveva percorso la strada della definizione e regolamentazione di una famiglia laica: la Francia, dove diversi documenti papali, insieme alle decisioni di organismi locali – dai vescovi ai concili ai sinodi – si associarono a ribadire la sacramentalità come carattere essenziale del matrimonio: il che valeva a ribadire che per ogni cristiano l’unica forma di contratto valida era quella sacramentale e come tale di esclusiva competenza della Chiesa «fuori di essi non c’è che il concubinato, che espone alle pene previste dal canone 8 de ref. Matrimonii del concilio di Trento»31. L’azione contro il divorzio segnò anche il primo ingresso dei cattolici nella vita politica dello Stato unitario, poiché l’impegno a combattere leggi favorevoli al divorzio fu uno dei sette punti che furono sottoscritti dai candidati che ambivano al voto cattolico e che aderirono al Patto Gentiloni nel 1913.
Il conflitto attorno allo statuto e alla gestione del matrimonio non era il solo punto critico aperto per la disciplina morale cattolica dalla nascita del nuovo Stato italiano. La Chiesa vedeva il profilo della famiglia mutare anche a causa dell’economia di mercato e della questione sociale da essa innescata e per l’azione educativa svolta dalle scuole e dai luoghi della formazione che nella prospettiva del nation building avevano acquisito crescente rilevanza strategica. Così la Rerum novarum contestò quella che definiva l’intromissione dello Stato nella famiglia, sulla base dell’assunto che questa era una formazione preesistente all’ordinamento statale e dunque ogni intervento su di essa era lesivo di una configurazione in qualche misura naturale e data a priori, del cui equilibrio la donna era considerata elemento decisivo. Un’ulteriore accentuazione della rilevanza della famiglia e dell’educazione cristiana si ebbe poi in risposta al regime mussoliniano, per il quale i giovani, come la famiglia, assumevano un ruolo strategico sempre maggiore in quanto terminale ultimo per fondare le basi dell’edificio totalitario del regime e della costruzione dell’uomo nuovo fascista. Nel 1929, Pio XI dedicò all’educazione cristiana dei giovani l’enciclica Divini illius magistri, dove compariva l’esplicita menzione di una famiglia cristiana come «primo ambiente naturale e necessario all’educazione». Con l’idea che l’educazione cristiana fosse un diritto naturale della famiglia, intendeva contestare la pretesa mussoliniana di un monopolio sull’educazione dei giovani, che, nonostante l’articolo 43 del Concordato avesse riconosciuto la legittimità dell’associazionismo cattolico, si manifestava in un contrasto delle organizzazioni cattoliche giovanili, in primis dell’Azione cattolica. Ratti invece considerava proprio l’associazionismo come uno strumento primario per quel progetto di un totalitarismo cattolico, con il quale integrare i principi d’ordine, di disciplina e di autorità del fascismo all’interno di un progetto teso alla cristianizzazione della società, come disse allo stesso Mussolini in un colloquio nel 1932 appunto sulla compatibilità tra Partito e Azione cattolica32.
Il nucleo portante del discorso morale che troverà la propria forma più netta nella Casti connubii è stato delineato nel corso della seconda metà dell’Ottocento a partire da una serie di problemi morali provenienti dalla Francia, che presentavano comportamenti e pratiche complesse, per molti versi nuovi e, comunque, non pienamente riconducibili alle casistiche usuali della moralistica e delle interpretazioni dottrinali. Il catalogo delle questioni è ampio, inizia dai comportamenti contraccettivi e dalle pratiche di controllo delle nascite diffusi tra le coppie cattoliche e approda alle questioni eugeniche, secondo la terminologia del tempo, passando per gli interrogativi riguardanti le terapie ostetriche per le gravidanze a rischio, la possibilità di usare il periodo infecondo del ciclo femminile per controllare la procreazione, alle tecniche di fecondazione artificiale, alla possibilità di cremare i cadaveri. Per la maggior parte questi interrogativi provenivano dalla Francia o dalle aree francofone – Belgio e Canada – ed erano indirizzate alla Congregazione del Sant’Uffizio o dirottate ad essa per competenza dottrinale. L’Inquisizione romana, infatti, nel processo di ridefinizione della disciplina morale familiare ha avuto un ruolo significativo da due punti di vista. È stata il primo tramite attraverso il quale la Chiesa è venuta a sapere di conoscenze scientifiche nuove o di pratiche mediche recenti e del loro impatto sociale tra i fedeli e negli ambienti cattolici della formazione, dall’altra è stata il mezzo disciplinare attraverso il quale dare una forma al discorso morale della Chiesa su questi temi, che, stando alle tante domande che giungevano al Sant’Uffizio come ad altre congregazioni romane in questi decenni, mostravano un clero di base e missionario in difficoltà a coniugare le interpretazioni della teologia morale con comportamenti sociali e pratiche terapeutiche che presentavano sfaccettature diverse e difficilmente riducibili agli schemi morali tradizionali. Inoltre, parte della teologia morale francese – da Jean Baptiste Bouvier a Jean Gury e Thomas Gousset – impegnata in un conflitto per imporre l’approccio liguoriano a un rigorismo di retaggio giansenista resistente in molti seminari e diocesi33, cercò di aggiornare il proprio sguardo per cogliere gli elementi di novità di questi comportamenti rispetto alla tradizione della dottrina e del pensiero della Chiesa e propose novità per disegnare un approccio pastorale includente.
Ognuno di questi cambiamenti aveva un qualche rapporto con il forte declino demografico che la Francia stava vivendo dall’inizio del secolo, e che la stava facendo approdare alla prima transizione demografica, anticipando dinamiche che avrebbero colpito in seguito anche gli altri paesi europei. Le cause e i caratteri di questo declino erano al centro del dibattito politico e culturale, che vi scorgeva i segni di un declino, di una degenerazione, secondo il vocabolario introdotto da Morel. La sconfitta militare con i prussiani a Sedan il 1° settembre 1870 fu letta così come la prova di un definitivo impoverimento del corpo della nazione che solo settant’anni prima aveva soggiogato gli eserciti di tutta Europa34.
Il primo tema ad essere affrontato dal punto di vista disciplinare fu la contraccezione. I confessionali francesi segnalavano che molti praticanti ricorrevano a metodi per controllare la propria fertilità in prevalenza per motivi economici e soprattutto senza ritenere di commettere un peccato o di essere in contraddizione con la morale della Chiesa. Con questi comportamenti si confrontò Jean Baptiste Bouvier, arcivescovo di Le Mans, ma soprattutto autore di uno dei più noti e fortunati manuali di teologia morale sulla sessualità, la Dissertatio in sextum decalogi praeceptum – la «première veritable réflexion catholique sur la limitation des naissances»35 – pubblicata nel 1827 e più volte riedita anche all’estero. Nel 1877 fu tradotto dal latino in italiano con il titolo Venere al tribunale della penitenza. Il sesso in confessionale – e costantemente ripubblicato fino a oggi – dal volontario garibaldino Osvaldo Gnocchi Viani, poi tra i fondatori del partito operaio italiano e promotore della Camera del lavoro di Milano. Bouvier identificò in questi fedeli un nuovo tipo di comportamento che non riteneva potesse essere condannato in ragione di almeno tre elementi che lo differenziavano rispetto a quanto condannato e condannabile dalla disciplina morale: un’argomentazione motivata a difesa del proprio comportamento da parte dei coniugi; la loro ignoranza spontanea della colpevolezza dell’azione contraccettiva; e infine la difficoltà del confessore di renderli consapevoli della colpa commessa. Tra il 1822 e il 1854 Bouvier scrisse, discusse, agì interpellando più volte gli organismi romani per avere conferma della propria interpretazione. In una prima fase ebbe l’avallo della Penitenzieria apostolica, nel 1852 cercò il suggello autorevole del Sant’Uffizio, che non arrivò. Al contrario, gli inquisitori respinsero la sua proposta di depenalizzazione dei comportamenti contraccettivi e imposero ai confessori una pedagogia attiva informando nel dettaglio anche nei confessionali sulla condanna di queste pratiche. Era un’inversione di tendenza netta rispetto all’approccio di Bouvier e della Penitenzieria e alla moderazione liguoriana che aveva fin lì indotto la pastorale e la manualistica penitenziale a un’estrema prudenza nel trattare dei peccati contro il sesto e nono comandamento36. Era uno dei primi, se non il primo intervento del Sant’Uffizio su una questione che passava nella discussione pubblica di questi decenni sotto il nome di malthusianismo, termine che storicamente rimandava alla riflessione del reverendo anglicano Thomas Robert Malthus e al suo An essay on the principle of population che nel 1798 aveva introdotto nel dibattito economico e politico il tema del controllo delle nascite, ma che divenne nel discorso morale della Chiesa il termine generico per indicare – stigmatizzandoli – tutti i cambiamenti nel modo di pensare e governare la fertilità, da parte dei singoli come delle istituzioni. Con gli anni Trenta del Novecento, nell’ordine del discorso morale della Chiesa lungo il corso dell’Ottocento su questi temi, il termine malthusianismo sarebbe stato sostanzialmente rimpiazzato da quello di eugenica, che estendeva la sua area semantica a coprire anche un salto di qualità nel controllo sulla fertilità e la riproduzione, con il tentativo di incidere sul corpo collettivo, razza, stirpe o nazione. Per quanto prevalesse un giudizio negativo sull’idea di controllare le nascite, le posizioni nel discorso morale cattolico erano articolate. Un’idea di intervenire sulla procreazione, ad esempio, fu sostenuta e argomentata qualche anno dopo, nel 1873, quando tornò all’attenzione del Sant’Uffizio la questione della limitazione delle nascite.
Questa volta a proporre una soluzione era stato un canonico di Lovanio, Auguste Joseph Lecomte, che basandosi sulle teorie del fisiologo francese Félix Archimédes Pouchet che – nella sua Théorie positive de l’évolution spontanée et de la fécondation des mamnifères et de l’espèce humaine pubblicata nel 1847 – aveva per la prima volta suggerito la possibilità che il ciclo femminile fosse un fenomeno fisiologico periodico del tutto slegato dalla sessualità e dalla fecondità e, come tale, presentasse un periodo fecondo e uno infecondo. Pouchet aveva sbagliato i calcoli, ma l’intuizione era stata invece corretta e aveva introdotto per la prima volta nella riflessione scientifica e culturale l’idea che sessualità e procreazione fossero due esperienze distinte e separabili. Dal punto di vista cattolico, questo apriva alla possibilità di suggerire ai fedeli che volevano controllare la propria fertilità di usare la fase infeconda del ciclo femminile. Era quanto Lecomte aveva suggerito in un libro L’ovulation spontanée de l’espèce humaine dans ses rapports avec la théologie morale, pubblicato nel 1872 e che aveva raccolto molti pareri favorevoli tra il clero e i vertici ecclesiastici del Nord Europa francofono, precisamente di quelle zone che avvertivano con più forza i segni del decremento demografico. Il Sant’Uffizio in questa occasione non contestò il merito della proposta di Lecomte, ma la sua opportunità, poiché divulgarlo in pubblico avrebbe creato dei problemi in quanto modificava il giudizio sulla sessualità, introducendo nei fatti una separazione tra sessualità e riproduzione.
Lo stesso Lecomte, nel 1880, si rivolse alla Penitenzieria apostolica riproponendo la domanda se fosse possibile suggerire ai coniugi che avevano preoccupazioni di sostentamento economico, l’uso del matrimonio in quei giorni nei quali «difficilior est conceptio». I penitenzieri avevano ammesso che questi coniugi «inquietandos non esse» e che il confessore poteva cautamente suggerire questa soluzione anche a coloro che erano dediti alla pratica del cosiddetto onanismo coniugale, vale a dire pratiche contraccettive. Nel 1932, interrogata sulla legittimità morale del nuovo metodo Ogino-Knaus appena proposto, la Penitenzieria rimandò a questa stessa risposta del 1880. Un’implicita approvazione di quelli che sarebbero poi stati definiti i «metodi naturali» comparve nella Casti connubii, che nel capitolo De abusu matrimonii con estrema cautela affermava che «non si può dire che operino contro l’ordine di natura» i coniugi che avevano rapporti «nel modo debito e naturale, anche se per cause naturali, sia di tempo, sia di altre difettose circostanze, non ne possa nascere una nuova vita». Con la prima risposta a Bouvier nel 1852 il Sant’Uffizio aveva imposto una completa condanna di qualsiasi intervento attivo sulla procreazione, obbligando i confessori a farsene interpreti di fronte anche ai coniugi in cosiddetta buona fede. La Penitenzieria, più volte interpellata, sulla collaborazione della donna nel 1886, sull’uso del profilattico nel 1916, si adeguò, e lo stesso Sant’Uffizio nel 1922 chiuse anche l’ultima porta, condannando la cosiddetta copula dimidiata che molti confessori continuavano a suggerire a coloro che non volevano avere ulteriori figli per motivi economici.
Con le domande di Bouvier, ma soprattutto con gli interrogativi di Lecomte si inaugurava una delle grandi rivoluzioni dei costumi, quella che portava la separazione della sessualità dalla procreazione. A questa separazione aveva contribuito in modo decisivo peraltro la stessa biologia quando aveva sancito che il piacere femminile non era necessario alla fisiologia della procreazione e quando l’embriologia tedesca aveva stabilito che l’unione dello spermatozoo e dell’ovulo costituiva il punto di partenza del processo embriogenico. Queste novità prodotte dalle scienze biomediche trovavano un parallelo nella proposta di cambiamenti al discorso morale della Chiesa sulla stessa sessualità. Se Lecomte aveva anticipato l’idea della moralità dell’uso dei tempi sterili, il gesuita francese Jean Gury, liguoriano e probabilista, nel suo Compendium theologiae moralis pubblicato nel 1850 e destinato a diventare uno dei manuali di teologia morale più noti ripubblicati e tradotti anche in italiano dell’Ottocento, aveva aggiunto ai tre motivi classici che rendevano lecito l’atto sessuale nel matrimonio – procreazione, restituzione del debito coniugale, freno all’incontinenza – un quarto, la promozione dell’affetto tra i coniugi; faceva così il suo ingresso teologico tra i motivi dell’atto sessuale anche la dimensione affettiva che al contrario era sempre stata trascurata se non ignorata dalla riflessione teologica37.
Queste argomentazioni attraversavano i confini nazionali seguendo le reti della comunicazione editoriale e delle riviste. I manuali per confessori e i testi teologici circolavano ampiamente attraverso i canali ecclesiastici, spesso i testi più importanti – e tra essi Gury e Bouvier – furono editi anche in italiano. A questi si affiancavano le riviste, da quelle di riflessione teorica, come gli Analecta Ecclesiastica, gli Acta Sanctae Sedis o la American Ecclesiastical Review, a quelle pratiche per il clero di base, come La palestra del clero, Il Monitore ecclesiastico o il francese L’ami du clergé circolavano nei seminari e nelle diocesi e si trovavano in biblioteche di vari paesi, che creavano uno spazio di comunicazione e circolazione di testi, teorie, interpretazioni, casi. Ma erano anche le persone a muovere le idee e a trasferire il caso francese e le sue dinamiche nel contesto italiano. Fu il caso, ad esempio, dell’alsaziano Alphonse Eschbach, che dopo aver lavorato a Parigi negli anni in cui la scena medica dibatteva delle terapie abortive, e aver partecipato indirettamente a quelle discussioni, si trasferì a Roma, per dirigere il seminario francese e collaborare con diverse congregazioni romane, contribuendo, attraverso i suoi scritti – in primis il volume delle Disputationes physiologico-theologicae pubblicato a Parigi nel 1884 che discuteva i temi della cosiddetta embriologia sacra – a formare il giudizio delle congregazioni romane su questi temi. Ma fu anche il caso della stessa congregazione del Sant’Uffizio, alla quale chi si rivolgeva per chiedere lumi e avere indicazioni, allegava testi medici o teologi per poter illustrare i caratteri dei problemi e come essi erano discussi.
Dopo aver posto il problema della contraccezione e del controllo delle nascite, nello stesso torno di tempo la Francia aprì un altro fronte problematico per il discorso morale della Chiesa, sul rapporto tra terapeutica e morale, cioè se esistevano limiti all’azione di cura della medicina e dove si ponevano. A sollecitare indicazioni e linee guida furono gli spazi della formazione, le università cattoliche di area francofona, a partire da Lovanio, per arrivare alle facoltà di medicina di Lione e Lille, ai seminari canadesi nonché alle attività e agli interrogativi di sacerdoti italiani e missionari sparsi per il mondo. Il problema erano le dinamiche di governo della scena del parto e delle cure per le gravidanze a rischio, dove si imponeva una scelta terapeutica tra la vita della donna e quella del non nato. Nella medicina francese e italiana, laica e cattolica, aveva prevalso l’idea che l’interruzione di gravidanza in date situazioni fosse necessaria. Nel 1862, al decimo congresso degli scienziati italiani tenutosi Siena nel 1862 l’aveva sostenuto il barone Vito d’Ondes Reggio deputato e cattolico, contestando la teologia morale che non sapeva occuparsi di questi temi38. E tra gli anni Sessanta e Settanta un’opinione analoga aveva prevalso nell’ampio dibattito che si era svolto sul problema nella stampa per il clero, sulla base della teoria del male minore, della comparazione dei diritti tra la vita della donna, già attiva e dotata di relazioni, e quella del feto, incerta, e dell’idea del feto come aggressore che apriva alla legittima difesa della donna. Ma anche in questo caso, come già in occasione della contraccezione e delle posizioni di Bouvier, la decisione del Sant’Uffizio andò in senso opposto a quello del dibattito e della pratica pastorale. Nei cinque decreta emanati tra il 1884 e il 1901, infatti, l’Inquisizione romana condannò come illecita ogni azione terapeutica sul corpo di una donna incinta che non fosse stata in grado di salvaguardare a priori la vita del feto. Si trattò di un intervento storicamente rilevante, perché era la prima volta che la Chiesa con tale autorità e in modo tanto esplicito era intervenuta a normare le terapie ostetriche sulla gravidanza. Con questa normazione il Sant’Uffizio decideva di entrare con decisione nella sfera pubblica dove molto si discuteva della scena del parto, diventata un oggetto di contesa tra la disciplina della Chiesa e l’intervento statale, fin da quanto essa era stata investita da un processo di medicalizzazione nell’Europa settecentesca39.
Nelle discussioni abortive, dentro e fuori il Sant’Uffizio, parlando dei caratteri della gravidanza a rischio e di ciò che poteva rendere complicato un parto si era affacciato il tema del rapporto tra la salute del corpo e l’accesso alla procreazione. Si trattava del nucleo di questioni che sarebbero state poi sintetizzate nella categoria di ereditarietà, di cui giusto in questi decenni la biologia e le scienze biomediche stavano mettendo a fuoco i contorni40. La prima causa di complicazione della gravidanza era dovuta alla distocia pelvica, forma di rachitismo diffusa nell’Ottocento in quanto patologia frequente della povertà e così nelle discussioni sulle terapie abortive molti medici e teologi sostenevano che fosse necessario impedire alle donne affette da distocia di procreare. Entrava così in gioco, anche se non era ancora esplicitata apertis verbis, l’idea di organizzare una selezione della fertilità, per impedire la procreazione a chi era considerato inadatto, anche se per ora l’ipotesi di selezione era circoscritta al corpo femminile e alla sua capacità di condurre a termine un parto. L’idea della trasmissione di caratteri dai genitori ai figli come fattore determinante dell’accesso alla procreazione cominciò ad affacciarsi con le discussioni sulla fecondazione artificiale, che creavano una situazione nuova dove il medico era intermediario decisivo della riuscita della procreazione e come tale assumeva – e rivendicava – la responsabilità e il potere di selezionare per non riprodurre patologie. Si cominciava cioè a discutere se tutte le persone potessero procreare, quali fossero i criteri per identificarle e quali le soluzioni per rendere concreta questa selezione. Non era ancora la categoria di ereditarietà e il termine eugenica era ancora di là dall’essere coniato – comparirà nel 1883, per la penna di Francis Galton, naturalista e cugino del più celebre Charles Darwin – ma fin dall’inizio del secolo XIX l’idea di trovare formule per verificare preventivamente lo stato di salute di chi intendeva procreare compariva nella medicina e anche nella teologia morale, in quello che è stato chiamato preeugenismo41. Se i medici chiedevano allo Stato di prevedere per legge l’obbligo di certificati prematrimoniali, per valutare preventivamente le capacità procreative dei futuri coniugi e, nel caso della donna, la capacità di condurre a termine una gravidanza, moralisti e teologi auspicavano misure analoghe, ma soprattutto proponevano di agire sui padri perché impedissero alle figlie dal corpo inadatto alla gravidanza di sposarsi e quindi avere delle gravidanze complesse e pericolose.
Si trattava di nuovo di un problema che sorgeva all’interno del più ampio, e per molti versi variegato, spettro delle questioni legate al decremento demografico francese. In questo caso il problema scaturiva dalla sterilità. Se con Bouvier e i suoi interrogativi sulla contraccezione il Sant’Uffizio si era occupato della sterilità cosiddetta volontaria, ora con la fecondazione artificiale si confrontava con la sterilità involontaria, quella determinata da cause fisiologiche o patologiche. Entrambi i fenomeni erano interpretati come prodotti del processo di modernizzazione e dei rivolgimenti sociali e culturali che avevano determinato, che si erano iscritti nel corpo o nelle volontà degli individui. Ancora una volta, a porre il problema morale a Roma fu la Francia, da dove arrivò alla congregazione del Sant’Uffizio il caso della fecondazione artificiale, che, pensata nel solco delle ricerche dell’abate reggiano Lazzaro Spallanzani, aveva cominciato ad essere impiegata sugli esseri umani nella Francia medica a partire dagli anni Quaranta. Per tutto il secolo XIX, la fecondazione artificiale rimase una procedura molto empirica di iniezione del seme maschile nella donna, che però, stando ai resoconti che cominciarono a comparire sulle riviste di medicina dagli anni Sessanta, segnalavano tassi di riuscita piuttosto significativi. Era ancora una fase ampiamente sperimentale, quasi pionieristica di questa procedura terapeutica, ma nonostante ciò l’interrogativo sulla sua legittimità morale per il cattolicesimo arrivò rapidamente al Sant’Uffizio. La risposta inquisitoriale fu lenta perché mossa da estrema prudenza, come in occasione della discussione sulle terapie abortive, passando prima dall’acquisizione delle informazioni su una pratica del tutto ignorata, poi con la mobilitazione di diversi pareri, medici e teologici, e infine dopo vent’anni dalla prima interrogazione nel 1897 fu emanato il decreto che condannava questa nuova procedura. La ricezione di questo decreto segnalò quanto già era emerso con i decreti sulle terapie abortive. La teologia morale e la pastorale mostravano un atteggiamento più conciliante e articolato rispetto alle nette condanne emanate dalla dottrina. Sulle pagine delle riviste pratiche per il clero, come nei principali testi della manualistica pastorale e teologica per i confessori anche all’indomani di queste sentenze permanevano posizioni articolate sia sulle terapie abortive sia sulla fecondazione artificiale, che riconoscevano casi per quanto circoscritti e rari in cui tali pratiche potevano essere moralmente accettabili.
Con la discussione sulla fecondazione artificiale, la disciplina morale cattolica entrava in una nuova fase. Mentre con Bouvier e i suoi interrogativi sulla contraccezione, il nodo moralmente problematico era ancora la scelta individuale di limitare la propria fecondità, con la fecondazione artificiale iniziava a porsi il problema moralmente complesso della decisione collettiva – delle istituzioni o dei saperi, dello Stato o della medicina – di limitare la fertilità di un individuo, anche contro la sua volontà. Era il passaggio dalla scelta del singolo alla decisione dell’istituzione. Su questa strada emerse la formalizzazione della proposta eugenica, che si poneva l’obiettivo di intervenire sul singolo per migliorare il corpo della stirpe. Da quando Galton aveva coniato il termine eugenics questa ipotesi si era diffusa in molti paesi europei e non – in Germania e Francia, Belgio e Italia, Danimarca e Stati Uniti, dove nel 1907 lo Stato dell’Indiana fu il primo Stato a votare una legge per la sterilizzazione coatta dei cosiddetti inadatti42. Pochi anni dopo, nel 1924, si potevano contare almeno 15 paesi in tutto il mondo nei quali l’eugenetica era divenuta pratica istituzionalizzata. L’Europa era rappresentata in lungo e in largo, dalla Gran Bretagna all’Italia, dalla Russia alla Francia, e poi Usa, Canada, Argentina, Brasile, Australia, Nuova Zelanda. Il riferimento alla religione cattolica, difatti, è uno degli elementi che fondano la distinzione di massima ormai invalsa nella storiografia tra un’eugenetica di matrice anglosassone e una cosiddetta latina, organizzatasi in una Federazione latina delle organizzazioni eugeniche, fondata nel 1937 su iniziativa dello statistico italiano Corrado Gini. La variante latina si è presentata come meno rigida perché meno incline a un approccio biologico-scientista fondato sull’ereditarismo mendeliano. In area latina – ad eccezione del Cantone di Vaud – non si ebbero legislazioni eugenetiche, né si raggiunsero le punte estreme del movimento svedese e tedesco. E così, la storiografia ha identificato nella presenza articolata della Chiesa cattolica l’elemento principale per il quale l’eugenetica non ha assunto in questi contesti le varianti estreme dei paesi protestanti. In contesti cattolici, la Chiesa esercitava nella sfera pubblica un sostanziale monopolio del discorso sulla sessualità, che rendeva difficile l’espressione e l’articolazione di posizioni laiche. Anche lo stesso regime mussoliniano, che aveva manifestato inizialmente attenzione verso le prospettive dell’eugenica, a fini di controllo delle nascite e di politiche demografiche, con il discorso dell’Ascensione del 26 maggio del 1927 sterzò verso una politica demografica natalista, che rilanciava le posizioni quantitative, bandiva ogni possibile forma di eugenica attiva fondata sulla regolamentazione qualitativa delle funzioni procreative e inaugurava una politica demografica incentrata su un’idea di famiglia tradizionale – ritagliata su un modello mitizzato di famiglia rurale e prolifica, incentrata sul maschio capofamiglia, e con la donna dedita alle sole attività domestiche e di cura dei figli – che si attagliava ampiamente al modello della dottrina sociale della Chiesa43.
Nell’Italia di fin de siècle, peraltro, il tema della questione sessuale era venuto acquisendo visibilità e rilevanza pubblica attraverso discussioni su temi quali la tratta delle bianche o la regolamentazione della prostituzione, la degenerazione morale e la pornografia che avevano portato una parte del mondo laico di matrice positivista e socialista a considerare l’educazione come chiave di volta per contrastare questi fenomeni. D’altra parte, le varie leghe dei moralisti di matrice laica e positivista su questi temi si trovarono anche alle organizzazioni cattoliche, particolarmente all’Opera dei Congressi, che contro il progetto Villa del 1882 sul divorzio già aveva organizzato la raccolta firme, alla quale aveva partecipato anche l’associazionismo femminile, come quello delle donne cattoliche raccolte attorno al giornale «Azione muliebre». Fu attraverso queste discussioni che si affacciò nel dibattito italiano il tema del malthusianismo, che venne discusso in libri che promuovevano l’educazione sessuale, come gli otto volumi della Raccolta Stall di opere destinate all’educazione sessuale, tradotti a partire dal ’14, e in convegni, come quello tenutosi a Firenze nel 1910, organizzato dal giornale «La Voce», che si proponeva di delineare una educazione etico-sessuale da impartire nelle scuole e nella vita quotidiana tramite propaganda, e che fu un volano per la discussione sul neomalthusianismo nel dibattito pubblico italiano44.
Questo aprì un nuovo fronte di conflittualità con il mondo cattolico, e con la Chiesa che nelle riflessioni sulla degenerazione e sull’educazione sessuale vedevano il pericolo di un ingresso dello Stato laico e delle sue ideologie e soprattutto dei suoi saperi all’interno del talamo nuziale e del nucleo familiare45. Il nodo era denso di implicazioni per la disciplina morale della Chiesa, perché il confine tra neomalthusianismo e eugenica via l’educazione sessuale era sfumato e non pienamente distinto. Non a caso, la questione approdò sul tavolo degli inquisitori romani nel 1925, insieme a un volume sull’educazione sessuale dei giovani, A coloro che hanno vent’anni: per la tattica di un combattimento, pubblicato dal gesuita belga Georges Hoornaert nel 1923. Il tema dell’educatio puritatis aveva anch’esso radici ottocentesche e francesi, essendo stato posto per la prima volta in numerosi scritti dall’abate Joseph Fonssagrives, cappellano del Cercle catholique des étudiants de Paris e professore al petit séminaire di Parigi, poi confluiti nel 1902 nei Conseils aux parents et aux maîtres sur l’éducation de la pureté, pubblicati in Italia nel 1910. Il rifiuto dell’educazione sessuale da parte della morale cattolica era netto, perché solo all’interno di un ordine discorsivo e di significati segnato e controllato dalla morale religiosa si poteva parlare di sessualità. Questa prospettiva motivò anche la prima opposizione all’eugenetica, che emerse nel Sant’Uffizio, quando nel 1925 gli inquisitori romani si trovarono a discutere di una pubblicazione curata dalla sezione napoletana dell’Azione cattolica l’anno prima per un convegno in cui l’ambiente cattolico napoletano voleva fare il punto sull’eugenica, conoscerla, comprenderla e definire la posizione dei cattolici in merito ad essa. In quella pubblicazione si riconosceva la necessità di intervenire sul corpo della società, per purificarlo da tare ereditarie e degenerazione, ma si contestava la metodologia. L’unica forma di eugenica accettabile era quella della Chiesa cattolica, che di per sé aveva già i requisiti necessari a questo scopo – castità prematrimoniale, disciplina del matrimonio e della sessualità, continenza come metodo di controllo delle nascite, profilassi anti-sifilide per coniugi e nutrici, limitazione del matrimonio tra consanguinei – che costituivano il nucleo forte e valido di una dimensione eugenica. L’inquisizione romana contestò l’opportunità di parlare in pubblico dei temi della sessualità, con rischio di scandalo, ma non mise in discussione la valenza positiva della stessa prospettiva eugenica.
I temi che avevano attraversato la disciplina morale della Chiesa dalla metà dell’Ottocento in avanti arrivarono a convergere nell’enciclica promulgata da Pio XI il 31 dicembre del 1930, che diede ai diversi percorsi disciplinari una sintesi e una formalizzazione rigida che segnò in modo determinante il discorso morale sulla famiglia, sulla sessualità, sulla riproduzione e sui rapporti tra i sessi all’interno delle relazioni familiari. Questo documento, infatti, fissò alcuni punti fermi nel discorso dottrinale e morale sulla famiglia che al fondo non sarebbero più stati rimessi in discussione nel corso del Novecento, facendo della Casti connubii una tappa decisiva nella storia della morale familiare cattolica. Fu citata ripetutamente – otto volte – nel concilio Vaticano II e segnò il profilo della Humanae vitae, l’altra grande enciclica novecentesca in materia di morale familiare, senza contare che la posizione della Chiesa e dei cattolici verso le politiche di popolazione novecentesche e gli interventi di family planning organizzati dalle agenzie internazionali, in primis l’Onu, è stato definito in maniera sostanziale dai contenuti proprio di quest’enciclica46.
Per molti versi, la Casti connubii rappresentò l’esito ultimo dell’intransigentismo cattolico ottocentesco e del clima politico-culturale nel quale la Chiesa aveva elaborato la propria risposta al processo di modernizzazione e alla secolarizzazione, in particolare attorno alla questione del neomalthusianismo. In questo periodo si erano formati i protagonisti di questo documento – da Achille Ratti a Agostino Gemelli, decisiva figura di cerniera tra scienza e religione per il pontificato di Pio XI, per arrivare al gesuita belga Arthur Veermersch, considerato l’estensore dell’enciclica –, così come in questo torno di tempo erano emerse la maggior parte delle questioni morali che furono poi regolamentate in modo rigido nell’enciclica. Ma, soprattutto, nell’Ottocento si era formata quella prospettiva biopolitica che aveva fatto della condizione di vivente la base della sovranità e dalla quale si erano articolate le due linee di fondo che erano i bersagli critici della Casti connubii: la prospettiva liberale dell’autodeterminazione del singolo rispetto al proprio esistere e alle proprie scelte su di esso, dalla nascita alla morte, e gli interventi statali tesi a plasmare il corpo della nazione attraverso meccanismi di inclusione ed esclusione incentrati sulla riproduzione. In questo senso anche il modello di famiglia cristiana proposto in questo documento apparteneva pienamente a questa fase storica, sagomata com’era su una mitizzata famiglia pre-industriale, centrata sulla figura predominante del padre, dotata di un’alta natalità e con la donna votata in toto alla vita familiare e alla cura dei figli. Era rifiutata qualsiasi ipotesi emancipatrice del ruolo della donna – sul piano patrimoniale, lavorativo, amministrativo – con l’affermazione della necessità che lo Stato mettesse in condizione ‘ogni padre di famiglia’ di provvedere al sostentamento della moglie e dei figli. Era la posizione già espressa da Leone XIII, cui Pio XI aggiunse l’indicazione agli sposi in difficoltà di consultarsi con «persone esperte e competenti», per rimuovere gli ostacoli di ordine economico. Il problema del salario sarebbe poi tornato nuovamente con la Quadragesimo anno, che riprese proprio dalla Casti connubii il tema del salario giusto, necessario a contrastare la «pessima abitudine» delle donne che per problemi economici lavoravano «fuori dalle pareti domestiche, trascurando così le incombenze e i doveri loro propri».
Su questo modello di famiglia la disciplina morale cattolica trovò un’alleanza con il fascismo che negli anni Venti aveva propugnato una sintesi simile, anche se poi la dinamica di mobilizzazione delle masse avrebbe contribuito negli anni Trenta a distinguere la famiglia fascista da quella cristiana. Così, l’enciclica sintetizzò il percorso di contestazione del matrimonio civile e di rilancio della priorità della sacramentalità del matrimonio e del suo conseguente carattere di indissolubilità – «tanta abbondanza di beni contiene l’indissolubilità del matrimonio, altrettanta abbondanza di mali portano con sé i divorzi» – come base e perno decisivo della costruzione della famiglia cristiana e delle sue gerarchie interne proprie a una dimensione organicistica. Ne scaturiva una morale matrimoniale rigida, ancorata alla lettura agostiniana dei tre beni del matrimonio – proles, fides, sacramentum – intesi come inscindibili per una qualsiasi dottrina del matrimonio. Ponendosi in diretta continuità con la Arcanum divinae sapientiae di cinquant’anni prima, la Casti connubii usava Agostino e il concilio di Trento come punti di riferimento dottrinali con cui misurava poi la condanna e la critica di un contesto culturale e materiale che riteneva dominato dalla libertà sessuale, sia nei comportamenti dei singoli, sia nelle politiche di controllo dell’organizzazione statale. In questo senso, l’opposizione all’educazione alla sessualità era netta, così come l’irrigidimento dei vincoli morali attorno alla procreazione. Mentre la blindatura del matrimonio attorno alla sua indissolubilità in quanto sacramento era il primo esito della lunga campagna di contrasto delle legislazioni divorziste che la Chiesa aveva messo in campo dalla fine dell’Ottocento, il rigido giudizio sulle questioni che ruotavano attorno alla procreazione derivò dall’attività disciplinare della Congregazione del Sant’Uffizio che aveva affrontato il nodo ormai centrale del controllo delle nascite e delle politiche di popolazione.
Il cuore dell’enciclica di Ratti risiedeva infatti nel discorso sulla riproduzione e sulla sessualità, e su questo fronte la chiusura fu ancora più netta, cancellando l’articolazione delle posizioni teologiche e morali che era invece emersa nei dibattiti ottocenteschi che avevano accompagnato l’attività disciplinare del Sant’Uffizio. Registrava una novità nella disciplina del matrimonio, riconoscendo che tra i fini secondari che legittimavano l’uso del matrimonio vi era anche il ‘mutuo aiuto e l’affetto vicendevole’, purché non in contrasto con il fine primario della procreazione. Era la posizione proposta dal gesuita francese Gury, ottant’anni prima, che diveniva ancora più significativa in quanto era la premessa per una cauta ammissione dei metodi cosiddetti naturali di controllo delle nascite, vale a dire quanto cinquant’anni prima l’abate belga Lecomte aveva suggerito, senza successo, agli inquisitori romani. Al di là di queste due ammissioni, per il resto la lettura disciplinare della riproduzione e della sessualità era priva di sfumature. L’enciclica infatti condannava qualsiasi pratica di controllo delle nascite, sia nella forma della decisione individuale, sia in quella dell’intervento statale, che caratterizzava le politiche eugenetiche di questi decenni. A questo si aggiungeva la condanna totale di qualsiasi ipotesi di interruzione di gravidanza, il nucleo della normazione che il Sant’Uffizio aveva compiuto con i cinque decreti tra il 1884 e il 1901, di cui citava esplicitamente i decreti del 1895 e del 1898, che ribadivano nettamente la condanna dell’aborto terapeutico, in qualsiasi situazione. Quest’insieme di condanne discendeva dall’idea che la «famiglia è più sacra dello Stato», per cui ogni intervento su di essa e sui suoi componenti era reso illecito dal fatto che allo stato non era riconosciuto il diritto di «ledere direttamente o toccare l’integrità del corpo, né per ragioni eugeniche, né per qualsiasi altra ragione». Il termine eugenica aveva una densità significativa in questo caso, in quanto comprendeva tutte le politiche che riguardavano il controllo della procreazione, da quelle di matrice negativa alle scelte dei singoli individui.
La Casti connubii per molti versi rappresenta così l’esito ultimo di un neorigorismo che aveva segnato chiusure nette verso qualsivoglia apertura, anche laddove il dibattito teologico e la pratica pastorale nei decenni precedenti avevano mostrato articolazione di posizioni e un approccio pastorale moderato e inclusivo. Ma in questo contesto emerge anche la dimensione difensiva di questa rigidità, che nell’idea di trovare o dare una forma definita e netta al discorso morale della Chiesa cerca una risorsa efficace da spendere nello spazio pubblico per mantenere un ruolo e un’autorità in materia di questioni familiari, a fronte di saperi e di poteri che hanno modificato definitivamente i rapporti di forza con la Chiesa su questi temi. La lettura dei fenomeni riguardanti la famiglia sembrava segnata fortemente da queste radici ottocentesche e non in grado di cogliere pienamente la forza, la profondità e la complessità dei cambiamenti che si erano attivati nella famiglia e nella sua morale47.
1 M. Foucault, La volonté de savoir, Paris 1976 (trad. it., La volontà di sapere, Milano 1988).
2 C. Saraceno, “Fare famiglia”, letteralmente, «Parole chiave», 39, 2008, pp. 1-17.
3 A. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino 2000; I. Porciani, Famiglia e nazione nel lungo Ottocento, in Famiglia e nazione nel lungo Ottocento italiano. Modelli, strategie, reti di relazione, a cura di I. Porciani, Roma 2006, pp. 15-53.
4 J. Gaudemet, Le mariage en Occident: les mœurs et le droit, Paris 1987 (trad. it., Il matrimonio in occidente, Torino 1989); D. Lombardi, Storia del matrimonio, dal Medioevo a oggi, Bologna 2008.
5 M. Seymour, Debating divorce in Italy: marriage and the making of modern Italians, 1860-1974, New York 2006; C. Valsecchi, In difesa della famiglia? Divorzisti e antidivorzisti in Italia tra Otto e Novecento, Milano 2004.
6 Nel 1979, 1995, l’Italia ha partecipato al progetto «World fertility survey», promosso su scala mondiale dall’Istituto internazionale di statistica, in collaborazione con l’Organizzazione delle Nazioni unite insieme all’Unione internazionale per lo studio scientifico della popolazione. (P. de Sandre, F. Ongari, R. Rettaroli, et al., Matrimonio e figli: tra rinvio e rinuncia. Seconda indagine nazionale sulla fertilità, Bologna 1997; P. de Sandre, A. Pinnelli, A. Santini, Nuzialità e fecondità in trasformazione: percorsi e fattori del cambiamento, Bologna 1999).
7 P. de Sandre, F. Ongari, R. Rettaroli, et al., Matrimonio e figli, cit.; P. de Sandre, A. Pinnelli, A. Santini, Nuzialità e fecondità in trasformazione, cit.
8 C. Saraceno, Politiche sociale e famiglie, in M. Barbagli, D.I. Kertzer, Storia della famiglia in Europa. Il Novecento, Roma-Bari 2003, pp. 339-376.
9 Nuzialità e fecondità in trasformazione, cit., p. 11.
10 M. Barbagli, G. Dalla Zuanna, F. Garelli, La sessualità degli italiani, Bologna 2010.
11 M. Barbagli, Provando e riprovando: matrimonio, famiglia e divorzio in Italia e in altri paesi, Bologna 1990, p. 57.
12 P. Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia 1796-1975, Bologna 1974 (nuova edizione a cura di F. Sofia, Bologna 2002); F. Sofia, Lessico per una storia del diritto di famiglia in Italia, «Parolechiave», 39, 2008, pp. 129-150; D. Vincenzi Amato, La famiglia e il diritto, in La famiglia italiana dall’ottocento a oggi, a cura di P. Melograni, Roma-Bari 1988, pp. 629-699.
13 F. Sofia, Lessico per una storia del diritto di famiglia in Italia, cit., p. 137.
14 C. Dau Novelli, Le trasformazioni della famiglia, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, II, Culture, nuovi soggetti, identità, a cura di F. Lussana, G. Marramao, Soveria Mannelli 2003, pp. 283-298.; G. Scirè, L’aborto in Italia, Milano 2008.
15 Nel 1967 era stato approvato l’Abortion act nel Regno Unito, ma non applicato in Irlanda. La Repubblica democratica tedesca approva l’aborto nel 1972, la Danimarca, primo paese non comunista, nel 1973; nel 1975 la Francia, nel 1976 la Repubblica federale tedesca, nel 1977 Israele, nel 1978 Lussemburgo, Italia, Grecia, dove però la legge fu riformata nel 1986, nel 1980 i Paesi Bassi, nel 1983 la Turchia, nel 1984 il Portogallo e nel 1985 la Spagna. Nel 1990 fu votata in Bulgaria e Belgio.
16 J.T. Noonan, The morality of abortion. Legal and Historical perspectives, Cambridge (Mass.) 1970 (trad. it., La chiesa cattolica e l’aborto, in L’aborto nel mondo, a cura di M. Girardet-Sbaffi, Milano 1970, pp. 117-176); G. Grisez, Abortion: the Myths, the Realities, and the Arguments, New York 1970; P. Sardi, L’aborto ieri e oggi, Brescia 1975; J.Connery, S.J., Abortion. The Development of the Roman Catholic Perspective, Chicago 1977.
17 A. Melloni, Quando i cattolici dicono “famiglia”. Rimbalzi storici e metamorfosi semantiche nel Novecento, «Parole chiave», 39, 2008, pp. 193-212.
18 P. Brown, The body and the society: men, women, and sexual renunciation in early Christianity, 1988 (trad. it. Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nei primi secoli cristiani, Torino 1992); J.-L. Flandrin, L’Église et le control des naissances, Paris 1970 (trad. it. La chiesa e il controllo delle nascite, Ancona-Bologna 1988); J.T. Noonan, Contraception; a history of its treatment by the Catholic theologians and canonists, Cambridge (Mass.) 1965.
19 C. Langlois, Le crime d’Onan. Le discours catholique sur la limitation des naissances (1813-1930), Paris 2005; T.W. Laqueur, Solitary sex. A cultural history of masturbation, New York 2003 (trad. it. Sesso solitario. Storia culturale della masturbazione, Milano 2008).
20 F. Sofia, Lessico per una storia del diritto di famiglia in Italia, cit., p. 132.
21 R. Romanelli, Individuo, famiglia e collettività nel codice civile della borghesia italiana, in Saperi della borghesia e storia dei concetti fra Otto e Novecento, a cura di R. Gherardi, G. Gozzi, Bologna 1995, pp. 351-399.
22 L. Malusa, Neotomismo e intransigentismo cattolico. Il contributo di Giovanni Maria Cornoldi per la rinascita del Tomismo, Milano 1986.
23 P. Casini, Darwin e la disputa sulla creazione, Bologna 2009.
24 E. Betta, Per una medicina neotomista: “la scienza italiana”, (1876-1889), in Roma e la scienza (secc. XVI-XX), a cura di A. Romano, «Roma moderna e contemporanea», XII, 1999, 3, pp. 463-498.
25 D. Pick, Faces of degeneration. A European disorder c. 1848-c. 1918, Cambridge, 1989 (trad. it. Volti della degenerazione. Una sindrome europea 1848-1918, Firenze 1999).
26 J. Gaudemet, Il matrimonio in occidente, cit., pp. 317 segg.; R. Lenoir, Généalogie de la morale familiale, Paris 2004.
27 F. Sofia, Lessico per una storia del diritto di famiglia in Italia, cit., p. 135.
28 P. Ungari, Storia del diritto di famiglia, cit., p. 155.
29 B.P.F. Wanrooij, Storia del pudore. La questione sessuale in Italia 1860-1940, Venezia 1990, p. 62.
30 D. Rizzo, Gli spazi della morale. Buon costume e ordine delle famiglie in Italia in età liberale, Roma 2004.
31 J. Gaudemet, Il matrimonio in occidente, cit., p. 319.
32 F. Margiotta Broglio, s.v. Pio XI, in Enciclopedia dei Papi, Istituto della Enciclopedia Italiana, III, Roma 2000, pp. 617-632.
33 J. Guerber, Le Ralliement du Clergé français à la morale liguorienne. L’abbé Gousset et ses précurseurs (1758-1832), Roma 1973.
34 F. Ronsin, La grève des ventres. Propagande neo-malthusienne et baisse de la natalité en France XIXe-XXe siècle, Paris 1980; C. Rollet-Echalier, La politique à l’égard de la petite enfance sous la IIIe République, Paris 1990.
35 C. Langlois, Le crime d’Onan, cit., p. 12.
36 P. Lucà Trombetta, La confessione della lussuria. Definizione e controllo del piacere nel cattolicesimo, Genova 1991.
37 J.-L. Flandrin, La chiesa e il controllo delle nascite, cit.; J.T. Noonan, Contraception, cit.
38 E. Betta, Animare la vita. Disciplina della nascita tra medicina e morale nell’ottocento, Bologna 2006, pp. 226 segg.
39 N.M. Filippini, La nascita straordinaria. Tra madre e figlio la rivoluzione del taglio cesareo (sec. XVIII-XIX), Milano 1995; J. Gélis, L’arbre et le fruit. La naissance dans l’Occident moderne, XVIe-XIXe siècle, Paris 1984; C. Pancino, Il bambino e l’acqua sporca: storia dell’assistenza al parto dalle mammane alle ostetriche (secoli XVI-XIX), Milano 1984; A. Prosperi, Dare l’anima. Storia di un infanticidio, Torino 2005.
40 F. Jacob, La logique du vivant. Une histoire de l’hérédité, Paris 1970 (trad. it. La logica del vivente. Storia dell’ereditarietà, Torino 1971).
41 A. Carol, Histoire de l’eugénisme en France. Les médecins et la procréation. XIXe-XXe siècle, Paris 1995, p. 23.
42 D.J. Kevles, In the name of eugenics, genetics and the uses of human heredity, New York 1985; The Wellborn science. Eugenics in Germany, France, Brazil and Russia, ed. by M.B. Adams, New York 1990.
43 C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, Soveria Mannelli 2004; F. Cassata, Molti sani e forti. L’eugenetica in Italia, Torino 2006.
44 B.P.F. Wanrooij, Storia del pudore, cit., pp. 69 segg.
45 G. Rifelli, C. Ziglio, Per una storia dell’educazione sessuale, 1870-1920, Scandicci 1991.
46 M. Connelly, Fatal misconception. The struggle to control world population, Cambridge (Mass.)-London 2008.
47 Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati, si vedano: J.-L. Flandrin, Le Sexe et l’Occident: évolution des attitudes et des comportements, Paris 1981 (trad. it. Il sesso e l’occidente, Milano 1983); A.R. Leone, La Chiesa, i cattolici e le scienze dell’uomo:1860-1960, in P. Clemente, A.R. Leone, S. Puccini, et al., L’antropologia italiana. Un secolo di storia, Bari-Roma 1985, pp. 51-96; Matrimonio e famiglia nel magistero della chiesa, a cura di P. Barberi, D. Tettamanzi, Milano 1986; A. Mclaren, A history of contraception. From the antiquity to the present day, Oxford 1990; C. Saraceno, Le donne nella famiglia: una complessa costruzione giuridica. 1750-1942, in M. Barbagli, D.I. Kertzer, Storia della famiglia italiana 1750-1950, Bologna 1992, pp. 103-127; D. Menozzi, La chiesa cattolica e la secolarizzazione, Torino 1993; C. Dau Novelli, Famiglia e modernizzazione in Italia tra le due guerre, Roma 1994; E. Betta, Note sull’eugenica cattolica, in Scritti in onore di Biancamaria Scarcia Amoretti, a cura di D. Bredi, L. Capezzone, W. Dahmash, et al., I, Roma 2008, pp. 133-144.