La municipalità democratica
Fu con l'inizio del 1797 che lo scontro bellico tra gli eserciti francesi e quelli austriaci, in corso sul territorio della neutrale Repubblica di Venezia, assunse valenze politico-militari tali da rendere progressivamente inarrestabile ed irreversibile il meccanismo delle evenienze che avrebbero portato alla liquidazione della Repubblica e con ciò alla fine della statualità veneta.
Il 13-14 gennaio c'era stata la battaglia di Rivoli che i generali André Masséna e Barthélemy Joubert avevano vinto contro le truppe fresche austriache del generale Joseph Alvinczy, il quale stava scendendo la valle dell'Adige per tentare di liberare Mantova posta sotto assedio dai Francesi sin dall'estate precedente. Il 16 gennaio il comandante in capo Napoleone Bonaparte e il generale Masséna avevano bloccato le truppe del generale Provera che stavano per raggiungere la città assediata. Il 2 febbraio il generale Dagobert Wurmser, chiuso a Mantova, capitolava. Per le truppe francesi si aprivano le possibilità di un'offensiva in direzione del Tirolo.
Sistemato momentaneamente il conflitto con papa Pio VI (trattato di Tolentino del 19 febbraio), Napoleone poté organizzare una pressione bellica fortissima contro gli Austriaci. Lazare Carnot, membro del direttorio preposto agli affari bellici, gli aveva inviato rinforzi che lo ponevano in condizioni di superiorità numerica. Il grosso delle truppe austriache comandate dall'arciduca Carlo, giovane fratello dell'imperatore Francesco II, venne intercettato sul Tagliamento e dovette ripiegare verso Gradisca e poi, perduta questa località e Palmanova, verso la Carinzia. Trieste venne occupata il 23 marzo. Masséna vinceva al Tarvisio e Joubert aveva la meglio dalle parti del Tirolo. Le colonne di Napoleone, di Masséna e di Joubert convergevano verso Villach e Klagenfurt.
Napoleone si era aperto la strada verso Vienna. Tuttavia la situazione in cui egli e il suo esercito si trovavano non era delle più sicure. Le linee logistiche si erano allungate; la Repubblica di Venezia, che pure continuava nella sua linea di stretta neutralità, forse gli pareva poco affidabile tanto più che la popolazione veneta era in fermento contro i Francesi oltreché contro i democratici; sul Reno, dove c'era il fronte principale, i generali di Francia, pur ben forniti di uomini e mezzi, non avevano condotto bene la guerra sicché erano sfumate le possibilità di una grande manovra a tenaglia contro l'Austria (1) e, anzi, quest'ultima aveva potuto distogliere truppe da quel fronte per dislocarle contro l'esercito napoleonico. Inoltre il direttorio di Parigi cercava la pace e un suo inviato, Henry Guillaume Clarke, aveva preso contatti con l'Austria.
Ecco allora che Napoleone il 31 marzo prese l'iniziativa di scrivere all'arciduca Carlo prospettandogli la possibilità di trattare un armistizio (ipocrisia abbastanza retorica del linguaggio: "avons-nous assez tué de monde et commis assez des maux à la triste humanité"). Il 7 di aprile le avanguardie francesi giunsero a Leoben, non lontano da Vienna. Fu lì che iniziarono i negoziati che si conclusero il 18 di aprile con la firma dei preliminari di pace. In essi si prevedeva che un congresso generale si sarebbe riunito a Berna con invito a tutti i rispettivi alleati; che il trattato tra Francia e Austria da contrattarsi dopo i preliminari e in forza di essi avrebbe dovuto stipularsi sulla base del rispetto dell'integrità dell'Impero germanico; che l'Austria avrebbe rinunciato al Belgio; che tutte le terre conquistate od occupate dai Francesi e facenti parte degli stati ereditari d'Austria sarebbero state restituite. In alcuni articoli mantenuti segreti si prevedeva però la rinuncia alla Lombardia da parte dell'Austria con successiva costituzione di una repubblica indipendente; inoltre lo scorporo dei territori della Repubblica di Venezia con l'assegnazione all'Austria del Veneto sino all'Oglio, nonché dell'Istria e della Dalmazia, e con l'assegnazione alla Francia delle province già possedute dalla Repubblica di Venezia in Lombardia, che sarebbero state unite alla repubblica indipendente di cui si è detto avente a nucleo la Lombardia stessa. La città di Venezia con le sue lagune sarebbe rimasta indipendente e sarebbe stata compensata con la Romagna, Ferrara e Bologna (le "Legazioni") alle quali la Francia rinunciava. Per i necessari accordi con Venezia si sarebbero nominati dei commissari o plenipotenziari delle due potenze (2).
Pur se il direttorio non era d'accordo con le soluzioni contrattate da Napoleone, compreso il mercato alle spalle della neutrale e leale Repubblica Veneta (3), il desiderio di pace dell'opinione pubblica francese e il pericolo di un ritorno di fiamma dei realisti lo indussero a far ad esse buon viso.
Per le sorti della Repubblica di Venezia i preliminari di Leoben rappresentarono una svolta importante. Austria e Francia si erano accordate per una prospettiva di smembramento dello stato veneto. Ora Napoleone, in funzione di quegli accordi, aveva necessità di disporre della Repubblica, magari dichiarandole guerra (4).
Avvisaglie di una più scoperta e decisa politica napoleonica di sovversione degli assetti statali veneti si erano avute già prima di Leoben.
Il 12-13 marzo a Bergamo, il 17-18 marzo a Brescia, il 25 a Salò, il 27 a Crema, con una dissimulata copertura dei Francesi (ottimi i servizi segreti dell'armata diretti dal generale Jean Landrieux), si erano avuti i primi pronunciamenti democratici e la costituzione di municipalità provvisorie che avevano preso in mano il governo di quelle città. Le forze sociali maggiormente rappresentate in quei governi municipali erano quelle dei possidenti (ex nobili e no), dei commercianti, dei professionisti, degli studiosi e letterati, con in più qualche prete e qualche artigiano. Scarso era apparso il consenso fra la popolazione.
Quasi subito, pur non incoraggiate concretamente da Venezia, nelle campagne e nelle valli attorno alle città democratizzate si erano manifestate delle resistenze filoveneziane, antifrancesi, anticittadine. Nelle campagne, nelle valli, in montagna, si stava vivendo l'esperienza concreta e durissima del contatto con gli eserciti belligeranti, in particolare quello francese (requisizioni, vessazioni, saccheggi, violenze di ogni tipo). Si temeva che i privilegi, le esenzioni, gli appoggi, che il governo centrale veneziano aveva in ogni tempo bene o male garantito, potessero essere negati dalle città ora che stavano tornando indipendenti da Venezia e perciò si credevano padrone piene, pur se democratizzate, dei territori ad esse afferenti. Poco interessanti, nel concreto, apparivano le novità democratiche. Se c'erano delle categorie sociali cui, con i fatti e con la propaganda, i democratici (specie quelli di Lombardia che già militavano tra le truppe francesi come Legione Lombarda) si rivolgevano, erano le categorie dei "possidenti", non certo quelle dei contadini e dei popolari.
Nel Salodiano, in val Sabbia, val Seriana, val Trompia, val Camonica, migliaia di valligiani e contadini armati si erano messi in disegno di bloccare Brescia democratizzata. Venezia aveva mandato qualche rappresentante presso i resistenti ed aveva inviato qualche sussidio, ma aveva raccomandato di non attaccare in nessun caso i Francesi. I generali napoleonici in zona erano furiosi. L'aiutante di campo di Napoleone, Andoche Junot, il 15 di aprile era venuto in collegio a leggere un minaccioso messaggio del comandante in capo nel quale si denunciava che tutta la Terraferma era in armi e che "in ogni parte i villici sollevati ed armati" gridavano morte ai Francesi. Un messaggio nel quale si minacciava che se il governo veneziano non avesse disarmato le masse ci sarebbe stata la guerra (5).
A metà di aprile i Francesi e i democratici bresciani e bergamaschi avevano contrattaccato i territoriali filoveneziani ed avevano riassunto il controllo di Salò, della val Camonica e di buona parte della val Trompia. Alla fine, anche i resistenti della val Sabbia, che invano avevano atteso il sostegno armato da parte del governo veneziano, si erano resi conto che il vecchio regime stava preparandosi ad abbandonare la partita ed avevano fatto sapere al provveditore straordinario Iseppo Giovanelli (6) che erano sul punto di cedere alla imposizione delle novità democratiche, dicendosi però pronti a disseppellire l'antica fedeltà a San Marco solo che fosse giunto un segnale di riscossa.
Dopo Leoben, Napoleone, il quale già aveva utilizzato la provocazione di un apocrifo manifesto reso pubblico ai primi di aprile in cui il provveditore straordinario veneziano Francesco Battagia (era stato nominato nel giugno del 1796) figurava incitare i sudditi veneti all'insurrezione, moltiplicò le manifestazioni di ostilità contro Venezia. Un buon pretesto gli venne offerto, oltre che dalla resistenza antifrancese che si era generalizzata nelle campagne venete e friulane, anche dalla insurrezione dei Veronesi i quali, tra il 17 e il 24-25 aprile, tennero bravamente testa ai Napoleonici estromessi dalla città e costretti a rinserrarsi nel castello (le cosiddette "Pasque Veronesi"), ed anche dal cannoneggiamento il 20 di aprile ad opera delle batterie veneziane di una nave francese (Le Libérateur d'Italie) che, ostilmente, aveva tentato di forzare il porto del Lido (il comandante ed alcuni marinai erano stati trucidati). Piegata con la forza l'insurrezione di Verona, i Napoleonici vi promossero la costituzione di una municipalità democratica.
La sequenza della democratizzazione si ritualizzò rapidamente in altre città venete: il 27 aprile toccò a Vicenza, il 28 a Padova. Qualche cannone piazzato dai Francesi agli angoli delle strade, riunione di notabili variamente risentiti contro il governo veneziano ed ansiosi di autonomia, creazione della municipalità e dei suoi comitati, erezione dell'albero della libertà, partenza di delegazioni composte da esponenti delle intellettualità locali per omaggiare Napoleone il "liberatore", soppressione di certi dazi ed attenuazione di certi prezzi subito controbilanciate dal rastrellamento di contributi forzosi a favore dei Francesi.
A sedere provvisoriamente nelle assemblee municipaliste si prestarono degli ex nobili locali, dei proprietari terrieri, degli imprenditori dei commerci e delle manifatture, degli intellettuali delle professioni, dei letterati, qualche ecclesiastico di rango. Alcuni di loro avevano più o meno apertamente manifestato da tempo il loro risentimento contro il governo centrale, qualcuno era stato anche perseguitato, altri si aggiunsero all'ultima ora. Qua e là, non si tralasciò di immettere nelle municipalità "alcuni popolani scelti a formale ossequio del principio di uguaglianza".
Finalmente, il 1° maggio, Napoleone, pur riservando al direttorio la formale dichiarazione di guerra, proclamò la belligeranza di fatto contro la Repubblica di Venezia. Il suo proclama, lanciato dal quartier generale di Palmanova, conteneva quindici capi di accusa contro la Serenissima: quarantamila contadini in armi contro i Francesi più dieci reggimenti di soldati schiavoni; persecuzione dei sudditi veneti filofrancesi e incoraggiamento di quelli contrari; malegrazie per le strade e i caffè di Venezia ai Francesi insultati come "giacobini, regicidi, atei"; la popolazione di Verona, Padova, Vicenza tenuta pronta per "rinovellar finalmente i Vespri Siciliani"; prediche e libelli antifrancesi tollerati se non incoraggiati dal governo; sangue di Francesi assassinati in ogni parte del Veneto sia dai resistenti popolari che da elementi dell'esercito regolare veneziano; orrendi massacri di soldati francesi nell'insurrezione di Verona; la casa del console di Francia a Zante bruciata; la fregata francese La Bruna cannoneggiata da un vascello veneziano; il Libérateur d'Italie affondato al Lido e il suo comandante e molti marinai trucidati. Continuava il manifesto recitando che in rapporto a tali atti ostili, in base al titolo 12, articolo 128, della Costituzione francese e date le urgenti circostanze, il generale in capo ordinava al rappresentante diplomatico francese a Venezia Giovanni Battista Lallement di lasciare la città, ai funzionari del governo veneziano di evacuare entro ventiquattro ore la Terraferma, alle truppe francesi di trattare da nemiche quelle venete e di far abbattere in tutte le città del Dominio di terra il leone di San Marco (7).
A Leoben, Napoleone si era mostrato molto interessato ad ottenere l'armistizio e in ciò era stato guidato da interessi militari, ma anche da interessi che ormai appartenevano alla prospettiva di personali protagonismi politici. Egli aveva forse poco considerato che liquidare la Repubblica di Venezia a favore dell'Austria significava toglier di mezzo uno stato che invece, una volta liberato dal vecchissimo sistema di governo e democratizzato, avrebbe potuto continuare a giocare un buon ruolo in Italia e nell'Adriatico per il contenimento della potenza austriaca e quindi per gli interessi della Francia. Di ciò era convinto il Lallement, il quale (probabilmente in sintonia con il direttorio di Parigi che egli teneva costantemente informato) si stava adoperando per contrattare con influenti gruppi di governanti veneziani una soluzione che, pur con un cambio del sistema costituzionale, facesse salva una statualità veneziana legittimata di continuità rispetto alla vecchia Repubblica. Come minimo, occorreva tener conto che a Leoben si era previsto che in qualche modo, pur con le consistenze territoriali sovvertite, uno stato veneziano avrebbe dovuto continuare ad esistere, non foss'altro che per trattare con esso la formalizzazione dei sovvertimenti decisi nei suoi confronti.
Dopo il proclama di guerra di Napoleone del 1° maggio, il gruppo di patrizi che sedeva negli organismi decisivi di governo affannosamente e più scopertamente di prima si adoperò per cercare i modi meno pericolosi e meno dolorosi per lasciare il potere.
A fine aprile era stata creata una struttura a carattere straordinario per gestire la crisi. Una struttura non troppo ortodossa dal punto di vista costituzionale, la quale era stata denominata "conferenza" ed era costituita dalla signoria (doge, minor consiglio e capi di quarantia), dai capi del consiglio dei dieci, dai savi del collegio (anche quelli appena usciti di carica) e dagli avogadori di comun. Ippolito Nievo, intelligentissimo narratore di quei giorni, ne Le confessioni di un italiano la definirà "magistratura funeraria".
Per mandato di tale conferenza il doge Ludovico Manin il 1° maggio in maggior consiglio (non si sapeva ancora del proclama bellico di Napoleone) illustrava e proponeva una decretazione (lo faceva in prima persona per evitare le dilazioni che la procedura ordinaria avrebbe comportato) con la quale, stante la non resistibilità all'azione napoleonica, si autorizzavano cedimenti alle richieste francesi e trattative aventi ad oggetto, eventualmente, anche ritocchi alla costituzione. Immediatamente si spedivano dispacci ai due rappresentanti del governo che erano stati inviati, dalla metà di aprile, a Napoleone (Francesco Donà e Leonardo Giustinian) per informarli della deliberazione ed autorizzarli a trattare di conseguenza.
I due "deputati" però, lo stesso 1° maggio, prima di ricevere i dispacci, erano riusciti ad incontrarsi con il "generale in capite" Bonaparte a Palmanova. In quei giorni, a dar loro una mano, c'era anche il luogotenente per il Friuli Alvise Mocenigo e ciò in base a un "damò" (una decretazione del collegio a valore immediato) del 30 aprile. Nel corso dell'incontro, Napoleone non fece altro che ripetere le sue accuse alla Repubblica soprattutto per via dell'affondamento del Libérateur d'Italie e delle sollevazioni popolari antifrancesi, ripetendo altresì la richiesta di punizioni esemplari per i responsabili ed in generale per i patrizi ostili alla Francia. Aveva detto di aver chiesto al direttorio di deliberare "la guerra in diritto" contro la Repubblica, ma che, intanto, lui l'avrebbe iniziata "di fatto". Ciò che in effetti fece.
Nel frattempo, da Vienna, l'ambasciatore Zan Piero Grimani, in tre dispacci del 29 aprile e 1° maggio, pur dichiarando di non esser riuscito a raccogliere informazioni esplicite circa quello che si era concordato da Austriaci e Francesi a Leoben, lasciava intendere che la Repubblica di Venezia poteva in qualche modo esserci andata di mezzo. Il suo consiglio era quello di tener ferma la vecchia forma di governo: ciò, in eventuali progetti spartitori, avrebbe legato le mani all'Austria più di quanto una eventuale democratizzazione le avrebbe legate alla Francia (8).
Il 2 maggio Napoleone passava da Treviso dove incontrava il provveditore straordinario Angelo Giustinian il quale gli teneva bravamente testa. Poco più tardi, a Mestre, egli ritrovò i due deputati Francesco Donà e Leonardo Giustinian. Essi gli illustrarono le accondiscendenti decisioni del maggior consiglio del giorno precedente ed ottennero un armistizio di quattro giorni.
Nel contempo, a Venezia, la conferenza faceva arrestare Domenico Pizzamano, deputato al castello del Lido, indicato come responsabile dell'affondamento del Libérateur d'Italie, e metteva in moto la procedura per far riunire, nel minor tempo possibile, il maggior consiglio. Tale riunione ebbe luogo il 4 maggio. Napoleone aveva avanzato delle richieste il cui soddisfacimento era stato indicato come preliminare ad ogni trattativa. Fu ancora una volta il doge a proporne ed ottenerne l'accoglimento. Furono così arrestati i tre inquisitori di stato e furono liberati i detenuti politici. Nelle prigioni dei Pozzi in palazzo Ducale non c'era nessuno; dai Piombi, pure in palazzo Ducale, e dalle Quattro (un blocco di celle delle Prigioni Nuove) ne furono liberati sette. Circa trecento prigionieri di guerra catturati dai contadini filoveneziani nei torbidi che erano successi in marzo nel Bresciano, nel Bergamasco e nel territorio di Salò vennero pure liberati.
Pochi giorni prima, Francesco Pesaro, che, in qualità di "conferente", teneva i contatti con il rappresentante francese Lallement, aveva lasciato semiclandestinamente Venezia (sarebbe finito profugo in Austria). Venne chiamato a sostituirlo Piero Donà il quale terrà un diario di quei giorni (9).
A Venezia, già dalla fine di aprile erano venuti allo scoperto i simpatizzanti della democrazia e dei Francesi. Taluno di essi si era segnalato da tempo ed aveva avuto a che fare con la repressione degli inquisitori di stato. Si trattava di un gruppetto che in quei giorni si organizzò in una sorta di comitato rivoluzionario. Luogo frequentemente usato per le riunioni era la casa di Giuseppe Ferratini a San Polo. Fra i più attivi si annoveravano Andrea Spada, un appaltatore dei dazi appena uscito di prigione, l'avvocato Tommaso Gallino, Tommaso Pietro Zorzi commerciante di prodotti di drogheria. Non mancava qualche patrizio.
Abbandonata Venezia in seguito alla dichiarazione di guerra, il rappresentante diplomatico francese Lallement si era portato a Milano lasciando il campo al segretario d'ambasciata Giuseppe Villetard, il quale, maneggiando con attivismo e decisione poteri che egli sosteneva derivargli dalle istruzioni di Lallement stesso e di Napoleone, si mise a tessere, con il comitato rivoluzionario veneziano, una rapida trama avente ad obiettivo di far finire il vecchio sistema statuale veneziano a beneficio delle esigenze francesi e della democrazia. A differenza del Lallement, egli non si mostrerà molto preoccupato di salvaguardare il principio del mantenimento della statualità veneziana pur in versione democratica.
La situazione delle varie trattative si fece confusa. Era chiaro tuttavia che da parte del governo veneziano si era abbandonata qualsiasi velleità (se mai negli ultimi mesi c'era stata) di resistere all'ostilità napoleonica e all'evolvere delle evenienze innescate dal conflitto austro-francese, un evolvere che, dopo l'armistizio di Leoben, appariva sempre più infausto per Venezia. Quel che, in un modo o nell'altro, con franchezza o dissimulazione, consci o inconsci, la maggior parte dei governanti stava cercando erano i modi meno pericolosi e traumatici per lasciare il potere. La preoccupazione dominante e un po' accecante appariva quella di trovare un esito il più indolore possibile alla crisi. Trovare uno sbocco che facesse salva l'incolumità fisica di tutti, governanti e anche governati, nonché i beni patrimoniali compresi quelli, cospicui, che i cittadini agiati di Venezia possedevano nei territori dello stato. In effetti non c'erano margini per importanti scelte politiche alternative. Il glorioso sistema istituzionale repubblicano veneziano aveva dato nei secoli, tanti secoli, tutto quello che poteva dare. Forse meno paura e meno precipitazione avrebbero consentito di condurre con maggiore dignità di forme il cedimento. Forse si sarebbe potuto mercanteggiare e vendere meglio la resa alle ragioni prevaricanti di Francia ed Austria. Non molto di più.
I fili delle trattative si erano intanto moltiplicati. I due inviati Donà e Giustinian, cui era stato aggiunto Alvise Mocenigo, cercavano di avere un nuovo incontro con Napoleone (prima lo rincorsero a Mantova e poi a Milano). Altri inviati presero contatto con il generale Louis Baraguey d'Hilliers a Mestre e con il generale Victor (Claude-Victor Perrin) a Padova per chiedere la proroga di due giorni dell'armistizio. Una triangolazione di consultazioni e trattattive si svolgeva tra il "conferente" Piero Donà, il Villetard e i democratici di casa Ferratini.
Per altro verso, alla conferenza e al collegio facevano capo anche i responsabili della difesa militare: il vecchio e malato Zuanne Zusto, provveditore alla laguna e lidi (un paio di centinaia di vascelli e di barche disponibili per la difesa), il suo luogotenente straordinario Tommaso Condulmer (di fatto era lui che decideva e operava) e Nicolò IV Morosini, responsabile delle forze militari in città (più di diecimila effettivi nei reggimenti di Schiavoni, più di tremila nei reggimenti italiani, circa ottocento pezzi di artiglieria) (10). Quei capi militari dipingevano la situazione come disperata, agitavano lo spauracchio dell'incognita del comportamento degli Schiavoni nel caso di un precipitare degli avvenimenti, esageravano le forze dei cospiratori democratici. Anch'essi contribuivano, quasi posseduti da una sorta di cosciente ebbrezza di dissolvimento, a perfezionare quelle immagini di irreversibilità del destino di fine della Repubblica che un po' tutti i governanti si erano già costruite o andavano costruendosi.
Il 6 maggio la signoria emanò istruzioni per il luogotenente Condulmer nelle quali si ammetteva la possibilità di non resistenza a un eventuale ingresso dei Francesi a Venezia e si configuravano precauzioni e salvaguardie per il caso del verificarsi di tale eventualità (11). Peraltro, il Condulmer, per suo conto, aveva già abbracciato la prospettiva di tenere una simile linea di condotta. In senato, l'avogadore Francesco Battagia venne a perorare che si abbandonasse, a scanso di sinistri, ogni proposito di resistenza e più o meno similmente si espresse Zuanne Emo, uno dei tre capi del consiglio dei dieci.
Il 7 maggio la consulta (doge, capi della quarantia, collegio) stette ad ascoltare un vaniloquio di Nicolò IV Morosini, il capo delle milizie terrestri, il quale denunciò una sollevazione democratica prossima a verificarsi con un numero di congiurati talmente elevato che le milizie a sua disposizione non avrebbero potuto opporsi. Egli aveva perso il senso della misura, o forse ingigantiva ad arte per spaurire e favorire il precipitare del processo di cedimento. Questa seconda ipotesi appare la più probabile (12).
L'8 maggio, comparso davanti alla conferenza, il Morosini rincarò la dose delle paure di una sollevazione democratica, agitò il problema degli Schiavoni (essi avrebbero potuto ammutinarsi laddove si fosse loro ordinato di cedere ai Francesi, ovvero, nella fase ormai imminente di un trapasso di poteri, avrebbero potuto creare dei torbidi in città).
Verso sera si verificò un abboccamento tra il Morosini e Andrea Spada del gruppo democratico e quest'ultimo si sentì sollecitato a farsi mediatore con il Villetard per un'intesa sui modi di gestire la situazione. Lo Spada si consultò con Francesco Battagia e con Piero Donà e fu invitato ad attendere la riunione della consulta del giorno dopo. A questo punto venne in scena Tommaso Pietro Zorzi, altro influente membro del gruppo democratico, il quale fece sapere al doge di aver avuto un colloquio col Villetard che gli aveva comunicato delle mezze proposte per possibili trattative.
Il giorno 9 maggio, mentre giungeva da Milano una lettera del deputato Alvise Mocenigo in cui si dava notizia che l'armistizio era stato allungato a otto giorni, la consulta raccolse - tramite Piero Donà e Francesco Battagia - un promemoria informale di quanto lo Zorzi e lo Spada avevano saputo riferire di un loro abboccamento di poco prima con il Villetard. Il giorno stesso e il giorno seguente il Battagia e il Donà tornarono dal Villetard per avere lumi e per ottener tempo in vista della seduta del maggior consiglio fissata per il 12.
Intanto le strutture di difesa stavano ulteriormente sfaldandosi: il Morosini annunciò che, per ottenere la tranquilla smobilitazione e l'imbarco degli Schiavoni, sarebbe partito con loro; da Chioggia con pretesti ci si rifiutò di mandare a Venezia alcune compagnie di fanti che erano state richieste per rinforzo; il provveditore generale alla laguna e lidi Zusto dette le dimissioni e smobilitò il suo ufficio.
L'11 maggio ci si preoccupò soprattutto di organizzare la seduta del maggior consiglio convocata per il giorno dopo. Occorreva garantire la protezione del corpo sovrano patrizio che doveva riunirsi in palazzo Ducale. A fatica si indusse il Morosini a raccogliere un po' di truppa italiana e pochi bombardieri ed arsenalotti.
Finalmente, venerdì 12 maggio 1797, il maggior consiglio si riunì. Quella sarebbe stata, dopo secoli, l'ultima sua seduta.
Allo spuntar del giorno Andrea Spada si portò dal Battagia e dal Donà e, su incarico del Villetard, comunicò loro il contenuto di una lettera spedita da Milano dal provvisionere-tesoriere generale dei Francesi in Italia Emanuele Haller (un banchiere amico di Napoleone, cui il governo veneziano aveva elargito del denaro perché mettesse i suoi buoni uffici) (13). Il senso della lettera era questo: occorreva istituire a Venezia un governo rappresentativo di tipo democratico con conseguente abolizione del patriziato; o ci pensavano i Veneziani o sarebbero intervenuti i Francesi; Bonaparte non avrebbe pazientato più a lungo. Il Donà ottenne di avere un'autenticazione del contenuto dello scritto da parte del Villetard e fece conoscere il tutto alla signoria.
Intanto il maggior consiglio si era radunato in palazzo Ducale e ad esso il consigliere ducale Giovanni Minotto prese ad illustrare i termini della situazione. Egli parlava un po' prolissamente e a un certo momento, da fuori, dalla piazzetta di San Marco, arrivò il rumore di spari. Probabilmente erano i soldati schiavoni che stavano imbarcandosi per rimpatriare e sparavano in aria a modo di saluto. Tanto bastò perché si creassero paura e confusione. Molti si misero a urlare chiedendo che si votasse. Fu mandata al voto la parte, la decretazione, e fu approvata con cinquecento e passa voti favorevoli e una manciata di voti contrari e "non sinceri". Mancava il numero legale di seicento presenti. Era la deliberazione con la quale il gruppo dirigente patrizio veneziano poneva fine a se stesso come corpo sovrano di governo e come corpo sociale nobiliare e passava i poteri a un governo "rappresentativo" provvisorio, cioè a quella che sarebbe stata la municipalità democratica veneziana. Dopo la votazione, gli ex governanti nonché ex patrizi si dispersero verso casa. Gli ex membri dell'ex signoria si riunirono con l'ex doge per perfezionare alcune formalità relative al trapasso dei poteri. Agli ex capi del consiglio dei dieci fu raccomandata la salvaguardia della quiete pubblica. Nicolò IV Morosini sbandò la truppa, gli arsenalotti, i bombardieri, raccolti a difesa del palazzo Ducale.
A quel punto consistentissimi gruppi del basso popolo veneziano presero a occupare le strade del centro cittadino e piazza San Marco. Per tutta quella giornata del 12 maggio si susseguirono manifestazioni al grido di "Viva San Marco!". I popolani, tra loro molti giovani e ragazzi e qualche soldato delle truppe italiane e dei contingenti di Croati e Schiavoni, intendevano confusamente dimostrare il loro sostegno alla Repubblica e al vecchio governo che - ma essi non lo sapevano ancora - non c'erano più. Furono manifestazioni che a qualche osservatore che ce ne lasciò la cronaca parvero uno sfogo connotato da un sapore di festosità (14). Non mancarono tuttavia violenze di saccheggi portate alle case di taluni indicati democratici.
I popolani in piazza misero paura a molti. Il Villetard si rifugiò all'ambasciata di Spagna. Lo Zorzi e lo Spada avevano lasciato le loro case e cercavano, esagitati, protezione. Anche il Battagia si nascose in casa di conoscenti. Gli ambasciatori di Russia e di Inghilterra premevano per ottenere passaporti per lasciare Venezia.
Piero Donà fu uno dei pochi che affrontò concretamente la situazione. Egli si portò dall'Emo, uno degli ex capi dell'ex consiglio dei dieci, lo tirò giù dal letto dato che dormiva tranquillamente nonostante il rumoreggiare del tumulto e gli fece stendere un proclama - da stamparsi e diffondersi immediatamente - in cui dava incarico ai parroci di formare pattuglie di capifamiglia in ogni contrada. Indi si portò alle Procuratie in piazza San Marco e fece organizzare da alcuni ufficiali dei picchetti di truppa per la protezione delle case degli ambasciatori esteri e dei più esposti dei democratici. Postosi in cerca del Battagia, non lo trovò, ma, in cambio, si incontrò con Tommaso Soranzo e con lui si portò dall'ex doge e quivi si fece chiamare l'ex patron dell'Arsenale, il brigadiere Cleva, il maggiore dei bombardieri Gasperoni e fra tutti si combinò di raggruppare militari da radunare alle Procuratie e di far venire da Chioggia quattro compagnie di truppa italiana ivi stanziate ed inutilmente richieste nei giorni precedenti. A comandare i contingenti armati fu posto Bernardino Renier.
La notte stessa del 12 l'urlata popolare per le strade di Venezia trovò remissione. In parte si acquietò spontaneamente e in parte fu repressa da qualche cannonata sparata dal ponte di Rialto ad opera delle truppe che nel frattempo erano state racimolate e raccolte sotto la direzione del Renier nominato "deputato all'interna custodia". Circa duecento furono gli arrestati e non mancò qualche vittima.
Il 13 maggio la calma tornò quasi del tutto nelle strade e nelle piazze veneziane. Vennero diffusi tre proclami. Col primo si minacciava la fucilazione per chi fosse stato colto a saccheggiare e con le armi alla mano; con il secondo si intimava, sempre sotto pena della vita, la restituzione di tutto quanto era stato rubato nel corso dei tumulti del giorno precedente; con il terzo (voluto dal Villetard) si dichiaravano ingiustamente accusati dal popolo lo Spada e lo Zorzi (15). Ci si accordò con il generale Baraguey d'Hilliers, che stava a Mestre con le sue truppe, per un trasporto di contingenti francesi a Venezia a partire dal 14-15 maggio. Milleduecento soldati si sarebbero acquartierati in città e duemilaottocento nei castelli e isole della laguna compresa Chioggia. A darsi da fare c'erano sempre l'ex doge, il Donà, Bernardino Renier e qualche altro.
Domenica 14 maggio si pubblicò un proclama con il quale si rese noto alla popolazione il cambiamento di regime e il prossimo ingresso in città delle truppe francesi (16). Il 15 ci si dedicò soprattutto alla stesura di un fondamentale manifesto: quello con cui si intendeva formalizzare il passaggio dei poteri dal vecchio regime alla municipalità democratica provvisoria. La bozza fu stesa dal Villetard e discussa con il Donà, con lo Spada e qualche altro e anche con l'ex doge. Il Villetard voleva che ad emanarlo figurasse ancora il vecchio governo (il "Serenissimo Principe"). Si riuscì a scindere il testo in due proclami: uno, più breve, in cui il vecchio governo informava che da quel momento il potere era nelle mani della municipalità, e uno, più consistente, che comprendeva tra l'altro la lista dei membri dell'assemblea municipalista (concordata tra il Villetard e i democratici riuniti a casa sua). Nel corso delle discussioni era stata declinata l'offerta del Villetard e dei democratici di porre l'ex doge Ludovico Manin come presidente dell'assemblea municipalista.
I due proclami furono pubblicati il 16. Il primo si intitolava ancora al "Serenissimo Principe" e il secondo era intitolato semplicemente "Manifesto" (17).
Quello intitolato (sarebbe stato per l'ultima volta) "il Serenissimo Principe fa sapere che" era assai stringato. Diceva che da quel momento il governo sarebbe stato "amministrato da una Municipalità Provisionale"; che essa s'era installata nella sala dell'ex maggior consiglio; che quel giorno stesso, 16 maggio, alle ore 12, tutti i militari con grado di ufficiale si dovevano portare in quella sala a prestare il giuramento di fedeltà nelle mani della municipalità.
Il proclama intitolato "Manifesto", recante in calce la lista dei sessanta membri dell'assemblea municipalista, appare assai ben congegnato. Nella prima parte si proclamava che il vecchio regime, "desiderando di dare un ultimo grado di perfezione al sistema repubblicano" ch'era stato per secoli la gloria di Venezia, annunciava all'Europa e ai Veneti di aver attuato la riforma "libera e franca" della costituzione. Nella seconda parte si notificava, come esito di tale riforma, la creazione di una struttura di governo provvisoria per Venezia chiamata municipalità, composta da rappresentanti di tutte le "classi" sociali, e si prospettava la possibile creazione di una "amministrazione centrale" (chiamata "dipartimento") incaricata di curare gli interessi generali della Repubblica e costituita da rappresentanze di Venezia, dei territori veneti di Terraferma, dell'Istria, della Dalmazia, dell'Albania e delle isole del Levante.
Sempre in questo manifesto si accennava allo stabilimento della libertà con annessa salvaguardia della religione, dei diritti individuali, nonché della proprietà; si chiariva che la municipalità doveva intendersi come provvisoria sino a che il popolo non avesse potuto riunirsi per elezioni "a norma delle forme democratiche"; si menzionava l'aiuto che i Francesi avrebbero dato perché Venezia legasse le sue sorti a quelle dei popoli liberi d'Italia; si ricordava la spontanea e benemerita rinuncia che gli ex patrizi avevano fatto della loro esclusività di potere e dei loro privilegi.
Era chiaro che la rivoluzione istituzionale avveniva sulla base di una sorta di "compromesso" per il quale i vecchi governanti cedevano il potere e liquidavano il regime aristocratico e i Francesi e i municipalisti subentravano a gestire e garantire trapassi verso situazioni democratiche rispettose dei membri dell'ex corpo dirigente, della sostanza degli assetti sociali esistenti e di una qualche prospettiva per la statualità veneta.
Intanto a Milano i deputati veneziani avevano continuato a trattare con Napoleone assistito dal Lallement. Essi erano all'oscuro dell'evolvere della situazione a Venezia mentre i Francesi, sia pure con qualche ritardo, ricevevano informazioni dal Villetard e dal generale Baraguey d'Hilliers. Napoleone li tenne sulla corda con proposte e considerazioni contraddittorie fino a quando, il 14, essi conobbero la decisione finale del maggior consiglio del 12 e a Milano giunse il generale Henry Guillaume Clarke con la ratifica da parte del direttorio dei preliminari di Leoben. A quel punto si convenne che sarebbe stato opportuno formalizzare un trattato di pace tra la Repubblica di Venezia e la Francia. Non ci fu molto da trattare sulla bozza proposta da Napoleone. Il 16 si procedette alla firma del trattato (le sottoscrizioni sono di Napoleone, del Lallement e dei deputati veneziani Francesco Donà, Leonardo Giustinian, Alvise Mocenigo). Ci si chiese subito quale organismo avrebbe dovuto procedere per parte veneziana alla ratifica. Napoleone tagliò corto: il consesso che aveva sostituito il maggior consiglio avrebbe ratificato e avrebbe demandato a tre suoi membri la ratifica degli articoli segreti.
Il trattato di pace constava di 7 articoli palesi e 5 articoli segreti e figurava intervenire tra la Repubblica francese e la Repubblica di Venezia rappresentate rispettivamente dal direttorio e dal maggior consiglio.
Nella parte palese si dichiaravano cessate le ostilità e si conveniva che il maggior consiglio rinunciava al diritto di sovranità, ordinava "l'abdicazione dell'aristocrazia ereditaria", riconosceva la sovranità dello stato nell'assieme dei cittadini che l'avrebbero esercitata attraverso un governo espresso democraticamente. Tale governo si sarebbe impegnato a garantire il debito pubblico, a sostentare gli ex patrizi poveri e a continuare a corrispondere gli assegni vitalizi in essere. La Repubblica di Francia, di ciò richiesta, acconsentiva a stanziare a Venezia una divisione di truppe per mantenere l'ordine e la sicurezza delle persone e della proprietà e per aiutare "i primi passi" del nuovo governo il quale, peraltro, quando lo avesse ritenuto opportuno, avrebbe potuto richiedere il ritiro delle truppe stesse. Gli altri contingenti militari francesi avrebbero evacuato i territori veneti di Terraferma "alla conclusione della pace continentale". Il nuovo governo democratico restava impegnato a proseguire il processo ai tre ex inquisitori di stato e al comandante del forte del Lido per l'insurrezione di Verona e l'affondamento del Libérateur d'Italie. Il direttorio, per mezzo di Napoleone, restava impegnato a concedere un'amnistia generale per i reati commessi contro i Francesi e a liberare i prigionieri di guerra.
Nel primo degli articoli segreti si stabiliva che la Repubblica di Francia e quella di Venezia si sarebbero intese "per il cambio di differenti territori". Nel secondo, terzo, quarto e quinto si stabiliva che la Repubblica di Venezia avrebbe corrisposto in tre rate ai Francesi 3.000.000 di lire tornesi, attrezzature di marina fra quelle esistenti nell'Arsenale veneziano, tre vascelli di linea, due fregate, inoltre, a scelta di Napoleone, venti dipinti e cinquecento manoscritti (18).
I membri della municipalità democratica provvisoria si riunirono per la prima volta in palazzo Ducale nella sala dell'ex maggior consiglio il 16 maggio 1797 sotto la presidenza di Nicolò Corner. Erano sessanta. Tra di loro, parecchi erano gli ex patrizi (quasi tutti ricchi); molti i grossi commercianti, gli imprenditori, gli uomini di affari; molti i professionisti (in prevalenza avvocati); non pochi gli ex alti burocrati della Repubblica; qualche ecclesiastico; qualche militare; qualche raro uomo del popolo come Vincenzo Dabalà, il gastaldo dei pescatori di San Nicolò (19). Di fatto, la stragrande maggioranza era costituita da uomini che socialmente ed economicamente avevano avuto posizione di rilievo anche nel passato regime. Nella sua composizione, l'assemblea mostrava di essere frutto di quel "compromesso" fra discontinuità e continuità che aveva presieduto confusamente al trapasso dalla Repubblica aristocratica alla democrazia.
Il primo intervento, di saluto al popolo e ai capi militari che erano venuti a prestare giuramento di fedeltà, fu del municipalista, avvocato, Giuseppe Andrea Giuliani. Raccolto il giuramento, Vincenzo Dandolo, un farmacista e chimico destinato a diventare uno dei municipalisti più conseguenti ed attivi, propose un proclama da lanciare al popolo "sovrano" per chiamarlo a stringersi attorno alla municipalità e a sostenerla in nome di parole d'ordine come "libertà", "uguaglianza", "ragione", "giustizia". Poco dopo giunsero i capi dei lavoratori dell'Arsenale, anch'essi a giurare fedeltà. Andrea Sordina, un greco che aveva lavorato nell'alta burocrazia della Repubblica, propose che si organizzasse un simbolico "amplesso fraterno" tra i municipalisti e una rappresentanza di soldati francesi. Francesco Mengotti, un nobile feltrino studioso di idraulica e di economia, pronunciò un discorso in cui, tra l'altro, sostenne che il popolo veneto, tornando alla democrazia, non aveva fatto altro che tornare all'antico ordine repubblicano poi sovvertito dalle degenerazioni e deviazioni aristocratiche. In quest'ottica, rivoluzione significava riordino, riordinamento. Un "dotto" discorso che si deliberò di far stampare a spese della municipalità (20).
A questo punto i municipalisti - su invito di Rocco Melancini, un medico - si portarono in piazza San Marco per presentarsi direttamente al popolo. In piazza, tra gli evviva, il Giuliani lesse un proclama pubblicato quel giorno. In esso si dichiarava "benemerito della patria" l'ex maggior consiglio che aveva "abdicato". Si annunciava un'amnistia solenne per qualsiasi passato comportamento politico che - nel nuovo regime - avesse potuto esser valutato delittuoso; un'amnistia che escludeva solo i così detti "saccheggiatori del 12", cioè coloro che avevano partecipato alla chiassata popolare del 12 maggio a favore della vecchia Repubblica. Si chiedeva benevolenza anche per gli ex inquisitori di stato e per Domenico Pizzamano per i quali era in corso un processo. Si promettevano concrete provvidenze (garantite dai beni nazionali e da apposite lotterie) per gli ex patrizi e patrizi poveri e per i pensionati dello stato. Si assicuravano risarcimenti a coloro che avevano subito danni dall'insurrezione popolare del 12. Ci si assumevano i debiti della Zecca, del bancogiro e del pubblico erario verso chicchessia. Si concludeva indicando nella prosperità della patria, nella tutela della religione, della proprietà e della sicurezza, e nel mantenimento della democrazia e della libertà, gli obiettivi principali della municipalità (21).
La prima preoccupazione dei municipalisti fu quella di far funzionare l'amministrazione. Provvisoriamente si mantennero in vita le vecchie strutture con il personale burocratico esistente. Ovviamente fu tolta ai patrizi - che prima la detenevano in esclusiva - la direzione politica di ciascun organismo. Le strutture che non poterono essere assolutamente mantenute in vita furono quelle dell'amministrazione della giustizia. Ad esse il vecchio regime aveva conferito caratterizzazioni di sostanza e di forma talmente originali da renderne impossibile un qualsiasi sia pur transitorio utilizzo. Era un settore in cui occorreva veramente rivoluzionare. Non restò altro che "sospendere il foro" per quindici giorni in attesa di dare ad esso una nuova e moderna configurazione.
Già il 18 si varò lo schema della nuova struttura di amministrazione. All'assemblea municipalista (che aveva presidente, vicepresidente e quattro segretari) furono affiancati otto comitati, una sorta di ministeri o, se si vuole, di assessorati municipali cui si assegnarono come luogo di riunione le sedi delle ex magistrature della Repubblica per lo più in palazzo Ducale (ribattezzato "Casa della Comune"). Tali organismi furono: il comitato di salute pubblica (politicamente il più importante); il comitato militare; il comitato finanze e zecca; il comitato bancogiro, commercio, ed arti; il comitato sussistenze e pubblici soccorsi; il comitato di sanità; il comitato arsenale e marina; il comitato istruzione pubblica. Ciascuno dei comitati ereditava le funzioni di parecchie delle magistrature della ex Repubblica. Sul momento, vennero mantenuti in vita gli apparati burocratici delle antiche magistrature, ma era nei programmi di smantellarli e sostituirli a poco a poco. Certamente la rivoluzione, semplificazione, razionalizzazione delle strutture fu radicale e non avrebbe potuto essere altrimenti, se non altro per ragione della vetustà degli apparati amministrativi con i quali la vecchia Repubblica era giunta fin alle soglie dell'età contemporanea.
Dei sessanta municipalisti, buona parte si distribuirono nei comitati, due rimasero fuori da incarichi specifici e i rimanenti entrarono in una sorta di comitato aggiuntivo detto "delle istanze" incaricato di ricevere, vagliare ed inoltrare ai comitati competenti le istanze dei cittadini (22). Il presidente veniva eletto ogni quindici giorni (23). Quattro erano i segretari il cui compito principale era quello di stendere i verbali delle sedute. Ci furono delle aggregazioni a fine maggio, delle aggregazioni in agosto con rappresentanti di Cavarzere, Torcello, Murano, Mestre, Pellestrina, Loreo, Chioggia, e Gambarare e Oriago, per cui a fine estate il numero complessivo dei municipalisti si aggirò sull'ottantina. Ai primi di giugno vennero nominati anche quattro supplenti (24).
Lo schema organizzativo era simile a quello adottato nelle municipalità già formatesi nei territori dell'ex stato veneto e nella Lombardia democratizzata e ricalcava gli schemi amministrativi della Francia postrivoluzionaria (25).
Le sedute dell'assemblea furono pubbliche, private, segrete. Nelle prime era ammesso il pubblico (fino a trecento persone con biglietti di ingresso distribuiti in egual misura nei sestieri), delle seconde erano pubblici solo i verbali, delle terze si tenevano riservate anche le verbalizzazioni. Pressoché ogni giorno assemblee e comitati si riunivano: l'impegno e il lavoro dei municipalisti furono subito intensissimi.
Come si è visto, il trattato di pace con la Francia era stato firmato a Milano il 16 di maggio dai deputati della ex Repubblica e si era convenuto che la ratifica sarebbe stata effettuata dalla nuova municipalità (26). I tre ex deputati che avevano firmato, tornati a Venezia, vennero a riferire ai municipalisti il 20 maggio e l'assemblea, pur acclamando al trattato, decise di inviare a Milano Tommaso Pietro Zorzi e Pietro Turrini, che si aggiunsero al Giuliani e al Fontana già sul posto, per concordare con Napoleone le modalità per la ratifica (27), la quale venne perfezionata il 29 maggio (28) e presentata al Bonaparte da Francesco Mengotti il quale era stato nominato (27 maggio) rappresentante della municipalità presso di lui. Tale ratifica era stata approvata dalla municipalità riunita in comitato segreto. Il governo francese, per parte sua, nonostante gli sforzi veneziani presso Napoleone e a Parigi, non perfezionerà mai la ratifica e ciò, soprattutto, onde conservare le mani libere nelle trattative, già iniziate, per arrivare a quel trattato di pace per il quale a Leoben erano stati firmati i preliminari.
Sul piano del consenso si partiva quasi da zero. I cittadini francamente democratici erano assai pochi. Appartenevano ai ceti medio alti, ma non avevano in quei ceti una sicura base di appoggio. La gente dei ceti medio bassi non appariva per niente schierata con la municipalità e, in certa misura, l'osteggiava. Moltissimi erano coloro che restavano psicologicamente condizionati dall'attaccamento all'antica Repubblica. Moltissimi coloro che sentivano i Francesi come degli usurpatori.
Si posero in atto delle decretazioni volte a mantenere i calmieri e a diminuire i prezzi dei prodotti di prima necessità e, sestiere per sestiere, si nominarono dei cittadini per vigilare sull'applicazione dei decreti stessi. Si prelevarono 12.000 ducati in Zecca per farne distribuzione tra i ceti popolari. Fu disposto che i capi del centinaio e più di corporazioni che compattavano il mondo degli operatori del piccolo commercio, degli artigiani, degli imprenditori e addetti di molte manifatture, degli addetti a certi servizi, rimanessero al loro posto. Soprattutto si organizzarono una serie di manifestazioni per celebrare la libertà e per incominciare a divulgare immagini atte a diffondere tra la popolazione stimoli alla lettura critica della storia della ex Repubblica, stimoli alla conoscenza dei principi di libertà e democrazia, stimoli per la conoscenza dei programmi della municipalità e per l'adesione ad essi, stimoli alla "rigenerazione" come allora si diceva.
La prima manifestazione propagandistica importante fu l'erezione in piazza San Marco dell'albero della libertà. Un rito appartenente all'esperienza rivoluzionaria di Francia che si era generalizzato nelle città e territori italiani dove erano arrivate le truppe napoleoniche. La festa ebbe luogo domenica 4 giugno in piazza San Marco. C'erano tre loggiati provvisori, uno posto davanti alla chiesa di San Geminiano per i municipalisti e sormontato dalla scritta "La libertà si conserva con l'osservanza delle leggi" e gli altri due disposti ai lati davanti alle Procuratie (ribattezzate "Gallerie Nazionali") destinati agli ufficiali italiani e francesi e sormontati dalle scritte "La libertà nascente è protetta dalla forza delle armi" e "La libertà stabilita conduce alla pace universale". Un'altra scritta dominava sulle tre appena citate e recitava "Rigenerazione italiana". All'intorno si incontravano simulacri rappresentanti la libertà col berretto frigio e con i fasci in atto di scacciare la tirannide, il tempo che scopriva la verità, ecc. (gran parte della scenografia fu opera di Neumann Rizzi). C'erano anche quattro orchestre.
All'ora stabilita si formò una sorta di processione: ufficiali francesi capeggiati dal generale Baraguey d'Hilliers comandante militare della piazza, i municipalisti con sciabola e cappello alla nuova moda, soldati italiani, due fanciulli con fiaccole accese in mano e due con gonfaloni su cui si leggeva "Crescete speranze della patria", due giovani coppie di promessi sposi che recavano il motto "Fecondità democratica", un vecchio e una vecchia con attrezzi agricoli, i componenti della Guardia nazionale di recente costituita, i rappresentanti degli stati esteri (quelli che avevano ricevuto l'invito e avevano consentito a presentarsi), le rappresentanze delle corporazioni, i municipalisti ecc. In mezzo alla Piazza, mentre i cannoni sparavano a salve e mentre le campane mandavano i loro rintocchi e i musici suonavano e i coristi de La Fenice cantavano un "Coro patriottico" scritto da Domenico Casotto con musica di Vittorio Trento, si innalzò l'albero della libertà con alla sommità il berretto frigio. Attorno stavano altri simulacri come le statue con in mano la fiaccola della libertà e dell'uguaglianza. Sventolavano i gonfaloni tricolori sui tre pennoni della Piazza, vibravano con il vento gli addobbi con scritte inneggianti ai Francesi nella Piazzetta, dove una delle due colonne era parata a lutto per commemorare i morti per la democrazia, primi fra tutti quelli del Libérateur d'Italie affondato al Lido in aprile. Il presidente della municipalità Talier pronunciò il discorso ufficiale ("Democrazia o morte! Ho detto", fu la sua conclusione) ed indi tutti si recarono nella chiesa di San Marco per il Te Deum di ringraziamento. Ritornati in Piazza, dopo un nuovo discorso di Vincenzo Dandolo, incominciarono le danze intorno all'albero della libertà. Si bruciò una copia del Libro d'oro in cui erano un tempo testificati i membri del patriziato, cioè coloro che detenevano in esclusiva il potere politico. Si bruciarono le ex insegne del doge. A sera, la festa continuò sia in Piazza, sia al teatro La Fenice con un'opera, con allegrezze, con sfoggio di bei vestiti, coccarde, fiori, bandiere, ingresso gratis ai gondolieri, ballo degli arsenalotti a simboleggiar la fratellanza se non l'uguaglianza sociale. Le manifestazioni continuarono per due giorni ancora pur disturbate dal cattivo tempo e con un concorso popolare che - lo si ammise anche nelle gazzette - fu inferiore a quello sperato.
Si sentì il bisogno di avere a disposizione un completo quadro socio-economico della popolazione. Il comitato di salute pubblica per bocca dell'attivissimo Dandolo lanciò alla municipalità l'invito a procedere all'allestimento di nuove anagrafi. Incaricati delle rilevazioni erano i parroci ai quali veniva affidato il compito di descrivere in appositi registri la popolazione con curiosi criteri di classificazione: "gran signori"; "benestanti proprietari"; "benestanti bottegai"; bottegai e artigiani sufficientemente provveduti; operai e salariati; disoccupati; oriundi dell'ex stato veneto da più di dieci anni a Venezia, o da meno; oriundi di stati stranieri allo stesso modo; "forestieri ignoti, sospetti, o perturbatori". Si era alla fine di maggio, il lavoro dovette andar avanti a rilento se in agosto troviamo autorizzata una spesa di 1.966 lire per acquisto dei registri. La rilevazione, nella intenzione dei proponenti, aveva fini di controllo e sicurezza, ma anche fini socio-fiscali in quanto si voleva avere una buona informazione sulle categorie alle quali ci si sarebbe potuto maggiormente rivolgere per portar denaro alle casse dello stato. Fini analoghi ebbero i decreti di metà giugno coi quali si cercò di riportare in patria tutti i cittadini possidenti e benestanti assenti, si cercò di rendere difficile la concessione dei passaporti per lasciare la città ed ancor di più di lasciarla portandosi dietro denaro e valori (29). Fini "filosofici" avrà invece il piano di ridisegno delle suddivisioni sestierali della città che verrà lanciato dal comitato di istruzione pubblica alla fine di ottobre. Assieme a una riduzione e riconfigurazione delle parrocchie in termini di omogeneizzazione delle consistenze di ciascuna, tale piano proporrà l'eliminazione dei vecchi sestieri e la suddivisione della città (una "esatta divisione democratica, prudente, e filosofica") in otto "sezioni" pressappoco di uguali dimensioni. La sezione comprendente la zona di Castello e l'Arsenale sarebbe stata denominata "Marina"; quella comprendente le sedi della municipalità sarebbe stata chiamata "Legge"; quella comprendente i teatri sarebbe stata denominata "Spettacoli"; quella comprendente le dogane sarebbe stata denominata "Commercio"; quella comprendente San Nicolò e Santa Marta, contrade di pescatori, sarebbe stata denominata "Pesca"; quella comprendente San Polo, dove era la casa Ferratini sede dei cospiratori democratici, sarebbe stata denominata "Rivoluzione"; quella comprendente le sedi delle scuole superiori sarebbe stata denominata "Educazione"; quella comprendente le zone di Cannaregio affaccianti alla laguna verso la terraferma sarebbe stata denominata "Viveri" e in essa la zona dell'ex Ghetto sarebbe stata denominata "Riunione" (30). Il Ghetto, infatti, era stato aperto con solenne cerimonia ai primi di luglio e ogni discriminazione nei confronti degli Ebrei era stata eliminata. Alcuni di essi sedettero nell'assemblea municipalista ed assolsero importanti funzioni in taluni dei comitati.
Il calendario venne modificato con l'abolizione dell'uso veneziano di far iniziare l'anno dal 1° di marzo e farlo finire al termine di febbraio (le datazioni more veneto). Inoltre venne adottato, ma solo sussidiariamente, il calendario rivoluzionario francese. Per le ore del giorno venne abbandonato il vecchio computo che aveva il suo perno nel tramonto del sole (incominciava in quel momento l'ora una di notte) e quindi comportava tutta una variabilità in rapporto alle stagioni, e venne adottato il sistema francese imperniato sulla divisione del giorno in ventiquattr'ore uguali. Venne anche battuta moneta: le 10 lire veneziane d'argento con l'immagine della Libertà, e alcune scritte sul dritto e sul verso come: "Anno primo della libertà italiana 1797", "Libertà", "Uguaglianza", "Zecca V.". Abbastanza intensa fu l'opera di demolizione e cancellazione dei simboli del passato regime, specie dei leoni di San Marco.
Fra le prime preoccupazioni della municipalità vi fu quella di continuare la smobilitazione dei corpi dell'esercito oltremarini, di riorganizzare e snellire i corpi di truppe italiane e di lavorare per la costituzione di battaglioni di linea sull'esempio delle legioni cisalpine da poter offrire in campo a Napoleone in caso di riapertura delle ostilità. Un tentativo in giugno di arruolare volontari per tali battaglioni dette scarsissimi risultati.
In ogni caso verso la fine di agosto la municipalità poté avere a disposizione un migliaio di soldati ben equipaggiati ed addestrati. Sempre poco rispetto alle richieste francesi di una forza di seimila uomini. A fine settembre, nel quadro delle mosse atte a mostrare una determinazione francese alla guerra nel caso di improduttività delle trattative di pace, anche il battaglione di linea veneto partì per il Friuli.
Per tutto quel che atteneva al mantenimento dell'ordine repubblicano, dopo le prime settimane in cui si attivarono delle pattuglie di cittadini, si procedette alla costituzione della Guardia nazionale. Una sorta di corpo, una "forza interna", da portare a un certo grado di addestramento militare attraverso esercitazioni periodiche, vincolato da un giuramento alla democrazia, tenuto a una disciplina, incaricato di funzioni varie (per lo più a turno) di vigilanza in città, specie in difesa degli ordinamenti democratici contro ogni eversione, eventualmente ed in certa misura in grado di funzionare anche come riserva di uomini addestrati su cui, all'occorrenza, i corpi più propriamente militari avrebbero potuto attingere. Già ai primi di giugno si lanciò il piano di organizzazione che prevedeva l'arruolamento di tutti i cittadini maschi dai 16 ai 50 anni che fossero stati fisicamente abili, eccettuati i funzionari pubblici, i medici, i servitori, gli ecclesiastici, i questuanti. Erano previsti un'uniforme e depositi di armi. Sulle prime il servizio venne configurato come gratuito e solo in un secondo momento sarà previsto un tenue indennizzo. Tre ufficiali delle truppe di linea (il tenente colonnello Bucchia, il maggiore Verlato e il capitano Mattei), con il grado di generali di brigata e con adeguato stipendio, vennero preposti all'organizzazione, addestramento e comando delle formazioni. Ognuno di essi comandava le formazioni della Guardia di due sestieri della città.
Sulle prime si registrò la buona disposizione al servizio da parte di un discreto numero di cittadini. Figurare nella Guardia nazionale dava occasione a un certo protagonismo soprattutto di facciata (l'uniforme, il prendere parte con distinzione e proprio ruolo ritualizzato alle numerosissime cerimonie pubbliche, l'esser investiti di immagini di autorità, ecc.). Ben presto però la non chiarezza dell'evolvere della situazione generale, un certo fastidio per i pesi imposti, il tempo che veniva sottratto alle occupazioni ordinarie e altre ragioni ancora determinarono molti a escogitare pretesti per farsi esentare (soprattutto compiacenti attestazioni mediche) e spinsero altri a sottrarsi francamente agli obblighi.
In agosto la presenza delle truppe francesi in città si alleggerì e sembrò che la Guardia nazionale dovesse compensare tale alleggerimento con un suo maggior protagonismo, viceversa vennero spedite a Venezia delle milizie cispadane che si acquartierarono al Lido. Per di più, i Francesi intensificarono l'asporto di tutte le armi dall'Arsenale, compresi i duemila fucili che dovevano servire per i tre battaglioni della Guardia di cui due già completamente organizzati (compagnie di granatieri, fucilieri, cacciatori e banda musicale). La prospettiva organizzativa prevedeva una strutturazione in legioni come nella Cisalpina. Nel momento di massima espansione l'organico della Guardia nazionale si aggirò sui quindici, diciottomila uomini.
Il "compromesso" mediante il quale si erano configurate forme e sostanze del trapasso dagli assetti aristocratici a quelli municipalisti democratici aveva fissato ben fermo ed esplicito anche il punto della salvaguardia della religione cattolica e delle sue strutturazioni nella società veneziana e veneta. Pertanto sia ai municipalisti che al patriarca si propose subito l'esigenza di dare continuità, in concreto, alla consueta intesa/alleanza tra autorità civile e autorità religiosa (31).
Non ci furono problemi. La municipalità - la quale, oltre a tutto, non contava nel suo seno uomini dagli umori eversivi in fatto di religione e di Chiesa - mostrò immediatamente di far molto conto sul corpo ecclesiastico come su uno degli strumenti da utilizzare per la creazione del consenso popolare, che si presentava scarsissimo. Il patriarca di Venezia, Federico Maria Giovanelli, così come gran parte dei vescovi veneti (fra l'altro va ricordato che quasi tutti provenivano dall'ex patriziato veneziano) (32), avute le assicurazioni più ampie sulle buone disposizioni dei nuovi governanti in fatto di religione e di clero, non ebbe difficoltà a perseguire il mantenimento di un buon dialogo con le nuove autorità. Una linea prudente di tal fatta era del resto consigliata anche dalla situazione politica generale in forte movimento e dal fatto che poco chiari permanevano i destini che si preparavano per Venezia e per il Veneto.
Con una pastorale del 17 maggio, il patriarca esortò la popolazione alla subordinazione al nuovo governo provvisorio sottolineando che i "cambiamenti erano successi con il previo concorso del Maggior Consiglio che rappresentava allora la Veneta Repubblica". Era più un avallo alla legittimità del nuovo governo che non un avallo alla democrazia in sé. Il primicerio, cioè il prelato che gestiva la chiesa di San Marco, la ex cappella dogale, dette disposizione perché la pastorale venisse letta tre volte ogni mattina nella chiesa stessa. Pochi giorni dopo, il patriarca, il primicerio e il clero vennero convocati a prestar "civico giuramento alla municipalità" nonché a presenziare al successivo "banchetto patriottico". Il 25 maggio, solennemente, il giuramento venne pronunciato dal provicario del patriarca Bartolomeo Zender. Il 4 di giugno, festa di Pentecoste, ma anche festa dell'innalzamento in piazza San Marco dell'albero della libertà, si trovò un accordo per non sovrapporre l'orario delle due celebrazioni e l'albero fu innalzato dopo le 16 a funzioni religiose esaurite. Il patriarca non partecipò alla festa, ma vi presenziò invece il primicerio che, dal 1787, era Paolo Alvise Foscari, e non mancò un Te Deum in chiesa.
Sostanzialmente, l'accordo tra la municipalità e il patriarca non conobbe momenti di grave rottura anche se qualche attrito e contraddizione ci fu. I municipalisti si mossero - e con prudenza - sul solco della politica giurisdizionalistica che era stata della Repubblica e non certo nella direzione delle politiche nuove della Francia rivoluzionaria.
Verso la fine di giugno, quando nell'assemblea municipalista si discuteva sulla libertà di stampa, il patriarca fece sentire la sua voce preoccupata circa i pericoli che, se "smodata", essa poteva comportare (33). Nello stesso periodo, ad iniziativa del municipalista abate Collalto, membro del comitato di istruzione pubblica, si discusse una decretazione che dava nuova configurazione alla scelta dei parroci della città. Essi avrebbero dovuto essere eletti a maggioranza di voti da parte di coloro che risiedessero nella parrocchia ed avessero più di 21 anni di età. La novità forse più rilevante era data dal fatto che con il passato regime votavano solo coloro che avevano possessioni in parrocchia, anche nel caso non fossero stati residenti. A fine agosto vennero in discussione questioni come quella della riduzione del numero delle parrocchie cittadine, che - si pensava - potevano passare da settanta a quaranta o a trenta, e questioni relative a blocchi da porre alla eccessiva espansione del numero dei secolari e dei regolari (34).
A parlare di riduzione del numero dei preti si era incominciato già da fine luglio quando il Dandolo aveva proposto l'allontanamento di quelli forestieri. Il grosso della discussione si sviluppò dopo i primi di settembre partendo da un progetto del comitato di istruzione pubblica. Vari emendamenti addolcirono questo o quell'aspetto dell'assai drastico progetto iniziale (35) e certamente, agli effetti di tale addolcimento, non fu ininfluente l'azione del patriarca, il quale, a dibattito iniziato, chiese con una lettera direttamente a Napoleone di intervenire per sospendere il progetto onde consentire una più maturata valutazione dei vari aspetti delle questioni sul tappeto.
Un'aperta contrattazione tra patriarca e municipalità presiedette invece alla elaborazione di un progetto di sistemazione dei monasteri femminili. Il 10 ottobre la deputazione all'amministrazione generale delle cause pie, dopo aver descritto la situazione di grave degrado economico di parecchi monasteri, presentò un piano per accorparne parecchi. In pratica si chiedeva di ridurre il numero di essi da trentasette a quindici concentrando in questi ultimi le millecentoquarantasei monache esistenti. Inoltre si proponevano vari interventi per funzionalizzarne l'amministrazione con l'ottimistica previsione di ridurre in tal modo le spese annue da 1.500.000 a 725.000 lire. Il piano venne presentato al patriarca il quale, dopo aver lodato le intenzioni di risanamento, abilmente entrò nel merito di esso e dopo pochi giorni presentò una sorta di contropiano per mezzo del quale egli riproponeva l'autorità ecclesiastica come l'unica legittimata a decidere e gestire provvedimenti in materia di strutture ecclesiastiche e controproponeva che, ferma la salvaguardia di tutti i beni dei monasteri, fosse appunto l'autorità ecclesiastica a provvedere con propri criteri alla concentrazione dei monasteri stessi e all'accentramento e ripartizione delle loro risorse (36).
Nel mentre che, con qualche resistenza, continuava - a pro delle fusioni della Zecca esausta - il drenaggio degli ori ed argenti delle chiese che non fossero direttamente serviti ai riti ecclesiastici e si coinvolgeva nelle consegne obbligatorie anche il tesoro di San Marco, fu prospettata la soppressione della figura del primicerio e dell'ex cappella dogale la quale, come si è detto, faceva da secoli tutt'uno con la chiesa di San Marco. Nei progetti, tale chiesa sarebbe dovuta diventare la sede della "parrocchia centrale" della città, cioè la nuova sede patriarcale al posto di San Pietro di Castello (37).
Come si vede, si trattò di moderati progetti di razionalizzazione. In ogni caso non ci fu tempo per nessuna realizzazione.
Taluni progetti saranno ripresi ed attuati nel primo Ottocento con il napoleonico Regno d'Italia in un contesto ben più ampio e radicale di interventi sistematori e anche liquidatori di non poche delle strutturazioni ecclesiastiche veneziane che avevano attraversato i secoli della Repubblica.
L'amministrazione municipalista contò tre ecclesiastici: l'abate Signoretti, l'arciprete Talier e l'abate Collalto. Nella sostanza, tre intellettuali. Il Signoretti, ex gesuita e massone, e il Talier si mossero su posizioni moderate. Più impegnato fu il Collalto, uno studioso di matematica e fisica, il quale si collocò contiguo all'ala radicale della municipalità guidata dal Dandolo. A lui si devono alcuni dei progetti di riforma delle strutture ecclesiastiche veneziane di cui si è detto. Tutti e tre agirono all'interno dell'assemblea municipalista a titolo personale e senza fili di rapporto con il patriarcato.
Fra i membri del clero ci fu un diverso atteggiarsi rispetto ai nuovi assetti politici determinatisi a Venezia dopo il 12 maggio. Moltissimi si allinearono alle direttive della gerarchia e mantennero atteggiamenti esteriori di conciliante prudenza ed attesa (su questo versante, punti di riferimento furono, pur con accentuazioni diverse, il vicario del patriarca Bartolomeo Zender, don Giovanni Giuseppe Piva e don Scipione Bonifacio).
Alcuni, pochi, non seppero resistere al bisogno di esternare posizioni di rifiuto rispetto a questo o quell'aspetto del nuovo corso delle cose. Dichiaratamente ostili al nuovo governo fin dal primo momento furono i preti Antonio Moroni, Lorenzo Guizzetti, Giuseppe Zappella e Giuseppe Driuzzi. Tutti erano parroci meno il Guizzetti. Degli umori di fronda di altri sappiamo sia dai rapporti dei commissari di polizia, sia dalle prese di posizione contro di loro di qualche municipalista come il Dandolo, sia dalle "liste nere" compilate in alcune occasioni come, per esempio, in ottobre nei giorni della "congiura Cercato".
Fra coloro (anch'essi pochi) che non seppero resistere alla voglia di mostrarsi protagonisti di entusiasmi e di ben proclamate adesioni alle idee democratiche, ci furono, da una parte, quelli che semplicemente ottemperarono agli inviti della municipalità di cooperare con la predicazione a sollecitare i fedeli "al rispetto delle leggi e all'intima conoscenza del libero governo" e, dall'altra, ci furono quelli che si fecero organici all'attività politica della municipalità. Fra questi ultimi, oltre ai tre membri della municipalità già nominati, occorre ricordare Giuseppe Valeriani, prete della parrocchia di San Maurizio, il quale fu direttore dell'ufficioso "Il Monitore Veneto" e più tardi abbandonerà l'abito talare, e don Antonio Zalivani, parroco della popolare parrocchia di San Nicolò dei Mendicoli, il quale aderì alla società di istruzione pubblica e fu autore di un Catechismo cattolico-democratico (38) che ebbe grande successo presso i municipalisti, venne stampato in gran numero di copie e venne diffuso largamente e d'imperio nelle parrocchie e nelle scuole.
Il Catechismo dello Zalivani, suddiviso in otto capitoli, utilizzando la forma dialogica propria dei catechismi, ma anche di molti altri pamphlets dell'epoca, si soffermava in forma semplice e rapida sui concetti di popolo, governo, società, nazione, legge, rappresentanza politica, si soffermava sui valori democratici ben sposati ai valori cattolici, sui diritti dell'uomo individuati nella libertà, uguaglianza, sicurezza e proprietà, sui suoi doveri individuati nell'ubbidienza alle leggi e al governo, nel servizio e difesa della società.
Nel complesso campeggiava l'idea di sovranità del popolo (tutti i cittadini uniti in società) esercitata tramite la democrazia rappresentativa, l'idea della conciliabilità delle forme democratiche con i valori evangelici, l'idea dell'uguaglianza di tutti indistintamente di fronte alla legge intesa come volontà sociale. Esplicita era però la legittimazione delle diseguaglianze economico-sociali in quanto derivata dalla naturale diseguaglianza delle capacità e dei meriti. Solenne era la riaffermazione perentoria del diritto inviolabile della proprietà privata.
Per lo Zalivani la fine della municipalità aprì un periodo di mortificanti imposte autocritiche e comportò il suo allontanamento da Venezia e l'emarginazione. Stessa sorte, ma meno dura, conobbero altri preti che si erano esposti a sostenere tesi "giacobine", come Stefano Sala, autore di una Istruzione al popolo sopra lo spirito della religione cristiana (39).
La vita e il destino della municipalità democratica veneziana e delle municipalità venete rimasero strettamente legati all'evolvere della situazione internazionale generale e, in particolare, all'evolvere dei rapporti tra Francia e Austria.
Napoleone e gli Austriaci si trovarono subito alle prese con gli sviluppi che occorreva dare alla regolazione sia dei rapporti tra loro e sia dei rapporti tra la Francia e gli stati che ancor militavano o avevano militato nella prima coalizione antifrancese. Il 25 maggio, a Mombello dove era il quartiere generale napoleonico, c'era stato lo scambio delle ratifiche dei preliminari di Leoben e il giorno dopo erano iniziate le trattative tra Napoleone e il marchese Marzio Mastrilli de Gallo (40).
La municipalità veneziana, ai primi di giugno, predispose per la partenza di suoi commissari per le isole Ionie, per l'Istria, per la Dalmazia e per l'Albania (41). Nelle isole Ionie, a reggere con grandi difficoltà l'amministrazione, v'era ancora il rappresentante della ex Repubblica Carlo Aurelio Widmann; in Istria v'era Gasparo Dolfin; in Dalmazia v'era Andrea Querini. I commissari avrebbero dovuto collaborare con essi. L'obiettivo era quello di tenere quei territori uniti a Venezia favorendone la democratizzazione. Si inviarono manifesti in lingua italiana, greca ed illirica e sussidi in denaro. In Istria qualche risultato di adesioni si ottenne in Pirano, Parenzo e Montona pur se, in generale, la popolazione restava divisa tra chi vagheggiava un governo indipendente e chi sperava in un intervento dell'Austria (42). In Dalmazia la situazione si presentava ancora più confusa: a Traù ci si era sollevati, vessillo di San Marco alla mano, contro i possidenti; in qualche altra città come a Sebenico si erano scatenate violenze contro il console francese; Nicolò IV Morosini, arrivato con gli Schiavoni evacuati da Venezia, li aveva sbarcati e stazionava con le navi davanti a Zara; per tutto correva l'incertezza e si incominciava a sperare in un intervento dell'Austria anche perché erano trapelate indiscrezioni circa gli accordi di Leoben.
A tagliar corto rispetto a tali situazioni ci pensarono la Francia e l'Austria che, in relazione alle trattative di pace che si stavano svolgendo a Mombello, erano interessate a porre in atto fatti compiuti a proprio vantaggio.
Napoleone, sin dal 26 maggio, aveva disposto che un piccolo corpo di spedizione francese salpasse da Venezia per portarsi a Corfù a prendere in mano la situazione nelle isole Ionie (43). Il 9 giugno, infatti, una piccola flotta franco-veneta salpava da Venezia (44). Pur con la raccomandazione di salvare qualche parvenza di potestà democratico-veneziana, i comandanti francesi avevano l'ordine di impossessarsi delle isole e di ogni attrezzatura utile facendo passare marinai, soldati e impiegati civili della ex Repubblica al servizio della Francia. Una lettera della municipalità di Venezia al Widmann lo nominava "commissario" in aggiunta ai due commissari inviati dalla municipalità stessa e lo invitava a collaborare. Il 28 giugno iniziava l'occupazione da parte dei Francesi e si procedeva alla istituzione a Corfù di una municipalità democratica alla quale venivano chiamati esponenti di tutti i ceti.
Quasi contemporaneamente, tra l'inizio di giugno e i primi di luglio, l'Austria procedeva all'occupazione dell'Istria e della Dalmazia (45). I vessilli di San Marco della ex Repubblica Veneta venivano definitivamente ammainati e riposti con sincero rammarico di una parte cospicua delle popolazioni. L'ex provveditore Querini riparava a Vienna e la municipalità veneziana il 21 giugno lanciava all'attenzione di tutta Europa un vibrantissimo manifesto di protesta nel quale si ergeva a difenditrice della "veneta nazione" e del diritto dei popoli a scegliere l'unità dentro il nuovo contesto statuale democratico che aveva alle sue spalle i secoli della ex Repubblica (46). La protesta era stata consigliata dal Bonaparte e a Venezia si erano vinti gli scrupoli di coloro che avrebbero voluto avvertir prima le municipalità della Terraferma onde arrivare possibilmente a una protesta collettiva ed evitare così che la municipalità veneziana venisse accusata di prender iniziative da sola in nome degli interessi di tutti (47).
A Mombello, le trattative tra Napoleone e i rappresentanti austriaci (il marchese de Gallo e il generale conte Massimiliano Merweldt) registravano delle difficoltà. Le istruzioni che venivano da Vienna frenavano le buone disponibilità del de Gallo a trovare l'accordo. Gli Austriaci volevano rimanere agganciati a quanto concordato a Leoben (48), ma, in più, chiedevano la cessione di Venezia in cambio di concessioni in Germania e cercavano di tenere aperta la prospettiva del previsto congresso di pace di Berna (che non si terrà mai) dove pensavano di poter contare sul sostegno delle potenze alleate. Napoleone tentava di manovrare e di concludere sulla base dei preliminari di Leoben. Il direttorio, in seno al quale egli contava sull'appoggio di Lazare Carnot, non gli inviava tuttavia istruzioni chiare e vincolanti.
I negoziati dureranno circa cinque mesi. Come annota Jacques Godechot, tutte le parti avevano interesse a tirare in lungo. Bonaparte voleva radicarsi nell'Italia del Nord perché poi fosse più difficile all'Austria e al direttorio rimettere in discussione la cessione del Milanese; il direttorio voleva attendere un chiarimento della situazione interna francese; l'Austria contava molto su un possibile ribaltone all'interno del direttorio con l'avvento di uomini di destra e realisti (49).
All'inizio di luglio i negoziati vennero spostati da Mombello a Udine e le trattative ripresero sotto tono con dei negoziatori di secondo rango: il Merweldt e il Clarke. Frattanto erano anche incominciate a Lilla le trattative per un accomodamento tra Francia ed Inghilterra (i Francesi reclamavano la restituzione di tutte le colonie) e, tra la fine di giugno e i primi di luglio, era stata messa in piedi la Repubblica Cisalpina con capitale Milano. Essa aggregherà, oltre alla Lombardia, gli ex ducati estensi con Modena, Massa Carrara e Reggio Emilia, le Legazioni con Bologna, Ferrara e la Romagna, Bergamo, Crema, e, dopo Campoformido, Brescia e la Valtellina. La Cisalpina era una creatura di Napoleone e rappresentava un importante segno del suo incipiente protagonismo politico.
In Francia si susseguivano momenti di crisi. La situazione finanziaria interna era molto difficile nonostante gli apporti dei "bottini" di guerra, tra i quali quello napoleonico d'Italia. In primavera, era stato liquidato il movimento di Babeuf ed erano state fatte le elezioni per il rinnovo di un terzo del consiglio degli anziani e di quello dei cinquecento, elezioni che i moderati con intonazioni monarchiche avevano vinto. Charles Letourneur era stato sostituito dal moderato François Barthélemy nel direttorio (con lui, ne facevano parte Paul Barras, Louis-Marie La Revellière, Jean Rewbell, Louis Lépeaux, Lazare Carnot) (50).
C'erano divisioni su questioni importanti di politica estera ed interna. I moderati dei consigli volevano una pace senza annessioni e il direttorio (fra l'altro influenzato dai "patrioti" e fuoriusciti stranieri compresi quelli italiani e da una parte dei militari) era su posizioni abbastanza distanti da questa, ma anch'esso diviso al proprio interno. Carnot e Barthélemy stavano dalla parte dei monarchici e dei moderati i quali speravano di portare dalla loro anche Barras. Non ce la fecero perché si verificò la messa in stato di accusa di un loro esponente, il generale Charles Pichegru, presidente del consiglio dei cinquecento, indicato come agente di potenze straniere da certe carte sequestrate da Napoleone all'agente monarchico conte d'Antraigues, fatto uscire da Venezia nei giorni della fine della Repubblica e poi fermato a Trieste.
Napoleone osservava la lotta dentro il direttorio e tra i tre direttori "repubblicani" - Barras, La Revellière e Rewbell - e i consigli. A lungo aveva mantenuto i contatti con Carnot (favorevole a una conclusione rapida della pace sulla base dei preliminari di Leoben) che lo difendeva contro Rewbell e La Revellière. Ma l'evoluzione della maggioranza e gli attacchi dei consigli schierati contro di lui lo obbligarono a scegliere il campo. Un trionfo dei consigli avrebbe significato un rovesciamento della politica estera e forse quindi la fine del suo (appena nascente) sogno mediterraneo.
Attacchi molto duri erano venuti infatti a Napoleone da parte dei clichyens, cioè dei moderati-monarchici del Club di Clichy (tra l'altro gli si rimproverava la liquidazione della Repubblica di Venezia) ed egli, nella prima metà di luglio, aveva sollecitato prese di posizione da parte dei corpi della sua armata contro i realisti. Nello stesso tempo aveva chiesto al direttorio il proprio richiamo offrendo il suo aiuto per un'azione di forza contro la reazione montante (unico modo "per salvare la Repubblica e concludere la pace con l'Austria in ventiquattrore") (51). Il direttorio si affidò invece al generale Hoche, ma il tentato colpo di stato fallì.
Si era in luglio e ai primi di settembre (18 fruttidoro), dopo che i monarchici e i moderati che pur controllavano la Guardia nazionale non si erano decisi a contrattaccare immediatamente, i membri "repubblicani" del direttorio (Rewbell, La Revellière e Barras, i cosiddetti "triumviri") aiutati da uno dei generali di Bonaparte, Pierre Augereau, la notte tra il 3 e 4 settembre fecero arrestare i capi monarchici e il direttore Barthélemy (Carnot riuscì a sfuggire) ed avviarono un riuscito pronunciamento che, mediante epurazioni dei consigli e l'immissione nel direttorio dei due repubblicani François de Neufchâteau e Merlin de Douai, garantì loro il controllo del governo.
La riuscita del pronunciamento antireazionario rilanciò l'attività diplomatica. Ministro degli esteri francese, sin da luglio, era stato nominato Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord. A Lilla vennero rotte le trattative franco-inglesi anche perché William Pitt non vedeva più l'urgenza di concludere.
A fine agosto, dopo discussione, la sede degli incontri franco-austriaci passò da Udine a Passariano (villa Manin dove era il quartier generale francese). Si puntualizzarono le esigenze del direttorio: confini sulla linea del Reno, indipendenza della Repubblica Cisalpina, intangibilità di Venezia. Veniva in primo piano l'esigenza di difendere i democratici veneziani sostenuti dai giacobini italiani. Si poteva premere sull'Austria anche a costo di ricominciare la guerra. Ma Napoleone non riteneva di avere forze sufficienti per far fronte all'esercito austriaco che nel frattempo era stato rafforzato, e voleva la pace anche per apparire alle masse come il "pacificatore" oltre che come il vincitore.
Nel tentativo di disincagliare il negoziato, Napoleone propose, in alternativa, due pacchetti di accordo. Per quanto riguardava Venezia, nel primo si ipotizzava il riconoscimento del governo democratico insediato nella città lagunare con attribuzione ad esso del territorio dell'ex Dogado (la striscia lagunare attorno a Venezia), del territorio delle Legazioni e di qualche isola adriatica, nonché la facoltà di unirsi alla Cisalpina; nel secondo, Venezia appariva del tutto sacrificata e ceduta all'Austria (52). I progetti vennero posti in esame a Vienna.
Il Clarke, l'altro negoziatore per la parte francese, compromesso dalla sua amicizia con il decaduto direttore Carnot, venne messo in secondo piano. Napoleone rimase solo nella direzione della trattativa e da certi segni ritenne che a Parigi ci fosse qualcuno che tramava contro di lui (53), minacciò le dimissioni, ma poi, rassicurato, non ne fece nulla.
In quei tre mesi di giugno, luglio e agosto, in cui Napoleone aveva dovuto fare i conti con le convulsioni dei politicanti parigini, gli Austriaci avevano portato avanti con una certa rigidezza le loro posizioni. Erano restii a cedimenti lungo il Reno anche per i problemi degli equilibri con l'Impero e la Prussia, volevano il massimo possibile in Italia. Dopo le aperture del marchese de Gallo esternate a Napoleone nei primissimi incontri (il de Gallo non aveva ancora pieni poteri), le posizioni austriache si erano via via irrigidite (54). Il ministro degli esteri Franz Thugut aveva imposto al de Gallo una linea meno concessiva. Ad ogni buon conto, aveva mandato a negoziare anche il Merweldt (partecipò sin dalla seduta del 18 giugno) che aveva presentato un'Austria attestata su richieste massime. Più tardi, in agosto, venne aggiunto anche il barone Ignazio di Degelmann, uomo fidatissimo del Thugut. A un certo punto gli Austriaci mandarono a Parigi un emissario (il segretario del de Gallo, Battisti) per tentare di trattare direttamente con un direttorio che si pensava ammorbidito (i direttori che parvero agganciabili erano il Barthélemy e il Barras). Il precipitare degli eventi con il pronunciamento antimoderato del 4 settembre tolse ogni possibilità di successo alla missione.
Si era in settembre, i due pacchetti di accordi proposti da Napoleone ed inviati dai negoziatori austriaci a Vienna erano oggetto di analisi da parte di un nuovo personaggio messo in campo dall'Austria e cioè il conte Ludwig Cobenzl, da tempo richiamato dalla corte di Pietroburgo. Egli valutò che un nodo decisivo per il buon fine della trattativa fosse costituito da Venezia e formulò, in proposito, una sorta di programma massimo che prevedeva l'acquisizione da parte dell'Austria di Venezia assieme alla Terraferma veneta e alle Legazioni e una sorta di programma minimo che prevedeva l'acquisizione della Terraferma veneta e delle Legazioni, oppure di Venezia e della Terraferma veneta. A Venezia non si poteva rinunciare che in casu pessimo (55).
Il 27 settembre il Cobenzl presentò al tavolo delle trattative lo schema di una contro-proposta austriaca che, pur proclamando fedeltà agli accordi di Leoben, prevedeva l'annessione all'Austria di Venezia oltreché del Veneto, dell'Istria e della Dalmazia. Per il resto, si concedevano alla Repubblica Cisalpina, riconosciuta come stato indipendente, la Lombardia ex austriaca, nonché Bergamo, Brescia, Crema e le Legazioni e si lasciavano alla Francia le isole dello Ionio. Le questioni territoriali in Germania si rimandavano, nella sostanza e negli aspetti principali, a un congresso da convocare a Rastadt.
Napoleone reagì duramente alle proposte di Cobenzl, in particolare alle proposte su Venezia. Egli si mise ad esigere la presenza al tavolo della trattativa di plenipotenziari veneziani. Il Cobenzl oppose un rifiuto e giorno dopo giorno andò avanti lo scontro. Il dibattito (adunanze formali e adunanze private dei due protagonisti) riguardava, da una parte, la cessione austriaca della riva sinistra del Reno e di Magonza e, dall'altra parte, la consistenza dei territori da acquisirsi dall'Austria in Italia. I preliminari di Leoben avevano sufficienti spazi di ambiguità per esser interpretati nel modo che a ciascuna delle due parti fosse accomodato. Arrivarono lettere di Talleyrand e di Barras che, pur lasciando a Napoleone carta bianca sulle decisioni, lo invitavano all'intransigenza e, in caso fosse apparso necessario, alla guerra (c'erano richieste massime: mantenere integralmente le rivendicazioni francesi sulla riva sinistra del Reno, eliminare l'Austria dall'Italia, oltrepassare i limiti angusti degli accordi di Leoben).
Il 3 e 4 ottobre continuarono discussioni feroci. Si andò vicini alla rottura e ancora una volta le due parti convennero di presentare un proprio progetto. In qualche momento i toni apparvero melodrammatici. Si ricominciò il 6 ottobre e, dopo che su Magonza gli Austriaci avevano ceduto, la discussione si spostò decisamente sull'Italia. Napoleone tornò ad offrire agli Austriaci la linea dell'Adige, l'Istria, la Dalmazia. A Cobenzl non bastò. Dopo una nuova sospensione degli incontri, Napoleone si dichiarò disponibile a concedere la linea del Mincio in cambio però di tutta la riva sinistra del Reno in Germania e, comunque, il 6 ottobre fece sapere in privato alla delegazione austriaca ch'egli era sul punto di recarsi a Venezia per celebrare il riconoscimento di una sorta di nuova repubblica che si sarebbe unita alla Cisalpina. Inoltre egli fece sapere del suo accordo per accelerare l'apertura dell'annunciato congresso dei Veneti che doveva tenersi a Venezia in vista di un'unione. Non nascose altresì alcune misure che allertavano le sue armate in vista di una possibile ripresa della guerra. Tuttavia, le sue reali intenzioni erano diverse: egli voleva arrivare all'accordo e aveva messo nel conto il sacrificio inevitabile di Venezia.
Cobenzl aveva chiesto una dilazione di otto giorni per mandare all'esame di Vienna le ultime proposte napoleoniche. Anch'egli temeva la guerra e, nonostante le apparenze, non giudicava la rottura delle trattative di pace franco-inglesi a Lilla un fatto vantaggioso per l'Austria. Temeva, poi, che Napoleone facesse sul serio quando diceva che avrebbe acconsentito alla proclamazione di una repubblica a Venezia e all'unione alla Cisalpina della Terraferma veneta. Fatto sta che egli chiese a Napoleone di soprassedere all'annunciato viaggio a Venezia e di rinunciare a dare via libera ai propositi dei democratici veneti di darsi un destino democratico.
Napoleone continuava nel suo bluff Scrisse a Haller che la guerra era inevitabile, fece credere ai Veneziani che era imminente, avvertì Genova (dal giugno si era organizzata una democratica Repubblica ligure) che le ostilità sarebbero ricominciate da un momento all'altro. Il vero aut-aut però egli lo propose poi il 10 ottobre quando fece sapere a Parigi che l'alternativa non era tra la pace e la guerra, ma tra la pace o il suo esonero. Egli voleva la pace e prese a sollecitare Cobenzl: occorreva far presto, prima che si creassero situazioni nuove che rendessero ancor più difficile l'accordo. Lo convinse. Il plenipotenziario austriaco si piegò a dichiararsi disponibile a sottoscrivere un protocollo d'intesa prima che da Vienna giungesse la risposta a proposito della bozza di trattato e quindi il via libera alla sua firma.
La lettura della bozza di protocollo, il 9 ottobre, dette luogo a nuove melodrammatiche scenate di rottura. Napoleone e Cobenzl allestirono allora ciascuno una propria bozza e il de Gallo e Merweldt ne ricavarono un progetto unico che venne sottoposto a Napoleone il 15 ottobre. Ma in quel momento arrivò da Vienna il consenso alla bozza di trattato che Cobenzl aveva inviato agli inizi del mese. La situazione si era finalmente sbloccata. Ci si affrettò a preparare tutto per la firma che doveva aver luogo a Campoformido, cioè a mezza strada tra il quartier generale austriaco a Udine e quello napoleonico a Passariano. Ma si verificarono ancora dei fatti nuovi. Il direttorio fece sapere a Napoleone che erano disponibili rinforzi militari per l'Italia. All'ultimo, giunse un corriere che annunciava che il Piemonte aveva firmato un accordo con la Francia per fornire diecimila soldati per cui si chiedeva a Napoleone di attendere nuove istruzioni dal direttorio. Il de Gallo capì che non bisognava aspettare un momento di più e poiché i plenipotenziari austriaci erano a Passariano in attesa del trasferimento con i Francesi a Campoformido, convinse le due delegazioni a firmare seduta stante. Ormai le copie del trattato erano pronte e datate da Campoformido 17 ottobre e, così com'erano, rimasero e vennero firmate anche se in realtà il luogo in cui ciò avveniva era Passariano.
Il trattato di Campoformido venne stipulato tra l'imperatore, re d'Ungheria e di Boemia, e la Repubblica francese. Per la Francia firmò Napoleone e per l'imperatore firmarono il de Gallo, Cobenzl, Merweldt, Degelmann. L'Austria cedeva alla Francia il Belgio e consentiva che la Repubblica Cisalpina, riconosciuta come potenza indipendente, incorporasse la Lombardia ex austriaca, il Bergamasco, il Cremasco, il Bresciano ex veneziani, Mantova con il Mantovano, Peschiera, il Modenese, Massa e Carrara, le tre Legazioni di Bologna, Ferrara e della Romagna. L'Austria acquistava in compenso Venezia, il Veneto sino all'Adige e al Po, l'Istria, la Dalmazia, le isole ex veneziane dell'Adriatico, le Bocche di Cattaro. Alla Francia andavano le isole ex veneziane del Levante (le isole Ionie, Cerigo) e le piazzeforti ex veneziane in Albania da Butrinto a Vonizza. L'art. XX del trattato prevedeva che, entro un mese, si sarebbe tenuto a Rastadt un convegno tra plenipotenziari dell'Impero germanico e della Repubblica francese per stipulare la pace tra le due potenze. Una clausola segreta prevedeva che l'Austria avrebbe acconsentito a cedere alla Francia la riva sinistra del Reno da Basilea ad Andernach. Il 16 novembre si aprirà il congresso di Rastadt per definire la sorte di quei territori, ma, dopo due anni di trattative, esso si scioglierà nell'aprile del 1799 con un nulla di fatto.
Come scrive Jacques Godechot, il trattato di Campoformido non soddisfece né il direttorio né il governo austriaco ed esso non sancì che una tregua di diciotto mesi durante i quali, peraltro, l'espansione francese in un modo o in un altro continuerà con l'occupazione della Svizzera, degli Stati Pontifici, del Piemonte, del Regno di Napoli, della Toscana, di Malta, dell'Egitto.
La municipalità veneziana, forte di quella sorta di investitura di reggente della statualità veneta ricevuta dal cessato corpo sovrano patrizio il 12 maggio, si adoperò subito per creare situazioni che favorissero un'unione con quante più municipalità possibile dei territori dell'ex Repubblica, unione da farsi possibilmente attorno a un governo centrale rappresentativo da stabilirsi a Venezia. Il tentativo era quello di creare una dimensione statuale democratica veneta con la quale proporsi a livello internazionale, inserirsi nelle trattative di pace ed eventualmente contrattare prospettive di convergenza in processi di costruzione di un più vasto conglomerato statuale italiano avente nucleo forte in Lombardia, là dove stava per costituirsi la Repubblica Cisalpina (56).
Ai primi inviti diramati dalla municipalità per l'unione (già nel manifesto del 16 maggio si parlava di dipartimento e di "richiamo alla Madre Patria" degli abitanti della Terraferma e di una "amministrazione centrale" con Venezia come capitale), le città e i territori dell'ex stato veneto risposero per lo più con nette resistenze. Solo qualche centro dell'ex Dogado (Pellestrina, Murano, Gambarare...) dette segno di qualche buona disposizione mandando delegati a "fraternizzare". Persino la piccola isola di Burano voleva rimanere autonoma per potersi regolare da sé quanto a pesca in laguna. Il rappresentante diplomatico austriaco a Venezia Carl von Humburg, il quale era rimasto al suo posto, noterà quasi subito nei dispacci al suo governo (per esempio in un dispaccio del 3 giugno) che la posizione della municipalità veneziana era estremamente debole anche perché le grandi città venete di Terraferma non erano disponibili all'unione e ancor meno lo erano le città e i territori istriani e dalmati (57).
L'azione politica della municipalità per promuovere l'unione fu condotta nelle prime settimane con qualche confusione e qualche reticenza circa la parità di cui tutti avrebbero dovuto godere nella ipotizzata nuova entità statuale veneta. Le grosse municipalità della Terraferma (soprattutto Padova, Verona, Vicenza) temevano che Venezia volesse proporsi nuovamente come centro, come città dominante, e non gradirono che la municipalità veneziana avesse proceduto alla stipula del trattato di pace con la Francia quasi in qualità di rappresentante, di erede, della sovranità dell'ex Repubblica Veneta.
Ovviamente, per Venezia i vantaggi politici dell'unione sarebbero stati molteplici, ed importanti sarebbero stati anche i vantaggi pratici immediati, primieramente quello di veder ripartito fra tutti il peso economico del trattato di pace e veder liberati i beni di proprietà dei Veneziani posti sotto sequestro in parecchie zone del Veneto. Per le municipalità della Terraferma, l'unione con quella di Venezia avrebbe rappresentato un elemento di legittimazione stante il fatto che, bene o male, era la municipalità veneziana quella che aveva ereditato la titolarità statuale dell'ex Repubblica (non per niente Napoleone l'aveva ritenuta idonea a firmare il trattato di pace) mentre esse non avevano base che nel fatto bellico dell'occupazione militare francese.
Comunque, l'unione avrebbe rappresentato un vantaggio per tutti in quanto avrebbe dato maggior forza contrattuale alla "Nation Veneta" laddove si fosse creata la possibilità di confluenza in una vagheggiata repubblica democratica italiana, o, molto più concretamente, la possibilità di unione con la Repubblica Cisalpina, e in quanto, all'occorrenza, avrebbe dato più forza per resistere agli eventuali sgraditi destini che gli accordi in discussione tra Francia ed Austria avessero configurato.
Resisi conto della situazione, i Veneziani cercarono in vari modi di dissipare i timori e di chiamare all'unione. Il 22, il 27 e il 30 maggio inviarono alle municipalità della Terraferma dichiarazioni solenni nelle quali si proclamava che Venezia si poneva su un piede di uguaglianza con le altre municipalità, che non aveva pretese di capitale, che chiedeva alle città di inviare anch'esse propri rappresentanti a Milano, che chiedeva a tutti di operare per l'unione in vista di un "governo centrale" rappresentativo di tutti, della elaborazione di una "costituzione puramente democratica", di un'unione con "i popoli liberi d'Italia". In quelle dichiarazioni si segnalavano inoltre gli sforzi in atto per mantenere i legami con l'Istria, la Dalmazia, le isole Ionie. Quanto al trattato di pace ratificato il 26 maggio su invito di Napoleone, si sottolineava che esso avrebbe consentito di toglier di mezzo i governi militari francesi cui erano sottoposte le città della Terraferma ridando ad esse la possibilità di inserirsi in uno stato sovrano veneto democratico, il quale avrebbe potuto confluire poi in una costituenda repubblica italiana. Si chiedeva alle municipalità di Terraferma di abbandonare le prevenzioni, di liberare dai sequestri i beni privati dei Veneziani e i beni "nazionali", cioè, per esempio, i boschi demaniali vincolati al servizio delle costruzioni navali (58).
I rappresentanti di varie municipalità venete erano confluiti a Milano per rappresentare a Napoleone questo o quel problema che le travagliava. Ad essi il bellunese Giuseppe Fantuzzi, aiutante generale dell'esercito cisalpino, prese a prospettare l'opportunità di un'azione comune con l'obiettivo di trovare un'intesa tra tutte le municipalità venete e di sviluppare poscia una pressione per l'accorpamento del Veneto alla Repubblica Cisalpina che stava costituendosi. Se non a un vero e proprio "congresso di Milano", si arrivò, già da prima della metà di giugno, a incontri formali tra i rappresentanti di varie municipalità (Venezia, Padova, Belluno, Verona, Chioggia e anche Ferrara). L'orientamento che si manifestò fu quello che ciascuna municipalità chiedesse l'ammissione alla Cisalpina appoggiando tale richiesta con una raccolta di firme.
Poco dopo la metà di giugno, le notizie dell'occupazione austriaca iniziata in Istria e Dalmazia ruppero la buona armonia che sembrava ricostituita tra i rappresentanti veneziani e quelli veneti (si era parlato addirittura di un "Comitato veneto"). Questi ultimi non se la sentirono di prendere posizione contro tale occupazione e taluni disapprovarono apertamente Venezia per il proclama di protesta nel quale essa pareva proporsi come erede della sovranità dell'ex Repubblica Veneta (59).
Nel frattempo erano trapelate informazioni sui contenuti delle clausole segrete dei preliminari di Leoben.
Rocco Sanfermo, il quale era stato inviato come rappresentante della municipalità a Parigi e doveva passare da Milano per consegnare una lettera a Napoleone, raggiunta la capitale lombarda ed incontrato il generale, interruppe il suo viaggio e tornò precipitosamente a Venezia. Quasi nello stesso tempo anche Francesco Mengotti, rappresentante della municipalità presso il Bonaparte, fece ritorno a Venezia per riferire con urgenza su cose della massima importanza e delicatezza.
In sostanza era successo che Napoleone aveva fatto conoscere all'uno e all'altro che, nelle clausole segrete dei preliminari di Leoben, la Terraferma veneta era stata promessa all'Austria come pure erano state promesse l'Istria e la Dalmazia. Aveva altresì riconosciuto che forse egli - influenzato dalle situazioni del momento a lui sfavorevoli - aveva concesso troppo ed aveva lasciato intendere che, nelle trattative che andavano avanti a Mombello, stava cercando di recuperare rispetto alle eccessive concessioni fatte agli Austriaci. Pertanto, egli aveva detto sia al Mengotti che al Sanfermo che sarebbe stato opportuno che la municipalità nominasse un plenipotenziario che egli avrebbe cercato di far entrare in qualche modo nelle trattative. Al riguardo fece capire che avrebbe gradito la nomina di Francesco Battagia.
La municipalità, riunita più volte in sessione segreta, discusse le questioni venute prepotentemente sul tappeto. Il dilemma più importante che si proponeva era quello se la municipalità avesse dovuto insistere nella prospettiva di un destino per Venezia da ricercarsi nella confluenza in un futuro stato italiano democratico e repubblicano (60), oppure avesse dovuto orientarsi, almeno per il momento, verso una prospettiva di autonoma statualità veneziana, sia pur limitata a Venezia e a pochissimi altri territori. Occorreva decidersi subito, perché la nomina di un plenipotenziario poteva esser letta come un propendere a favore della seconda ipotesi e perché Napoleone aveva fatto capire che insistere troppo per un destino di unione a un futuro stato democratico repubblicano italiano poteva non essere - almeno in quel momento - utile per nessuno.
Vennero sentiti sia il Sanfermo che il Mengotti e la discussione si sviluppò nelle sedute segrete del 28 e 29 giugno(61).
Parlò per primo il Signoretti. Fece il punto su quel che si sapeva circa le trattative in corso tra Napoleone e gli Austriaci a Mombello e caldeggiò l'invio di un plenipotenziario veneziano nella persona del Battagia.
Prese quindi la parola Vincenzo Dandolo il quale dichiarò la propria opposizione: mandare il plenipotenziario, e per di più l'ex aristocratico Battagia, significava dare un segnale di rinuncia alla prospettiva "dell'unione di tutta l'Italia in una sola repubblica", significava dare indicazione che la municipalità veneziana pensava a una prospettiva di autonoma sovranità e rendere ancor più diffidenti le municipalità venete nei confronti di Venezia. Pertanto egli proponeva di rompere gli indugi e di mandare a Napoleone un chiaro segnale che la volontà dei democratici veneziani era quella di "unirsi a tutti i popoli liberi dell'Italia".
Intervenne il Sordina che più o meno si espresse sulla linea del Dandolo. Indi parlò Andrea Spada e il suo discorso prese le mosse da una valutazione della situazione italiana: la rivoluzione era prossima a scoppiare nel Regno di Napoli e a Torino, era probabile anche a Roma, era già scoppiata a Genova; la Repubblica Cisalpina stava per essere proclamata; le municipalità venete apparivano tenute in piedi dai Francesi e solo Venezia aveva un'esistenza politica sua propria. Due, anche per Spada, apparivano gli orientamenti tra i quali scegliere: o mandare un plenipotenziario a Mombello dando una indicazione per la sovranità di Venezia, o pronunciarsi per l'unione. Nel Veneto, continuò Spada, tutti si erano pronunciati per l'unione, ma gli ultimi provvedimenti di Napoleone (costituzione dei governi centrali interprovinciali di cui si dirà più avanti) stavano per liquidare le municipalità e il voto di queste per l'unione si stava mostrando del tutto ininfluente. Conveniva pertanto restare attaccati al trattato di pace firmato con la Francia, conveniva mandare il plenipotenziario come richiesto da Napoleone, conveniva continuare a battersi per un'autonoma sovranità di Venezia. In sostanza lo Spada concordava con le proposte del Signoretti. Più o meno su questa linea si espresse anche il Giustinian. Va detto che lo Spada rimarrà sempre fermo su queste posizioni che rivendicherà ampiamente nelle proprie Memorie stese dopo la fine della municipalità e pubblicate nel 1801 (62).
Dopo una interruzione e dopo accese discussioni procedurali, Rocco Sanfermo si presentò in municipalità a riferire su quel che aveva appreso a Milano da Bonaparte in persona. Il generale, dopo aver ammesso che v'era stata una mezza intesa con gli Austriaci circa l'occupazione dell'Istria e della Dalmazia, vedeva la situazione intricata e in parte pregiudicata, non vedeva di buon occhio un pronunciamento veneziano per l'unione, pensava che occorresse partire dal trattato di pace per salvare quel che era salvabile, riteneva opportuno che Venezia nominasse un plenipotenziario (propendeva per il Battagia) e due ne nominassero le province di Terraferma, fra questi avrebbe visto bene il vescovo di Padova.
Ci fu qualche battuta polemica sulla opportunità della candidatura Battagia, e indi si passò a sentire la relazione del Mengotti il quale informò chiaro e tondo che nei preliminari di Leoben era prevista la cessione all'Austria di tutta la Terraferma veneta tra l'Isonzo e il Mincio ed anche di Mantova, cercò di spiegare il perché di quella cessione, informò che il direttorio l'aveva disapprovata e Napoleone stesso se ne era pentito, ma spiegò anche che la recente invasione austriaca dell'Istria e della Dalmazia era il prodotto delle trattative che stavano conducendosi a Mombello. Senza mezzi termini invitò ad analizzare la condotta recente del Bonaparte. Egli aveva scoraggiato gli sforzi per costruire un dipartimento democratico che riunisse Venezia e tutto il Veneto, aveva dato il via libera alla invasione austriaca dell'Istria e della Dalmazia e poi, per salvare le apparenze, aveva suggerito il manifesto di protesta della municipalità veneziana. Tutto ciò significava ch'egli aveva bisogno di controllare saldamente il Veneto in quanto doveva poterne disporre nelle trattative. Stando così le cose e stante anche l'ostilità delle municipalità venete per una unione con Venezia, Mengotti era dell'opinione che le possibilità veneziane fossero abbastanza anguste e che occorresse operare per confluire nella Cisalpina con il che Venezia sarebbe divenuta, tra l'altro, il porto di importazione ed esportazione per un mercato di sei milioni di persone.
Intervennero ancora lo Spada e il Sordina. Intervenne il Gallino con considerazioni molto realistiche circa le scarse possibilità di manovra di Venezia e quindi a favore dell'invio del Battagia ("Del nostro destino sono padroni i francesi [...] essi hanno disposto di noi [...] essi solamente possono salvarci. Lo stato delle cose fa anche sperar che lo vogliano") e circa la inopportunità, nell'immediato, di un voto per l'unione. Si dichiarò d'accordo con lui il Calegari e così pure il Giustinian. Il Benini invece convenne che si poteva mandare il plenipotenziario, ma non nella persona del Battagia. Il Giuliani si disse favorevole sia all'invio del plenipotenziario (ma non il Battagia), sia al voto per l'unione.
A conclusione della discussione furono proposte tre mozioni. La prima, favorevole all'invio del plenipotenziario a Mombello, ebbe i voti di tutti tranne che del Dandolo. La seconda, intesa alla scelta del plenipotenziario stesso, vide il prevalere del Battagia (ventinove voti) sul Mengotti (venti voti). La terza, che, un po' ambiguamente, impegnava il plenipotenziario a "prestarsi a qualunque unione della Repubblica di Venezia con tutti i suoi diritti politici con qualunque altro popolo libero dell'Italia in una più grande Repubblica democratica una ed indivisibile", ebbe i voti di tutti tranne che del Dandolo il quale continuava a restare sulle sue intransigenti posizioni a favore dell'unione senza alcuna riserva.
Sulla base di quel voto il Sanfermo e il Battagia, partiti per le loro destinazioni, incominceranno ad operare a Parigi e a Milano.
Nelle settimane seguenti, la municipalità (era soprattutto il comitato di salute pubblica a tenere le fila dei rapporti con l'estero) cercò di ristabilire la rete delle rappresentanze diplomatiche veneziane. Ciò sia per ragioni pratiche, sia per dar forza all'immagine di una sorta di continuità della sovranità dello stato veneto. Una circolare di istruzioni venne mandata il 17 giugno ai rappresentanti veneziani a Pietroburgo, Madrid, Vienna, Costantinopoli, Londra, Torino, Napoli (63). Nella sede di Vienna la municipalità riconfermò Gian Pietro Grimani, ma egli dette le dimissioni e venne sostituito da Vettore Gradenigo che era già a Vienna e che non fu mai riconosciuto o preso in considerazione dall'imperial regia corte austriaca (64). Francesco Vendramin accettò di continuare nella sua missione a Costantinopoli, Pietro Busenello proseguì il suo lavoro a Napoli, Pietro Pesaro a Roma, Gaetano Gervasone a Genova, Giuseppe Giacomazzi a Londra, Alvise Querini a Torino. Bartolomeo Gradenigo a Madrid non dette notizie.
Gran parte delle discussioni di politica estera (se così si può dire) che impegnarono la municipalità (quasi sempre in collaborazione con il comitato di salute pubblica) nei mesi di luglio, agosto, settembre, ottobre, sino alla fine, verteranno sui temi posti sul tappeto in giugno: il problema dell'unione, o comunque dei rapporti, con le municipalità della Terraferma e con la Cisalpina; il problema, disperato, di un recupero di Istria, Dalmazia e isole Ionie; il problema delle manovre da tentare - sia pure nei ristrettissimi spazi esistenti - per far sì che le trattative tra Austria e Francia non travolgessero le appena nate municipalità democratiche venete così come avevano appena travolto la millenaria Repubblica.
Grandi sforzi vennero fatti anche per arrivare ad accordi di pace con il cantone barbaresco d'Algeria. Negli ultimi mesi di vita della Repubblica, era infatti successo che gli Algerini avessero ripreso la guerra di corsa contro le navi veneziane in quanto il governo non aveva accettato di elevare a 100.000 ducati il tributo da pagarsi perché i legni veneziani non venissero molestati, né di sborsare 137.000 zecchini per il riscatto di centocinque cittadini predati su tre mercantili e fatti schiavi.
Per la municipalità la guerra di corsa degli Algerini che ormai spadroneggiavano fin in Adriatico era gravemente pregiudizievole in quanto aggiungeva un altro impedimento alla ripresa del commercio e non consentiva di far navigare le navi che erano ferme in vari porti mediterranei (molte a Costantinopoli).
Per tutta l'estate la municipalità si adoperò in vari modi per arrivare a una composizione del conflitto. Cercò di far intervenire la Francia dato che in una delle clausole del trattato di pace del 16 maggio c'era un impegno di Napoleone in tal senso e, a questo scopo, Rocco Sanfermo chiese più volte che il direttorio investisse ufficialmente di una azione mediatrice il console francese ad Algeri Jean Bon Saint-André. Consentì al rappresentante veneziano a Costantinopoli Francesco Vendramin di brigare con i Turchi per ottenere il loro appoggio nella questione. Autorizzò maneggi del mercante ebreo Basnab il quale risiedeva ad Algeri ed era in buoni rapporti con le autorità locali ed aveva affari in comune con la casa commerciale Treves di Venezia (il console veneziano Pietro Medun era tornato in patria e gli era stato tolto l'incarico). La fine della municipalità sopraggiunse prima che si arrivasse ad alcunché di concreto. A Venezia era comunque arrivata la notizia che l'ambasciatore francese a Costantinopoli stava trattando lo scambio dei sudditi veneziani catturati dalle navi di Algeri con i corsari di quella nazionalità che la flotta francese aveva fatto prigionieri in estate nel basso Adriatico.
Una questione minore, ma in qualche modo correlata con quelle principali di cui si è detto sopra, e sulla quale ci si impegnò subito fu quella della delimitazione del territorio rispetto al quale doveva aver valenza il potere amministrativo della municipalità di Venezia. Ci fu una trattativa con il generale Baraguey d'Hilliers e il Lallement e ci furono istruzioni per il Battagia e abboccamenti di questi con Napoleone. I Francesi proponevano pressappoco il territorio di quello che era stato il Dogado (cioè la striscia lagunare altoadriatica tra Grado e Cavarzere che aveva visto gli sviluppi dei primi secoli dello stato veneziano). Escludevano però Adria che volevano unita al Polesine nel dipartimento di Padova e aggiungevano Mestre scorporata dal Trevigiano e Oriago scorporato dal Padovano. La municipalità veneziana insistette per conservare Adria. Lo fece per tutto luglio e agosto attivando il Battagia presso Napoleone, promuovendo incontri con il generale Baraguey d'Hilliers e con i deputati delle località del Dogado, inviando note al Lallement, allestendo memoriali storici sulla questione. Napoleone tergiversò, dette a intendere che avrebbe interessato lo Haller, ma questi, già verso la fine di luglio, disilluse il Battagia. La municipalità cercò di creare dei fatti compiuti e il 30 luglio indirizzò alle municipalità di Chioggia, Pellestrina, Loreo, Cavarzere, Caorle, Grado, Malamocco, Torcello, Burano, Mazzorbo, Murano e anche Adria un documento con il quale si prospettava la concretizzazione in tempi brevissimi e su un piano di parità di una struttura dipartimentale provvisoria comprendente Venezia e i territori dell'ex Dogado (65). Poi il comitato di salute pubblica tentò di trattare direttamente con lo Hallcr non solo per avere Adria, ma anche Latisana e Marano necessari alle dirette comunicazioni tra Caorle e Grado. In una lettera del 9 agosto, dopo un abboccamento con Bonaparte, il Battagia fece chiaramente sapere al comitato di salute pubblica che per Adria non c'era più niente da fare.
Un fatto nuovo di una certa importanza si produsse in giugno-luglio. Su iniziativa dei Francesi (decreto del 16 giugno), venne avviata la costituzione dei così detti "governi centrali" che raggrupparono più province sotto una giurisdizione amministrativa di tipo dipartimentale. Furono sette i raggruppamenti territoriali realizzati tra giugno e luglio: Vicenza e Bassano; Treviso, Conegliano, Ceneda; Belluno, Feltre, Cadore; Padova, Rovigo, Adria; Verona, Cologna, Legnago; Udine e territorio; Brescia e territorio. Le municipalità delle varie località (comuni o cantoni) passarono alle dipendenze dei governi centrali i quali erano composti di ventitré membri indicati dai Francesi. Era chiaro che Napoleone cercava di assicurarsi un ancor più stretto controllo della Terraferma in vista del destino che le trattative in corso con gli Austriaci avrebbero ad essa riservato.
La municipalità veneziana, sulle prime, non colse il significato profondo dell'iniziativa francese. Il comitato di salute pubblica, scrivendo il 24 giugno al Mengotti a Milano e il 30 al generale Baraguey d'Hilliers, mostrava di non essere preoccupato della costituzione dei governi centrali quanto del fatto che, poiché Venezia e il Dogado non erano stati contemplati in quel riorganizzo amministrativo, ciò poteva dar forza alle rivendicazioni di autonomia da Venezia manifestate da quasi tutte le località del Dogado stesso (sia quelle che avevano fraternizzato e sia quelle, come Chioggia, che non avevano fatto neppure quell'atto formale) (66). D'altra parte, mantenere il controllo almeno del Dogado era per Venezia questione vitale oltreché dal punto di vista politico, anche dal punto di vista di un minimo di sopravvivenza economica (67). La questione era importantissima e nelle istruzioni date dalla municipalità e dal comitato di salute pubblica il 30 giugno e il 1° luglio al Battagia al momento della sua partenza per Milano figurava al primo posto quella di chiedere a Napoleone che "tutto il Dogado, compresa Chiozza," fosse "dichiarato dipartimento particolare di Venezia" e dipendesse "dall'amministrazione centrale e dal Governo provvisorio di Venezia" (68).
Pur con la situazione che andava chiaramente deteriorandosi, sfumata, come si è visto, l'ipotesi di un congresso a Milano, le municipalità venete (l'iniziativa fu soprattutto di Padova, Vicenza, Verona) ripiegarono su un congresso da tenersi a Bassano. Ottenuto con difficoltà il permesso da Napoleone, a cominciare dal 25 luglio (ma la data non è del tutto sicura), i delegati di Belluno, Vicenza, Padova e Verona incominciarono le loro riunioni. I delegati di Treviso si presentarono più tardi. Bergamo e Brescia restarono fuori. La partecipazione di Udine fu impedita dai Francesi. Venezia non fu invitata.
Non ci sono rimasti molti dettagli sui lavori del congresso. I delegati rappresentavano poco più di se stessi e dei colleghi dei governi centrali e delle municipalità, inquantoché il consenso delle popolazioni all'avventura municipalista rimaneva assai scarso. Il risultato più vistoso del congresso fu una manifestazione di volontà per l'unione alla Cisalpina e la decisione di inviare una delegazione al direttorio a Parigi e furono scelti Pietro Polfranceschi di Verona e, in qualità di segretario, Pietro Stecchini di Bassano. Terminato il momento più propriamente congressuale a Bassano, una qualche strutturazione politica partorita da esso ("congresso centrale permanente") rimase in attività a Vicenza come referente del Polfranceschi e dello Stecchini in missione a Milano e poi a Parigi. Francesco Battagia da Milano e Rocco Sanfermo da Parigi daranno ripetute notizie dei loro contatti con i due delegati del congresso di Bassano sino ai primi di ottobre, alla vigilia di Campoformido. I rapporti tra i due delegati e i rappresentanti veneziani saranno in qualche momento abbastanza cordiali, ma la diffidenza di fondo non verrà mai dissipata (69).
I temi dei rapporti con le municipalità venete e dell'unione alla Cisalpina rimarranno presenti sino alla firma del trattato di Campoformido nei dispacci del Battagia in missione presso Napoleone a Milano e poi a Passariano e nei dispacci del Sanfermo in missione a Parigi presso il direttorio. Dispacci quasi giornalieri. Ovviamente gli stessi temi furono in primo piano anche nelle risposte ed istruzioni della municipalità e del comitato di salute pubblica spedite ai due inviati.
Sui temi dell'unione, sia delle municipalità venete tra loro, sia di queste con la Cisalpina, il Battagia tentò ripetutamente di conoscere il pensiero di Napoleone, ma con scarsi risultati. Quest'ultimo restò sempre sulle generali e nell'ambiguità: era chiaro che egli intendeva tenersi le mani libere sino a quando non si fossero risolte le trattative con l'Austria. A fine luglio, incaricato dalla municipalità, Battagia presentò a Napoleone il registro con le firme dei Veneziani a favore dell'unione (molte) e il generale gli fece notare che le firme andavano presentate al direttorio della Cisalpina, cosa che egli fece, tentando altresì di ottenere l'appoggio dei responsabili politici di quella Repubblica, in particolare del ministro Carlo Testi, i quali tuttavia non poterono andare più in là di espressioni di simpatia (70) e ciò anche dopo che, il 22 di agosto, egli ebbe presentato le credenziali di ministro plenipotenziario della "Nation Veneta" alla Cisalpina stessa.
L'azione del rappresentante veneziano continuò molto alacre, ma le condizioni oggettive in cui si muoveva lasciavano poco spazio al raggiungimento degli obiettivi che i Veneziani si proponevano. In agosto ci furono incontri con i rappresentanti che le maggiori città venete tenevano a Milano. Pur se improntati a una certa cordialità interpersonale, tali incontri non approdarono alla costruzione di intese politiche unitarie.
Il 22 agosto Napoleone partì per Udine dove, già da luglio, si erano spostati i negoziati di pace. Battagia lo seguì sperando che fosse venuta la volta buona per essere accreditato al tavolo delle trattative. Il 30 si installò a Passariano. La delegazione francese stava a Passariano e quella austriaca a Codroipo e Udine. La conferenza si riuniva a sedute alternate presso l'un quartier generale e presso l'altro. Da Venezia era arrivato anche Vincenzo Dandolo. Napoleone sembrava a Battagia più riservato e misterioso del solito. Forse la partita si era fatta difficile, forse gli Austriaci stavano presentando richieste esorbitanti. Le informazioni che filtravano erano minime ed egli cercava di indovinare qualcosa scrutando, quando le circostanze glielo permettevano, gli umori, le espressioni, i volti dei protagonisti.
In un dispaccio del 9 settembre al comitato di salute pubblica egli rilanciava una notizia che finalmente poteva indicare che qualcosa si muoveva (71). Napoleone gli aveva comunicato che intendeva promuovere a Venezia entro brevissima scadenza un "congresso" di rappresentanti delle principali amministrazioni democratiche venete, il quale congresso avrebbe dovuto discutere le gravi problematiche economiche di interesse comune. Un congresso tra Verona, Vicenza, Padova, Treviso, forse Udine e Venezia, con la partecipazione dello Haller. Il Battagia, nel dispaccio, consigliava di chiedere l'allargamento dei temi del congresso alle questioni politiche. Egli era contento perché Napoleone gli aveva promesso che a giorni forse sarebbe riuscito a farlo intervenire al tavolo delle trattative di pace e gli aveva detto di prepararsi perciò a "sostenere il suo personaggio".
Nella seconda decina di settembre i dispacci di Battagia lamentarono che le trattative erano ferme e che corrieri erano stati inviati al direttorio a Parigi, presumibilmente per conoscerne gli orientamenti dopo il ribaltone che si era verificato nell'area del potere francese ai primi del mese. Battagia osservava che Napoleone mostrava di prepararsi alla eventualità di una rottura delle trattative e quindi alla guerra. Anche gli Austriaci avevano mandato a chiedere istruzioni a Vienna. Delegati delle città venete nonché Pietro Stecchini - il segretario del Polfranceschi del congresso di Bassano - si erano portati a Passariano. A fine settembre-primi di ottobre Battagia informò che era arrivato il Cobenzl, che il Clarke era stato richiamato e che Napoleone, per la parte francese, proseguiva da solo le trattative le quali erano riprese a ritmo serrato. Forse era arrivato il momento decisivo. O si andava all'accordo, o si andava alla guerra.
Mentre il Battagia non lasciava un attimo Napoleone, lungo i mesi di agosto e settembre anche Rocco Sanfermo a Parigi si adoperava alacremente più o meno perseguendo analoghi obiettivi. Anche lui dava conto quasi giornaliero del suo lavoro alla municipalità e al comitato di salute pubblica.
Egli si adoperò per far conoscere al direttorio le aspirazioni di Venezia per l'unione dello stato veneto, comprese l'Istria e la Dalmazia. Costantemente cercò appoggi per la causa veneziana presso i rappresentanti che i territori democratizzati italiani tenevano a Parigi. Non tralasciò di premere, ma inutilmente, perché si verificasse la ratifica francese del trattato di pace e perché il governo francese accettasse il suo accreditamento ufficiale come rappresentante diplomatico del "governo provvisorio" democratico installato a Venezia. A fine luglio egli venne incontro alla richiesta del nuovo ministro degli esteri François Barthélemy e gli fornì una cronistoria degli avvenimenti nel Veneto dalla defezione di Bergamo nel marzo 1797 in poi. Costantemente si batté perché l'Istria e la Dalmazia non venissero lasciate all'Austria. In proposito sperava in un intervento di protesta dell'Impero ottomano (che, sia pure poco efficace, ci sarà). Da avvertito diplomatico previde con buon anticipo il ribaltone politico del 4 settembre a Parigi. Un po' ingenuo ci appare quando, talora, specie dopo il ribaltone, descrive un direttorio deciso a sostenere sino in fondo, sino alla guerra con l'Austria, la causa italiano-veneta. La rottura delle trattative di pace anglo-francesi a Lilla in settembre gli parve un segno della fermezza francese e quindi una evenienza di buon auspicio per gli interessi dell'Italia democratizzata. Cercò buoni rapporti con il Polfranceschi e lo Stecchini che il congresso di Bassano aveva inviato a Parigi per chiedere l'unione alla Cisalpina. In loro avvertì il persistere di ostilità preconcette nei confronti della municipalità veneziana accusata di aver ratificato, da sola, il trattato di pace. In qualche momento, gli parve di esser riuscito a convincerli circa l'opportunità di sostenere, assieme a Venezia e sia pure in una prospettiva di unione con la Cisalpina, immagini di una statualità veneta democratica erede della ex Repubblica e comprensiva dell'Istria e della Dalmazia.
Sempre in settembre, nel mentre che s'impegnava in un'opera di promozione della causa veneta presso politici e giornali parigini, il Sanfermo consigliò ripetutamente alla municipalità di cercare un accordo con la Terraferma, di spiegarsi con quelli del congresso di Bassano, di mandare due rappresentanti al comitato veneto che dal congresso stesso era derivato. Era importante presentare al nuovo direttorio francese un fronte unito. Magari si poteva studiare la nomina di una sorta di super rappresentante politico di tutti i Veneti per il quale proponeva la titolatura di "ministro plenipotenziario della convenzione nazionale degli stati della ci-devant Repubblica di Venezia". Nella seconda metà di settembre gli riuscì di convincere il Polfranceschi ad inserire, nella nota allegata alle credenziali che questi presentava al ministro degli esteri francese, immagini di unione dei territori veneti, nonché, con essi, dell'Istria e della Dalmazia. La replica del ministro era stata che l'unione di tutti in una sola repubblica stava bene anche alla Francia, ma che la questione era nelle mani di Napoleone.
La municipalità veneziana - pur se costretta ad occuparsi principalmente dei gravi problemi concreti legati alla precaria situazione economica - cercò di muoversi in sostegno dell'azione dispiegata dal Battagia e dal Sanfermo. Tramontate, già in maggio, le possibilità concrete di costituire un "governo centrale" con i rappresentanti dei territori dell'ex Repubblica (72), tramontate o quasi le speranze di salvaguardare una piena autonomia veneziano-veneta quale erede della statualità dell'ex Repubblica (73), si era abbracciata ben presto la causa di una confluenza dei territori dell'ex stato veneto (possibilmente anche Istria e Dalmazia) in una repubblica democratica italiana. La quale repubblica, per il momento e in concreto, non poteva che essere la Cisalpina.
La municipalità in luglio si adoperò per raccogliere le firme dei cittadini veneziani per l'unione. Ne furono raccolte moltissime e vennero spedite a Milano. In agosto, nella corrispondenza con il Battagia, la municipalità mostrava di non essere troppo stupita per il mancato invito al congresso di Bassano e neanche troppo dispiaciuta. Anche se chiaramente isolata, essa, un po' orgogliosamente, riteneva di essere la sola a continuare nel sostegno dell'"interesse nazionale", dell'interesse di tutti.
Le questioni che campeggiavano nei dispacci della municipalità e del comitato di salute pubblica erano comunque quelle legate ai gravi problemi economici determinati dal distacco della Terraferma, dell'Istria, della Dalmazia, dalla paralisi dei trasporti e commerci marittimi, dagli esborsi dovuti ai Francesi per il trattato di pace e che ricadevano sulle spalle della sola Venezia, dai sequestri di beni di Veneziani in Terraferma e, in ogni caso, dalla mancata percezione delle tasse su quegli immobili in quanto la riscossione delle medesime era stata avocata dalle municipalità locali. La situazione era tale per cui la municipalità, più che istruzioni ai suoi rappresentanti, mandava raccomandazioni ed invocazioni perché si adoperassero al massimo presso Napoleone e presso il direttorio onde la drammatica situazione fosse conosciuta e si cercassero soluzioni politiche atte a salvare l'autonomia e la libertà della "Nation Veneta", a ricostituire l'unione dei territori, a garantire un destino democratico o nel seno della Cisalpina o in altro modo (74).
Nei dispacci di agosto, settembre e ottobre intravvediamo una municipalità e un comitato di salute pubblica oscillanti. Si teme che Venezia e il Veneto diventino un "compenso" da mercanteggiare al tavolo delle trattative austro-francesi. Spesso si mostra di sperare nella guerra; talora la si invoca immediata per buttar fuori gli Austriaci dall'Istria e dalla Dalmazia; si promette la formazione di una legione armata veneziana. Ci si rende conto dell'isolamento politico, lo si depreca, e talora si cerca ingenuamente rifugio in un retorico affidarsi a Napoleone. Si denuncia il senso di impotenza che si sta avvertendo sempre più ineludibile ("non possiamo comandare alle circostanze").
Quando, ai primi di settembre, su indicazione di Napoleone, si profilò la possibilità di un congresso dei rappresentanti delle principali amministrazioni democratiche venete da tenersi a Venezia per discutere dei problemi economici comuni, la municipalità fece sapere a Battagia che essa già aveva formulato un "progetto di congresso nazionale delle cinque province venete" il quale avesse a prendere "la rappresentanza, l'autorità, la forza della Repubblica Veneta"(75).
Sia il Dandolo che il Battagia raffreddarono su questo punto la municipalità giudicando impraticabile il piano progettato fino a che non fossero arrivate a sbocco le trattative austro-francesi in corso, pertanto lo sconsigliarono perentoriamente e, accondiscendente la municipalità, non gli dettero destinazione. Quando, nella prima metà di settembre, Sanfermo consigliò la municipalità di cercare di entrare nel comitato di Bassano e di esprimere, assieme ai rappresentanti dei cinque governi centrali veneti, uno o due rappresentanti per tutti, essa si mostrò dubbiosa e restia ad accogliere tale suggerimento. In un dispaccio del 28 settembre inviato allo stesso Sanfermo, il comitato di salute pubblica tracciò un consuntivo duro dei rapporti con la Terraferma, o meglio con i suoi "rappresentanti". Gli esponenti dei governi centrali erano creature dei Francesi e, per lo più, erano invisi alle popolazioni. Ad essi, ai loro personalismi e gelosie, si dovevano far risalire le ingiustificate diffidenze nei confronti di Venezia. Essi erano i responsabili del non invito a Bassano dei democratici veneziani. Essi erano i nemici dell'unione onde garantirsi di primeggiare localmente. Essi erano molto poco decisi a battersi contro l'eventualità che le trattative di pace portassero il Veneto all'Austria (76).
Dandolo arrivò a Passariano il 28 di agosto. Egli affiancava il rappresentante ufficiale Battagia, il quale - così si continuava a sperare - a un bel momento sarebbe stato ammesso a rappresentare Venezia al tavolo delle trattative.
L'influente municipalista veneziano si attivò intensamente illudendosi di godere di un rapporto privilegiato, anche sul piano personale, col Bonaparte. Su piccole questioni economico-amministrative che la municipalità lo aveva incaricato di trattare con il generale in capo, egli ebbe qualche soddisfazione. Quando invece si mise a fornire a Napoleone interpretazioni della situazione politica generale, nonché consigli e suggerimenti su come condurre le trattative, su come dar esito positivo alle esigenze venete di autonomia e libertà, egli trovò un interlocutore disposto a sopportare il suo disquisire, ma niente di più.
Nel concreto sostanziale, Napoleone continuò a portare avanti con gli Austriaci la sua linea di trattativa che non metteva in alcun conto gli interessi veneti per se stessi, ma, al massimo, all'occasione poteva agitarli come un tema di pressione in più sui negoziatori austriaci. Una linea, oltre a tutto, che non era neanche troppo preoccupata dell'eccessivo vantaggio che si sarebbe regalato all'Austria con l'accordarle il controllo sull'Adriatico.
Nei dispacci del settembre il Dandolo si mostrò prigioniero di illusioni e della retorica democratica, incapace di una lucida lettura politica delle situazioni. Anche lui finì per invocare la guerra come soluzione delle impasses in cui si trovava il Veneto. Appena Napoleone incominciò a dare slancio al progetto del congresso da tenersi a Venezia tra i responsabili dei governi centrali e delle municipalità venete per trattare i temi economici di interesse comune, Dandolo, d'accordo con Battagia, giustamente cercò di premere perché le trattative fossero allargate ai temi politici. Tuttavia, sia Dandolo che Battagia, giudicandola del tutto impraticabile, non si spinsero ad approvare la proposta (quasi una controproposta) della municipalità per un congresso dei Veneti il quale, pur lasciando impregiudicata la prospettiva di unione con la Cisalpina, avesse intanto a primario ed immediato obiettivo la costituzione di una sorta di neorepubblica veneta.
Verso il 20 di settembre, nel mezzo di una pausa delle trattative, Dandolo tornò a Venezia, ma il 23 già era di nuovo a Passariano. I suoi dispacci, per lo più inviati al comitato di salute pubblica, ci appaiono via via più confusi. Egli disegnava piani tra loro alternativi per tentare di sottrarre Venezia alla sacrificazione cui avrebbero potuto portare gli esiti delle trattative franco-austriache. A tratti, anche lui pareva convertito all'ipotesi di una iniziativa veneziano-veneta che forzasse la situazione con la proclamazione di una sorta di governo sovrano rappresentativo dello stato veneto "uno e indivisibile". A sospingerlo in quella direzione erano forse anche gli illusori incoraggiamenti di Napoleone che, ai primi di ottobre, si stava servendo, nelle trattative con gli Austriaci, anche della minaccia di favorire l'unione dei Veneti e la creazione di un loro governo autonomo e unitario. Indubbiamente l'altalena dialettico-politica delle trattative metteva in terreni vaghi il pensare e il progettare di tutti.
Il 2 ottobre Dandolo assicurò la municipalità che l'"Assemblea nazionale" dei "rappresentanti dell'ex veneta regione" sarebbe stata convocata a Venezia per il 10 con l'incarico d'indire, d'intesa con il generale Berthier, le elezioni. La municipalità rilanciò auspicando la partecipazione anche dei rappresentanti dei territori "da mar", cioè dell'Istria e Dalmazia. Il 6 Dandolo informò che i corrieri erano partiti per Padova, Vicenza, Verona, Treviso, Udine, per recare ai governi provinciali centrali l'invito di Napoleone di nominare due rappresentanti ciascuno e spedirli a Venezia al congresso nazionale veneto.
Da Parigi, intanto, il Sanfermo criticava il progetto Napoleone-Dandolo-Battagia di costruzione di un governo di unione veneta (quasi una "separata repubblica") in quanto, secondo lui e il Polfranceschi (e, forse, secondo gli ambienti politici parigini), la strada percorribile, la strada maestra per cercare di mantenere la libertà dall'Austria, era quella dell'unione con la Cisalpina e di un trattato di alleanza difensiva ed offensiva con la Francia. Il Dandolo e il Battagia, venuti a conoscenza di questa divergenza dell'ipotesi Sanfermo rispetto alla loro, la criticarono sostenendo che Parigi si era rimessa completamente alle decisioni di Napoleone e che quindi bisognava muoversi in completo accordo con lui.
Il 10 ottobre Dandolo si trovò a dover pregare la municipalità veneziana di intrattenere in qualche modo i delegati veneti al congresso giunti a Venezia. Berthier, egli assicurava, sarebbe arrivato presto. Occorreva aver pazienza alcuni giorni. Il 13 egli era costretto ad ammettere che Napoleone era diventato improvvisamente tiepido a proposito del congresso di Venezia.
Comunque nella città lagunare si andava avanti ugualmente. Il 14 ottobre il comitato di salute pubblica comunicava al Sanfermo che, in quel giorno, il "congresso nazionale veneto", con rappresentanti di Venezia, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Friuli, aveva preso avvio. Dandolo (ritornato quel giorno da Passariano) e Benini erano i due deputati che rappresentavano Venezia. Di conseguenza all'avvio del congresso il Sanfermo veniva richiamato da Parigi per "cessato oggetto" della sua missione ed anche Battagia, sempre con la stessa motivazione, veniva invitato a prender congedo da Napoleone, ma questi non volle saperne di accordarglielo.
Va messo a questo punto nel conto un evento che per qualche giorno venne a turbare vivacemente la situazione interna veneziana, e cioè la rivelazione di una congiura intesa alla destabilizzazione degli assetti democratici.
Il 12 ottobre il comitato di salute pubblica faceva conoscere a una emozionata assemblea municipalista riunita in seduta segreta che mentre Napoleone forse si apprestava a rompere le trattative di Passariano e a riaccendere la guerra (parte del presidio francese si era già incamminato verso i confini dell'Austria, il battaglione di linea formato a Venezia era anch'esso partito, la squadra navale francese era salpata), a Venezia era venuto alla luce un complotto "ordito da uno scellerato" per preparare una controrivoluzione ed offrire Venezia all'Austria.
Lo scellerato era un tale che si chiamava Giovanni Pietro Cercato (77) e si spacciava per cavaliere di Santa Francesca nonché per generale di fanteria dell'imperatore d'Austria, ed era stato avvocato criminale all'epoca della Repubblica ed anche, a suo tempo, era stato incarcerato nei Piombi per certe attività di illeciti arruolamenti di truppe. Da qualche tempo il Cercato, vantando contatti con gli Imperiali, si era procurato complici, mezzi finanziari, simpatizzanti in città, in Terraferma, in Dalmazia, attirati con promesse di ricompense austriache, onori, carriere (l'ex nobile Codognola, gli orefici fratelli Moro, un tale Tiboni, gli ufficiali Miovilovich, Sudarovich e Medin). Persino alcuni municipalisti erano stati da lui avvicinati e forse coinvolti. Il comitato di salute pubblica era stato informato della cosa già da tempo (in settembre Andrea Spada ne aveva scritto da Padova al Giuliani), ma non si era lasciato trapelare nulla al fine di sventar meglio la trama. Il giorno prima ci si era però decisi ad intervenire. Cercato era stato arrestato e lo si stava interrogando, le perquisizioni in casa sua avevano portato alla scoperta di materiali compromettenti. Si erano avvertiti i Francesi. Essi stavano agendo. Perché il comitato aveva informato primi fra tutti i Francesi? Perché poteva essere che in municipalità ci fosse un gruppo in combutta con l'eversore.
I Francesi avevano agito senza indugi. Da pochi giorni il generale Baraguey d'Hilliers era stato sostituito dal generale Balland come comandante della piazza. Quest'ultimo, che era quegli che a Verona aveva affrontato in aprile gli insorti delle "Pasque Veronesi", aveva decretato misure eccezionali. Era stato proclamato lo stato di assedio, erano stati bloccati i porti lagunari, presidiati con cannoni a mitraglia i ponti centrali, sospesi gli spettacoli, creato un corpo di pronto intervento coordinato da Villetard, erano state prese altre misure ancora. Una staffetta era stata inviata immediatamente a Passariano per informare Napoleone.
Il generale Balland chiese alla municipalità di fornire cinquanta ostaggi da concentrare nell'isola di San Giorgio Maggiore. Cinquanta ostaggi di cui egli fornì la lista: nove municipalisti, trentacinque ex patrizi, cinque parroci, quattro militari, altri nove cittadini. La municipalità si piegò alla richiesta. Cinque capi battaglione della Guardia nazionale furono retrocessi a guardie semplici.
Il comitato di salute pubblica, per parte sua, già il 12 aveva ottenuto che due municipalisti che sembravano implicati nel complotto, Giovanni Jovovitz ed Andrea Spada, fossero posti in stato di fermo. L'organo che venne investito del processo fu il tribunale criminale straordinario d'alta giustizia la cui organizzazione, dopo lungo lavoro, era stata completata a fine settembre. Il comitato di salute pubblica insistette nell'indagare, nell'arrestare e nello spedire al tribunale. I Francesi svolgevano una loro inchiesta parallela.
L'affare Cercato nel giro di pochi giorni si sgonfiò. Già il 14 i Francesi facevano marcia indietro: gli Imperiali non erano coinvolti, la trama eversiva sarebbe stata impraticabile, Cercato non era probabilmente che un millantatore, un truffatore. Il 15 gli ostaggi vennero restituiti alla libertà e i capi battaglione della Guardia nazionale restituiti ai loro posti di comando. Napoleone era apparso seccatissimo delle notizie provenienti da Venezia, dell'allarme ingiustificato cui ci si era abbandonati. Balland ci rimise il posto, sostituito il 17 dal generale Philibert Sérurier al quale gli ostaggi liberati offrirono un pranzo all'isola di San Giorgio.
Difficile dire cosa era realmente successo. Certo il generale Balland non aveva colto la limitatissima pericolosità della situazione ed aveva esagerato nell'allarme e nelle misure repressive. Inoltre, con ogni probabilità, le trame del millantatore Cercato erano tornate comode al gruppo dei municipalisti più radicali (Giuliani, Benini, Sordina, Zorzi, Dandolo...) per alimentare un clima da "patria in pericolo" in un momento in cui la situazione interna vedeva l'accentuarsi della carenza di consenso nei confronti della municipalità, in un momento in cui essi, utilizzando il comitato di salute pubblica che controllavano e l'appoggio di una parte della società di istruzione, cercavano di arrivare a una resa dei conti con il gruppo cospicuo dei municipalisti moderati, cercavano di mettere in discussione il "compromesso" del 12 maggio che aveva consentito il pacifico trapasso dal vecchio al nuovo regime, un "compromesso" che - a loro giudizio aveva impedito l'attuazione a Venezia di una vera rivoluzione, l'imporsi al potere di forze politiche e sociali veramente nuove, veramente "giacobine". Ancora una volta, Giuliani e i suoi compagni non avevano capito niente. Non avevano capito che così come la municipalità non aveva alcuna possibilità di imbastire autonomamente un proprio destino politico, allo stesso modo neppure esistevano margini per una dialettica politica all'interno della municipalità stessa. Al più era consentita qualche recita.
L'unica partita reale alla quale la "congiura" Cercato poteva portare turbativa era quella che stava per concludersi a Passariano. Non per nulla Napoleone, appena informato del pasticcio veneziano, s'infuriò al massimo grado, silurò il suo generale Balland e, in uno scatto d'ira, urlò che i responsabili della montatura sarebbero stati da fucilare. In novembre coloro che Cercato aveva coinvolto nella sua truffa e che erano stati arrestati vennero rilasciati alla spicciolata. Del resto anche il tribunale di alta giustizia cessava di esistere. Solo Cercato rimase in prigione ad aspettare il giudizio di un tribunale austriaco che nell'estate del 1798 lo perseguirà come truffatore reo, per di più, di aver tirato in ballo l'Austria e l'imperatore stesso.
Il congresso nazionale veneto tra i suoi primi atti chiese l'accreditamento di due suoi rappresentanti (Dandolo e Benvenuti) presso Napoleone. Si era al 14 di ottobre e il 18 Dandolo, da Passariano, inviava alla municipalità la notizia che la sera prima la pace era stata firmata dai plenipotenziari austriaci e da Napoleone. Berthier era già partito per Parigi. Demagogico, illuso e sprovvveduto sino all'ultimo, scriveva: "le condizioni non saranno dure in confronto de' beni che da essa [la pace] scaturiranno". Non conteneva invece commenti il dispaccio con cui, nello stesso giorno, il Battagia spediva a Venezia la stessa capitale notizia.
Nei giorni seguenti né Dandolo, né Battagia riuscirono a parlare con Napoleone che fece in modo di evitarli. Le voci che essi raccoglievano erano sempre più allarmanti: chi dava per ceduto il Friuli, chi ci aggiungeva anche la Dalmazia. Il 23 Battagia poté avere un colloquio con Napoleone senza riuscire a sapere o capire a quali condizioni si era raggiunto l'accordo di pace. In compenso Napoleone non ebbe stavolta difficoltà ad accettare il suo congedo.
Intanto, a Parigi, il Sanfermo, ancora il 25 ottobre, era ignaro di tutto. Il 28, in due distinti dispacci, la municipalità e il comitato di salute pubblica gli facevano sapere di aver avuto notizie drammatiche anche se imprecise sulla sorte riservata dal trattato di Campoformido ai Veneti e lo invitavano pertanto a rimanere al suo posto a Parigi e ad agire in nome della municipalità nella speranza che i consigli e il direttorio parigini negassero la ratifica. Gli si faceva anche sapere che la municipalità aveva convocato le assemblee primarie nelle parrocchie e che una deputazione sarebbe stata mandata a Parigi. Nel giro di pochi giorni si era infatti riusciti a varare un referendum tra la popolazione (la proposta era stata del Giuliani) e il 28 ottobre, sia pure in modo abbastanza caotico, si era votato nelle parrocchie. La scelta proposta era tra l'acquiescenza al destino che si preparava, oppure il sostegno attivo da accordarsi alla libertà e all'indipendenza. Il risultato era stato a favore della libertà con un margine di quasi duemila voti su una massa di ventitremila votanti.
Il 29, il "governo provvisorio di Venezia" indirizzava un dispaccio al direttorio in cui disperatamente si invocava un intervento della Repubblica francese per "salvare l'esistenza politica e la libertà" di Venezia e in cui si informava dell'invio di deputati a Parigi (partiranno Dandolo, sostituito da Mengotti al congresso, Sordina, Carminati, Giuliani)(78).
In quello stesso giorno la municipalità inviava un messaggio al congresso nazionale veneto. In esso si dava conto di quanto avverse ai Veneti fossero le clausole del trattato di Campoformido, si esprimeva la speranza che il direttorio e i consigli legislativi francesi non avessero a ratificarlo, si ricordava che la popolazione di Venezia e del suo distretto aveva pochi giorni prima liberamente votato e a maggioranza si era espressa per la libertà, si invitavano tutti i Veneti all'unione contro la prospettiva di perdita dell'autonomia e della libertà e a favore dell'integrazione nella Cisalpina (79).
Il 31 ottobre la municipalità decise un estremo intervento presso Napoleone per conoscere in termini autentici a quale punto fosse la situazione e spedì presso di lui i municipalisti Spada e Pisani.
Il 2 novembre, a Milano, Dandolo e Giuliani, mentre erano in cammino per Parigi con Sordina e Carminati (80), poterono incontrare Napoleone il quale abbastanza brutalmente disse loro che il viaggio a Parigi era inutile in quanto il trattato di Campoformido era già stato ratificato. Egli li invitò a un nuovo colloquio per la sera, ma poi non si fece trovare. I deputati decisero di proseguire verso la Francia. Il giorno dopo Napoleone, saputo che erano partiti e temendo che essi potessero creare qualche contraccolpo negativo a Parigi, li fece inseguire e riportare indietro "mani e piedi legati", come racconta nelle sue Memorie il generale Auguste de Marmont (81).
Il 14 novembre giunsero a Milano i due deputati Spada e Pisani. Il testo del trattato di Campoformido era già pubblicato sui giornali. Ebbero un incontro con Napoleone. All'ipotesi da essi ventilata che Venezia e il Veneto potessero decidere di ostacolare la consegna all'Austria con una resistenza armata, Napoleone oppose che si trattava di un'ipotesi risibile. Ad essi che gli rammentavano il voto popolare di Venezia e distretto a favore della libertà, egli ribatté che si trattava di un voto inutile. A quel punto Andrea Spada non poté trattenersi dall'osservargli che - visto come erano andate le cose e quale era stata l'esperienza con la democrazia francese - non c'era dubbio che se si fossero interpellati i Veneziani su un'ipotesi di ristabilimento dell'ex Repubblica Veneta, essi, all'unanimità, si sarebbero pronunciati favorevolmente.
Intanto, il congresso nazionale veneto annaspava. Il delegato veneziano Benini il 30 ottobre fece un'ampia relazione in municipalità sui lavori del congresso stesso. Nella prima sessione ci si era unanimemente pronunciati per l'unione alla Cisalpina. Nella seconda ci si era pronunciati circa la misura delle sovvenzioni all'armata francese e si era incominciato a studiare un piano di riordini amministrativi. Ma era piombata come un fulmine la nuova della firma di Campoformido. Ci si era chiesti se chiudere il congresso, ma i generali francesi, interpellati, avevano consigliato di aspettare istruzioni da Napoleone. Il Benini aveva proposto, senza fortuna, di trasformare il congresso in una sorta di governo generale veneto. Erano riemerse le diffidenze e le accuse nei confronti di Venezia, le divisioni. Ci si era interrogati sulla effettiva rappresentatività del congresso, dato che era stato voluto da Napoleone, organizzato dai Francesi, ed introdotto dal generale Bertolet il quale ne aveva indicato i compiti. Verso la fine della sua illustrazione, il Benini avanzò l'ipotesi che nel trattato di Campoformido si fosse stipulata solo l'evacuazione del Veneto da parte di Napoleone e non una vera e propria cessione. In questo caso, secondo lui, occorreva valutare la possibilità di una difesa da un'invasione austriaca. Per tale difesa si poteva cercare l'appoggio della Cisalpina e dell'armata francese lasciata in Italia, arruolare i Polacchi, lanciare un appello anche ai rivoluzionari di Francia per un invio di volontari. Il Benini perorò. Napoleone andava dicendo ai quattro venti che Venezia non meritava di essere libera, che non aveva mai mostrato energia, che non aveva saputo scuotere la tirannia del passato governo e che per essa non doveva spargersi il sangue dei Francesi. Ebbene, gli si dimostrasse il contrario. Prima di tutto si cercasse di entrare a far parte della Cisalpina, ma se ciò si fosse rivelato impossibile, allora si valutasse l'ipotesi di difendersi in armi, o tutti assieme i Veneti, o Venezia da sola. Comunque, la questione sulla quale il Benini chiedeva che la municipalità si pronunciasse era quella del trasferimento del congresso in Terraferma invocato da una parte dei congressisti. Si doveva o non si doveva aderire a tale richiesta? e, in ogni caso, come avrebbero dovuto comportarsi i due rappresentanti di Venezia?
Sul rapporto del Benini si aprì una vivacissima discussione cui parteciparono diversi municipalisti di primo piano, una discussione che rivelò le grandi difficoltà politiche in cui la stipula del trattato di pace (del quale, oltre a tutto, non si conoscevano con esattezza i contenuti) aveva gettato la municipalità. Alla fine, con piccolo scarto di voti, fu approvata una mozione nella quale si diceva che ove il congresso avesse deciso a maggioranza di trasferirsi in Terraferma, i due deputati veneziani erano autorizzati a seguirlo onde partecipare alla trattazione degli interessi comuni per la causa della Libertà (82). Comunque, pochi giorni dopo, il 12 novembre, una mozione della municipalità presentata dallo Spada e votata a grandissima maggioranza revocava i due delegati veneziani al congresso.
Qualche altra polemica si registrò nei giorni seguenti in quanto il congresso, pur in fase di liquidazione, era sembrato diventare l'organo preposto a stilare la nota dei patrioti che avessero inteso riparare nella Cisalpina in base alla specifica offerta di Napoleone. I democratici veneziani non gli riconobbero tale funzione così come rigettarono la possibilità offerta dai Francesi a coloro che si accingevano ad emigrare di avvalersi di prelievi dal pubblico erario. Con la seconda metà di novembre il congresso cessò di funzionare.
Andrea Spada nelle sue Memorie (83) osservava che il governo aristocratico aveva bensì trasmesso alla municipalità e al popolo il potere, ma anche aveva ad essi lasciato in eredità un pesante debito pubblico; aveva lasciato una cospicua esposizione nei confronti del bancogiro derivante sia dai crediti ottenuti direttamente da esso, sia dall'utilizzo - senza coperture - degli ingenti capitali ivi depositati dai privati; aveva lasciato un bel mucchio di conti rimasti da saldare a fronte di vitalizi accordati in dipendenza della vendita di cariche pubbliche, a fronte di forniture di cereali, a fronte di altro. Negli ultimi tempi c'erano state spese grandiose per le emergenze derivate dalla presenza dei belligeranti austriaci e francesi nel territorio, per gli allestimenti di difesa.
A tali esposizioni ben poco avevano fatto fronte certe entrate straordinarie dei mesi della fine. Nelle casse statali erano infatti confluiti gettiti delle contribuzioni volontarie dei territori dello stato, di una doppia decima, di una imposta sulle gondole e sugli affitti, della vendita di cariche fino allora proclamate invendibili, di aumenti dei dazi e del recupero di crediti; c'erano state altre entrate ancora come quelle derivate dalla vendita, a pro della Zecca, degli ori e argenti delle chiese, Scuole e fraterne di Venezia. Pur con tutto ciò la municipalità ereditava un dissesto il quale ben si evidenziava nella sua drammaticità comparando l'entità ingentissima dei debiti con la scarsa consistenza delle esistenze di cassa e dei crediti (84).
Partita con tale carico di passività ereditate dal vecchio regime, la municipalità si trovò subito gravata da una quantità di ulteriori negative emergenze finanziarie ed economiche.
Lo "stato da mar" e lo "stato da terra" non esistevano più come elementi organici del sistema sul quale aveva poggiato per sostanziosi e molteplici aspetti l'economia di Venezia. Pertanto, oltre a trovarsi senza importanti referenti per i commerci, gli approvvigionamenti e quant'altro, essa cessò di percepire introiti, fiscali e d'altro genere, dai territori dell'ex stato veneto e cessò di godere di rapporti economici privilegiati e preminenti con questi, anzi in certi casi si ritrovò a far fronte a una guerriglia economica portata contro di essa. Le municipalità della Terraferma avocarono a sé i tributi dovuti dalle proprietà in loco dei Veneziani; incominciarono a pretendere che i loro concittadini di cospicue fortune che risiedevano a Venezia facessero ritorno alle rispettive patrie onde far loro pagar ivi e non a Venezia le tasse; cercarono di riscuotere in loco i residui dei pagamenti relativi agli acquisti dei beni ecclesiastici collocati nei loro territori e a suo tempo confiscati e venduti all'incanto dall'ex stato veneto; in qualche caso posero sotto sequestro i beni degli ex patrizi veneziani, specie di quelli con carichi penali pendenti come i tre inquisitori di stato.
I risarcimenti a favore della Francia previsti dal trattato di pace del 16 maggio (pur non ratificato dal direttorio di Parigi) furono richiesti in toto alla municipalità veneziana. E ciò nonostante che, d'accordo con Napoleone, la firma al trattato fosse stata apposta con riferimento alla complessiva statualità veneta. Ricordiamo tali "riparazioni". Corresponsione, in tre rate, alla cassa dell'amministratore dell'armata francese in Italia di 3.000.000 contanti di lire tornesi; corresponsione di attrezzature di marina da prelevarsi nei magazzini dell'Arsenale per altri 3.000.000; fornitura di tre vascelli di linea e due fregate equipaggiati in tutto e per tutto tranne che per i marinai; consegna di venti dipinti e cinquecento manoscritti a scelta di Napoleone stesso. A ciò si aggiungevano il mantenimento delle truppe napoleoniche in città e una quantità di altri esborsi che comandanti francesi di alto e di basso rango costantemente richiederanno nei mesi della municipalità. Haller, l'amministratore generale dell'armata in Italia, prese a fare continue puntate a Venezia per avere soldi e quant'altro.
L'attività del porto era quasi paralizzata, le dogane (era il comitato commercio ad occuparsene) davano ormai scarsi introiti, il sistema di monopolio e appalti generali dei tabacchi, del sale e degli olii era stato messo in ginocchio dallo svincolarsi di molte località della Terraferma, dal dilagare impunito dei contrabbandi, dall'intromettersi a proprio vantaggio dei generali francesi con sequestri e vendite di interi depositi (a Chioggia, per esempio).
La municipalità si mise al lavoro per ricostruire sul piano contabile il quadro della situazione attiva-passiva lasciata dal passato governo e, nel frattempo, si incominciarono a prendere le misure più urgenti. Si attivarono il comitato finanze e zecca (specie il deputato Isacco Grego in collaborazione con elementi del comitato bancogiro, commercio ed arti come il Revedin). Gran parte del personale burocratico della passata amministrazione finanziaria venne mantenuto al suo posto, ma si incominciò a discutere sulla sua ristrutturazione e dimagrimento. Le partite a credito dell'ex governo esistenti in bancogiro furono portate a credito della municipalità e furono poste nella disponibilità della medesima le consistenze esistenti in Zecca. Si raggiunsero poco più di 500.000 ducati. Per i pagamenti si operò mediante movimentazioni della partita di banco e mediante corresponsioni in contanti per cassa. Poiché le richieste dei Francesi si presentarono pressanti e continue si nominò un apposito comitato alle ricerche francesi (composto da cittadini non municipalisti) e si cercò di dare regole alle corresponsioni esigendo adeguate formalizzazioni delle richieste, delle consegne ed anche degli addebiti.
Per venire incontro ai bisogni popolari (ma se ne avvantaggiarono soprattutto i bottegai) si minorarono i dazi del vino e delle farine e si fecero restituire gratuitamente i pegni che erano presso le rivendite (i "bastioni") che esitavano vino contro pegno. Le carni di manzo si mantennero, come prima, esenti dal dazio (correva solo l'obbligo della consegna allo stato delle pelli) e, per poter conservare il vecchio prezzo di calmiere anche dopo che la Dalmazia fu occupata dagli Austriaci e l'estrazione di bovi per Venezia fu colpita da una tassa per ogni capo, la municipalità si addossò il rimborso di tale aggravio. In tutto o in parte si mantennero i salari del personale della vecchia amministrazione, le paghe ai soldati, agli arsenalotti, agli sbirri; le sovvenzioni alle fraterne parrocchiali dei poveri, agli ospedali maggiori, ad altri luoghi pii, ai parroci; le provvigioni alle patrizie e alle cittadine; e si onorò l'impegno di aiutare economicamente i patrizi poveri. Con le restrizioni poste alla concessione di permessi di lasciare la città, si cercò di trattenere gli ex patrizi ricchi e i grossi possidenti (Dandolo calcolava in 2.500.000 ducati le loro entrate) ritenuti, con le loro spese, uno dei pilastri dell'economia cittadina specie in un momento in cui gli altri due pilastri e cioè la manifattura e il commercio risultavano la prima "inceppata" e il secondo "arenato".
Ci si propose anche di incominciare a soddisfare, nella misura del possibile, i debiti del vecchio governo. Si cercò di configurare una graduatoria di priorità. In testa ad essa si posero i debiti per forniture e prime fra tutte quelle di vettovaglie. Ciò, ovviamente, per incoraggiare l'affluenza di commestibili in città. Quasi allo stesso tempo si prese a lavorare per creare delle entrate. Dalla fine di maggio si procedette all'incameramento ulteriore di argenti delle chiese, Scuole e confraternite (85). Nello stesso tempo si propose (Dandolo e comitato di salute pubblica) di lanciare un prestito pubblico forzoso per 1.000.000 di ducati. La fiera opposizione a tale progetto (Spada e comitato finanze e zecca) indusse la municipalità a ripiegare su un'altra soluzione, cioè quella di un prestito volontario fruttifero con i prestatori garantiti dalla consegna in mano di ciascuno di un corrispettivo in verghe d'argento esistenti in Zecca e ricavate dai confiscati arredi delle chiese e confraternite. Tale argento dato in pegno sarebbe stato recuperabile dallo stato o con sconto d'imposte o con restituzione del denaro avuto in prestito. L'operazione fruttò più di 3.500.000 lire venete (86).
Inevitabile comunque ricorrere a nuove tasse sia pure a carattere straordinario. Si fece il calcolo che occorreva raccogliere 2.500.000 ducati. Si propose una tassa che gravasse per 1.200.000 ducati sui proprietari di beni immobili in ragione del valore-rendita di essi (affitti reali o potenziali); per 1.000.000 di ducati sui commercianti e gli operatori marittimi; per 300.000 ducati sui benestanti aventi cespiti diversi dalla proprietà fondiaria e dalle attività commerciali e armatoriali. Una prima opposizione a tale progetto di tassazione (era soprattutto il comitato finanze e zecca a sostenerlo) venne subito dai mercanti turchi e tedeschi. Una opposizione ben giustificata dal fatto che si era previsto che il milione di ducati da corrispondersi dai mercanti e armatori gravasse per 700.000 ducati sui "Veneti" (e si intendevano come tali i Veneti in senso stretto, ma anche i Francesi, i Greci, gli Ebrei, gli Illirici, gli Istriani) e per 300.000 ducati sui forestieri (e si intendevano tutti gli altri e cioè, in pratica, i Turchi e i Tedeschi). I reclami dei Turchi, che si appellarono a quanto stabilito circa ottanta anni prima dal trattato di Passarowitz, vennero subito riconosciuti giusti. Anche i reclami dei Tedeschi trovarono sostenitori in municipalità per cui cadde la discriminazione tra Veneti e non Veneti agli effetti della ripartizione del milione di ducati che mercanti e armatori sarebbero stati chiamati a pagare. Il decreto fu varato il 18 giugno, ma, un po' per le opposizioni e le difficoltà che verranno frapposte all'applicazione, un po' per le renitenze dei contribuenti, e un po' per il poco tempo di vita che rimarrà alla municipalità, andrà a finire che il gettito della tassa straordinaria verrà lucrato solo in parte dalle casse municipaliste e, invece, in altra parte, dall'amministrazione austriaca che subentrerà dall'inizio del 1798.
Rilevanti, ai fini di intravvedere i contrasti di interesse che in certa misura contrapposero tra loro una parte dei municipalisti, ci appaiono le discussioni accese che accompagnarono l'elaborazione dei criteri che dovevano presiedere, nel concreto, alla ripartizione tra le varie ditte del carico fiscale gravante sulla categoria dei commercianti e armatori ("tansa di commercio", la prima delle tre imposizioni fiscali che si tentò di rendere operativa) (87).
Già nella prima metà di giugno la municipalità si orientò per l'abolizione dei fede-commessi sperando di indurre importanti dosi di liberalizzazione nell'economia e di dare movimentazione al mercato dei beni immobili con una prospettiva di vantaggi non da poco sia diretti (imposta sulla vendita dei beni liberati), sia indiretti per l'erario (88).
Poiché la situazione politica generale non si sbloccava, i problemi economici erano destinati a peggiorare continuamente. Nei dispacci che il comitato di salute pubblica inviava in settembre ai rappresentanti veneziani presso Napoleone e presso il direttorio a Parigi, cioè al Battagia e al Sanfermo, il quadro dei pesi economici sopportati da Venezia era drammatico:
Noi abbiamo pagato anche l'intero 3° milione; noi abbiamo consegnato più che per intiero i tre milioni di effetti dell'Arsenale; [...] noi siamo anche vicini ad aver pronte le tre navi e le due fregate e queste fornite per la metà di cannoni di bronzo che fanno un enorme aumento di spesa. Abbiamo mantenuto più che la sola nostra divisione comandata dal generale Baraguey; abbiamo fornito un intiero ospitale in S.S. Giovanni e Paolo; manteneremo un apposito ospitale per la marina; abbiamo concorso a finire il rivettovagliamento della flotta; intanto abbiamo formato un battaglione di mille uomini [...]; ora stiamo reclutando altri due battaglioni [...]; abbiamo compito una Guardia Nazionale che oltrepassa li 20 mila uomini [...]. Lo speso fino ad ora tra dal pubblico e dai particolari non ammonta a meno di 20 milioni di franchi in 4 mesi. Ed una città sola con i suoi cittadini, vessati, angustiati, spogliati in Terraferma, non poteva versare tutta questa somma senza una grande energia di sentimenti. Ditelo pure ai nostri amici e protettori della nostra causa costì, e almeno ci troveranno degni di loro.
Così il comitato di salute pubblica in un dispaccio al Sanfermo il 28 settembre (89). E così invece pochi giorni prima, il 12 settembre, lo stesso comitato di salute pubblica al Battagia:
La miseria è all'interno delle famiglie, i palazzi stessi sono belli sepolcri che coprono il languor della fame e della disperazione; l'occhio francese che vede le mura, non penetra la desolazione di chi le abita. E noi calcoliamo con verità che all'entrar dell'inverno un terzo della popolazione nostra non avrà un tozzo di pane da mettersi in bocca senza soccorsi del pubblico, se le cose proseguono così (90).
Quando, in novembre, la deputazione dei cinque con gli aggiunti prese in mano anche la situazione economica essa era veramente pesante. Andrea Spada che tentò di vederci chiaro ci riuscì solo in parte. Risultò che il flusso dei versamenti dipendenti dalla tassazione decretata il 18 giugno era rallentato; il ricavato delle gestioni dei monopoli del tabacco e del sale era scarsissimo; il dazio sull'olio rendeva sempre meno per via delle esenzioni accordate dai Francesi e per il fatto che la Terraferma riceveva molti rifornimenti non attraverso Venezia ma via Adige e Po; il gettito delle dogane era scemato in rapporto alla caduta dei traffici del porto; si sospettava si fosse abusato del pubblico denaro; coloro che componevano la commissione ricerche francesi non sapevano resistere alle imposizioni e agli abusi; la fiducia verso il bancogiro diminuiva ogni giorno anche perché creditori indiscreti, talora non legittimi, e speculatori stavano imbastendo manovre di indebolimento del banco stesso.
Lo Spada tentò di stendere un consuntivo e di abbozzare alcune previsioni sui fabbisogni e sulle spese indispensabili delle settimane a venire. Egli partì dal rapporto che aveva stilato il 15 luglio quando era stato estromesso dal comitato finanze e da altre mansioni economiche, ma ben presto non gli parve possibile esibire alla municipalità uno stato vero delle entrate e delle uscite sino a quel giorno e dare norme per l'avvenire. Denunciò che non si era individuata con esattezza la consistenza di cassa al 16 maggio; non si era operata una revisione della gestione della cassa e del bancogiro per i mesi in cui erano stati in gestione di Isacco Grego; non si era ricostruito con esattezza il conto della confisca degli ori ed argenti delle chiese e opere pie; non si erano stilati ordinati e precisi capitoli per le spese; si era appoggiata ai fratelli Stella la revisione dei conti di ogni comitato e della stessa municipalità, ma alcuni comitati non erano in regola con i registri e altri non li passavano con la scusa che servivano alla giornata. La riscossione della tassa straordinaria continuava a rilento nonostante si fosse ammesso il pagamento mediante cessione allo stato di beni immobili. Revedin aveva rinunciato alla sovrintendenza della Zecca e, poiché non aveva obbligo di rendiconto, non lo aveva presentato. In tali condizioni il comitato finanze non voleva subentrare (accetterà quando, il 26 novembre, verrà sollevato da qualsiasi responsabilità per il pregresso).
Spada ripiegò su un lavoro di revisione che gli consentisse di dare alcuni numeri utili a valutare all'ingrosso la situazione finanziaria e a dare indicazioni per interventi di emergenza. Calcolò, a quel momento, il gettito introitato dai vari dazi e dogane, dalla tassa straordinaria varata il 15 giugno, dalle decime e dai prestiti, nonché il valore degli ori e argenti conferiti dalle chiese e luoghi pii, e arrivò a una cifra di 3.084.300 ducati. Fece il conto, sempre a quel momento, delle spese e arrivò a 2.471.002 ducati. La differenza attiva a pareggio risultava dunque di 613.298 ducati. Egli si trovò invece con una giacenza (Zecca, bancogiro, fedi di crediti) di 144.145 ducati. Qualcosa non funzionava. In realtà i suoi conti erano notevolmente lontani dalla realtà se li confrontiamo con il bilancio post fine municipalità 18 gennaio 1798 (91). Lasciò perdere la pretesa di conti precisi e per le previsioni si affidò a calcoli approssimativi, e azzardò una occorrenza di 113.596 ducati al mese per spese certe, oltre agli incerti dovuti alle continue sopravvenienze di richieste francesi, di richieste, non già note, di salari e di debitori.
Fu sempre lo Spada ad immaginare delle misure per risollevare il bancogiro, per il quale continuava il dissesto, nonostante che già da metà novembre si fosse ammesso che la tassa straordinaria si sarebbe potuta pagare per due terzi con partita di banco. Il 18 dicembre egli ottenne un decreto della municipalità che in pratica privatizzava il vecchio banco mettendolo in mano ai creditori trasformati in azionisti.
Come annota Massimo Petrocchi (92), dal punto di vista delle politiche economiche la condotta dei municipalisti mostrò intenzioni di moderate liberalizzazioni da introdurre nelle attività di commercio e di manifattura; intenzioni di liquidazione di vincoli e privilegi accumulati nel passato e di elaborazione di misure di sostegno, di rilancio, di promozione. Nella sostanza, misure favorevoli al protagonismo in campo economico degli operatori e possidenti appartenenti ai gruppi mediani della popolazione, i quali andavano sempre più connotandosi come gruppi borghesi in senso moderno. In pratica, non si andò al di là delle intenzioni, non si ebbe il tempo né la forza politica per varare misure incisive di cambiamento.
Qualche esempio. La municipalità aveva ereditato un sistema corporativo imponente ed ancora molto forte (più di centotrenta le corporazioni a Venezia) ed aveva ereditato anche la discussione - andata avanti per tutto il Settecento - sulla riforma di esso in direzione della libertà di mercato, della subordinazione dei lavoratori alla imprenditorialità, dell'attenuazione del dirigismo e protezionismo statale. Una discussione che era approdata a ben poco di concreto. La municipalità non seppe o poté fare niente di più o di meglio del vecchio governo. Si enunciò una volontà di progressiva liquidazione delle corporazioni, il comitato commercio ed arti si occupò del problema, se ne occupò anche un'apposita conferenza alle arti, ma in ottobre si era ancora molto incerti e timorosi circa l'attuazione di provvedimenti concreti, e quando il 27 ottobre Melancini propose un decreto per l'abolizione di trenta corporazioni si accolse quasi con sollievo l'obiezione di qualcuno secondo cui la discussione in argomento andava accantonata in quanto urgevano ormai decisioni su argomenti ben più importanti (93).
Allo stesso modo nulla di concreto si fece, si poté fare, per dar attuazione a un progetto di "Casa Patria", la quale da una parte incominciasse a creare i presupposti per un diretto intervento dell'autorità pubblica nell'organizzazione e gestione dell'assistenza e dall'altra aiutasse ad alleviare nel contesto sociale le conseguenze delle disastrose condizioni in cui versava la pur imponente rete assistenziale dell'associazionismo privato ereditata dal passato (Scuole, ospedali, fraterne, ecc.). Il progetto, ufficialmente presentato in agosto da un'apposita deputazione alla Casa Patria e all'amministrazione generale delle cause pie, prevedeva di accorpare i complessi edilizi dell'ospedale dei Mendicanti, dell'Ospedaletto (Santi Giovanni e Paolo), della Cavallerizza e della Scuola del Rosario per creare una "Casa Patria", cioè un istituto pubblico a direzione amministrativa accentrata con funzioni - in settori distinti - di ricovero dei malati, di accoglimento degli orfani e degli inabili, di sostegno dei poveri, ma anche di concentramento coattivo e correzionale dei mendicanti oziosi, vagabondi, ecc. Anche in questo caso il tentativo era quello di dare una risposta in termini moderni ai problemi dell'assistenza sostituendo progressivamente il diretto intervento pubblico alla rete imponente delle strutture associazionistiche a carattere privato che lungo i secoli della Repubblica avevano provveduto - tra l'altro - anche alla raccolta ed alla gestione dei mezzi per l'assistenza in città. Pure in questo caso mancò alla municipalità il tempo (ma sarebbero mancati anche i mezzi finanziari) per realizzare in concreto alcunché (94).
Una delle strutture più caratterizzanti del vecchio regime veneziano era stata quella dell'amministrazione della giustizia. Una struttura carica di specificità e di originalità ancorata a idee e prassi costituenti un magma giuridico-giudiziario (il cosiddetto "diritto veneto") che era stato impostato nell'età medievale, che aveva notevoli dosi di autonomia rispetto al diritto comune e rispetto ai sistemi di amministrazione della giustizia degli altri stati e che non aveva conosciuto sostanziali riforme nonostante i tentativi cinque-settecenteschi in questa direzione.
Nessuno dei vecchi organismi di amministrazione della giustizia sopravvisse di un sol giorno alla fine della Repubblica. La municipalità fece tabula rasa. Il 16 maggio venne proclamata la "chiusura del Foro" per quindici giorni e si cominciò a lavorare per edificare una nuova amministrazione. Fu concessa un'amnistia per tutti i comportamenti ed azioni posti in essere sotto il vecchio regime che - ad una valutazione derivata dal nuovo clima democratico - avessero potuto configurarsi come reati. Il 28 maggio si emanò un proclama nel quale veniva precisato che restavano in vigore tutte le leggi e discipline vigenti fino a tanto che organismi legislativi democraticamente eletti non avessero varato una nuova legislazione. Per intanto, la municipalità avrebbe abrogato le leggi che fossero apparse in contrasto con i principi della libertà e dell'uguaglianza democratica. A norma di orientamento, in calce al proclama stesso veniva riprodotta la francese "Dichiarazione dei Diritti dell'uomo e del cittadino".
I primi tribunali che vennero messi in piedi furono di carattere straordinario e speciale. Tali furono il tribunale di commissione, la commissione criminale straordinaria; la commissione militare straordinaria criminale.
Il tribunale di commissione (così detto perché formato da una commissione di sette membri scelti dalla municipalità fuori dal suo seno) ebbe il compito esclusivo di giudicare i così detti "saccheggiatori del 12" (cioè gli accusati dei torbidi popolari del 12 maggio). Accanto ai giudici c'era un pubblico accusatore. Il processo era pubblico. L'imputato doveva essere presente, poteva produrre eccezioni, testimoni, documenti, e poteva avvalersi di "uno che lo dirigesse ed assistesse". Le garanzie erano quindi abbastanza estese. Il tribunale lavorò sodo sino alla metà di ottobre. Una piccola statistica riferita ai primi di settembre mostra che su duecentododici prevenuti, il tribunale ne aveva assolti centosedici e condannati trentasei, rimanendo a quella data in attesa di giudizio una sessantina di accusati. Da circa ottanta sentenze sulle quali si sono condotte rilevazioni dirette si evince che, nella maggior parte, le condanne furono miti (in molti casi a non più di un anno di reclusione). Tuttavia non mancò una condanna alla fucilazione: quella contro un alfiere di battaglione, disertore, reo di aver compiuto il saccheggio di una bottega di formaggio a "spada sguainata". I reati per cui si procedette furono soprattutto quelli di appropriazione in corso di saccheggio, istigazione al tumulto, grida sediziose, insulti alla forza pubblica. La stragrande maggioranza degli imputati apparteneva al basso popolo veneziano.
La commissione criminale straordinaria venne formata il 3 giugno con il compita di portare a compimento i processi penali inconclusi ereditati dal vecchio regime nonché con il compito di revisionare, su istanza di condannati detenuti, i processi definiti in epoca precedente agli ultimi due anni, cioè antecedenti al giugno 1795. Già in luglio la commissione rendeva pubbliche le sue prime decisioni. Si trattava di "decreti" e non di vere e proprie sentenze. Le riforme delle pene comminate non si corroboravano di critiche di merito o di forma rispetto alle originarie sentenze, bensì si motivavano per lo più col fatto che la parte di pena scontata appariva sufficiente, col fatto che il condannato aveva dimostrato buona volontà a redimersi, col fatto che era stata ottenuta la "pace" dagli offesi. Più atti di grazia, dunque, che non riparazioni ai "torti e degenerazioni della passata giustizia".
La commissione militare straordinaria criminale venne formata a metà giugno con competenze analoghe a quelle della commissione criminale di cui si è appena detto. Doveva infatti rivedere, su istanza degli interessati, le sentenze e i processi degli ultimi due anni, cioè posteriori al 1° giugno 1795. Dall'esame delle carte relative ai suoi lavori, non pare che la commissione abbia largheggiato in riduzioni e commutazioni delle pene. Al più tolse certi aggravi accessori alla condanna come l'obbligo del risarcimento dell'offeso posto come condizione per esser liberati una volta scontata la pena.
Carattere di straordinarietà e di specialità ebbero anche altre azioni, in qualche modo di giustizia, condotte dalla municipalità in rapporto a particolari casi in cui c'erano di mezzo contingenti frangenti politici. Per esempio, i vari provvedimenti a carico del "traditore" Francesco Pesaro riparato a Vienna, a carico dei rettori in Istria e Dalmazia Gasparo Dolfin e Andrea Querini, nonché contro Nicolò IV Morosini il quale aveva ricondotto i soldati schiavoni in Dalmazia e di lì aveva criticato la municipalità (in settembre sarà bandito e bruciato in effige a San Marco). Per esempio, la revisione della sentenza contro Alvise Zenobio, considerato un perseguitato politico del vecchio regime, effettuata direttamente dal comitato di salute pubblica. Per esempio ancora, il processo "tenuto aperto" sino dalla fine di giugno dal comitato di salute pubblica contro gli stampatori che avessero omesso l'indicazione, in ogni pubblicazione, del loro nome.
La più importante di tali azioni fu certo quella che ebbe ad oggetto le responsabilità dei tre ultimi inquisitori di stato.
Agli inizi di maggio, per ottemperare a una perentoria richiesta di Napoleone, con voto del maggior consiglio, gli inquisitori di stato (Agostino Barbarigo, Angelo Maria Gabrieli e Catterino Corner) e Domenico Pizzamano erano stati arrestati e posti sotto processo da parte degli avogadori di comun. I Francesi facevano carico ai tre inquisitori della sollevazione di Verona dell'aprile e al Pizzamano, comandante del castello del Lido, dell'affondamento del Libérateur d'Italie. Il trattato di pace firmato il 16 maggio pose a carico della municipalità l'eredità del processo ed essa lo affidò a una giunta che lavorò alacremente lungo l'estate interrogando tutti coloro che poterono fornire elementi per chiarire se vi fossero state effettive responsabilità degli accusati. Nel frattempo, la municipalità cercò in tutti i modi di ottenere che i prevenuti fossero tolti dagli arresti. Alla fine, in ottobre, Napoleone, posto di fronte alle conclusioni liberatorie dell'indagine processuale, dette il suo benestare alla chiusura del procedimento con l'intesa che una metà dei beni dei tre ex inquisitori sarebbe stata confiscata onde costituire indennizzi a beneficio di coloro che avevano subito saccheggi e danneggiamenti nei tumulti antidemocratici del 12 maggio. Anche altri ex governanti, su richiesta francese, passarono dei guai per presunte loro responsabilità in fatti di resistenza antinapoleonica negli ultimi giorni della ex Repubblica, come Nicolò Erizzo per l'insurrezione di Verona.
Ancora carattere di straordinarietà e specialità ebbe il tribunale criminale di alta giustizia alla cui organizzazione si cominciò a dar mano dalla fine di luglio in un momento in cui i municipalisti credettero di avvertire l'acuirsi dell'ostilità di parte della popolazione e il prepararsi di oscure trame controrivoluzionarie. Vediamone le vicende. Il 23 luglio, a nome del comitato di salute pubblica, Andrea Giuliani per via di certi torbidi popolari verificatisi nel sestiere di Castello propose e fece approvare un decreto con il quale si formava una commissione criminale con la facoltà di procedere militarmente contro coloro che avessero gridato "Viva San Marco!" (pena di morte), contro i sobillatori e caporioni di attruppamenti controrivoluzionari (pena di morte), contro chi avesse incitato alla insubordinazione al governo (pena di morte), contro chi con carte incendiarie o simboli di San Marco avesse incitato all'insurrezione (pena di morte), contro i gestori di locali pubblici che non avessero segnalato alle autorità i perturbatori (cinque anni di carcere).
La realizzazione di tale tribunale straordinario fu laboriosa. Solo il 13 settembre la commissione presieduta da Costantin Rota Sicuro propose alla municipalità la configurazione del tribunale e l'approvazione venne alla fine del mese.
L'agire del tribunale (in un primo tempo qualificato come "tribunale rivoluzionario" e poi, più pacatamente, come tribunale criminale straordinario d'alta giustizia) era regolamentato da una sessantina di articoli distribuiti sotto quattro titoli ("dell'accusa"; "della formazione del processo"; "della difesa"; "della sentenza").
Le denunce dovevano essere scritte e firmate. Sulla base di esse, il tribunale poteva ordinare il "cauto arresto" e il sequestro di documenti avvalendosi del preside di polizia. Si sarebbe potuto procedere anche su base di "voce pubblica" o altra segnalazione, ma, in tal caso, previ accertamenti dell'accusatore pubblico che faceva parte del tribunale. Ci si preoccupò di sottolineare che il cauto arresto non infamava nessuno essendo misura di mera precauzione. Entro un tempo brevissimo, l'arrestato doveva essere tradotto avanti il tribunale. Quivi, pubblicamente, gli si sarebbero rese note l'accusa e le prove e, sempre alla sua presenza, si sarebbero raccolte le deposizioni giurate dei testimoni. Se non fosse risultata provata l'accusa, l'imputato doveva esser posto subito in libertà e il denunciante doveva esser perseguito per calunnia. Se fosse stata provata l'accusa, si andava avanti e l'accusatore pubblico pronunciava la sua requisitoria. Dopo di che, entro un termine stabilito, l'accusato avrebbe dovuto produrre le sue difese corroborate dagli eventuali testi a discarico. Egli avrebbe potuto difendersi da sé o tramite un difensore che poteva anche non essere un avvocato. A questo punto, al tribunale riunito al completo, si leggevano le carte dell'accusa e della difesa. L'accusatore pubblico interveniva di nuovo e parimenti avrebbe potuto intervenire la difesa. Da ultimo, si lasciava all'imputato la possibilità di reclamare presso il comitato di salute pubblica contro eventuali vizi circa la procedura seguita e il comitato avrebbe dovuto pronunciarsi entro ventiquattr'ore. Finito così il processo, era stabilito che i membri del tribunale si sarebbero riuniti in seduta segreta e ognuno dei giudici avrebbe espresso la sua opinione per iscritto circa la colpevolezza o meno dell'imputato. In caso di una maggioranza a favore dell'innocenza, il tribunale emetteva subito e pubblicamente sentenza di assoluzione. In caso di una maggioranza a favore della colpevolezza, si sarebbe dovuto determinare se l'intenzione del reo nel compiere il reato fosse stata quella di attentare al governo democratico oppure se tale intenzione non ci fosse stata. In quest'ultimo caso, l'accusato doveva esser trasferito a un tribunale criminale ordinario. Nel primo caso invece, cioè se si fossero appurate intenzioni di sovversione, l'accusatore pubblico doveva predisporre una sentenza motivata con l'indicazione della pena e i membri del tribunale dovevano sottoscriverla. Tale sentenza sarebbe stata letta pubblicamente e inviata subito al comitato di salute pubblica per l'esecuzione (in caso di condanna a morte il reo doveva essere consegnato alla forza armata entro sei ore).
Come si vede, si trattò di un tribunale intonato a retoriche rivoluzionarie, pasticciato quanto a strutturazioni giuridiche, nonché, per qualche aspetto, condizionato dal comitato di salute pubblica. Non erano del tutto assenti, tuttavia, meccanismi di garanzia per l'accusato. In concreto lavorò pochissimo ed ebbe il suo momento di notorietà a metà ottobre quando lo si fece intervenire nella così detta "congiura Cercato". Ad esso, in tale occasione, fu rimandato anche il municipalista Jovovitz nonostante egli avesse in tutti i modi tentato di ricusare tale tribunale e di farsi giudicare dalla municipalità (95).
Mentre entravano in azione quegli organismi di carattere straordinario, si lavorava, per altro verso, alla creazione dei tribunali ordinari e, soprattutto, a piani organici per un sistema di nuovi organi giudicanti in civile e in criminale, per un sistema di nuovi schemi politici, giuridici e mentali che ad essi presiedessero, per un sistema di nuovi o rinnovati strumenti tecnici da mettere a disposizione della giustizia come, ad esempio, la polizia (96).
Già il 23 maggio la municipalità creava i giudici di pace e civili (dapprima sei, cresceranno sino a dodici). Le loro funzioni erano quelle di giudici arbitranti e conciliatori nonché quelle di giudici giudicanti per cause non eccedenti certe somme (100 e poi 150 ducati). Le loro decisioni erano inappellabili o con limitate possibilità di appello. Il sistema si rivelerà efficiente e utile.
Lo stesso giorno veniva creato un tribunale correzionale composto di sei giudici distribuiti in due sessioni, competente per reati che avessero previsto sino a sei giorni di arresto. Per i reati più gravi il giudizio si sarebbe dovuto rimettere a un tribunale criminale che si contava di istituire al più presto. Le procedure del tribunale correzionale erano studiate per ottenere risultati di rapidità e per offrire garanzia alla difesa degli accusati.
Al lavoro era anche una commissione della municipalità incaricata di riorganizzare il Foro. Nella prima metà di giugno tale commissione (la mente tecnica era quella dell'avvocato Tommaso Gallino) portò alla discussione in municipalità un piano complessivo di riorganizzazione. Esso era preceduto da un preambolo in cui venivano criticati certi caratteri della vecchia giustizia aristocratica: tribunali completamente nelle mani dei patrizi; moltiplicazione degli organismi; lentezze e oscurità delle procedure; dispendi ingenti richiesti a chi adiva alla giustizia; sentenze "mute" cioè prive di motivazioni di diritto e di merito; vessatorietà del "rito inquisitorio" usato da taluni dei tribunali come quelli che facevano capo al consiglio dei dieci.
Il piano, per quanto riguardava la giustizia civile (135 articoli sotto 7 titoli), prevedeva la costituzione di due tribunali civili di prima istanza (cause per valore superiore al limite previsto per le competenze dei giudici di pace). L'uno di tali tribunali si sarebbe dovuto occupare di cause relative al commercio, manifatture e mestieri ("tribunale mercantile", suddiviso in più camere e sito in Rialto). Il secondo si sarebbe dovuto occupare di tutte le altre cause (anch'esso suddiviso in più camere e sito nell'ex palazzo Ducale). Era poi previsto un unico tribunale di appello suddiviso in più camere (un solo grado di appello per le cause di tenue valore e due gradi per le altre). A regolare tale tribunale di appello era una camera direttrice.
C'erano poi norme che davano indicazioni sulla legislazione da applicare (quella vigente purché non in contrasto con la libertà e la democrazia e fino a quando non si fosse arrivati ad elaborarne una nuova); norme che stabilivano il raggio di azione territoriale dei tribunali (Venezia e Dogado); norme per il trattamento delle cause incoate all'epoca del vecchio regime, o riguardanti soggetti appartenenti all'ex stato da mar ed ex stato da terra; norme che tendevano a limitare al massimo i costi di amministrazione della giustizia da sopportarsi dalle parti in causa. Molta attenzione era posta alle procedure (una quantità di articoli dettagliatissimi sulle formalità delle varie fasi delle cause in primo grado o in appello), alle garanzie per le parti, alla velocizzazione degli itinerari dibattimentali. Erano previsti "difensori pubblici" per i meno abbienti. C'erano naturalmente norme anche per il personale di supporto come i notai e gli uscieri.
Per quanto riguardava la giustizia penale (67 articoli sotto 4 titoli), il piano, pur accordando che fosse mantenuto il tribunale correzionale provvisorio già istituito (con competenza elevata a reati comportanti sino a un mese di arresto), prevedeva l'istituzione di due nuovi tribunali di primo grado, e cioè un tribunale correzionale con competenza per reati comportanti da un mese a due anni di arresto e un tribunale criminale per reati comportanti pene superiori. Una sezione "direttrice" avrebbe organizzato e per certi aspetti diretto l'assieme del lavoro dei due tribunali. Oltre a notai, cancellieri e uscieri, ogni sezione avrebbe dovuto avere aggregato un magistrato con la funzione di accusatore pubblico e tre ne avrebbe dovuto avere la camera direttrice.
L'istruzione dei processi nella fase di elaborazione dell'accusa appariva in gran parte demandata all'accusatore pubblico con il quale dovevano collaborare un membro del tribunale e un notaio. La verbalizzazione scritta di tale fase processuale sarebbe stata consegnata all'accusato o al suo difensore. Sulla base di quei verbali, con la collaborazione di un membro del tribunale e di un notaio, l'accusato e il difensore dovevano elaborare la difesa con facoltà di produrre testimoni e quant'altro fosse parso utile. A quel punto, l'accusatore pubblico avrebbe stilato la requisitoria d'accusa dandone copia all'accusato e al suo difensore. Dopo tre giorni tutte le verbalizzazioni processuali dovevano essere lette al tribunale riunito e il dibattito aveva svolgimento con due interventi dell'accusatore pubblico e due interventi dell'accusato o del suo difensore. A quel punto il tribunale si sarebbe riunito e avrebbe deciso all'unanimità la configurazione delle imputazioni (in caso di mancata unanimità, il processo sarebbe passato ad altra camera) producendo in proposito un decreto. Sulla base di tale decreto l'accusatore pubblico richiedeva la pena. Dopo otto giorni, ascoltate nuovamente l'accusa e la difesa, il tribunale doveva decidere a maggioranza sulla pena stessa accogliendo la richiesta dell'accusa, ovvero riformandola. La sentenza doveva essere motivata e pubblicata, nonché eseguita non prima che fossero trascorsi tre giorni. Era prevista possibilità di appello alla camera direttrice per vizi di forma e quindi possibilità di ripetizione del processo con altra composizione del tribunale.
C'erano norme che rafforzavano le garanzie dell'imputato; norme che prevedevano la difesa gratuita degli imputati poveri; norme per i casi di contumacia e per le ricusazioni dei giudici; norme per altri accidenti ancora. Non si può non notare che nella fase di prima istruzione del processo era data posizione di forza alla pubblica accusa e allo svolgimento per iscritto, mentre solo nelle sue fasi centrali il dibattito accusa-difesa si prevedeva diretto, orale e pubblico. Una procedura che appariva insomma, per certi aspetti, un misto tra il sistema inquisitorio ed accusatorio; un misto tra talune usanze dei vecchi tribunali della Repubblica e le novità che andavano proponendosi. Per quanto riguardava le pene, si escludevano - sino a nuova legislazione - le mutilazioni e la morte e la prospettiva verso la quale si voleva andare era quella di una netta distinzione tra case di arresto (due, una per i detenuti in attesa di giudizio e una per i condannati per lievi reati dal tribunale correzionale) e la pena della prigione vera e propria nonché la pena dei pubblici lavori riservate ai condannati per reati più gravi.
Nell'appendice al piano (18 articoli), si delineavano i modi di elezione dei giudici e degli accusatori pubblici. Erano previste norme per l'età, per la cittadinanza, per i requisiti morali e culturali. Sostanzialmente, le nomine erano demandate alla municipalità, ma esse avrebbero avuto valore provvisorio in quanto che, una volta elaborata la nuova "sospirata" costituzione democratica, sarebbe intervenuta una nuova regolamentazione per una elezione "da parte del popolo". I membri del personale esecutivo, dai notai agli uscieri, sarebbero stati scelti dai rispettivi tribunali. Giudici e subalterni erano pagati dallo stato.
Il piano, nella parte riguardante la giudicatura civile, fu approvato con modifiche prima della metà di agosto, mentre, nella parte relativa alla giudicatura penale, fu approvato alla fine del mese. Come si capisce, le discussioni furono lunghe e, in certi casi, furono defatiganti. Per esempio, assai vivaci e dure furono quelle relative agli articoli 23 e seguenti che prevedevano la obbligatorietà degli avvocati difensori nel processo civile. Tommaso Gallino ed altri difesero il progetto. Il Dandolo e il Giuliani perorarono perché le parti in causa fossero lasciate libere di scegliere se farsi difendere da un avvocato, o autodifendersi, o affidare la difesa a chicchessia. Sulle prime l'orientamento Gallino prevalse, poi la situazione fu ribaltata e il piano definitivo decretato il 10 luglio non impose obbligatoriamente la presenza di avvocati difensori. Più tardi, un decreto del 1° dicembre della deputazione dei cinque con gli aggiunti incaricata di gestire la fase di transizione verso la dominazione austriaca ripristinerà l'obbligatorietà dell'opera dell' avvocato (97).
La configurazione del piano e le discussioni che l'accompagnarono ci danno ragione degli umori che nell'estate del 1797 furono in circolazione tra i municipalisti e in una parte dell'opinione pubblica a proposito della rifondazione delle strutture della giustizia. Crediamo che meno rispecchi tali umori un successivo piano (solo per il penale) varato il 12 novembre in un momento in cui ormai la municipalità stava apprestandosi a dissolversi e la gestione delle questioni più importanti era stata affidata alla deputazione dei cinque con gli aggiunti. Discostandosi in parte dal piano approvato il 10 luglio (peraltro realizzato parzialmente), la municipalità decretò l'attuazione di una serie di misure di riorganizzo rapido della giudicatura penale. Ciò forse anche per semplificare la situazione e disporre urgentemente di strumenti necessari per affrontare la fase di transizione verso la dominazione austriaca.
Il decreto del 12 novembre stabiliva che fossero soppressi tutti i tribunali e le commissioni correzionali e criminali ordinari o straordinari per l'avanti istituiti e che fosse messo in funzione un solo tribunale correzionale e criminale di nove membri con competenza di portare a compimento tutti i processi pendenti e di giudicare di tutti i fatti criminali che si fossero per l'avvenire prodotti in città. La potestà di arrestare in flagranza di reato era data alla Guardia nazionale, alla polizia, ai militari. Nei casi non di flagranza, ordini di arresto motivati potevano essere emessi dal comitato di salute pubblica, dal comitato sanità, dal comitato arsenale e marina, o dal tribunale correzionale e criminale. Dei nove giudici componenti il tribunale, tre (i più anziani) costituivano la presidenza e gli altri sei si occupavano ciascuno di un sestiere. I giudici di pace e i giudici civili potevano esser chiamati a far da assessori nel tribunale correzionale e criminale. Al tribunale stesso erano aggregati degli accusatori pubblici ed esso disponeva del consueto personale esecutivo di notai ed uscieri. Per i reati che avessero comportato una pena non superiore a tre giorni era previsto un processo sommario condotto dal giudice di sestiere. Per i reati che avessero comportato una pena non superiore a un mese era previsto un processo sommario condotto dal giudice di sestiere più due colleghi. Per tutti gli altri reati era previsto un processo a procedura abbastanza complessa (98).
Contro qualsiasi degli atti del processo, ma solo su questioni di procedura e di forma, era possibile proporre appello alla camera direttrice del tribunale civile di appellazione.
Anche gli atti di cauto arresto potevano essere appellati, ma senza produrre la sospensione dell'arresto stesso in pendenza della decisione.
Mette conto di ricordare che una struttura di supporto all'amministrazione della giustizia profondamente riformata dalla municipalità fu quella della polizia. Anzi, più che di una riforma si trattò di una sorta di fondazione. La sbirraglia del vecchio regime era organizzata assai sommariamente e secondo moduli rimasti invariati dalle epoche protomoderne. In maggio, giugno e luglio il comitato di salute pubblica lavorò per sostituire di fatto tali strutture anche se ci si dovette continuare a valere di taluni degli uomini che le dirigevano (per esempio del loro capo, l'ex "missier grande" Pietro Bonaretti).
Si crearono dei posti fissi di commissariato distribuiti nella città (a fine luglio funzionava quello di San Marco), si attivò in funzioni di pattugliamento la Guardia nazionale alla cui configurazione si era posto mano sin dal 19 maggio, si nominò un preside di polizia e dei vigilanti di contrada. Finalmente il 2 ottobre venne approvato il piano di "organizzazione della polizia per il comune di Venezia" in discussione sin dalla prima metà di settembre. Il piano era opera del comitato di salute pubblica e in particolare di Andrea Giuliani, il quale si confermava come uno degli uomini di punta dell'ala radicale della municipalità.
Il piano constava di un preambolo e di quasi 100 articoli raggruppati sotto 5 titoli (99). Il vertice della polizia era costituito da un organismo politico e cioè dal comitato di salute pubblica che ne esprimeva il capo tratto dal proprio seno, vale a dire il preside di polizia. Da tale vertice dipendevano un commissario generale, coordinatore di tutto il sistema, i commissari di sestiere ed i vicecommissari distribuiti per gruppi di contrade all'interno di ciascun sestiere. Ciascuno di tali funzionari dipendeva da quello immediatamente superiore. Erano previste sedi per ciascun commissariato (bandiera e insegna esposta), uniformi per tutti, personale di segreteria, stipendi. Per la loro azione repressiva i funzionari di polizia avrebbero potuto avvalersi della Guardia nazionale e, al caso, delle forze militari. Si trattava di una strutturazione intesa al mantenimento dell'ordine pubblico, al controllo degli abitanti e frequentatori della città e, per qualche aspetto, al supporto dell'attività giudiziaria penale.
Nel piano, nonostante le perorazioni contro quelli che erano stati gli odiosi apparati di sorveglianza di taluni organi dell'ex Repubblica come gli inquisitori di stato, si intravvedevano tessiture che tradivano aspirazioni, forse inconsce, a controlli di carattere "totale" sulla popolazione. Facciamo un esempio. I vicecommissari dovevano tenere un registro con i nomi di tutti gli abitanti delle contrade di loro competenza i quali erano tenuti a segnalare i cambi di domicilio; i commissari dovevano tenere un registro di tutti gli abitanti del sestiere e dovevano rilasciare le "carte di sicurezza" di cui tutti i cittadini al di sopra dei dieci anni dovevano obbligatoriamente provvedersi (tali carte d'identità erano, per Venezia, una novità assoluta); il commissario generale doveva tenere ben undici registri tra cui uno con i nomi dei patrioti e uno (segreto) con il nome dei "sospetti", inoltre un registro dei carcerati e uno dei pazzi e castigati. Si aggiunga che tramite traghettatori, albergatori, osti, famiglie, si regolamentava più rigidamente che nel passato la notifica degli arrivi e delle partenze dei forestieri. Si trattava di un controllo le cui connotazioni, anche politiche, erano rafforzate dal fatto che il preside di polizia era un membro del comitato di salute pubblica e che egli aveva in certi casi poteri di primo impulso dei procedimenti penali.
Nell'imminenza dell'arrivo degli Austriaci, venne creata il 22 novembre una commissione straordinaria di polizia incaricata di intonare la struttura alle esigenze del trapasso verso la dominazione austriaca. Sarà tale commissione che ordinerà, a fine dicembre, la distruzione di buona parte dei registri e delle carte di polizia dei mesi democratici.
Il dibattito ideologico-politico e culturale che venne tenuto aperto nei mesi del 1797 a Venezia fu di grande intensità, sia a paragone di molte situazioni del passato, sia, ancor più, a paragone delle situazioni che di lì a pochi mesi si sarebbero create con la venuta degli Austriaci. Un dibattito ampio e abbastanza disinibito forse anche perché la realtà politica di fondo era gestita da Francesi ed Austriaci e non era per gli uomini della municipalità in alcun modo dominabile, quindi un dibattito che molto verteva sul virtuale (100).
Dei sei comitati che, un po' a modo di ministeri e un po' a modo di assessorati municipali, costituirono gli organi di governo della municipalità, quello dell'istruzione pubblica fu il comitato in cui il dibattito teorico, il dibattito sulle ipotesi ed anche sulle fantasie di riforma della società, dello stato, della cultura, ecc., assunse contorni meno relativizzati dalle necessità, pur perentorie, del contingente.
Al comitato era stato affidato il compito di promuovere la "buona educazione repubblicana"; di promuovere presso i cittadini l'"amor della libertà e della virtù"; di pianificare le "feste nazionali, i pubblici spettacoli e le rappresentazioni teatrali". Dunque compiti di politica culturale e propaganda democratica. I cinque suoi membri nominati inizialmente furono i due abati Antonio Collalto e Agostino Signoretti, gli ex patrizi Pietro Antonio Bembo e Francesco Gritti, nonché Nicolò Rota. Tranne quest'ultimo che era un commerciante, gli altri erano - a vario titolo - degli intellettuali già da tempo attivi nel vecchio regime.
Tra le molte iniziative in cui il comitato si adoperò ci fu quella di elaborazione di progetti per la riforma scolastica: scuole primarie gestite dallo stato, aperte a tutti e gratuite, per impartire l'istruzione di base (leggere, scrivere e principi di matematica) accompagnata da educazione civile e politica e da rudimenti di addestramento al maneggio delle armi; riorganizzo delle scuole superiori e introduzione in esse dell'insegnamento della lingua francese; ristrutturazione del corpo insegnante con creazione della figura del preside; soppressione delle scuole per i chierici; altri progetti ancora per lo più esemplati sull'esperienza francese. Tutto rimase sulla carta sia per mancanza di tempo che per mancanza di denaro.
Il comitato, d'intesa con la municipalità, incoraggiò in vario modo l'attività degli artisti veneziani specie se intonata alle tematiche della democrazia. Per esempio, promosse la loro partecipazione al premio Curlandese indetto dall'amministrazione centrale del dipartimento del Reno di Bologna. Per l'anno 1798 i temi proposti dal concorso erano: per la pittura, la vicenda di Attilio Regolo; per la scultura, Porzia suicida dopo la morte di Bruto; per l'architettura, il progetto di una scuola d'artiglieria; per l'intaglio in rame, la riproduzione di un quadro di autore classico.
L'impresa senza dubbio più efficace e produttiva del comitato fu quella della promozione della società di istruzione pubblica. Un'impresa cui dette molto contributo anche il comitato di salute pubblica e che venne lanciata da un decreto della municipalità del 27 maggio che ne indicava gli scopi: "diffondere rapidamente i lumi, mostrare al popolo i suoi veri interessi, dargli i mezzi sicuri per riconoscere i suoi veri amici e smascherare quelli che cercano d'ingannarlo". Un manifesto venne reso noto in città il 28:
Uomini liberi di Venezia, uomini coraggiosi ed energici [...] riunitevi e gettate i fondamenti di quella Società di Pubblica Istruzione che deve dare l'ultimo crollo alla tirannia e al dispotismo [...]. Voi dovete condurre il popolo alla carriera della libertà [...] fondare la libertà non sui principi rovinosi dell'ignoranza, ma su quelli immutabili ed eterni della verità e della virtù (101).
La società ebbe uno statuto. C'era un presidente eletto ogni quindici giorni che regolava le sedute e c'erano dei comitati di sette membri. Precisamente: il comitato di censura, che vagliava, soprattutto sotto il profilo politico, le richieste di ammissione e le denunzie che fossero state presentate da qualunque cittadino contro un associato o comunque contro i "nemici della libertà"; il comitato di istruzione, composto da "patrioti illuminati", il quale, con ogni strumento, doveva "promuovere lo spirito pubblico", doveva relazionare sui libri meritevoli, presentare i soci esteri, dare avvio a una biblioteca e sala di lettura; il comitato di corrispondenza, il quale doveva tenere i contatti epistolari con le società d'istruzione che erano andate creandosi un po' dappertutto; il comitato di beneficenza, che doveva raccogliere mezzi finanziari da erogare ai patrioti indigenti; il comitato d'economia e d'ispezione di sala, incaricato dei servizi di tesoreria (raccolta contributi, doni, proventi di collette, nonché amministrazione spese) e della disciplina nella sala riunioni. In questa sala era previsto un recinto dove sedevano i soci e una zona per il pubblico. Il presidente accordava la parola sui punti all'ordine del giorno prima ai soci ed indi anche a chi del pubblico ne avesse fatto richiesta. Una volta che si fosse ritenuto sufficientemente sviscerato un argomento, la discussione su di esso veniva chiusa e non poteva essere riaperta. I soci si distinguevano dai non soci per via di una stampiglia che erano tenuti a portare infilata sul cappello durante le sedute e che costava 2 lire venete.
Notevole il fatto che vennero ammesse le donne. Alcune di loro prenderanno la parola alla tribuna. Si distinguerà Annetta Vadori che perorerà per il riconoscimento dell'uguaglianza dei sessi e per il pieno inserimento delle donne nella società (102).
Ci fu subito una ressa di soci, di aspiranti soci e di pubblico. Ci si riuniva ogni giorno. Prima riunione il 29 maggio. A metà giugno la sala delle riunioni (sala dei Filarmonici nelle Procuratie vecchie, seicento posti) scoppiava di gente. La società ottenne di trasferirsi al Ridotto con i suoi milletrecento e più posti (più tardi ci sarà ancora un trasferimento presso la Scuola grande di San Teodoro a San Salvatore). Dettagliate informazioni sulle prime sedute le dette il giornale "Il Libero Vencto" (103) di cui era redattore Carlo Lauberg, poi la società si dotò di un bollettino giornaliero suo proprio, il "Prospetto delle Sessioni della Società d'Istruzione Pubblica di Venezia" (104) il cui primo numero uscì il 26 pratile (14 giugno), nel quale vennero riportati i verbali delle sedute firmati dai presidenti della società che via via si succedettero (Sebastiano Salimbeni per qualche giorno, poi Carlo Lauberg, Zorzi Ricchi, Flaminio Massa, Paolo Padovani, Pietro Sala, Demetrio Naranzi, ancora Salimbeni, Giobatta Psalidi, Piero Colucci). Il "Prospetto" riportava menzione degli interventi e qualche nota sul clima vibrante della sala.
Alla società ci fu un fiume di discorsi. Ordini del giorno come: la libertà e l'uguaglianza; l'unità e l'indipendenza italiana; la democratizzazione del linguaggio; i rapporti con gli ex aristocratici; la sovranità del popolo; le varie forme del dispotismo; l'istruzione pubblica come consolidamento della libertà; preti ricchi e preti poveri; gli insegnamenti da trarre dalla storia; la rilettura della storia dell'ex Repubblica con la rivalutazione in chiave democratica dei secoli anteriori alla trecentesca "Serrata" del maggior consiglio e qualche problema sulla valutazione della "congiura" di Baiamonte Tiepolo (azione antiserrata, oppure semplice tentativo di conquista del potere?); l'unione delle città libere e il federalismo; unione ed indivisibilità dell'Italia; necessità di scuole di marina e di commercio; forme del vero governo democratico; forme del governo popolare; Beccaria e l'attenuazione della severità delle pene e l'abolizione della tortura; influenze della democrazia sulla morale; necessità di creare uno spirito guerriero nei cittadini; l'importanza dell'azione dei parroci per creare consenso alla democrazia; i caratteri del vero e del falso patriota; l'influenza delle donne sullo spirito pubblico, ecc. Il 17 luglio, Vincenzo Monti, accolto nella società, si giustificò per la sua reazionaria Bassvilliana scritta qualche tempo prima.
Di rimbalzo venivano ripresi anche i temi dibattuti nelle adunanze della municipalità e dei comitati che si susseguivano senza sosta di giorno e di notte. Temi più concreti: il riorganizzo dell'economia; la liberalizzazione dell'impresa e del lavoro e la questione delle corporazioni; i crescenti concreti bisogni popolari (inutile pensare all'istruzione del popolo se prima non si fosse pensato a sostentarlo); i pericoli controrivoluzionari di fine luglio; il commercio veneziano e le ragioni della sua decadenza; la ristrutturazione ex novo dell'amministrazione della giustizia; il problema della legittimità costituzionale e rappresentativa rispetto alle ex province; il quadro dei rapporti internazionali che evolveva sulla testa delle municipalità venete con fili di sviluppi contraddittori tra il direttorio di Parigi, Bonaparte, l'Austria, nonché i patrioti italiani che si adoperavano per la prospettiva di una grande repubblica nazionale.
Il 19 giugno giunse la richiesta di iscrizione di Ugo Foscolo (105): "Cittadini! Fra i schiavi e i tiranni vantai libertà: martire della democrazia abbandonando Venezia, corsi a cercarla nel seno della Romagna già libera. La Repubblica Cispadana m'accolse e mi fregiò d'onori non troppo a me cari, perché non erano onori della mia patria; ma la patria divenne libera e io volai". Foscolo - 19 anni - aveva lasciato Venezia alla fine di aprile e, a Bologna democratizzata, aveva pubblicato l'ode Bonaparte liberatore. Ritornato in città, il 20 giugno già egli pronunciava il suo primo discorso alla tribuna della società: un attacco ai ridotti da gioco come covi di ex aristocratici. Pochi giorni dopo, parlava sulla storia d'Italia: le epoche degli splendori della libertà e le epoche della decadenza c delle tirannidi. Dopo il 23-24 luglio e i torbidi popolari nel sestiere di Castello, fu lui a leggere il decreto draconiano della municipalità che minacciava la pena di morte contro coloro che avessero messo in piedi mene eversive, e vi aggiunse - come dicono i verbali - "brevi ed energici personali riflessi". La sua tendenza era di portare tutto a tensione estrema, sproporzionata alle possibilità di rispondenza da parte della concreta realtà sociale veneziana. Egli batté e ribatté su una questione: armare i cittadini. Machiavelli fu l'autore da lui più usato alla tribuna. Qualcuno - vecchio riflesso moderato dei Veneziani - nel sentirlo reclamare le falangi di Roma e le ragioni della forza anche per la democrazia, gli ribatterà: "No alla forza, sì al diritto! No al fanatismo, sì alla libertà, alla fraternità, all'unione!". Verso settembre, pur continuando a predicare la fermezza, egli cominciò a mostrare qualche oscillazione. Se ne venne fuori ad ammonire che la libertà dei popoli dell'universo era solo una chimera del repubblicano. Le grandi immagini tragiche della libertà e della tirannide e le suggestioni della necessità rivoluzionaria recepite dal corrente repertorio francese lo eccitarono a lanciare truci inviti a perseguire i falsi patrioti, i "nuovi Catilina". Non avvertì che gli schemi retorici a riferimento classicistico che adoperavano i patrioti potevano essere agevolmente ribaltati contro di loro: un'operazione del genere avrebbe potuto portare ad individuare i liberticidi nei Francesi ed i demagoghi nei democratici. Era un'operazione che alcuni intellettuali stavano già compiendo: Vittorio Barzoni, primo fra tutti.
Via via che la municipalità si scontrava con le crescenti difficoltà, in Foscolo si accentuò il bisogno del rigore. Occorreva credere in piena verità ai ruoli che si assumevano rispetto alle situazioni reali. Il letterato doveva correre la stessa avventura che correva l'uomo comune. La grandezza del poeta poteva ben valere per se stessa, ma non per giustificare gli eventuali cedimenti dell'uomo ch'egli era e rimaneva. Fu con questo bisogno di rigore ch'egli affrontò la questione Alfieri, emersa quasi per caso alla società nella seduta del 22 settembre. Onore allo scrittore Alfieri, egli proclamò in uno dei suoi interventi più vibranti, felice l'Italia se tutti i tragici lo uguagliassero. Ma si tenga distinto il poeta Alfieri dall'uomo Alfieri rifugiato all'ombra protettrice del neutrale granduca di Toscana. Anch'io - egli proclamò -, anch'io Foscolo, temo gli effetti della libertà prezzolata, ma grido contro l'antica tirannide. Io non sarò forse ascoltato, ma avrò promulgato la verità! Alfieri tace! Alfieri non parla che per lanciare rampogne all'Italia: Alfieri dunque non ha diritto alla stima dei patrioti.
Già dal 23 luglio, a 40 ducati al mese, Ugo Foscolo lavorava come segretario estensore dei verbali delle sedute della municipalità. Un'esperienza che lo metteva a giornaliero contatto con la realtà dei problemi organizzativi, economici, sociali, politici della città e con un'assemblea effervescente e numerosissima di municipalisti e di pubblico. Una non trascurabile, rapida scuola di maturazione civile e umana. Dalla tribuna della società d'istruzione le sue prese di posizione si fecero sempre più scomode: lungo i secoli il ruolo delle gerarchie ecclesiastiche a sostegno delle tirannidi; la funzione del letterato al servizio del sociale; l'invito ai Veneziani ad abbandonare i costumi di millenni, abbandonare l'illusione di identità da ricercarsi nel passato. Gli scontri con gruppi di soci che dissentivano si fecero in qualche caso acuti, ma si conclusero di solito con scambi pacificatori di "amplessi fraterni". Finché un giorno Foscolo si stancò anche di questa mistificazione e s'indignò: "Una democratica legislazione è quel che serve! E non amplessi fraterni che facilmente smarriscono dalla memoria e dal cuore!".
All'inizio di ottobre, troviamo un Foscolo fidante nelle illusioni alimentate da Dandolo spedito presso Napoleone a Passariano, un Foscolo che alla tribuna della società esulta: "Venezia tra poco sarà unita alla Cisalpina e l'Italia sarà allora una repubblica indivisibile". Ma il 14 ottobre egli appare già disilluso. Il clima era di ansia per le trame che parevano nascondersi dietro l'affare Cercato. Trame di controrivoluzione e non piccolo intrigo di millantatori in cui anche qualche municipalista sembrava essersi impigliato. Foscolo attaccò alla tribuna i nemici del popolo e i traditori e li individuò nei ricchi e nei facoltosi. Se ne uscì con una battuta più che giacobina: "Noi non faremo cadere molte teste di oligarchi - come diceva il filosofo - per stabilire la democrazia, ma, pensando meglio, torremo loro i denari e lasceremo loro la vita". Quell'attacco alla proprietà parve un po' troppo. Anche chi di solito solidarizzava con lui si tirò indietro. Ma Foscolo resistette e nella replica fece solo una concessione: "Convengo che i ricchi non si debbano spogliare del tutto, ma [soggiunse] sono fermamente d'avviso che si debbano sottoporre a una legge agraria. Ov'è miseria e corruzione non v'è libertà. Le repubbliche che si sono mantenute libere hanno cercato possibilmente di favorire l'uguaglianza delle fortune tra i cittadini" (106).
Che la società d'istruzione fosse un covo anche di estremisti lo pensavano in molti. Come si è detto, l'influenza del comitato di salute pubblica era molto forte. In giugno l'incaricato d'affari austriaco von Humburg l'aveva segnalato al suo governo. In luglio il rappresentante francese Lallement, preoccupato di iniziative della società che interferivano con quelle della municipalità o, peggio, sembravano condizionarle, ne chiese la soppressione. Il 10 luglio la municipalità discusse a lungo la faccenda ed alcuni municipalisti denunciarono gli attacchi personali di cui erano stati fatti segno alla tribuna della società. Alla fine si convenne di assicurare il Lallement che la municipalità avrebbe preso misure adatte a tenere in disciplina la società di istruzione pubblica. Il sodalizio continuò a funzionare, ma, per fama diffusa, continuò anche ad essere considerato il luogo d'incontro dei portatori di posizioni radicali.
Quando, a fine ottobre, filtrarono a Venezia informazioni sempre più precise circa i contenuti del trattato di Campoformido, alla società la delusione fu fortissima. I dispacci di von Humburg di fine ottobre-primi di novembre ci raccontano di Giorgio Pisani, già vittima degli inquisitori di stato e liberato dalla relegazione nei giorni della democratizzazione di Brescia, il quale a spada sguainata invitava dalla tribuna della società i Veneziani a difendere la libertà con le armi e a liberarsi dei sospetti; ci raccontano di un Foscolo infuriato contro Bonaparte e reclamante vendetta davanti a una rabbiosa assemblea. Erano gli ultimi giorni: già il 10 di novembre la società non c'era più e la deputazione dei cinque che stava organizzando il passaggio della città all'Austria decretava la restituzione dei locali in cui si erano tenute tante tumultuose sedute.
Nella seconda metà di maggio, il comitato di istruzione pubblica si trovò subito impegnato a dire la sua sulle configurazioni da dare alla libertà di stampa. Era stato infatti proclamato tale principio e una quantità enorme di stampati di ogni sorte aveva cominciato a riversarsi sul mercato. Qualcuno, come il patriarca Federico Maria Giovanelli, incominciò a lamentare la "smoderata licenza delle stampe contro la religione, la morale e la personalità" (107). Emerse il problema dei controlli sui contenuti delle pubblicazioni, controlli che tuttavia non si voleva avessero a somigliare alla censura di infausta memoria. I mesi della municipalità vedranno una vicenda di instabili equilibri via via cercati tra queste due esigenze. Per intanto, già il 23 maggio, si decretò che, comunque, in ogni stampa figurasse il nome dell'autore e dello stampatore, pena l'arresto di quest'ultimo. Alla società di istruzione, pur difendendosi il principio della libertà di stampa, tuttavia si tuonava (Zorzi Ricchi) contro i libelli che attaccavano il governo, che attaccavano "i funzionari sublimi" e i "buoni patrioti". In qualche momento di particolare eccitazione (fine luglio), in cui qualche municipalista (Giuliani) credette di vivere in una sorta di 1793 giacobino, si arrivò a proporre la pena di morte per coloro che avessero messo in circolazione stampe incitanti alla sovversione delle autorità costituite. In settembre ci si preoccuperà di preordinare mezzi di repressione (pena della prigione) contro coloro che, a mezzo stampa, avessero propalato notizie allarmanti "che fossero false o che tendessero a fomentare l'inquietudine del popolo". In ottobre si chiederà alla corporazione degli stampatori la consegna agli organi di sicurezza di ogni cosa si stampasse. Fra novembre e gennaio, quando peraltro il ritmo delle stampe si era assai calmato, la sorveglianza e la repressione si organizzerà in termini più oculati e perentori e finirà per avere riguardo non solo a ciò che si chiedeva di pubblicare, ma anche a ciò che nei mesi precedenti si era pubblicato.
Un dibattito sviluppatosi a margine della proclamazione della libertà di stampa fu quello acceso da un gruppo autorevole di stampatori-editori circa la proprietà letteraria sugli scritti pubblicati. Ci si batté perché la libertà non significasse possibilità di editare, senza limiti, senza regole e senza costi, quel che altri aveva già pubblicato, non significasse, cioè, la mortificazione della proprietà letteraria, per la quale, anzi, si mostrava una nuova accentuata sensibilità. L'eccezionalità dei tempi portò anche alla riacutizzazione di certe lotte all'interno della forte corporazione degli stampatori e librai, lotte culminate in una sorta di contestazione dal basso del gruppo degli editori più forti che controllavano la corporazione e con l'imposizione, a fine agosto, delle dimissioni del priore.
Di grande importanza per l'informazione dei cittadini e per la diffusione dei temi dei dibattiti, compresi quelli politici, furono i giornali. Giornali compilati a Venezia e giornali che, senza più remore, giungevano dai territori italiani democratizzati. Fra i giornali veneziani si può distinguere tra quelli che esistevano già con il vecchio regime e continuarono le pubblicazioni e quelli che cominciarono a uscire dopo il 12 maggio del 1797.
Venezia aveva una grande tradizione nel campo della pubblicazione dei periodici (108). Molti di questi, più o meno intonatisi al nuovo clima democratico, continuarono la pubblicazione anche durante il periodo della municipalità.
"Il Nuovo Postiglione ossia compendio de' più accreditati fogli d'Europa", pubblicato sin dal 1741 e diretto, dal 1796, da Antonio Caminer, continuò a pubblicare notizie politiche e militari italiane ed estere e mantenne un tono moderato rispetto agli avvenimenti succedutisi nel 1797, "attento a dar le cose più che le frasi". Ciò non evitò al Caminer, verso la fine di agosto, di essere arrestato e "seriamente corretto" dal preside di polizia per aver diffuso la notizia che le trattative austro-francesi stavano portando a un accordo per l'assegnazione del Veneto all'Austria.
Il bisettimanale "Gazzetta Urbana Veneta", pubblicato sin dal 1787 e compilato da Antonio Piazza, allargò la sua dimensione cronachistica cittadina alla politica pubblicando le decisioni della municipalità e dei vari comitati, dando particolare rilievo alle manifestazioni civico-patriottiche e intrattenendo con i lettori una corrispondenza non aliena dal toccare argomenti della vivace attualità di allora.
Abbastanza simile fu la linea del quotidiano "Notizie del Mondo" (un tempo diretto da Giuseppe Compagnoni) il quale allargò la consueta nutrita informazione sugli avvenimenti esteri alle principali evenienze politiche cittadine.
Adeguandosi più o meno intensamente alle novità, continuarono anche periodici in qualche modo specializzati nell'informazione letteraria, filosofica, scientifica, economica: come il mensile "Nuovo Giornale Enciclopedico d'Italia" (cui aveva lavorato Elisabetta Caminer); come i mensili pubblicati unitamente "Mercurio d'Italia Storico-politico" e "Mercurio d'Italia Storico-letterario"; come l'"Anno Poetico ossia Raccolta annuale di poesie inedite di autori viventi", un tometto annuale a cura di Angelo Dalmistro che nel 1797 presentò anche componimenti poetici di Vittorio Alfieri, Melchiorre Cesarotti, Ugo Foscolo, Giovanni Pindemonte e Giuseppe Valeriani; come i volumetti mensili de "Il Teatro Moderno Applaudito ossia Raccolta di tragedie, commedie, drammi e farse che godono presentemente del più alto favore sui pubblici teatri così italiani, come stranieri; corredata di notizie storico-critiche e del giornale dei teatri di Venezia" che, nei mesi della municipalità, sosterrà la produzione teatrale democratica ed il teatro Civico; come, infine, "La Storia dell'Anno MDCCXCVII", ma poi anche "La Storia dell'Anno MDCCXCVIII", i volumi annuali della serie che era iniziata nel 1736 e finirà nel 1810. Nel volume per l'anno 1797 si parla della fine della Repubblica nel contesto degli avvenimenti europei fino al trattato di pace tra Venezia e la Francia firmato il 16 maggio (l'estensore, con ogni probabilità l'abate Pegorini, rimpiange che non si fosse cercato di resistere a Napoleone almeno per strappare migliori condizioni di pace). Nel volume per l'anno 1798 si parla dei mesi democratici in chiave ormai critica.
Tra i periodici usciti per la prima volta con la municipalità si può distinguere tra quelli strettamente funzionali all'azione dell'amministrazione municipalista, quelli riflettenti definite posizioni politiche dei redattori, e quelli limitanti il loro impegno alla semplice cronaca ed informazione.
Un periodico semiufficioso occupato quasi esclusivamente nella rendicontazione dei lavori della municipalità fu il "Quadro Sessioni Pubbliche". Usando di uno stile giornalistico assai spigliato, nuovo ed efficace, il giornale, che si pubblicava a giorni alterni, dava conto dettagliato dello svolgimento delle sedute pubbliche (quelle dei giorni dispari) dell'assemblea municipalista sia per quel che riguardava le discussioni e le decisioni, sia per quel che riguardava le reazioni del pubblico ed il clima della sala. Rappresenta ancor oggi uno strumento utilissimo per completare ed integrare l'informazione che ci viene dai verbali ufficiali delle sedute della municipalità (109).
Importante bisettimanale schierato su posizioni democratiche e filofrancesi pronunciate fu "Il Monitore Veneto" diretto dal veneziano Giuseppe Valeriani e dal milanese Luigi Bossi, ambedue ex preti e ambedue membri di spicco della società d'istruzione. Accanto all'informazione relativa alle vicende e ai dibattiti politici interni, il giornale recava notizie dall'estero e notizie letterarie a dimensione italiana, non disdegnando qualche composizione poetica "impegnata". Parecchie furono le polemiche in cui prese posizione e in cui fu invischiato (110).
Altro periodico (tre e poi due numeri alla settimana) schierato sul fronte dell'azione ed educazione ideologica democratica fu "Il Libero Veneto" (111) compilato dal fuoriuscito napoletano Carlo Lauberg in collaborazione e in alternativa con l'abruzzese Flaminio Massa. Ambedue convinti democratici e membri influenti nella società d'istruzione di cui il loro giornale seguirà assiduamente i lavori, essi sembrano prefigurare quelli che saranno gli agitatori politici di professione della futura stagione del Risorgimento italiano.
Assai in ritardo - dal 1° settembre 1797 - uscì il bisettimanale "Redattore Veneto" curato da Flaminio Massa. Un giornale che cercò di corrispondere nel modo giornalisticamente più vivace alla funzione di dilatare in termini tempestivi presso porzioni più ampie possibili della opinione pubblica l'informazione sui dibattiti politici ed ideologici in corso nelle sedi municipaliste.
Connotazioni molto originali ebbe il giornale di Vittorio Barzoni (un intellettuale originario di Lonato accolto da tempo nei circoli culturali veneziani) recante il titolo "L'Equatore" (nel senso di "eguagliatore", di imparziale nei confronti dell'aristocrazia come della democrazia). Si trattò di una pubblicazione che - se pure dichiaratamente periodica - si concretò in quattro libretti (da un minimo di ventiquattro a un massimo di quarantotto pagine) usciti a scadenze irregolari (esistono anche le prime otto pagine di un quinto libretto). In essi il Barzoni presentava una serrata conversazione tra alcuni personaggi, ciascuno portatore di precisi umori ideologico-politici. Ad esempio, nel primo numero de "L'Equatore" i protagonisti erano un viaggiatore, un filosofo, un certosino e uno stampatore. Il viaggiatore è presentato come un entusiasta per i cambiamenti e le novità; il filosofo è più rattenuto, ragiona da colto illuminista, ma invita a non credere possibile la realizzazione di chimere; il certosino è un misoneista e vede il male in tutto ciò che è nuovo; lo stampatore è quegli che invita a guardare con scetticismo ad ogni sistema di governo, compreso quello democratico, come inevitabilmente escludente la possibilità di una partecipazione diretta della maggioranza dei cittadini al potere. Lo stile di Barzoni è polemico, ironico, corrosivo, teso a rendere efficaci gli intenti demistificatori che erano uno dei fili conduttori della sua polemica rivolta sia contro l'aristocrazia che contro i Francesi e la demagogia democratica. I quattro interlocutori ricompaiono nel secondo e terzo libretto e prendono a partito di discussione l'esperienza democratica italiana e veneziana in atto e la prospettiva - per il Barzoni non immediata - di costruzione di uno stato, di una repubblica italiana. Nel quarto libretto i conversatori cambiano qualificazione (un "incredibile", un favolatore, un ufficiale francese, un patriota), ma il meccanismo della discussione è il medesimo. Il tema dominante è quello della inanità della rivoluzione ("magnifica menzogna") a liquidare il dispotismo, a cambiare la sostanza profonda degli atteggiamenti sociali e politici degli uomini (al massimo potranno aversi cambiamenti "di grammatica, nel dizionario, nella fraseologia, e mai nelle cose"). Chiaro che la proposizione di umori di tal genere - oltre a tutto attuata con maestria dialettica ed espressiva - non poteva non attirare gli interventi censori che in effetti non mancarono e si concretizzarono con un sequestro il 6 ottobre in coincidenza con il fermo dell'autore per via di un alterco in pubblico con il rappresentante francese Villetard (112).
Di minor conto per varie ragioni, non ultima quella della non adeguata reperibilità di copie superstiti, sono altre testate come: "Il Libero Veneto Spigolatore" di cui si conserva un solo numero (il 1° del 31 maggio 1797); "L'Amico del Popolo" di cui si conservano cinque numeri stampati tra maggio e agosto; "L'Osservatore Patriotico" di cui si conservano due numeri (14 e 17 giugno, in uno dei quali si avanza una certa preoccupazione sul fatto che la società d'istruzione possa interferire con le funzioni proprie della municipalità); "L'Italiano Rigenerato" di cui si conserva il numero 25 del 6 agosto. "Il Monitore Lombardo Veneto, Traspadano e Cispadano", un bisettimanale di cui si conservano alcuni numeri del giugno. Conservata è la collezione del bisettimanale "Campana a martello ossia tocchi i più forti di vari fogli" (ventitré numeri dal 18 agosto al 3 novembre), ma si tratta di una sorta di zibaldone di pezzi pubblicati in altri giornali italiani scelti spesso con il criterio di soddisfare un pubblico non esigente. Non a caso ebbe un buon successo commerciale.
Periodici di carattere un po' particolare furono il "Prospetto delle Sessioni della Società d'Istruzione Pubblica di Venezia" (113), di cui si è detto, e gli "Annali della Libertà Veneta ossia Raccolta completa di carte pubbliche stampate ed esposte ne' luoghi più frequentati della città di Venezia" che si apparenta più al genere delle "raccolte" di carte ufficiali e non ufficiali che a un vero periodico (si tratta di tometti mensili di circa trecento pagine che raccolgono fascicoletti di sei-sette pagine, numerati giornalmente - di qui qualche caratteristica da "giornale" - pubblicati tra maggio e settembre dallo stampatore e libraio Giacomo Storti, contenenti proclami, decreti, discorsi delle autorità con indice alfabetico delle materie). Per la massima parte furono pubblicati scritti favorevoli alla democrazia e alla municipalità, ma ci fu anche una produzione alla macchia (per lo più fogli volanti manoscritti, caricature, graffiti, ecc.) che, specie con la satira, esternò il dissenso assai diffuso tra la popolazione, così come ci furono ripetuti atti di sfregio della simbologia democratica impiantata un po' dappertutto in città (114).
A proposito di raccolte, conviene ricordare che, durante il periodo della municipalità, a Venezia come altrove venne effettuato un ragguardevole sforzo da parte degli stampatori-editori volto a raccogliere e ripubblicare in volumetti non solo i proclami e i decreti ufficiali, ma anche i discorsi, le "istruzioni", i pamphlets, ecc., che gli uomini pubblici e anche i privati davano alle stampe in tema di ordini, valutazioni, controvalutazioni, dibattito circa quel che stava avvenendo e circa il futuro a cui ci si avviava. Pertanto accanto ai numerosi fondi archivistici e bibliotecari che conservano gli originali (115), possediamo un discreto numero di tali raccolte di ristampe. A titolo di esempio, ricordiamo una delle più cospicue e cioè: Raccolta di carte pubbliche, istruzioni, legislazioni ecc. del nuovo Veneto Governo Democratico, dello stampatore Silvestro Gatti (116). Va ripetuto che la quantità di materiali pubblicati fu veramente enorme. Solo con riferimento agli opuscoli, Stefano Pillinini ne ha calcolato una pubblicazione di almeno due al giorno.
Anche in termini strettamente archivistici occorre ricordare che la vicenda della municipalità veneziana appare largamente documentata. Presso l'Archivio di Stato di Venezia sono conservate 185 buste per il fondo Democrazia. Municipalità provvisoria. Inoltre alcuni fondi (per esempio del comitato di istruzione pubblica e del comitato di sanità) sono compresi nei fondi archivistici di corrispondenti magistrature della ex Repubblica, così come altre carte (per esempio, giudiziarie) sono comprese in fondi archivistici del successivo governo austriaco (117).
Venezia aveva otto teatri principali: San Cassiano, San Luca, San Moisè, San Samuele, Sant'Angelo, San Giovanni Grisostomo, San Benedetto, La Fenice. Al Sant'Angelo Foscolo nel gennaio del 1797 aveva presentato la tragedia Tieste.
Tra il maggio 1797 e il gennaio 1798 il teatro fu coinvolto nel nuovo clima politico anche come strumento per sostenere le ideologie democratiche. Nella "Gazzetta Urbana Veneta" (118) si poteva leggere che per la rigenerazione del popolo era indispensabile provvedere alla riforma degli spettacoli e "bandire le insulse commediacce all'improvviso e le favole e le rappresentazioni allegoriche e mitologiche che stordiscono gli ignoranti senza illuminarli e correggerli". Si chiedeva che il teatro fosse "una scuola piacevole di costumi, una dottrina di morale in azione". Il comitato di istruzione pubblica invitò gli operatori ad allestire spettacoli per la formazione del vero cittadino democratico e repubblicano.
A fine maggio, un comitato di cittadini (primo nome Foscolo) lanciò un manifesto per promuovere un teatro democratico e fu fondata una società del teatro Civico che ottenne dalla famiglia Grimani l'uso del teatro di San Giovanni Grisostomo.
In quel teatro, dal 10 luglio al 1° ottobre, ebbe vita l'esperienza del "teatro giacobino" o "teatro patriottico". Ad opera di gente del mestiere e di cittadini volonterosi, furono messi in scena diciassette spettacoli (cinquantacinque recite). Il repertorio andò dalle tragedie di Alfieri alle "farse" del padovano Simeone Antonio Sografi il quale si può considerare l'autore di spicco dei mesi della municipalità. Fra gli altri spettacoli allestiti possiamo ricordare: La Locandiera di Goldoni, La morte di Cesare di Voltaire, nonché alcune pièces "impegnate" quali Il podestà delle Gambarare di Giovanni Kreglianovitz, L'accademia dei villici di Giovanni Comarolo e la tragedia di Ippolito Pindemonte Orso Ipato, una rivisitazione in chiave democratica della leggendaria difesa delle libertà repubblicane ai primordi della storia di Venezia da parte di Obelerio che si era opposto al tentativo di instaurazione monarchica del doge Orso Ipato (119).
Il lavoro più impegnato e più di successo sul fronte del teatro "patriottico" fu certo quello del Sografi (120). Il suo allestimento più celebre fu Il matrimonio democratico ossia il flagello dei feudatari. L'azione teatrale si svolge a Venezia. Un cameriere di locanda e la figlia di un conte si ritrovano innamorati, ma le differenze sociali bloccano il loro amore. Un cittadino democratico li aiuta a demitizzare la nobiltà e a prender coscienza del diritto di tutti i cittadini alla libertà e all'eguaglianza. L'arrivo dei Francesi a Venezia e la fine del governo aristocratico inducono la democratizzazione del conte padre e consentono un matrimonio democratico tra i due innamorati nel mentre che gli ospiti della locanda intonano in coro un inno patriottico di cui ecco qualche passaggio: "Torna Venezia bella / Al tuo natio splendore / Torna all'antico onore / Della tua prima età / Libera alfin tu sei / Libera dir tu puoi / Vivano i franchi eroi / Viva la libertà".
Ma poi anche in taluni degli altri teatri si lavorava, sia pure a ritmo ridotto: a La Fenice (La morte di Cesare, musica di Francesco Bianchi); al San Benedetto (Seldano duce degli Svedesi, musica di Giuseppe Farinelli); al San Cassiano ("farsa allegorica" La fiera della libertà); al Sant'Angelo (Venzel del Sografi, "commedia repubblicana"); al San Luca (La figlia del fabbro, "commedia democratica"); al San Giovanni Grisostomo (La rivoluzione, "commedia patriottica").
Le feste, le cerimonie, le ritualità che erano state uno dei punti di forza della gestione sociale della città da parte dei vecchi governanti lo furono anche per la municipalità. Naturalmente gran parte delle manifestazioni del passato furono sostituite da nuove manifestazioni democratiche o, comunque, furono rinnovate nei loro contenuti e messaggi simbolici. Resistettero le principali manifestazioni civili-religiose (Redentore, Madonna della Salute, San Rocco) a cui la municipalità si limitò a partecipare.
Le più importanti manifestazioni pubbliche "democratiche" furono la festa della libertà il 4 giugno con l'erezione del relativo albero in piazza San Marco (ridenominata "Piazza Grande") di cui si è detto; la festa per i martiri della libertà (parata militare commemorativa al mattino con discorso di Baraguey d'Hilliers e regata al pomeriggio) nella data "rivoluzionaria" del 14 luglio; le feste (con regata) per la visita a Venezia di Giuseppina Beauharnais, allora moglie di Napoleone, tra il i 2 e il 16 settembre. Altre manifestazioni di rilievo si ebbero con l'erezione dell'albero della libertà a Murano il 19 giugno; con la solenne apertura del Ghetto il 10 luglio (l'abbattimento delle porte era stato decretato il 7, e il 13 si decretò che il quartiere avrebbe assunto il nome di "Riunione") (121); con una festa per le truppe francesi il 10 agosto (evoluzioni militari, danze e canti di inni patriottici, rogo del simulacro di un émigré); con un grande pranzo patriottico ai primi di ottobre in palazzo Ducale ("Casa della Comune"); con l'erezione, sempre in ottobre (il 15 e il 18), di alberi della libertà in campo San Polo (ribattezzato campo della Rivoluzione per via che ivi sorgeva casa Ferratini) e a Castello; con le commemorazioni funebri del generale Hoche il 5 ottobre e il 2 novembre (122).
Accanto alle scenografie, alle coreografie, ai discorsi ufficiali, in molte manifestazioni ebbero un posto importante gli inni e i canti, in taluni casi composti, parole e musica, ex novo, in altri casi riportati da originali francesi. Ci fu uno sforzo di far partecipare anche i ceti più popolari a queste manifestazioni, ma in generale la partecipazione fu tiepida e, dal punto di vista dell'adesione ideologica, poco convinta e poco cosciente. Tal tipo di manifestazioni cessarono a partire dalla fine di ottobre quando si riseppero le decisioni di Campoformido. Se già prima c'erano stati episodi di aperto esplicitato dissenso, da novembre gli atti di insofferenza nei confronti degli apparati della propaganda democratica si moltiplicarono sia nei quartieri popolari come Castello (abbattimento dell'albero della libertà) e sia in località dell'ex Dogado come a Pellestrina e Cavarzere. Qualche immagine di questo clima è coglibile nelle Memorie di Antonio Longo, che pure lavorò tra i democratici, le quali contengono molte informazioni sulla minuta vita cittadina nei mesi della municipalità (123).
Il 9 di novembre, il giorno stesso in cui si accordava al Foscolo la dispensa dall'ufficio di segretario, venne sospesa, ogni ulteriore vestizione della Guardia nazionale la quale, d'ordine di Napoleone, doveva essere ridotta a quattromila uomini, e la municipalità delegò gran parte dei poteri, soprattutto esecutivi, a una deputazione di cinque membri (Bujovich, Dolfin Valier, Gallino (124), Mocenigo, Giustinian Lollin) a cui poi ne furono aggiunti altri tre (Pisani, Signoretti, Spada). Fu denominata deputazione dei cinque con gli aggiunti.
Nei giorni successivi le cose funzionarono più o meno in questo modo: i cinque con gli aggiunti si mossero come un piccolo organismo di governo per gli affari politicamente più importanti in stretto rapporto con l'assemblea municipalista. Spesso erano i cinque che proponevano linee di condotta e decretazioni che la municipalità votava. Il 10 novembre si decise di non effettuare più sedute pubbliche della municipalità e limitarsi a quelle private, si decise di sospendere ufficialmente l'attività della società di istruzione pubblica, di far cessare la pubblicazione del giornale "Il Monitore Veneto", di mettersi in sintonia con le misure che già i Francesi del generale Sérurier avevano preso in materia di limitazione alla libertà di stampa. Il giorno dopo, l'11 novembre, venne soppresso il tribunale d'alta giustizia ed ogni altro organismo giudicante straordinario e si affidò la giustizia penale al tribunale criminale e correzionale ordinario. Quel che rimaneva delle truppe di linea e della Guardia nazionale passò alle dirette dipendenze del generale comandante la piazza, Sérurier.
La municipalità e la deputazione dei cinque si concentrarono sull'azione per mantenere l'ordine pubblico in città, per salvare quel poco che era salvabile dalle pretese francesi le quali sempre più assumevano i connotati espliciti del saccheggio e della rapina, per sistemare le pendenze debitorie e racimolare denaro per le spese giornaliere, salvare gli approvvigionamenti di base per la popolazione, allestire i rendiconti contabili dell'amministrazione municipalista. Come annoterà Andrea Spada nelle sue Memorie (in quelle settimane fu quasi sempre lui il "relatore" dei cinque in municipalità): "le operazioni governative erano paralizzate dalla certezza d'un cambiamento politico, e diveniva perfino ridicolo il nome delle autorità costituite, mentre agivano esse per la pretesa sovranità di un popolo che doveva fra poco esser ingoiato nel vortice degli austriaci domini, e perder persino il suo ruolo tra gli altri popoli d'Europa".
Il 14 novembre Vincenzo Dandolo, ritornato da Milano dove era stato bloccato con gli altri delegati inviati a Parigi, intervenne in municipalità con un discorso un po' piagnucoloso per informare che era stato lui, su pressante richiesta di Napoleone, a fornire una lista di municipalisti (dieci o dodici) per i quali era ipotizzabile un espatrio e ai quali sarebbe stato accordato l'inserimento nel corpo legislativo della Cisalpina. Anche il suo nome era stato aggiunto di pugno di Napoleone. Soggiunse che Napoleone e il direttorio della Cisalpina pensavano di devolvere parte del ricavato dei beni asportati dai Francesi da Venezia a vantaggio dei patrioti esuli. Beninteso solo se tali asporti fossero avvenuti senza opposizione della municipalità. Dandolo finì il suo discorso piangendo. La municipalità assunse, su quest'ultimo punto, una posizione di sdegnato rigetto delle ipotesi francesi (125).
È interessante che nella discussione seguita emergessero esplicite alcune considerazioni sull'avventura municipalista che volgeva al termine. Qualcuno (Widmann) riprese la considerazione espressa da Andrea Spada il giorno prima circa il fatto che la municipalità era stata partorita dall'abdicazione del maggior consiglio e cioè non v'era stata una presa del potere da parte di essa sibbene una sorta di eredità del potere ad essa quasi forzosamente devoluta. E riprese anche la considerazione che la composizione dell'assemblea municipalista era stata dettata dai Francesi e che la municipalità era stata sempre "vittima della forza e volontà francese" al punto che si poteva dire che i municipalisti fossero stati ridotti "a rappresentare un'azione comica". Qualche altro (Marconi), pur opinando che la municipalità dovesse continuare ad operare per il bene comune, riprendeva tale immagine ammettendo che era indubitabilmente vero che, sino a quel momento, la municipalità aveva "rappresentato una commedia".
Su istruzioni della deputazione dei cinque, i municipalisti Bujovich e Dolfin presero contatto con l'incaricato di affari austriaco a Venezia von Humburg. Questi rassicurò la municipalità che il governo di Vienna era d'accordo e soddisfatto che essa continuasse a gestire la situazione in città, soprattutto con riguardo al mantenimento dell'ordine pubblico. Contatti vennero presi con il generale Oliviero di Wallis il quale stava preparandosi a prendere materialmente possesso del Veneto e di Venezia.
Altra mossa della deputazione fu quella di sottrarre il potere concreto al comitato di salute pubblica e alla struttura di polizia da esso controllata. A tale scopo ispirò la creazione di una commissione straordinaria di polizia che avesse a vegliare sulla sicurezza e tranquillità interna. Il 23 novembre si varò tale organismo che vedeva alla sua testa Leonardo Giustinian (Bernardin Renier aveva rifiutato per non trovarsi poi inevitabilmente a far da coprotagonista nelle formalizzazioni del passaggio dei poteri all'Austria). Il municipalista Garagnin era preposto alle pattuglie e Fontana era preposto alla scelta e gestione della "sbirraglia", della bassa forza, stante che egli era stato segretario dell'ex consiglio dei dieci ed ex inquisitore di stato e pertanto conosceva "tutto il satellizio che avevano quei tribunali e sapeva il modo con cui farlo stare e tenerlo in disciplina".
La deputazione dei cinque volle controllare più da vicino anche la situazione economica e si fece affidare il compito di verificarla scavalcando il comitato finanza e altri organi preposti, alcuni dei quali in pratica non funzionavano più come la commissione straordinaria d'economia. Un decreto del 16 novembre l'autorizzò a stabilire la situazione dell'attivo e passivo della cassa e a proporre mezzi validi per prevenire le conseguenze più gravi del tracollo economico.
Andrea Spada insistette nel promuovere verifiche. Per esempio, una verifica esauriente dei conti delle casse del passato governo; la revisione dell'amministrazione Grego; verifiche contabili, affidate ai fratelli Stella, sulle spese dei singoli comitati; verifiche anche sulle gestioni economiche dei membri del comitato di salute pubblica che avevano provveduto agli incameramenti degli ori, argenti e tesoro di San Marco e che avevano tenuto la cassa di quel comitato in cui fino al 13 novembre erano entrati più di 50.000 ducati. Si mormorava che taluno avesse tenuto d'occhio anche i propri interessi personali. Quest'ultima verifica sarà tuttavia resa impossibile dall'asporto (forse compiacente) dei libri contabili e dei registri del comitato di salute pubblica da parte dei Francesi.
La deputazione dei cinque intraprese anche qualche piccola marcia indietro. Furono abolite le confische, gli avvocati riebbero i loro pieni diritti corporativi, fu ripristinata la possibilità di effettuare vestizioni di frati e monache, fu abolita la tassa sulle elemosine per le messe, fu abolita la tassa del 5% che gravava sulle vendite e cessioni di beni ex fedecommissari.
Già in settembre ed ottobre erano stati messi in atto dei giri di vite circa la libertà di stampa. Il 10 novembre si fece sapere che Bonaparte aveva dato disposizione perché nulla più si stampasse a Venezia senza l'imprimatur del comandante della piazza Sérurier o di suoi delegati. Pochi giorni dopo la municipalità rafforzava l'ufficio di controllo e la commissione straordinaria di polizia richiedeva alla corporazione degli stampatori copia di qualunque cosa si volesse mandare sotto torchio e copia di cose stampate nei precedenti mesi di libertà di stampa che non fossero più in tono con la "moderazione" imposta dalle nuove circostanze politiche determinate dagli accordi di Campoformido. Si arresteranno ai primi di gennaio gli stampatori Gatti e Zatta per aver pubblicato due scritti di Mallet du Pan in qualche modo critici sulla sorte riservata dai Francesi a Venezia e a Genova. Infine, sempre nella prima metà di gennaio 1798, si addosseranno all'ufficio di revisione, ormai vero e proprio ufficio di censura, responsabilità più severe per la concessione dei permessi di stampa (126).
Una importante operazione suggerita e attuata da Andrea Spada e dalla deputazione dei cinque fu quella del recupero delle riserve cittadine di sale e biscotto. Era successo che il generale Sérurier aveva sequestrato tali riserve essenziali per la vita in città e, non potendo portar via tutto, le aveva vendute a un cittadino francese il quale aveva offerto il biscotto in riacquisto alla municipalità e si era messo a vendere sottocosto il sale. A fine novembre Andrea Spada riuscì a convincere la municipalità a un'operazione che consentiva il recupero senza esborsi da parte dell'erario pubblico. Fu promossa una sottoscrizione di mercanti ed altri operatori economici per la somma di 450.000 franchi con la quale, tramite un prestanome, furono riacquistati dai Francesi sia il sale che il biscotto che andarono a costituire garanzia per i sottoscrittori della somma nel mentre che veniva ripresa la commercializzazione dei due generi di larghissimo consumo col mezzo di appositi appalti.
Ancor più importante fu l'operazione per sollevare la situazione del bancogiro tramite la sua privatizzazione. Poiché la dotazione finanziaria del banco era stata consumata sin dall'epoca del passato governo, Spada propose la ricapitalizzazione con una manovra che però poneva il banco in mano di operatori economici privati. Il 18 dicembre ottenne dalla municipalità un decreto in forza del quale i creditori del banco sopra una certa somma furono chiamati a ricostituirne la dotazione finanziaria mediante la cessione dei loro crediti, con ciò divenendo azionisti e gestori del banco stesso. A loro garanzia, la municipalità vincolava una certa massa di beni nazionali come, per esempio, i beni immobili conferiti al posto di pagamenti di tasse (ciò era stato ammesso da tempo), certi edifici pubblici, ecc.
Si era alla fine di novembre. Le truppe francesi incominciarono a partire. Si noleggiarono d'imperio barche e bastimenti per trasportarle. Cominciarono a lasciare la città i municipalisti e i democratici che avevano optato per la Cisalpina (Dandolo, Benini, Melancini, Bossi...). Qualcuno ebbe incarichi da Napoleone, come Sordina destinato a lavorare in qualità di commissario organizzatore nelle Ionie. Il Giuliani, di ritorno a Venezia, venne arrestato d'ordine del comandante Sérurier e trasportato a Mestre in quanto sospettato di una trama per creare scompiglio in città in un estremo tentativo di rimettere in gioco il passaggio all'Austria. Il porto era di nuovo bloccato e funzionava solo per i Francesi. Alvise Querini, che era stato l'ultimo ambasciatore della Repubblica a Parigi, venne arrestato d'ordine del direttorio, condotto all'isola di San Giorgio e poi tradotto in prigione a Milano. Si voleva sapere com'era andato il tentativo di corruzione di un membro del direttorio (forse Barras) messo in atto negli ultimi giorni della Repubblica dallo stesso Querini d'accordo con il senato veneziano. Più tardi egli fuggirà forse con qualche compiacenza di Francesi e Austriaci, questi ultimi sollecitati dal fratello che era riparato a Vienna. Non funzionavano più le contumace nei lazzaretti. La partita di banco perdeva nei confronti dell'effettivo per la penuria di numerario.
A metà dicembre il trattato di Campoformido venne ratificato a Rastadt dove era riunito il congresso per la pace generale. Incessanti, irresistibili, continuavano le richieste francesi, i saccheggi. Si cercava di portar via tutto. Tra la costernazione popolare, furono imbarcati i quattro cavalli di San Marco per un periglioso viaggio (tra l'altro il naviglio che li trasportava si arenerà nei pressi di Loreo). La popolazione non risparmiava ingiurie ai Francesi ed essi procedevano a qualche arresto. Dall'Arsenale, che nei mesi della municipalità aveva varato parecchie navi, ora i Francesi portavano via tutto, distruggevano tutto, per nulla lasciare agli Austriaci. Via ottocentomila libbre di polvere, via quattrocento cannoni di bronzo. Ciò che veniva asportato sarebbe servito nelle Ionie, sarebbe servito a Tolone. Negli informati e vivaci dispacci di Lodovico Bonamico, console e incaricato di affari del re di Sardegna (127), si descrivono le devastazioni: i navigli e i cannoni vecchi colati a fondo per distruggerli ed intasare i canali, i laboratori, le carene impostate sugli scali, le imbarcazioni in fase avanzata di allestimento, le officine, le macchine idrauliche, gli strumenti degli operai ed ogni altra cosa rovinati, distrutti, asportati. L'ordine era di non lasciare niente di utilizzabile. Il 30 dicembre si fecero uscire tutti i Veneziani e si chiusero le porte. Corse la paura che si volesse incendiare il grande atelier della Repubblica. Gli arsenalotti si posero in giro per la città per dare l'allarme, il basso popolo esacerbato accorse. Sérurier fu costretto a smentire formalmente, la municipalità intervenne a calmare.
La Cisalpina aveva offerto ai membri della Guardia nazionale la possibilità di arruolamenti nei suoi eserciti fino alla concorrenza di duemila posti. Si raccolsero mezzo migliaio di domande. A fine dicembre, alcuni battaglioni di soldati di linea (i tre veneziani e altri veneti) si portarono nella Cisalpina, ma a ranghi grandemente ridotti.
Alcuni alti ufficiali austriaci vennero per pochi giorni a Venezia per prendere conoscenza diretta della situazione e accordarsi con i Francesi in vista del passaggio delle consegne. La popolazione ne fu rassicurata e anche il bancogiro registrò una ripresa. Tuttavia il 5 gennaio un operaio dell'Arsenale, accusato dell'omicidio di due soldati francesi, venne fucilato.
I Francesi operarono gli ultimi vandalismi. Il Bucintoro venne fatto a pezzi e con il fuoco se ne completò la distruzione nonostante un generale austriaco avesse tentato di comprarlo. Il basso popolo mostrò grande emozione e il patriarca, d'accordo con il generale Sérurier, rese noto un indirizzo ai fedeli per raccomandare la calma. La deputazione dei cinque, d'accordo con quel che rimaneva della municipalità, giudicò che il Sérurier aveva fatto tutto il possibile per tenere sotto controllo la città nella delicata fase che si stava vivendo e gli fece avere la regalia di un brillante da 1.000 zecchini. Il commissario Bassal continuava a portar via carte vecchie e recenti dagli archivi.
L'ultima operazione francese fu l'affondamento, il dopopranzo del giorno 15 gennaio, della fusta in bacino di San Marco. Si trattava della galera che stava permanentemente ivi ancorata ed era servita per deposito dei condannati al remo e, ultimamente, anche per ricovero di alienati. Poiché la parte superiore di essa non poté inabissarsi a causa del basso fondale, essa fu data alle fiamme offrendo un ben strano spettacolo.
Il 17 gennaio gran parte delle truppe francesi erano già partite. Restavano seicento uomini. La commissione straordinaria di polizia curava l'ordine pubblico.
Infine il giorno 18 i Francesi si imbarcarono tutti, tranne cento uomini che con il loro comandante Sérurier si attestarono in piazza San Marco. Appena all'altro lato della Piazza comparve una compagnia di granatieri austriaci, anch'essi si misero su barche e, senza che il generale formalizzasse la consegna della città, si diressero in laguna alla volta di Padova.
Gli Austriaci, saliti su barconi a Mestre, erano arrivati di buon mattino all'approdo di Santa Chiara all'inizio del Canal Grande e avevano alla loro testa il generale Wallis. La municipalità aveva allestito e addobbato delle grandi barche sulle quali, dopo un breve rinfresco, salirono gli alti ufficiali austriaci. Altre grandi barche facevano corteggio: quelle dei rappresentanti del ceto dei mercanti, quelle dei commercianti tedeschi dimoranti a Venezia. Il corteo se ne venne lungo il Canal Grande verso la piazza San Marco. Sulle rive e sui balconi dei palazzi affaccianti sul canale gente di tutti i ceti applaudiva e si sentiva gridare: "Viva l'imperatore! Viva Francesco II nostro liberatore!". L'approdo fu in piazzetta San Marco dove erano schierati uomini della Guardia civica, uomini dell'antico corpo dei bombardieri, uomini della truppa di linea veneta. La Guardia civica quella mattina stessa aveva preso nome di Guardia borghese ed aveva cambiato le balzane, i colletti e i paramani da rossi in bianchi adottando altresì berrettoni alla tedesca. I comandanti austriaci si mostrarono affabili con tutti tranne che con i municipalisti e con gli uomini della ex Guardia civica. Il patriarca venne ad incontrarli sulla porta della chiesa di San Marco, ci fu una messa e il virtuoso Marchesi cantò un mottetto. Le campane suonarono a lungo. Ci fu un pranzo preparato al casinò degli Orfei, alla sera i teatri furono illuminati e ci fu un ballo al casinò stesso. Le cronache continuarono a registrare anche nei giorni seguenti l'entusiasmo dei Veneziani. Nella fase di transizione verso i nuovi assetti amministrativi rimasero per breve tempo in vita la deputazione dei cinque con la titolatura di "aulico governo provvisorio di Venezia" nonché la commissione straordinaria di polizia e, nel Veneziano, le ex municipalità con la nuova titolatura di rappresentanze distrettuali.
1. Il comandante dell'armata del Reno e Mosella era il generale Jean-Victor Moreau ed egli aveva iniziato segrete trattative con gli Austriaci; il comandante dell'armata di Sambra e Mosa era Louis-Lazare Hoche il quale aveva dovuto rallentare l'offensiva per aspettare il Moreau.
2. I preliminari di Leoben (firmati da Napoleone e dal marchese Marzio Mastrilli de Gallo e Massimiliano Merweldt per gli Austriaci) sono pubblicati in Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, X, Venezia 19753, pp. 252-260. Ancora utili: Edouard Gachot, La première campagne d'Italie (1795-1798), Paris 1901; Raymond Guyot, Le Directoire et la paix de l'Europe, Paris 1911.
3. Il mercanteggiamento di Napoleone e degli Austriaci a spese della Repubblica Veneta non solo avveniva colpendo i diritti di uno stato neutrale, ma si presentava come operazione di stampo "vecchio regime", contraria allo spirito della rivoluzione del 1789, contraria ai principi dell'autodeterminazione dei popoli che erano prevalsi nella politica estera della Francia postrivoluzionaria. In qualche misura era un altro segnale dell'avvio dell'involuzione reazionaria ed autoritaria che avrebbe grandemente mortificato lo spirito dell'89. Su queste considerazioni cf. le belle e leali pagine di Jacques Godechot, La grande nazione. L'espansione della Francia rivoluzionaria nel mondo. 1789-1799, Bari 1962, pp. 245 ss.
4. Opera fondamentale sul periodo è il lavoro di Roberto Cessi, Campofonnido, a cura di Renato Giusti, Padova 19732. Fra le opere d'assieme dedicate alla fine della Repubblica, da ricordare Memoria che può servire alla storia politica degli ultimi otto anni della Repubblica di Venezia, London 1798 (ma Venezia 1799, attribuibile a Francesco Calvo, 130); Girolamo Dandolo, La caduta della Repubblica di Venezia e i suoi ultimi cinquant'anni. Studi storici, I-II, Venezia 1859; Ricciotti Bratti, La fine della Serenissima, Milano s.d.; Maxime Kovalevsky, La fin d'une aristocratie, Turin 1901; Massimo Petrocchi, Il tramonto della Repubblica di Venezia e l'assolutismo illuminato, Venezia 1950; Marino Berengo, La società veneta alla fine del Settecento, Firenze 1956; Guy Dumas, La fin de la République de Venise, aspects et reflets littéraires, Paris 1964.
5. Il messaggio di Napoleone è riportato, assieme a moltissimi altri documenti del periodo, in Raccolta cronologico-ragionata di documenti inediti che formano la storia diplomatica della rivoluzione e caduta della Repubblica di Venezia corredata di critiche osservazioni, I-II, Firenze 18002: I, p. 116. La raccolta contiene una ricchissima antologia di documenti ed è attribuita all'abate Cristoforo Tentori. Uno studio recentissimo assai intelligente sulla fine della Repubblica e la municipalità è quello di Xavier Tabet, Venise, mai 1797: La révolution introuvable, in corso di stampa. Il testo si avvale di indagini condotte nell'archivio del parigino Ministère des Affaires Etrangères, Correspondance politique - Venise, 251, 252, 253, 254, e Suppléments Correspondance politique - Venise, 9, 10, 11.
6. Il provveditore generale Francesco Battagia lasciò la carica alla fine del marzo 1797. Egli aveva curato gli affari per la zona di Verona e oltre il Mincio mentre per il Vicentino, Padovano e Polesine aveva operato il provveditore straordinario Nicolò I Erizzo. Il 1° di aprile, il senato nominò provveditore straordinario a Verona Iseppo Giovanelli al posto del Battagia che assunse la carica di avogador di comun, e nominò provveditore straordinario per il Trevigiano e il Friuli Angelo Giustinian Recanati.
7. Pubblicato in Raccolta cronologico-ragionata, II, pp. 233-234.
8. I tre dispacci del Grimani sono pubblicati ibid., pp. 226-232.
9. Esatto Diario di quanto è successo dalli 2 sino a' 17 maggio 1797 nella caduta della Veneta Aristocratica Repubblica, Basilea 1797. Pubblicato, con il titolo Diario anonimo attribuito a Piero Donà, anche in Verbali delle sedute della Municipalità Provvisoria di Venezia 1797, I, Sessioni pubbliche e private, a cura di Annibale Alberti-Roberto Cessi, pt. I, Bologna 1928 e pt. II, Bologna 1929: I, pt. I, pp. XVI-XXXIII. Il dettaglio bibliografico completo relativo ai Verbali delle sedute è il seguente: II, Comitati segreti e documenti diplomatici, a cura di Annibale Alberti-Roberto Cessi, Bologna 1932; III, Documenti diplomatici. Indici, a cura di Annibale Alberti-Roberto Cessi, Bologna 1940; Appendice, Le "Annotazioni" di Francesco Calbo alle sedute del Consiglio dei Rogati (1785-1797), a cura di Roberto Cessi, Bologna 1942. L'Esatto Diario (in realtà pubblicato a Venezia nel 1798) fu scritto, oltre che da Piero, anche da Francesco Donà. Al riguardo si v. Piero Del Negro, La memoria dei vinti. Il patriziato veneziano e la caduta della Repubblica, in AA.VV., L'eredità dell'Ottantanove e l'Italia, Firenze 1992, p. 366 n. 45 (pp. 351-370).
10. Valutazione ricavata da Raccolta cronologico-ragionata, II p. 247.
11. Il documento è un capolavoro in tema di sceneggiature dell'organizzazione del cedimento ai Francesi ed è pubblicato ibid., pp. 249-250.
12. I toni erano quelli di uno psicodramma collettivo. Si vedano le annotazioni dell'Esatto Diario, al giorno 7 maggio.
13. Il 4 maggio, Francesco Donà, uno dei tre deputati al Bonaparte, aveva chiesto con una lettera che si pagassero 6.000 zecchini al latore della lettera stessa e ciò in base ad autorizzazione del governo del 26 aprile. A riscuotere si presentò con la lettera Jacob Vivante Vita, futuro municipalista. Pare che il destinatario della somma fosse lo Haller. V. Raccolta cronologico-ragionata, II, pp. 260-261.
14. Esatto Diario, cf. annotazioni del 12 maggio 1797.
15. Pubblicati, tra l'altro, nel nr. 1 de "Il Monitore Veneto" del 17 maggio 1797.
16. Il proclama del 14 maggio iniziava così: "Il Serenissimo Principe fa sapere che avendo il Maggior Consiglio fondata la propria grandezza sulla felicità della nazione, e a quest'oggetto avendo costantemente diretto l'uso di quell'autorità, della quale non si è considerato che come depositario, ha potuto conoscere che il cambiamento dei tempi e delle circostanze non che l'esempio d'altre nazioni, esigevano che non restassero più a lungo ristrette nel solo ordine patrizio quelle facoltà che finora furono in lui concentrate. A questo fine è divenuto il Maggior Consiglio alle deliberazioni primo, 4 e 12 corrente, in esecuzione delle quali sarà destinato un governo provvisionale". Il proclama è pubblicato, tra l'altro, in Verbali delle sedute, I, pt. I, pp. XLV-XLVI.
17. I manifesti sono pubblicati ibid., pp. XLVI-XLVII.
18. Il trattato è pubblicato, tra l'altro, ibid., II, pp. 605-606.
19. I sessanta membri della municipalità erano: Filippo Armano (farmacista, ex "cittadino originario", farà parte del comitato sanità); Giorgio Barbaria (imprenditore del vetro, ex "cittadino originario", alto grado della massoneria sin dagli anni Settanta, farà parte del comitato istanze); Pietro Antonio Bembo qm. Francesco (ex patrizio, farà parte del comitato istruzione pubblica); Gaetano Benini (avvocato, già perseguito dagli inquisitori di stato come "geniale di Francia", sarà membro del comitato istanze e poi di quello di salute pubblica); Lorenzo Bigaglia (imprenditore del vetro, gastaldo maggiore dell'Arte vetraria, ex "cittadino originario", farà parte del comitato commercio e arti); Giovanni Bujovich (ex conte dalmata ed alto burocrate della Repubblica, esperto di materie finanziarie e problemi dell'agricoltura, farà parte del comitato finanze); Paolo Bullo (mercante e uomo d'affari, ex sorvegliato degli inquisitori di stato per i suoi sentimenti democratici, farà parte del comitato commercio e arti); Antonio Buratti (mercante e banchiere, farà parte del comitato commercio e arti); Antonio Callegari (sarà membro del comitato militare e di quello arsenale e marina); Giovanni Calvi (commerciante e imprenditore della posta, farà parte del comitato istanze); Andrea Calzavara (farà parte del comitato istanze); Giacomo Caracozza (farà parte del comitato istanze); Pietro Giovanni Carminati (mercante, sarà membro del comitato istanze); Mattia Chiorco (commerciante, sarà membro del comitato arsenale e marina); Antonio Collalto (abate, insegnante di materie scientifiche, sarà membro del comitato di istruzione pubblica); Spiridione Conomo (mercante, sarà membro del comitato finanze); Nicolò Corner (ex patrizio, sarà il primo presidente della municipalità e membro del comitato sussistenze e pubblici soccorsi); Pietro Antonio Cusiani (sarà membro del comitato arsenale e marina); Vincenzo Dabalà (pescatore e capo dei "Nicoloti" cioè della comunità dei pescatori di San Nicolò dei Mendicoli e dell'Angelo Raffaele, sarà membro del comitato sussistenze e pubblici soccorsi); Pietro dal Fabbro (mercante, sarà membro del comitato istanze); Angelo Maria Dana (notaio e funzionario dell'Arsenale, farà parte del comitato arsenale e marina); Vincenzo Dandolo (speziale e chimico, sarà membro del comitato di salute pubblica); Antonio Dinon (sarà membro del comitato istanze); Andrea Dolfin Valier (ex patrizio, negli ultimissimi giorni di vita della Repubblica aveva invitato a un accordo di alleanza con la Francia e a far entrare in maggior consiglio una nutrita rappresentanza delle città e province della Repubblica, sarà membro del comitato sanità); Paolo Antonio Erizzo (ex patrizio, abate, simpatizzante dei Francesi nell'ultimo periodo della Repubblica); Giuseppe Ferratini (mercante, nella sua casa a San Polo si radunavano, negli ultimi tempi della Repubblica, i democratici e per questo aveva subito un processetto degli inquisitori di stato, sarà membro del comitato sussistenze e pubblici soccorsi); Giuseppe Ferro (uomo d'affari, presente negli elenchi 1785 dei massoni di rio Marin, già segnalato agli inquisitori di stato come "geniale di Francia"); l'omonimo Giuseppe Ferro (ufficiale superiore della Repubblica, sarà membro del comitato militare); Andrea Fontana (ex "cittadino originario" e alto burocrate della Repubblica, sarà membro del comitato istanze); Tommaso Gallino (avvocato, figura di spicco del gruppo democratico prima e dopo il 12 maggio 1797, farà parte del comitato di salute pubblica); Domenico Garagnin (possidente, ex conte dalmata, farà parte del comitato militare); Giuseppe Andrea Giuliani (avvocato, sin dal 1796 nel gruppo dei democratici, farà parte del comitato di salute pubblica); Leonardo Giustinian Lolin (ex patrizio, farà parte del comitato sussistenze); Isach Grego (banchiere, sarà membro del comitato finanze); Francesco Gritti (ex patrizio, letterato e poeta, sarà membro del comitato di istruzione pubblica); Domenico Guizzetti (commerciante, sarà membro del comitato finanze); Giovanni Jovovitz (mercante, sarà membro del comitato arsenale e marina); Moisè Luzzatto (mercante, sarà membro del comitato finanze); Salvatore Marconi (avvocato, ex "cittadino originario", del gruppo democratico sin dal 1796, farà parte del comitato istanze); Nicolò Martinelli (commerciante, farà parte del comitato istanze); Rocco Melancini (medico, farà parte del comitato sanità); Francesco Mengotti (nobile feltrino, laureato in giurisprudenza, già membro di una loggia massonica a Feltre, sarà membro del comitato finanze); Alvise Mocenigo (ex patrizio, sarà membro del comitato istanze); Bernardo Mondini (ragioniere, ex alto burocrate della Repubblica, sarà membro del comitato militare); Marco Piazza (avvocato, sarà membro del comitato finanze); Almorò Alvise Pisani (ex patrizio, negli elenchi 1784 della loggia massonica di rio Marin, sarà membro del comitato istanze); Antonio Plateo (ragioniere, ex alto burocrate della Repubblica, sarà membro del comitato di salute pubblica); Bernardino Renier (ex patrizio, negli ultimi tempi della Repubblica era stato tra i fautori di un accostamento ai Francesi, sarà membro del comitato militare); Francesco Revedin (banchiere e uomo d'affari, sarà membro del comitato finanze e zecca); Nicolò Rota (commerciante, sarà membro del comitato di istruzione pubblica); Agostino Signoretti (ex gesuita, abate, massone, sarà membro del comitato di istruzione pubblica); Andrea Sordina (ex alto burocrate della Repubblica, sarà membro del comitato di salute pubblica); Andrea Spada (avvocato e grande appaltatore dei dazi, già arrestato come democratico e "geniale di Francia" dagli inquisitori di stato, sarà membro del comitato finanze); Natale Talier (arciprete, sarà vicepresidente della municipalità); Pietro Turrini (ingegnere militare e ragioniere, sarà membro del comitato militare); Sebastiano Vignola (ex "cittadino originario" e alto burocrate della Repubblica, sarà membro del comitato sanità); Jacob Vivante Vita (commerciante e banchiere, sarà membro del comitato commercio e arti); Giovanni Widmann qm. Ludovico (ex patrizio, sarà membro del comitato sanità e preside della polizia della municipalità); Giuseppe Zoppetti (commerciante, sarà membro del comitato istanze); Tommaso Pietro Zorzi (imprenditore e commerciante di dolciumi e caffè, già membro del gruppo democratico, farà parte del comitato sussistenze e pubblici soccorsi). Un breve profilo di ciascuno è in appendice al saggio di Giuseppe Gullino, La congiura del 12 ottobre 1797 e la fine della Municipalità veneziana, "Critica Storica", 16, 1979, nr. 4, pp. 544-622, nonché in Franco Lorenzo Scarpa, La Municipalità provvisoria a Venezia (1797) e gli atteggiamenti del gruppo di governo, tesi di laurea, Università di Venezia, a.a. 1983-1984, appendice, pp. 195 ss. Valutazioni su alcuni municipalisti anche in G. Dumas, La fin de la République, passim. Le vicende della fine della Repubblica e della municipalità furono oggetto di relazioni dei rappresentanti diplomatici stranieri presenti a Venezia, talune delle quali pubblicate: cf. Giovanni Sforza, La caduta della Repubblica di Venezia studiata ne' dispacci inediti della diplomazia piemontese, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 25, 1913, pp. 263-339; 26, pp. 93-133 e 359-430 (di gran lunga le relazioni più esaurienti ed interessanti); Cecil Roth, La caduta della Serenissima nei dispacci del residente inglese a Venezia, "Archivio Veneto", ser. V, 17, 1935, pp. 179-214; Giuseppe Nuzzo, A Venezia tra Leoben e l'occupazione austriaca (Dalla corrispondenza dei diplomatici napoletani), Salerno 1937.
20. Istruzione al Popolo libero di Venezia pronunziata il dì 16 maggio dal cittadino Francesco Mengotti, Venezia 1797. Fu ristampato più volte. Va detto che spesso la municipalità delibererà la stampa a spese pubbliche di discorsi e scritti ritenuti idonei alla istruzione democratica popolare e alla propaganda.
21. Si è seguito il resoconto della prima seduta della municipalità così come dato da "Il Monitore Veneto", 1, mercoledì 28 fiorile, 17 maggio 1797. Il proclama letto dal Giuliani venne pubblicato con la data del 16 maggio con nella intestazione le parole "Libertà", "Uguaglianza". Nel manifesto figurava ancora il leone di San Marco, ma nel libro aperto tra le zampe la scritta era ora: "Diritti e doveri dell'uomo e del cittadino". Della grandissima parte delle decretazioni pubbliche, quasi contemporaneamente alla loro pubblicazione ufficiale, vennero fatte ristampe raccolte in volumetti. Di tali raccolte mi sono largamente avvalso e ad esse in generale e salvo indicazione diversa rimando. In particolare: Carte pubbliche stampate ed esposte ne' luoghi più frequentati nella città di Venezia dal 1.5.1797 al 17.1.1798, Venezia 1797-1798 (raccoglitore e stampatore Zatta). V. n. 116.
22. Successivamente la composizione dei comitati ebbe qualche variazione e in taluni di essi entrò anche qualche elemento non facente parte dell'assemblea municipalista.
23. Alla presidenza si susseguirono: Corner, Talier, Callegari, Bujovich, Benini, Widmann, Gallino, Sordina, Ferro, Collalto, Mainardi, Grego, Molin, Fontana, Martinelli, ancora Talier, Boldù.
24. Un elenco di aggregati e di supplenti è pubblicato in Giovanni Distefano-Giannantonio Paladini, Storia di Venezia 1797-1997, I, Dai Dogi agli Imperatori, Venezia 1996, p. 254. Compaiono aggregati il 26 maggio: Francesco Aglietti, Lorenzo Bedotti, Angelo Contarini, Aron Lattes, Leon Ongarini; aggregati il 1° agosto per Cavarzere: Francesco Mainardi, Girolamo Molin, Giobatta Saggion; aggregati il 2 agosto per Torcello: Carlo Boldù, Nicolò Pavan; aggregato per Murano il 3 agosto: Giacomo Mazzolà; aggregati per Mestre il 3 agosto: Ludovico Marchetti e Francesco Antonio Pieresca; aggregati per Pellestrina il 7 agosto: Francesco Antonio Saleni e Girolamo Zennaro; aggregati per Loreo il 15 agosto: Giovanni Belloni, Antonio Gaetano Susan, Giovanni Pozzato; aggregati per Chioggia il 16 agosto: Andrea Masin Duse, Domenico Mini, Francesco Nordio, Andrea Stefano Renier, Felice Sambo; aggregati per Gambarare e Oriago il 30 agosto: Giacomo Scaferlato e Giacomo Todesco. I supplenti, nominati il 3 giugno, furono: Iseppo Camerata, Iseppo Mangili, Antonio Revedin, Isach Treves.
25. Si previde anche una commissione per l'organizzazione della municipalità e una commissione incaricata dell'organizzazione di un "governo provvisorio".
26. La municipalità aveva inviato a Milano due rappresentanti, Andrea Fontana e Giuseppe Andrea Giuliani, ma essi erano rimasti ai margini della firma del trattato.
27. Le istruzioni date ai deputati dalla municipalità erano un po' confuse. Si cercava di ottenere l'appoggio di Bonaparte per la riunione con Venezia di una parte almeno della Terraferma veneta, per la salvaguardia dei beni dei Veneziani nella stessa Terraferma e per la costituzione di un'amministrazione centrale. Senza di che ci si domandava come avrebbe potuto la municipalità veneziana da sola ratificare il trattato. I deputati vennero richiamati il 27 maggio stante l'invio del Mengotti. Cf. Verbali delle sedute, II, pp. 190, 193.
28. Cf. ibid., pp. 3, 4, 193, 201, 202.
29. Sulle anagrafi e su questi decreti, più diffusamente: G. Distefano-G. Paladini, Storia di Venezia 1797-1997, pp. 163 ss.
30. Cf. Giandomenico Romanelli, Venezia Ottocento. L'architettura, l'urbanistica, Venezia 1988, pp. 19-25.
31. Cf. Fabio Tonizzi, Clero e Municipalità democratica provvisoria a Venezia nel 1797, tesi di laurea, Università di Venezia, a.a. 1992-1993; Giovanni Vian, L'atteggiamento del clero a Venezia durante la Municipalità democratica, in Vita religiosa e cultura in Lombardia e nel Veneto nell'età napoleonica, a cura di Gabriele De Rosa-Filiberto Agostini, Roma-Bari 1990, pp. 69-87; Silvio Tramontin, Sguardo d'assieme su novant'anni di storia, in AA.VV., La chiesa veneziana dal tramonto della Serenissima al 1848, Venezia 1986, pp. 11-23; Bruno Bertoli, La Chiesa veneziana dalla caduta della Repubblica alle soglie del Novecento, in Il Patriarcato di Venezia, a cura di Silvio Tramontin, Padova 1991 (Storia religiosa del Veneto, 1), pp. 187-214.
32. Cf. Raccolta di tutte le lettere pastorali ed altre carte de' vescovi dello Stato veneto e di tutta l'Italia libera pubblicate dopo le rivoluzioni seguite, Venezia 1797.
33. Il dibattito in municipalità ebbe luogo il 1° luglio, e il memoriale che il patriarca aveva presentato al comitato di istruzione pubblica venne tirato più volte in ballo.
34. Le parrocchie verranno ridotte assai più tardi, quando Venezia sarà entrata a far parte del napoleonico Regno d'Italia, prima a quaranta, nel 1807, e poi a trenta, nel 1810.
35. Il decreto fu approvato il 22 settembre.
36. F. Tonizzi, Clero e Municipalità, pp. 198-199.
37. Giovanni Scarabello, Il primiceriato di San Marco tra la fine della Repubblica e la soppressione, in AA.VV., San Marco. Aspetti storici e agiografici, a cura di Antonio Niero, Venezia 1996, pp. 152-157.
38. Cattechismo cattolico-democratico alla Municipalità Provvisoria di Venezia. Il cittadino Zalivani, parroco di S. Nicolò, Venezia 1797. Pubblicato poi, in Umberto Corsini, Pro e contro le idee di Francia. La pubblicistica minore del triennio rivoluzionario nello stato veneto e limitrofi territori dell'Arciducato d'Austria, Roma 1990.
39. Nell'opuscolo, pubblicato a Venezia nel 1797, era tra l'altro notevole l'invito a stabilire un buon colloquio con gli Ebrei di contro a certo spirito retrivo diffuso tra il clero veneziano su questo tema.
40. Era ambasciatore del re di Napoli a Vienna, ma era stato utilizzato dall'imperatore austriaco per le trattative di Leoben.
41. Verbali delle sedute, II, pp. 210 ss.
42. Cf. Giovanni De Vergottini, L'Istria alla caduta della Repubblica di Venezia, "Atti e Memorie della Società Istriana di Storia Patria", 32, 1920, pp. 203-229. Da vedere anche Walter Marcov, Dalmazia e Illiria, "Annuario dell'Istituto Storico Italiano per l'Età Moderna e Contemporanea", 23-24, 1971-1972, pp. 309-314.
43. Dettagliatissime ed interessanti circa i modi di procedere di Napoleone erano le commissioni date al comandante della spedizione. Cf. S. Romanin, Storia documentata, pp. 164-165.
44. Per la data di partenza, cf. il dispaccio del rappresentante austriaco a Venezia von Humburg del 10 giugno 1797 in Verbali delle sedute, III, pp. 35-36. La spedizione era al comando del generale francese Antonio Gentili ed era composta - secondo lo Humburg - da due vascelli di linea veneziani armati di settantaquattro cannoni, di tre fregate francesi e di naviglio minore; a bordo vi erano duemila soldati francesi e trecento veneziani, sui vascelli v'erano millesettecento marinai francesi arrivati da Tolone.
45. Già il 12-13 giugno la municipalità veneziana segnalava l'occupazione austriaca dell'Istria (comunicazioni del comitato di salute pubblica al generale francese Gentili e a Francesco Mengotti a Milano del 12, 13, 14 giugno, ibid., II, pp. 233 ss.).
46. Il manifesto di protesta è pubblicato ibid., pp. 253-254.
47. Cf. ibid., pp. 240 ss. (lettera di Mengotti al comitato cli salute pubblica del 16 giugno e, soprattutto, del 18 giugno, nonché lettera della municipalità al Mengotti del 20 giugno).
48. Va ricordato che parecchi punti dei preliminari presentavano margini cospicui di ambiguità e di non chiarezza.
49. J. Godechot, La grande nazione, pp. 246-247.
50. Per i personaggi con più nomi di battesimo si è scelto, di solito, di indicare il primo di tali nomi.
51. J. Godechot, La grande nazione.
52. R. Cessi, Campofòrmido, pp. 217-218.
53. Ibid., pp. 226-227.
54. Il de Gallo era certamente il diplomatico più dotato tra i negoziatori e non è escluso che coltivasse un proprio disegno di una intesa franco-austriaca che desse ordine all'Europa.
55. R. Cessi, Campoformido, p. 232. Il Cessi illustra molto bene la posizione austriaca intesa a cercare che i compensi territoriali da contrattare fossero fuori della Germania anche per non promuovere recriminazioni e pretese degli altri stati germanici, al fine di non indebolire l'Austria nel contesto tedesco.
56. Aspetti delle problematiche dei rapporti tra la municipalità veneziana e le municipalità venete sono tratteggiati in Giovanni Silvano, Padova democratica (1797). Finanza pubblica e rivoluzione, Venezia 1996. La Repubblica Cisalpina venne ufficialmente proclamata il 29 giugno.
57. Verbali delle sedute, III, p. 33.
58. Ibid., II, pp. 185, 192, 199.
59. Una buona ricostruzione dei conciliaboli dei rappresentanti veneti a Milano sta in Raffaele Fasanari, Gli albori del Risorgimento a Verona, Verona 1950. La municipalità di Verona emise un proclama nel quale si rendeva di pubblica ragione che essa non intendeva partecipare alla protesta veneziana per l'Istria e la Dalmazia ed anzi la disapprovava. Cf. ibid., pp. 169-170.
60. Per il momento, la prospettiva auspicata era quella di unione alla Cisalpina. Ad esempio, cf. Verbali delle sedute, II, p. 21.
61. Per tale discussione, cf. essenzialmente ibid., pp. 21-36.
62. Andrea Spada, Memorie apologetiche di Gio. Andrea Spada scritte da lui medesimo, Brescia 1801.
63. Verbali delle sedute, II, p. 244. Un'altra circolare del 22 luglio appare indirizzata ai rappresentanti a Roma, Napoli, Londra, Pietroburgo, Madrid, Costantinopoli, v. ibid., pp. 325-326.
64. Il Grimani comunicò, per vie abbastanza informali, le proprie dimissioni il 28 giugno. Egli verrà biasimato e richiamato a Venezia, ma non ottempererà al richiamo. Per la corrispondenza tra il Grimani e la municipalità: ibid., ad indicem.
65. V. ibid., pp. 344-345.
66. Ibid., pp. 262-263 e 272-273.
67. In un passaggio della lettera inviata il 30 giugno a Baraguey d'Hilliers, il comitato di salute pubblica scriveva: "Ogni dilazione [all'effettiva unione del Dogado a Venezia] è fatale: si moltiplicano ogni giorno i disordini; le lagune, le pesche, i porti, i canali, la navigazione soffrono ogni giorno. Noi siamo paralizzati in tutto in casa nostra. Voi vedete le estreme angustie della città e dei suoi abitanti, con tanti pesi enormi, isolati e bloccati in una sola città". Cf. ibid., p. 273.
68. Ibid., pp. 274-276. La municipalità dava istruzioni al Battagia di chiedere a Napoleone che tutto il Dogado, compresa Chioggia, fosse dichiarato "dipartimento particolare di Venezia", ipotizzando una configurazione di rapporti amministrativi tra centro e periferia assai confusa e con ampi riferimenti alle configurazioni del passato regime. Si soggiungeva - e il discorso era alquanto debole - che nella municipalità veneziana c'era un cittadino di Murano, uno di Malamocco, uno di Torcello-Mazzorbo e se ne sarebbe potuto aggiungere uno di Caorle, uno di Loreo, uno di Grado, uno di Cavarzere, uno di Gambarare, uno di Mestre (Napoleone aveva in animo di aggiungere Mestre al Dogado), uno di Pellestrina, e due o tre di Chioggia.
69. Per questi contatti si possono vedere i dispacci di Battagia e Sanfermo ibid., passim. A metà agosto Polfranceschi e Stecchini erano a Milano, prendevano contatto con Napoleone e il governo della Cisalpina e vedevano anche il Battagia. Chiesto il permesso a Napoleone, il quale aveva replicato che non vi vedeva inconvenienti, partirono per Parigi dove arrivarono ai primi di settembre. Il Sanfermo li incontrò e in un dispaccio dell'8 settembre li descrisse abbastanza risentiti contro Venezia e ancora in un dispaccio del 12 ottobre parlerà dei loro atteggiamenti ostruzionistici. Sul "congresso di Milano" e su quello di Bassano, interessanti le valutazioni di Carlo Zaghi, L'Italia di Napoleone dalla Cisalpina al Regno, Torino 1986 (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XVIII/ 1), pp. 169-170. Non sempre esatte le informazioni di base.
70. Sul complesso dibattito politico dei rappresentanti dei vari gruppi di patrioti italiani a Milano: C. Zaghi, L'Italia di Napoleone, in particolare pp. 166 ss.
71. Il progetto del congresso era stato ventilato già a fine agosto e l'8 settembre Vincenzo Dandolo ne aveva dato notizia alla municipalità.
72. Proclama alle municipalità di Terraferma del 27 maggio. Cf. Verbali delle sedute, II, pp. 192-193.
73. Sulla questione dell'"eredità" della statualità dell'ex Repubblica, la municipalità veneziana insisteva ancora in agosto in un dispaccio al Battagia in cui lo si pregava di far presente al direttorio della Cisalpina che essa municipalità, per via della "legale rinunzia" del maggior consiglio della ex Repubblica, doveva considerarsi "la depositaria interna della libera sovranità di un popolo il quale tra i suoi diritti" contava "tutti quelli della Repubblica Veneta". Cf. ibid., pp. 353 ss.
74. Ancora in un dispaccio del 28 settembre al Battagia il comitato di salute pubblica scriverà: "L'unione alla Cisalpina può essere o sùbita o lenta, mediata o immediata, e noi stessi, contemplando una Convenzione Nazionale Veneta prima, e poi una unione delle due Repubbliche in una, non contempliamo nulla che non vada a finire per ultimo risultato nella loro unione alla Cisalpina". Ibid., p. 516.
75. Il progetto venne allegato al dispaccio del comitato di salute pubblica spedito al Dandolo il 10 settembre (ibid., pp. 470-471). Una lettera in proposito venne indirizzata dalla municipalità a Bonaparte (dispaccio del comitato di salute pubblica al Battagia del 12 settembre, cf. ibid., pp. 474-475).
76. Ibid., pp. 513-516.
77. Su tutta la vicenda Cercato e i suoi possibili risvolti rimane fondamentale il citato saggio di G. Gullino, La congiura.
78. Cf. Verbali delle sedute, II, p. 122. Lo stesso giorno e con lo stesso oggetto veniva spedito un messaggio anche al Talleyrand, ministro degli esteri della Francia. Cf. ibid., p. 590.
79. L'indirizzo della municipalità al congresso nazionale veneto del 29 ottobre è pubblicato ibid., pp. 590-592.
80. Dei sei deputati spediti a Parigi, solo quattro partirono (Dandolo, Sordina, Giuliani e Carminati) ed essi giunsero a Milano il 2 novembre. Cf. ibid., pp. 594-595. Buratti aveva declinato la nomina ed era stato sostituito da Armano ed anche il Widmann aveva cercato di defilarsi. Non è chiaro se l'Armano e il Widmann siano poi effettivamente partiti. Cf. ibid., p. 136.
81. Auguste de Marmont, Memorie del generale Marmont duca di Ragusa dal 1792 sino al 1841, Milano 1857.
82. Un'ampia rendicontazione della discussione è in Verbali delle sedute, II, pp. 127-136.
83. A. Spada, Memorie, in particolare alle finanze è dedicato il cap. II, pt. II.
84. Lo Spada indicava nelle sue Memorie (pt. II, p. 23) che la municipalità aveva incominciato a funzionare caricata di esposizioni per 48.000.000 di ducati circa e con in cassa un fondo di 305.000 ducati tra denaro ed argento in Zecca, con crediti per lire 4.240 in moneta di banco, e con residui vari di ori e argenti. Il bilancio consuntivo della municipalità, pubblicato in Verbali delle sedute, II, appendice II, indicava in ducati 541.742 il fondo disponibile lasciato dall'ex governo. Andrea Spada, nelle sue Memorie (pt. II, p. 25) dà il diverso totale di 356.458 ducati. Altre fonti danno cifre differenti.
85. La raccolta dei preziosi delle chiese eccettuava gli oggetti indispensabili per la gestione del culto. Particolari cautele vennero poste in essere per le inventariazioni e per la tutela degli oggetti del tesoro di San Marco. Tuttavia, specie dopo che, per qualche aspetto, anche il comitato di salute pubblica ebbe ad ingerirsi nell'operazione, si creeranno malintesi e verranno agitati sospetti di indebite appropriazioni. Cf. A. Spada, Memorie, pt. II, p. 27.
86. Ibid., pp. 34-35.
87. A titolo di esempio, si possono vedere i dibattiti in seduta segreta del 2 agosto (Verbali delle sedute, II, pp. 71-73).
88. La decisione favorevole allo svincolo venne presa (sollecitata anche dallo Haller) dalla municipalità riunita in seduta segreta il 13 giugno 1797 (ibid., pp. 11-12). Il testo del decreto di abolizione venne portato in discussione in municipalità il 19 giugno (ibid., I, pt. I, p. 166) e l'imposta sui beni liberati e venduti venne decisa il 18 di agosto (ibid., p. 511).
89. Ibid., II, p. 514.
90. Ibid., p. 475.
91. Il bilancio "Entrate ed uscite del governo democratico" fermato al 18 gennaio 1798 è pubblicato - come si è detto - come appendice II del volume II dei Verbali delle sedute, pp. 607-616. Andrea Spada dà le risultanze della sua indagine contabile fino a novembre nelle sue Memorie, pt. II, pp. 68-70.
92. M. Petrocchi, Il tramonto.
93. La liquidazione del sistema corporativo veneziano avrà luogo solo quando Venezia, nel primo decennio dell'Ottocento, verrà incorporata nel napoleonico Regno d'Italia.
94. Anche in questo caso, la liquidazione di gran parte della imponente rete di istituti a scopo anche assistenziale che si era creata nei secoli della Repubblica verrà effettuata nel primo decennio dell'Ottocento dal napoleonico Regno d'Italia. E ad essa, in epoca napoleonica ma poi soprattutto nella successiva epoca della dominazione austriaca, verranno sostituiti istituti pubblici concepiti secondo criteri aventi caratteri di novità non solo dal punto di vista dell'organizzazione, ma anche dal punto di vista delle politiche da condurre nei confronti dei bisognosi e degli emarginati.
95. Verbali delle sedute, I, pt. I, pp. 334 ss. Per la strutturazione dei tribunali straordinari, cf. il copioso materiale pubblicato nelle "Raccolte di carte pubbliche" (v. n. 21 e infra n. 116).
96. Restava inteso tuttavia il carattere della provvisorietà anche per tali organi ordinari in quanto ogni definitività - non ci si stancava di ribatterlo - non avrebbe potuto che dipendere da una costituzione elaborata da rappresentanti democraticamente eletti quando si fosse arrivati a una definizione di una indipendente statualità. Anche i "piani" per l'organizzazione dei tribunali ordinari compaiono nelle varie "Raccolte" di cui si è detto e a cui si rimanda.
97. Si veda, in particolare, Verbali delle sedute, I, pt. I, pp. 178 ss.; nonché Michele Simonetto, Un dibattito sull'avvocatura durante la Municipalità provvisoria di Venezia del 1797, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 147, 1988-1989, pp. 263-277. In tale ottimo studio sono riportate anche molte indicazioni relative al dibattito a proposito dell'avvocatura svoltosi a livello di opinione pubblica colta.
98. Una prima fase di tale processo era costituita da una sorta di istruttoria "ad offesa" (comprensiva dell'assunzione di testimonianze) diretta dall'accusatore pubblico con l'assistenza di un giudice e con l'ausilio del notaio verbalizzante. Una seconda fase era costituita da una valutazione delle risultanze da parte di un collegetto composto da un giudice del tribunale con associati due giudici civili e tale valutazione poteva portare - se c'era unanimità - al proscioglimento dell'accusato. Se non ci fosse stato proscioglimento si passava al processo vero e proprio, nel senso che il giudice procedente emetteva un decreto col quale trasmetteva l'incartamento a un collega il quale andava avanti. Questi notificava e consegnava all'imputato le risultanze di accusa invitandolo a produrre entro otto giorni le difese, compresi gli eventuali testimoni che sarebbero stati sentiti dal giudice stesso e verbalizzati dal notaio. C'era anche la possibilità sia per l'accusatore pubblico che per la difesa di produrre un supplemento di tesi. A questo punto l'accusatore pubblico concretava la sua requisitoria dandone copia all'accusato il quale, a sua volta, presentava la sua difesa. Trascorsi cinque giorni, il giudice si associava quattro giudici civili e al collegio così costituito venivano lette pubblicamente la requisitoria d'accusa, le difese e le carte del processo. Anche l'accusatore pubblico e l'imputato e il suo difensore erano presenti ed ascoltavano e alla fine intervenivano nuovamente. Curiosamente, solo dopo questa fase e con procedure assai macchinose si celebrava il rito del giuramento dei testimoni che avevano precedentemente deposto. Esaurito il momento per così dire dibattimentale, il collegio giudicante votava a maggioranza o per l'assoluzione o per la colpevolezza dell'imputato producendo una sentenza che doveva essere motivata. Se si trattava di sentenza di colpevolezza, essa veniva trasmessa alla presidenza del tribunale. A tale presidenza, l'accusatore pubblico doveva proporre la pena motivandola sulla base delle leggi e del reato per il quale era stata pronunciata la colpevolezza. Una copia della stessa sentenza doveva essere consegnata anche all'accusato il quale avrebbe potuto produrre entro tre giorni una scrittura di ulteriore difesa. Indi la presidenza convocava un collegio di sette giudici esclusi quelli che avevano partecipato alle fasi precedenti al quale si leggeva la sentenza, la proposta di pena dell'accusatore pubblico e le obiezioni della difesa. Il collegio decideva a maggioranza la misura della pena motivando la decisione con il richiamo delle leggi messe in rapporto con le fattispecie di reato.
99. Il piano è pubblicato anche in forma di opuscolo Organizzazione della polizia per il comune di Venezia decretata dalla Municipalità provvisoria sopra il rapporto del cittadino Giuliani, Venezia 1797. Per tutta la trattazione sulla polizia si rimanda all'eccellente lavoro di Paola Tessitori, "Nisi Dominus custodierit civitatem frustra vigilat qui custodit eam". Tutori dell'ordine e rivoluzione nella Venezia del 1797, tesi di laurea, Università di Venezia, a.a. 1993-1994.
100. Sul dibattito ideologico-culturale e sulla società di istruzione pubblica molto si soffermano G. Dumas, La fin de la République, e U. Corsini, Pro e contro.
101. Società di istruzione pubblica o patriottiche vennero istituite un po' dappertutto nei territori democratizzati. Già il 18 maggio Fontana e Giuliani, che si trovavano a Milano presso Napoleone, ne avevano perorato l'istituzione in una lettera alla municipalità.
102. Sulla Vadori cf. in particolare G. Dumas, La fin de la République, p. 464.
103. "Il Libero Veneto" uscì con il primo numero il 2 giugno 1797. Ebbe periodicità irregolare: prima tre e poi due numeri la settimana. Talora ebbe qualche supplemento. Arrivò almeno sino al numero 48 del 7 annebbiatore (28 ottobre). Di formato in quarto si componeva di quattro pagine e la numerazione delle pagine, composte su due colonne, era progressiva da un numero all'altro. Fu stampato dapprima da Carlo Palese e successivamente (dal nr. 38 almeno) da Francesco Tosi. Redattore fu Carlo Lauberg, un patriota napoletano arrivato a Venezia con l'abruzzese Flaminio Massa per aiutare l'organizzazione dello spirito pubblico democratico. Quando il Lauberg, agli inizi di luglio, lasciò Venezia chiamato dai Bresciani per una missione in Valtellina venne probabilmente sostituito dal Massa che era estensore del "Redattore Veneto".
104. Tale titolo compare nella collezione del giornale (1797, Anno primo della Libertà Italiana, dalle stampe del cittadino Giovanni Zatta). Ogni foglio si intitolava più succintamente "Società di Pubblica Istruzione". Lo stampatore era Giovanni Zatta. Il "Prospetto" si pubblicherà probabilmente sino al 18 annebbiatore (8 novembre) data di chiusura della società. L'associazione per sei mesi costava 8 lire venete anticipate. Ogni foglio costava 2 soldi.
105. Tra i lavori più recenti su Foscolo nel periodo: Manlio Pastore Stocchi, 1792-1797: Ugo Foscolo a Venezia, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall'età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 21-58; Bruno Rosada, La giovinezza di Niccolò Ugo Foscolo, Padova 1990.
106. Gli stessi concetti il Foscolo li esprimeva nell'Ode ai novelli repubblicani che aveva fatto stampare in quei giorni e gli stessi concetti riprenderà esule a Milano su "Il Monitore Italiano" del 19 febbraio 1798. Forse un'eco dei pensieri che già gli attraversavano la mente quando inseriva nel suo "Piano di studi" il progetto di una tragedia sui Gracchi.
107. Accesa discussione del 1° luglio. Cf. Verbali delle sedute, I, pt. I, pp. 216 ss.
108. V. Giornali veneziani del Settecento, a cura di Marino Berengo, Milano 1962. Per il periodo della municipalità: Giornali giacobini italiani, a cura di Renzo De Felice, Milano 1962; Carlo Capra, Il giornalismo nell'età rivoluzionaria e napoleonica, in La stampa italiana dal Cinquecento all'Ottocento, a cura di Valerio Castronovo-Nicola Tranfaglia, I, Bari 1976, pp. 373-541; Carla Terry Simionato, I giornali veneziani durante la municipalità democratica 1797: informazione, propaganda ed educazione politica del "popolo", tesi di laurea, Università di Venezia, a.a. 1985-1986.
109. Ottima impresa è stata quella della pubblicazione integrale del "Quadro sessioni pubbliche" accanto ai verbali in Verbali delle sedute, I, ptt. I-II. I numeri comparsi furono 97 dal 23 maggio al 9 novembre 1797 ed editore fu Giovanni Antonio Curti.
110. De "Il Monitore Veneto" furono pubblicati 51 numeri tra il 17 maggio e l'8 novembre 1797. Spesso corredato di supplemento. Venne soppresso quasi d'imperio con una decisione della municipalità del 10 novembre 1797. Stampato da Giustino Pasquali.
111. V. n. 103.
112. "L'Equatore" ebbe varie edizioni. Nella prima del 1797 erano contenute otto illustrazioni intagliate da Giovanni de Pian. In una edizione del 1799, completamente rimaneggiata e intitolata Colloqui civici, le conversazioni saranno dodici. Il Barzoni fu autore di numerosi e talora importanti scritti, alcuni dei quali apparsi a Venezia nell'estate democratica del 1797.
113. V. n. 104.
114. Vittorio Malamani, I francesi a Venezia e la satira, Venezia 1887; Pia Zambon, Satire, invettive, discorsi a Venezia durante la democrazia (1797), "Archivio Veneto Tridentino", 3, 1923, pp. 79-141; Il ruggito del leone. 150 stampe satiriche 1797-1860, a cura di Maurizio Fenzo-Stefania Moronata, Venezia 1982.
115. Fondi archivistici e bibliotecari di miscellanee di originali sono conservati a Venezia presso la Biblioteca Nazionale Marciana (per esempio, Scritti sortiti nella Rivoluzione di Venezia seguita al 12 maggio 1797), al Museo Correr, alla Biblioteca della Fondazione Querini Stampalia, presso la Biblioteca della Deputazione di Storia Patria per le Venezie, presso la Biblioteca dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, presso l'Archivio di Stato. Materiale veneziano del periodo figura ovviamente anche in altri archivi e biblioteche, per esempio presso la Raccolta Achille Bertarelli di Milano (Inventario, pubblicato a Bergamo 1925), presso la Raccolta Fantoni del Museo Civico di Vicenza (Catalogo generale, Vicenza 1893), presso la Bibliothèque Nationale di Parigi (catalogo, Liste de pièces imprimées pour la plupart à Venise en 1797 pendant l'occupation française, Paris 1897). Cf. Stefano Pillinini, Il "Veneto Governo Democratico" in tipografia. Opuscoli del periodo della municipalità provvisoria di Venezia 1797, conservati presso la Biblioteca della Deputazione di storia patria per le Venezie, Venezia 1990; U. Corsini, Pro e contro.
116. Sono raccolte per noi utilissime. Ad esempio, oltre a quella del Gatti (Venezia 1797): Carte pubbliche; Raccolta di tutte le carte pubbliche stampate ed esposte nei luoghi più frequentati della città di Venezia, Venezia 1797 (Andreola). Da ricordare anche: Recueil des pièces relatives aux affaires de Venise du 22 floréal an 5 de la République Française une et indivisible, Milano 1797 (Veladini).
117. Importante ed esauriente sul tema degli archivi della municipalità è il saggio di Francesca Cavazzana Romanelli, Archivistica giacobina. La Municipalità veneziana e gli archivi, in Vita religiosa e cultura in Lombardia e nel Veneto nell'età napoleonica, a cura di Gabriele De Rosa-Filiberto Agostini, Roma-Bari 1990, pp. 325-347, con la relativa appendice.
118. "Gazzetta Urbana Veneta", 28 giugno e 1° luglio 1797.
119. Sul teatro "patriottico" a Venezia nel 1797 da vedere: Il Teatro Patriottico, a cura di Cesare De Michelis, Padova 1966; inoltre, Nicola Mangini, Venezia, il Foscolo e la rappresentazione del "Tieste", estratto "Rivista Italiana di Drammaturgia" 14, 1981. Raccolte di testi teatrali uscivano nel periodico "Teatro Moderno Applaudito ossia Raccolta di tragedie, commedie, drammi e farse che godono presentemente del più alto favore sui pubblici teatri così italiani, come stranieri; corredata di notizie storico-critiche e del giornale dei teatri di Venezia" che si pubblicò dal luglio 1796 al luglio 1801 in tometti mensili di circa 300 pagine, redatto da Angelo Dalmistro. Durante la municipalità il periodico sostenne il teatro Civico.
120. Il Sografi scrisse e fece rappresentare nel periodo anche il dramma Venzel e la farsa Il marchese della Toboletta a Parigi.
121. Adolfo Ottolenghi, Il governo democratico di Venezia e l'abolizione del Ghetto, "La Rassegna Mensile di Israel", 5, 1930-1931, pp. 88-104.
122. Per tutto quanto riguarda le cerimonie e le feste si v. l'ottimo saggio di Riccardo Carnesecchi, Cerimonie, feste e canti: lo spettacolo della "democrazia veneziana", dal maggio del 1797 al gennaio del 1798, "Studi Veneziani", n. ser., 24, 1992, pp. 213-318. Il saggio reca una ricca appendice di testi di canzoni, inni, ecc.
123. Antonio Longo, Memorie della vita di Antonio Longo viniziano scritte e pubblicate da lui medesimo per umiltà, Venezia 1820.
124. Gallino sarà sostituito quasi subito da Marconi.
125. Va ricordato che, comunque, un aiuto venne accordato a coloro che scelsero di emigrare nella Cisalpina. Andrea Spada nelle sue Memorie ricorda che Haller aveva nelle sue mani una sorta di deposito di 200.000 franchi che avrebbe dovuto restituire e che invece, su indicazione di Spada stesso, fu invitato a girare a favore dei Veneti poveri costretti ad emigrare per via delle loro opinioni politiche.
126. Si veda l'Introduzione di S. Pillinini a Il "Veneto Governo Democratico", pp. 5-20.
127. I dispacci dei rappresentanti del re di Sardegna da Venezia (quelli di Francesco Malingri dal 18 marzo al 13 maggio 1797, di Carlo Bossi dall'8 aprile al 2 giugno 1797, di Lodovico Bonamico dal 3 giugno 1797 al 3 febbraio 1798) sono stati pubblicati, come si è detto, da G. Sforza, La caduta della Repubblica di Venezia.