La musica di consumo
La musica del nuovo secolo è caratterizzata da una rivoluzione, quella digitale, da un’affermazione, quella di Internet e dell’MP3 (Moving Picture Experts Group audio layer 3), e da un declino, quello del supporto fisico tradizionale. E questa rivoluzione, quest’affermazione e questo declino hanno finito per cambiare profondamente lo scenario conosciuto, la percezione della musica e del mercato musicale, nonché la produzione e la creatività.
Partiamo da un dato: la rivoluzione digitale sta travolgendo il mercato discografico. Nessun altro mercato, nel mondo a noi conosciuto, è stato modificato così profondamente dall’avvento di Internet e dell’elettronica. Il mercato della musica, per come l’abbiamo fino a oggi conosciuto, ha imboccato la strada del declino, un declino probabilmente definitivo, segnato dal costante e, sembra, ineluttabile crollo delle vendite dei CD (Compact Disc). Le cifre del mercato discografico raccontano solo parzialmente la verità: il calo delle vendite non dice che di musica in realtà se ne consuma moltissima, certamente molta più di qualche anno fa. La musica è dovunque, nelle radio che diffondono migliaia di canzoni, nelle televisioni, sia quelle musicali sia quelle tradizionali, dove videoclip ed esibizioni non mancano mai, nella pubblicità, dove è diventata spesso dominante. E poi nei supermercati, negli ascensori, nei negozi, nelle automobili, creando una sorta di colonna sonora costante, che spesso diventa irriconoscibile melassa, ritmo senza senso, rumore di fondo. La musica perde valore, costantemente, inesorabilmente, si trasforma in prodotto da catena di montaggio, con gruppi musicali tutti uguali, boy bands prodotte a tavolino e giovani stelline che sono spesso vestite soltanto di qualche microfono. E più perde valore, più si trasforma in un oggetto di consumo, meno trova acquirenti, persone disposte a spendere soldi per comprare i dischi. Il disco, da quando si è trasformato in CD, ha perso gran parte del fascino che aveva avuto negli anni precedenti. Da oggetto di culto in vinile, da conservare gelosamente, da collezionare, da custodire con perizia per evitare graffi e distruzioni, è diventato un piccolo pezzo di plastica, freddo e senz’anima, che non contiene più qualcosa che valga la pena conservare a lungo.
A poco più di vent’anni dalla sua comparsa, il CD non sa ancora quale sarà il suo futuro. Certamente come supporto destinato a contenere suoni, immagini, filmati e testi sarà destinato a restare con noi ancora per molto tempo. Ma se esisterà ancora come oggetto non ci è dato sapere, perché con il passare del tempo la disponibilità per gli utenti di file digitali musicali sarà sempre più ampia e diffusa, al di là dei supporti attraverso i quali la musica verrà diffusa oppure venduta. Ha un futuro il CD se lo pensiamo come ‘disco’, come abituale contenitore di musica? Saremo ancora qui tra vent’anni a celebrarne l’anniversario? Con ogni probabilità no, se dobbiamo dare credito a quanto accade seguendo le correnti di una rivoluzione digitale che, in fin dei conti, è appena cominciata.
Originali o copie?
Negli ultimi anni sono stati venduti centinaia di milioni di CD vergini, pronti per essere registrati. Una parte di questi è andata senza dubbio ad arricchire il mercato della pirateria, di cui parleremo più avanti. Ma la parte più consistente è entrata nelle case dei consumatori, persone che con la pirateria hanno poco o nulla a che spartire, ma che hanno iniziato a copiare i dischi originali in quantità sempre maggiori. Un tempo il disco in vinile era ‘l’originale’, poteva essere copiato su una musicassetta, più facile da trasportare, ottima per i walkman e per le autoradio, ma non era sostituibile. Il disco aveva infatti una sua centralità culturale proprio per la non replicabilità casalinga dell’oggetto, così come succede per i libri, i quali possono certamente essere fotocopiati, ma non sono comunque replicabili in casa.
Per i CD la realtà risulta completamente diversa: i masterizzatori da computer e i registratori di CD sono in grado di realizzare copie dell’originale il cui contenuto ha lo stesso valore. Certo, i dischi copiati in casa non hanno la copertina o l’etichetta ma, a parte questo difetto (ovviabile con una semplice sessione in Internet, dove sono reperibili etichette e copertine, e con una buona stampante a colori), il contenuto del disco originale e la sua copia hanno una sola altra sostanziale differenza: il prezzo. Un CD originale può costare dai 9 ai 20 euro, un CD vergine costa meno di un euro. È ovvio che, ora che si possono avere copie identiche all’originale in vendita, siano sempre di più le persone che duplicano, da amici e parenti, i dischi che interessano e che l’originale abbia perso quasi completamente interesse. Quello dei dischi è, attualmente, l’unico tipo di copia privata di prodotto coperto da copyright che è quasi identico all’originale.
Non si tratta di ‘falsi’, privi dunque di qualsiasi valore, ma di copie, che nell’era della riproducibilità tecnica modificano necessariamente la stessa percezione dell’arte distribuita o venduta secondo i canali tradizionali. Un poster di un quadro non è il quadro, una fotocopia di un libro non è il libro, un VHS (Video Home System) di un film non è il film che si vede al cinema, il CD copiato è uguale al CD originale. E non c’è sul mercato un’altra versione ‘più originale’, l’acetato sul quale Jimi Hendrix ha inciso Electric Ladyland o il nastro digitale sul quale Eminem ha registrato la sua Stan. Gli unici ‘originali’ sono i dischi, perfettamente copiabili, che si trovano nei negozi. La rivoluzione digitale ha tolto valore al supporto base della distribuzione musicale e il pubblico, i consumatori, ne hanno immediatamente capito la portata, scavalcando l’industria, utilizzando Internet per distribuire le canzoni ormai trasformate in file digitali. Ed è arrivato Napster (v. oltre).
Il computer e Internet
Il successo della tecnologia digitale è legato al personal computer. Prima degli anni Ottanta del secolo scorso l’elaboratore elettronico era un enorme macchinario usato nei centri di ricerca, sviluppato per fini scientifici e militari. Per una serie di circostanze e spinte economiche e sociali è diventato ‘personale’, pervadendo il tessuto sociale e trasformandosi lentamente in un vero e proprio elettrodomestico, non più legato a un immaginario ‘da laboratorio’. È diventato un oggetto presente in moltissime case; al pari del frigorifero o della lavatrice è un oggetto per la massa, e in quanto tale ha la funzione di soddisfare bisogni diffusi. Se il frigorifero rappresenta un valido aiuto per la conservazione dei cibi e la lavatrice ci permette di pulire senza grosse fatiche i nostri indumenti, qual è l’esigenza che soddisfa il computer?
La sua funzione rimane poco definibile tutt’oggi; in genere chi lo usa tende a dire che il computer «serve a tutto», intendendo dire che svolge un numero imprecisato di compiti, mentre coloro che ancora non hanno preso confidenza con esso si chiedono a cosa possa servire davvero. Tuttavia il suo punto di forza è proprio quello di non essere strutturato per svolgere compiti specifici, ma di avere una natura flessibile; di essere in grado, disponendo del software adatto, di svolgere compiti molto diversi tra loro.
Negli ultimi anni è cresciuto il predominio della tecnologia digitale nella musica, a livello sia professionale sia amatoriale. Il personal computer sempre più potente, amichevole ed economico viene dotato di periferiche e programmi specifici e diventa il nuovo ‘strumento musicale’ in grado di assistere il musicista nello svolgimento delle più svariate attività: dalla ricerca astratta alla produzione commerciale. Il termine musica elettronica, che fino alla fine degli anni Settanta identificava un settore della musica contemporanea con precisi ambiti linguistici ed estetici, a partire dagli anni Ottanta perde progressivamente questa identità per assumere un significato di pura connotazione tecnica, data la diffusione del mezzo informatico in tutti i generi musicali.
Internet è un mezzo che sta contribuendo a una vera e propria rivoluzione del mercato discografico. È uno strumento che non porterà a particolari modificazioni nel campo della musica ‘suonata’, ma che, come già sta accadendo, potrebbe farci dimenticare in fretta lo scenario con il quale siamo stati fino a oggi abituati a convivere.
Qualche tempo fa i ‘profeti’ della rete come Nicholas Negroponte annunciavano l’avvento dell’‘Era digitale’ con grande enfasi, seguiti da molti con attenzione e curiosità, per scoprire come sarebbe stato il nostro mondo futuro. Poi, la crisi della new economy ha portato moltissima disillusione e in tanti hanno pensato che quel futuro fatto di transazioni digitali, di un’Internet che si sarebbe via via ‘fusa’ con la nostra vita normale, non era altro che il testo di un buon libro di fantascienza e che quella realtà era ben distante dal vero. E invece, nel campo della musica, la rivoluzione è andata avanti, non ha subito soste, non ha sofferto della crisi, perché si muoveva ben al di là delle necessità dei nuovi imprenditori digitali, era ed è una rivoluzione che nasce dal basso, dagli utenti, da milioni di persone che hanno deciso di usare la rete per copiare e scambiare musica tra di loro gratuitamente.
La storia della musica popolare è, senza alcun dubbio, la storia dei supporti musicali. C’è stata una musica adatta ai ‘rulli’, una musica calibrata sui primi 78 giri in vinile, una musica adatta ai piccoli 45 giri, un’altra nata e cresciuta attorno alla diffusione dei 33 giri, persino una musica per gli EP (Extended Play), più grandi dei singoli ma più piccoli degli album. Poi è arrivata la rivoluzione dei CD e la musica è cambiata ancora, come inizia a fare adesso che le canzoni vengono trasformate in file digitali, compressi in formati vari, trasmessi via Internet o copiati negli hard disk dei computer o nelle memorie dei lettori MP3. E tutti questi cambiamenti sono stati in qualche modo ineluttabili, perché via via che i formati cambiavano si adattavano alle esigenze del pubblico. La gente sceglie, insomma, i formati che apprezza di più, spesso anche al di là della loro effettiva qualità (il DCC, Digital Compact Cassette, per es., era un’eccellente alternativa alle vecchie cassette), o della loro semplicità d’uso, seguendo traiettorie indipendenti dalla volontà delle industrie che fabbricano supporti e delle case discografiche. Nella maggior parte dei casi l’industria discografica si adegua alle richieste del pubblico e sposa un formato piuttosto che un altro (come accadde nel passaggio tra 45 e 33 giri, o con la rivoluzione del CD), altre volte l’industria discografica prova a frenare la diffusione di alcuni supporti (accadde molti anni fa con le cassette vergini, considerate un veicolo primario della pirateria e quindi strenuamente osteggiate dall’industria discografica). Oggi siamo a un capitolo completamente nuovo, quello che ha portato, da una parte, all’affermazione di un nuovo formato, l’MP3, scelto da decine di milioni di persone per copiare la musica sui personal computer e trasmetterla via Internet, dall’altra a una diffusione di musica al di fuori dei meccanismi di protezione del diritto d’autore che non ha mai avuto eguali nella storia.
Cosa è accaduto che ha favorito l’affermazione dell’MP3? È arrivata Internet, la rete delle reti. La musica registrata, una volta trasformata in file digitali, è ridotta in bit, che possono essere trasmessi attraverso la rete, così come i file di testo o le immagini. I file musicali, però, sono troppo ‘ingombranti’ per essere trasmessi con facilità, l’unico modo per poter distribuire le canzoni è che queste vengano ‘compresse’. Ed è ciò che fa l’MP3, formato di compressione che consente di ridurre i file musicali a una dimensione accettabile per le memorie dei computer e per la trasmissione via Internet. Ma non è ancora abbastanza. Il passo successivo lo ha compiuto un giovanotto di diciannove anni, Shawn Fanning, che nel gennaio del 1999 ha creato Napster, un software di condivisione che consente appunto di ‘condividere’ porzioni dei propri hard disk, quelle in cui sono contenuti i file MP3, scambiandoli gratuitamente. L’avventura di Fanning è durata poco, quanto è bastato per raccogliere sessanta milioni di utenti che si scambiavano canzoni senza nulla pagare alle case discografiche e agli artisti. Napster è stato chiuso perché il suo sistema peer-to-peer, da utente a utente, è ‘impuro’, prevedeva cioè la presenza di un server centrale per la realizzazione degli elenchi dei brani. Chi controllava il sistema, quindi, poteva sapere quali file venivano scambiati e poteva, anzi doveva per legge, impedire che venissero scambiati gratuitamente file protetti da copyright. Su questa base un giudice americano ha accolto le denunce di gruppi come i Metallica o di artisti come Dr. Dre, oltre che dell’industria discografica americana, e ha ordinato a Napster la cessazione dell’attività.
La chiusura di Napster nel 2001 e la vittoria delle grandi case discografiche avevano fatto pensare a molti che la fase ‘esplosiva’ e anarchica della diffusione gratuita di file musicali attraverso Internet fosse finita e che le majors discografiche avrebbero in poco tempo ristabilito l’ordine precedente, fatto di acquisti e pagamenti. Non è stato così: altri sistemi peer-to-peer hanno preso il posto di Napster, alcuni addirittura con maggior successo, portando in rete milioni di utenti nuovi, che hanno condiviso i loro archivi musicali con altri. La diffusione sempre maggiore di masterizzatori e di registratori di CD ha fatto il resto, riportando fuori dalla rete, fuori dal mondo digitale e virtuale di Internet, la musica scaricata dai computer, copiata in casa su CD, muovendo quindi l’assalto al mercato musicale vero e proprio, contribuendo, a detta dei discografici, all’attuale calo delle vendite dei dischi.
Scambiarsi file musicali attraverso Internet è diventata una pratica quotidiana per centinaia di milioni di persone. Ma la cura proposta dai discografici per bloccare il fenomeno – ossia l’installazione sui CD di software di protezione – sembra colpire solo chi compra i dischi originali, chi si trova a non poterli ascoltare sul proprio computer o ad avere difficoltà con le autoradio o gli stereo di casa. Chi compra per strada dai venditori di copie pirata o frequenta i siti dai quali si scarica musica gratuitamente continua, invece, a poter fare copie delle canzoni senza problemi. Così pian piano questi software sono scomparsi dai dischi e persino dai file venduti legalmente via Internet, lasciando spazio alla definitiva affermazione dell’MP3.
Le majors, nel frattempo, continuano la loro battaglia contro i siti che offrono i servizi peer-to-peer, ottenendo la chiusura di molti di questi, senza però riuscire a bloccare il fenomeno. Molti artisti, vista la situazione, stanno iniziando a ripensare i loro contratti con le industrie discografiche: se la musica riprodotta sarà sempre più facile da reperire gratuitamente in rete i loro guadagni non saranno più legati alle vendite dei dischi ma ad altro. E attorno a questo ‘altro’ ci sarà battaglia. Siamo solo all’inizio di una stagione di profondo rinnovamento dell’industria discografica e, con pochi dubbi, questo rinnovamento ruoterà attorno al World Wide Web.
Le case discografiche, fino a oggi, hanno operato su due fronti, quello della difesa del supporto, il CD, proteggendolo oltre ogni misura e, al tempo stesso, osteggiando la diffusione via Internet invece di promuoverla e gestirla in prima persona. E operando una politica di fusioni, di merger (alcuni solo ipotizzati, altri bloccati dall’antitrust, altri riusciti), che hanno ridotto di molto il numero delle majors discografiche in campo, fusioni nate sia per gestire meglio i prodotti, sia per ridurre le spese in maniera drastica. Come sottolinea una ricerca del Department for culture, media and sport del Regno Unito (DCMS, Report 1998), «l’industria discografica è un business ad alto rischio di impresa che richiede sostanziali investimenti in nuovi artisti e repertorio. Le industrie discografiche investono in media il 12-13% del proprio fatturato in ricerca, una delle percentuali più elevate in ricerca e sviluppo se confrontata con altri settori industriali». Inoltre con «le hits che sfondano in classifica l’industria finanzia i mancati guadagni della maggior parte dei dischi che non vendono abbastanza per coprire gli investimenti iniziali». Insomma: la stragrande maggioranza dei dischi che viene pubblicata non produce alcun profitto per le case discografiche. Non più del 10% dei dischi pubblicati in un anno fa realizzare alle majors un guadagno. Con i soldi guadagnati con il 10% dei dischi, si finanzia la pubblicazione dell’altro 90%.
Il download legale
Il futuro della musica sarà on-line? Se fino a qualche tempo fa era difficile avanzare delle ipotesi credibili, vista la vastità del fenomeno del download gratuito e illegale, oggi la realtà è molto diversa. Chiusi Napster e molti dei suoi cloni, il fenomeno della distribuzione gratuita della musica via Internet non si è fermato e molti altri siti hanno continuato a prosperare. Sono siti che applicano un peer-to-peer puro, non hanno cioè server centrali che in qualche modo tengano traccia degli scambi tra utenti, e non sono, per ora, perseguibili per legge. Difficilmente verranno chiusi e costituiranno un costante problema per l’industria discografica e per gli artisti. Contemporaneamente, però, si è andata affermando una serie di servizi on-line che offre musica legalmente, a prezzi accessibili, consentendo agli utenti di copiare i file scaricati su dispositivi portatili e di masterizzarli su CD. A scatenare una vera e propria moda è stata la Apple che ha prodotto nel 2001 un lettore MP3 molto cool come l’iPod, che ha subito fatto breccia nel cuore dei ragazzi, prendendo il posto che aveva avuto negli anni Ottanta il walkman.
Sono passati quasi trent’anni da quel 1979 in cui il nostro modo di ascoltare la musica cambiò, per mezzo di una macchinetta grande poco più di un pacchetto di sigarette, leggera, stereofonica e portatile, da ascoltare attraverso un paio di cuffie, dal nome facile e memorizzabile: walkman. Fu una rivoluzione: in brevissimo tempo non solo i ragazzi ma anche gli adulti iniziarono a indossare le cuffie e a portarsi dietro la propria musica, in autobus, in metropolitana, facendo jogging o ginnastica in palestra, realizzando personalissime compilation sulle cassette e ‘sonorizzando’ in maniera creativa l’ambiente circostante, in completo isolamento acustico. La ‘musica portatile’ e personalizzata iniziò a sostituire sempre più frequentemente il consumo di dischi, le cassette andarono a ruba e, per un certo periodo, superarono le vendite dei dischi, le compilation fatte in casa abituarono gli ascoltatori a una fruizione diversa da quella alla quale i vecchi ‘padelloni’ in vinile avevano abituato una generazione intera.
L’iPod della Apple, che in Inghilterra e negli Stati Uniti ha già il dominio del mercato della musica portatile e sta facendosi strada anche da noi, è leggerissimo, elegante, con una memoria capace di contenere migliaia di canzoni invece delle poche decine del walk-man; è il lettore multimediale per eccellenza, il figlio del CD e di Internet, il nipote digitale del walkman. È ancora troppo caro per entrare in tutte le tasche, ma ci metterà poco a cambiare, ancora una volta, il nostro modo di ascoltare la musica. L’iPod è il supporto attraverso il quale oggi si ascolta la musica. È arrivata, insomma, l’ora della iPod generation. Basta girare per strada per rendersi conto che gli adolescenti, ma anche i signori in giacca e cravatta, le ragazze alla moda e le signore che fanno jogging hanno le cuffie alle orecchie e il loro iPod in tasca, ascoltano la musica che vogliono e non sanno più che farsene dei vecchi walkman o dei lettori CD. In Italia siamo solo all’inizio, ma la rivoluzione della musica digitale è inarrestabile e sta pian piano coinvolgendo tutti. Un fenomeno di massa: ci sono le premesse per una sua espansione rapida e ineluttabile. Come funziona l’iPod? Il piccolo lettore MP3 funziona, sostanzialmente, come un hard disk portatile, si collega a un computer e trasferisce la musica che precedentemente è stata copiata dai CD o scaricata da Internet. Consente insomma un proprio ‘archivio’ musicale portatile. Flessibile quanto sterminato. La sua ampia memoria (il modello più piccolo, l’iPod Shuffle, ha 1 gigabyte di memoria e può conservare ‘solo’ 200 canzoni, il più grande ha 80 gigabyte e contiene fino a diecimila brani) permette a chi lo usa di portare in tasca tutta la propria discoteca, le canzoni preferite, gli album più amati, di ascoltarli con la qualità di un CD e di creare le proprie playlists, facendosi quindi una radio personale, senza conduttori o pubblicità. Una formula accattivante per categorie sociali o fasce d’età differenti, non solo giovanissimi. Partita dagli Stati Uniti, dove il piccolo oggetto tecnologico è nato sette anni fa a Cupertino, in California, nei laboratori della Apple (che si chiama come la casa discografica dei Beatles, ma è la celeberrima azienda di computer diretta e fondata da Steve Jobs), la travolgente avanzata dell’iPod ha coinvolto tutto il mondo, tutti i Paesi dove l’azienda americana ha fatto arrivare il suo sistema di download musicale via Internet, iTunes, che consente di scaricare canzoni per soli 99 centesimi. Un fenomeno senza precedenti, di proporzioni forse impreviste. Accanto all’iPod ci sono altri lettori MP3 che svolgono le stesse funzioni, prodotti da tutte le principali aziende di home entertainment, ma nessuno ha avuto il successo, il fascino, l’appeal del piccolo lettore della Apple, che si è trasformato rapidamente in uno status symbol. L’industria discografica come ha risposto a questa rivoluzione? In un primo momento con grandissima diffidenza, consentendo la trasformazione in file soltanto di alcuni dischi degli artisti più famosi, e imponendo pian piano, sui dischi nuovi in commercio, una copy protection che rendeva impossibile per chi acquistava legalmente un CD di copiarlo sul proprio iPod, nonostante questo non rappresenti un reato. In seguito, vista la rapida crescita del mercato digitale, si è adattata suo malgrado alla nuova realtà.
Il software della Apple integrato con un ‘negozio’ on-line, iTunes, ha rapidamente convinto gli utenti americani, per la qualità del servizio e la vastità del catalogo. In Europa è stato invece Peter Gabriel, con la sua azienda Od2 (On Demand Distribution), a muoversi per primo, con intelligenza e successo, conquistando ampi spazi di mercato in Inghilterra, Francia, Spagna, Germania e Italia. Il successo ottenuto da iTunes negli Stati Uniti ha spinto molti altri operatori a muoversi con maggior sicurezza verso la conquista degli inesplorati territori della distribuzione digitale della musica. Oltre alla Apple e alla Od2, sono apparse sulla scena aziende legatissime a Internet come la RealNetworks con Rhapsody, grandi case discografiche come la Sony con Sony Connect, case produttrici di software come la Roxio con la sua nuova versione legale di Napster, un’azienda non musicale come la Coca-Cola con My Coke Music, Internet company come MusicMatch, grandi magazzini come Wal-Mart, e una pattuglia di piccoli operatori indipendenti, come eMusic, il colosso del commercio on-line Amazon, l’immancabile Microsoft e molti, moltissimi altri ancora.
Per il momento i segnali che arrivano dal territorio del downloading risultano abbastanza chiari, e indicano un interesse da parte degli utenti in nettissima crescita, e non soltanto negli Stati Uniti, dove l’avvento di iTunes ha modificato profondamente lo scenario della distribuzione musicale.
Un consumo istantaneo
È facile farci caso, basta ascoltare la programmazione di una radio qualsiasi o seguire un canale musicale: quando esce un disco di un artista, nella stragrande maggioranza dei casi viene programmato un solo brano, il ‘singolo’, quello che un tempo sarebbe stato pubblicato sul piccolo 45 giri. Pochi arrivano ad avere un secondo brano in programmazione. Pochissimi sono quei dischi che invece riescono a ‘durare’ diversi mesi e a veder programmate più canzoni, ognuna degna in qualche modo di nota. Mentre fino agli anni Settanta era possibile acquistare 45 giri e gli artisti e le case discografiche lavoravano attorno a questo formato, oggi i singoli hanno un mercato molto limitato, sono considerati poco dalle case discografiche e pochissimo dagli stessi artisti, i quali credono che l’unico modo per dare dignità al proprio lavoro sia quello di realizzare un LP (Long Playing), un disco intero. A lungo andare questa triste abitudine ha allontanato molti consumatori dall’oggetto discografico, anche perché la singola canzone interessante viene ampiamente trasmessa da radio e televisione, accontentando i consumatori meno fedeli. Puntando tutto sugli hits, sui brani di successo, la programmazione delle grandi radio nazionali limita di molto lo spettro della musica trasmessa e allo stesso tempo rende inutile l’acquisto di molte canzoni.
Vendendo sempre meno dischi l’industria musicale ha iniziato ad arrotondare i propri bilanci puntando su altro, dai gadget (magliette, poster, adesivi) ai diritti radiofonici e televisivi, ai concerti, cercando di trasformare, come del resto è avvenuto in molti altri settori dell’industria, gli artisti in ‘marchi’. Il caso delle Spice Girls e quello dei Take That sono stati esemplari e, in parte, hanno condizionato l’intero mercato. L’industria ha quindi concentrato il suo impegno su prodotti discografici ‘mordi e fuggi’, su fenomeni il cui impatto musicale è relativo e quello visuale e di ‘marchio’ è decisamente più forte, producendo in serie gruppi e solisti, in grado di entrare a far parte dell’immaginario degli adolescenti più per la bellezza fisica o per l’abbigliamento che non per le doti musicali. E, come in una perfetta catena di montaggio, ha iniziato a produrre cloni dei personaggi più fortunati. La musica è diventata secondaria, una parte del tutto, non necessariamente la più importante. Le strategie di marketing per imporre ‘marchi’ come quelli di Britney Spears o Christina Aguilera, o i Backstreet Boys, hanno avuto un peso determinante nel loro successo. A scapito però della musica.
È ovvio che in un simile scenario il crollo delle vendite dei CD negli Stati Uniti potrebbe portare a una vera e propria rivoluzione del mercato discografico: «Di certo se il business non fosse più così redditizio», ha detto Moby, uno degli artisti più originali e di maggior successo degli ultimi anni, «in un istante sparirebbero le band costruite a tavolino e molti artisti pop, forse la gente che fa musica esclusivamente per fare soldi, dovrà trovarsi un’altra occupazione». È una visione ottimistica del futuro, perché è più probabile, vista la logica che oggi guida l’industria discografica internazionale, che accada il contrario, ossia che diminuiscano ancora gli investimenti su artisti originali e che si moltiplichino quelli su prodotti commerciali, su ‘marchi’ in grado di guadagnare anche al di fuori del mercato discografico.
Il consumo musicale, che prima ruotava attorno alla ‘conservazione’ del disco in vinile, si è trasformato nella ricerca della soddisfazione immediata, in un consumo ‘istantaneo’.
Esiste però anche un consumo istantaneo di alta qualità, che trova soddisfazione con il fenomeno degli istant CD. I tempi sono cambiati, l’era di Woodstock è lontana anni luce, oggi il ricordo più ambito di un concerto non è più l’immancabile maglietta con l’effige del cantante o del gruppo, o il biglietto d’ingresso da conservare gelosamente per anni, o quella cassetta registrata malamente, in cui si ascolta più la voce del vicino che parla con la fidanzata che la musica del gruppo in scena. Oggi si esce da un concerto e con un semplice clic si ha a disposizione, in pochi minuti, un CD con la registrazione di tutto quanto si è da pochi minuti finito di ascoltare. Benvenuti nell’era del CD istantaneo, della ‘polaroid’ audio da portare a casa alla fine di un concerto, del souvenir digitale che permette non solo di poter dire, com’è sempre stato, «c’ero anch’io», ma anche di riascoltare il concerto del proprio artista preferito senza dover aspettare la pubblicazione del solito album live.
La moda dei CD istantanei è nata di recente, figlia innanzitutto della potente crisi della discografia, dell’inarrestabile calo delle vendite dei CD, che anno dopo anno diventano sempre meno centrali nel grande universo della musica odierna. E, senza dubbio, il successo che stanno ricevendo indica che la strada aperta da gruppi come i Pearl Jam (che da tempo hanno messo in commercio i CD di ogni tappa dei loro tour) è certamente interessante.
Come funziona? In modo semplicissimo: il gruppo o il cantante registra con strumenti digitali il concerto intero. Il file così realizzato viene messo a disposizione, in un piccolo ‘chiosco’ elettronico, degli spettatori che, prima di abbandonare la sala, lo stadio o il teatro del concerto, possono chiedere di avere una copia del file su CD o di scaricare il contenuto su una memoria elettronica portatile, per es. una memory card e una pen drive. L’oggetto che si ha a disposizione è un disco a tutti gli effetti, legalmente riconosciuto, non una copia pirata dunque, un CD per molti versi unico, perché contiene la registrazione di un singolo, irripetibile concerto. Quella degli instant CD, o quella dei braccialetti USB (Universal Serial Bus), o dei dischi su memory card, sono alcune delle molte ipotesi in campo per fermare un calo delle vendite dei CD che sembra inarrestabile, una crisi dell’industria discografica che appare sempre più drammatica. E gli scenari futuri sono ancora avvolti nella nebbia più fitta. Il disco è sulla strada del declino e non si vede all’orizzonte cosa possa sostituirlo.
Dischi, file, computer e cellulari
La velocissima caduta della vendita dei dischi (che ancora oggi copre l’85% del mercato musicale odierno e continua ormai senza sosta da sette anni) ha decisamente eclissato la crescita del download, che non è riuscito a compensare il declino del CD.
I consumatori scelgono soprattutto di ascoltare la musica gratuitamente. Prima di tutto attraverso la radio, che trasmette senza sosta i dischi che sono ai vertici delle classifiche, attraverso la televisione (sui molti canali musicali, sia in forma analogica sia digitale), attraverso Internet, che consente di collegarsi alle web radio sempre più personalizzate, sui molti MP3 blogs che gli appassionati riempiono di musica, di vedere video gratuitamente su YouTube, MySpace, Aol o Yahoo Music, di ascoltare nei molti ‘negozi’ on-line i sample (campioni preascolto) degli album e dei brani e soprattutto di utilizzare servizi illegali che consentono di scaricare tutta la musica senza pagare un solo euro. È una crisi, insomma, motivata da un cambiamento di abitudini radicale, uno spostamento dei modelli di consumo al quale l’industria discografica non è riuscita ancora a dare una risposta. Il CD spesso è diventato poco più che uno strumento promozionale per la vendita dei biglietti dei concerti, magliette, poster e gadget di diversa natura: è il veicolo che spinge il tour, il merchandise, la costruzione del marchio. Non produce denaro. Gli artisti, in realtà, piangono poco, i loro guadagni si sono forse ridotti in campo discografico ma sono cresciuti nel campo dei concerti e dei DVD, senza contare, per gli autori, il campo dei diritti, che si è allargato a dismisura con l’avvento di Internet e la moltiplicazione delle radio.
A soffrire è fondamentalmente l’industria del disco, perché è proprio il disco ad avere via via perso forza, fascino e importanza.
Se leggiamo semplicemente i numeri siamo costretti a dire che il mercato della musica digitale non ha compensato il calo di vendite dei CD. Le vendite di singoli film musicali negli Stati Uniti sono cresciute del 54%, secondo Nielsen SoundScan (il sistema leader di monitoraggio dell’industria musicale), raggiungendo la cifra non piccola di 173,4 milioni. Nulla in confronto al calo del 20% nelle vendite dei CD. Ed è vero che gli album che mancano non vengono sostituiti da vendite di album digitali. Ma i singoli, al contrario, segnano una straordinaria inversione di tendenza, ossia il ritorno a un formato che sembrava virtualmente svanito, una straordinaria affermazione dei consumatori che dicono chiaramente, in maniera inequivocabile, agli artisti e ai discografici, «smettete di venderci album con troppi brani inutili, dateci solo le canzoni buone, una, due, tre al massimo. E datecele in ogni formato possibile». Del resto, come confermano i dati della Nielsen, gli album arrivati al numero uno nei primi tre mesi del 2007 hanno venduto pochissimo, stabilendo dei clamorosi record negativi: il disco della band di Chris Daughtry è arrivato al primo posto vendendo solo 65.000 copie, quello della colonna sonora di Dreamgirl ha conquistato il numero uno con 60.000 copie, cifre con le quali solo un anno fa non sarebbero arrivati nemmeno al 30° posto in una classifica dove i primi vendevano anche 5 o 600.000 copie. In termini economici il quadro è altrettanto preoccupante, le grandi case discografiche puntano alle fusioni per cercare di far quadrare i bilanci, operando forti riduzioni di personale, grandi tagli agli investimenti, alla ricerca e allo sviluppo di nuovi talenti, alla promozione. La Warner ha segnalato una perdita del 74% nei profitti dell’ultimo quarto del 2006, recuperando qualcosa all’inizio del 2008, ma il quadro generale non sembra mostrare alcun segno di recupero stabile. In Italia la situazione è del tutto simile: cresce ancora la musica digitale (+44%), anche se il fatturato generato è ancora lontano dal compensare il calo di vendite nel mercato tradizionale. Le vendite di musica via Internet e telefonia mobile hanno fatturato complessivamente 16,7 milioni di euro e rappresentano il 6,11% del mercato discografico italiano nel 2006. La musica da Internet ha fatturato quasi 7 milioni di euro (+119%), mentre il mobile ha fatturato 9,7 milioni di euro (+15,8%). La musica su telefonini rappresenta il 58,4% del mercato digitale. La musica distribuita in rete ha mostrato l’indice di crescita più incisivo e ha guadagnato quote rispetto alla telefonia mobile. Complessivamente, tra mercato tradizionale e digitale, il fatturato dell’industria è stato di 273,8 milioni di euro con un calo del 9,3% rispetto al 2005.
Nessuno sembra avere la ricetta giusta per recuperare il terreno perduto: c’è chi prova a ridurre i prezzi dei CD, c’è chi immagina (ma agli annunci non è ancora seguita nessuna scelta vera e propria in tal senso) una distribuzione gratuita sostenuta dalla pubblicità, c’è chi cerca di far salire i prezzi dei downloads, chi prova a blindare i CD con software anticopia, chi s’inventa partnership con altre aziende che vendono oggetti interessanti per il mercato giovanile, ma nessuno di questi tentativi è sembrato quello giusto, quello definitivo. Soprattutto nel mercato del download, dove a dominare la scena è un’azienda non discografica, la Apple di Steve Jobs, che, visto il successo che sta ottenendo, stabilisce le regole.
Un capitolo a parte è quello dei negozi di dischi. Fino a pochi anni fa i negozi specializzati, grandi o piccoli che fossero, erano la base del mercato, il luogo dove gli appassionati andavano a cercare e comprare musica. Attualmente il ruolo dominante nella vendita, negli Stati Uniti soprattutto, ma anche in Inghilterra e pian piano nel resto d’Europa, Italia compresa, lo detiene la grande distribuzione, catene di supermercati che vendono altro e che sono in grado di praticare forti sconti sul prezzo dei CD. Negli Stati Uniti, negli ultimi anni, sono stati costretti a chiudere più di 1800 negozi, tra i quali quelli di una storica catena di megastores musicali, Tower Records. I negozi della Virgin, per ammissione dello stesso proprietario, Richard Branson, hanno superato la crisi vendendo altro, videogiochi, DVD, libri, giornali, merchandise.
La produzione, gli artisti
Le tecnologie digitali mettono a disposizione dei compositori, oggi, quello che fino a ieri era possibile solo attraverso l’immaginazione, ma che non poteva essere ascoltato. Oggi posso ‘pensare’ un suono e tradurlo in numeri. E ascoltarlo così come l’ho immaginato. Per molti versi non esistono più limiti. Si può andare verso l’alto, il basso, il profondo, il laterale, assumendo contemporaneamente più identità musicali. L’avvento delle tecnologie digitali ha portato a una straordinaria esaltazione della logica del ‘qui e ora’, si produce musica deliberatamente senza passato, senza futuro. Il cut and paste è oggi una formula compositiva diffusa. Nulla a che vedere con le tecniche compositive del passato e nessuna parentela, davvero, con i procedimenti creativi dell’avanguardia. Uso, consumo, getto, recupero, reimpasto. Nulla si crea, nulla si distrugge. La conoscenza della tecnica strumentale è elemento non portante. Anzi, sono proprio i ‘non musicisti’ a trovare nell’autoproduzione la loro completa realizzazione. Se prima c’era il filtro delle case discografiche, delle abilità tecniche, dei produttori, delle scuole di musica, dei concorsi e dei festival, oggi fare un disco, un CD, produrre un brano, è alla portata di tutti. Provate a chiedere a un dee-jay che mestiere fa, e vi risponderà, con orgoglio, «musicista!», pur non suonando altro che i piatti del proprio giradischi. Il bastard pop delle ultimissime generazioni, poi, elimina addirittura la necessità di usare non solo gli strumenti musicali, ma anche le loro simulazioni digitali. Con le nuove tecnologie si prendono dischi altrui e si ‘risuonano’. Non c’è strumento, non c’è spartito, c’è musica nuova con macchine nuove, musica che non ha ancora una teoria in grado di spiegarla tutta e di analizzarne i confini, anche perché confini, obiettivamente, non ce ne sono. È una rivoluzione? Assoluta e totale, perché ognuno, nell’era del digitale diffuso, è artista, produttore, discografico e distributore di sé stesso. Con tutti i limiti e i pregi del caso. Non esiste altra certificazione che la propria.
In tutto questo entra, fortemente, il concetto di autoproduzione. Anche ieri ci si poteva autoprodurre, quindi, in assoluto, questa è apparentemente la zona meno rivoluzionata tra quelle che il digitale ha colpito. Oggi, però, si può fare da soli quello che prima necessitava dell’aiuto altrui. È la liberazione totale, definitiva, assoluta, della creatività musicale. È l’abbattimento delle categorie, la morte dei generi, la fine dell’industria musicale così come, fino a oggi, l’abbiamo conosciuta. E questa autoproduzione digitale non coinvolge solo i musicisti dell’avanguardia, i fanatici dell’elettronica, la creatività delle ultimissime generazioni: uno dei maestri di questo nuovo modo di essere one man band, per es., è stato ed è Prince, e allo stesso modo oggi non c’è musicista, di rock come di pop, di rap come di canzone d’autore, che non sfrutti le possibilità offerte dai nuovi software, dai computer, dalle tastiere multifunzione, da Internet e dalle tecnologie digitali, per realizzare la propria musica. Se fino a qualche anno fa lo studio di registrazione era diventato un vero e proprio strumento musicale, oggi la propria camera, il proprio desktop, sono il ‘luogo’ della produzione musicale. C’è una progressiva riduzione dello spazio musicale che prosegue di pari passo con la ‘virtualizzazione’ degli strumenti. Ma mentre lo spazio fisico si annulla, lo spazio creativo, al contrario, diventa infinito, interminabile, assolutamente privo di confini e limiti. Con il computer e i software musicali lo spazio della musica invade lo spazio della vita, il suono esce dai luoghi deputati della produzione ed entra nel quotidiano.
Il futuro
Come andrà a finire? Risulta difficile dirlo perché per ora siamo in pieno medioevo, in una fase in cui appare inevitabile il declino del mondo che abbiamo fino a oggi conosciuto e allo stesso tempo si è soltanto all’alba del nuovo mondo, quell’universo digitale che è già attorno a noi ma che non si è ancora trasformato in un grande mercato.
Tutto ruota attorno al destino del CD, che resta il supporto principale attraverso il quale oggi la musica viene distribuita e venduta nel mondo. L’intera strategia della discografia è oggi centrata sulla difesa del supporto, apparentemente senza comprendere le enormi implicazioni della rivoluzione di Internet e la domanda di musica a costi contenuti che viene da sistemi come Napster. Le majors non stanno cercando di replicare l’operazione che riuscì perfettamente all’epoca del passaggio dal vinile al CD, dove l’importante era convincere il pubblico ad abbandonare il vecchio supporto per abbracciare il nuovo e fare in modo che tutto il parco dischi venisse completamente rinnovato, vendendo quindi moltissimo anche i dischi vecchi e non solo le novità. Al contrario le case vogliono che le nuove tecnologie (computer, MP3 e distribuzione via Internet) convivano con il CD, anzi entrino in contatto tra di loro il meno possibile.
Insomma le majors invece di provare a seguire una legge base del mercato, quella per la quale se i consumatori richiedono un prodotto è bene darglielo, provano a progettare un sistema protezionistico nel quale le tecnologie attualmente disponibili non vengano utilizzate, anzi l’uso di determinate tecnologie venga addirittura inibito. Un sistema che pur andando nella necessaria e ineluttabile direzione della legalità, del pagamento dei diritti d’autore, del giusto compenso per artisti e case discografiche, non risponde alla domanda principale: il successo di Napster era dovuto alla sua semplicità d’uso, alla ricchezza del suo catalogo, al fatto che la musica scaricata dalla rete poteva poi essere conservata in eterno, trasferita su lettori MP3 e su CD, o soltanto al fatto che era gratuita? Quello che oggi appare davanti a noi è un futuro di musica distribuita ovunque attraverso mezzi diversi, radio, televisione, satelliti, computer, Internet, telefoni cellulari. Il CD sta già perdendo e continuerà ancora a perdere la sua centralità. Tuttavia non la perderà la musica registrata, la quale continuerà a contenere molti dei nostri sogni, dei nostri fantasmi, dei nostri desideri.
Bibliografia
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Dal vinile a Internet: economia della musica tra tecnologia e diritti d’autore, a cura di F. Silva, G. Ramello, Torino 1999.
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