La musica greca tra mito e culto: strumenti musicali e attributi divini
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il mito è popolato di musica. Ad Apollo, dio dell’ispirazione poetica, e alle Muse, che sovrintendono alle arti e alle scienze, sono solitamente attribuiti strumenti musicali. Molte le gare musicali che coinvolgono dei e personaggi del mito: famose quelle tra Apollo e Marsia e tra Tamiri e le Muse. Altri racconti mettono in rilievo la forza della musica che ammalia e incanta, come quelli in cui protagonisti sono Orfeo o le Sirene; o la capacità di alcuni strumenti, quali aulos e timpano in contesti dionisiaci, di suscitare la trance.
Nel mondo greco la musica ha un ruolo primario in numerosi episodi del mito: tra le divinità del pantheon, però, solo Apollo, dio della divinazione e della poesia, ha con essa un legame diretto e privilegiato. Nei testi e nelle immagini il dio compare, oltre che come arciere vendicatore, anche come musico che, suonando la cetra, allieta il corteo nuziale durante le nozze di Peleo e Teti o di altre coppie divine; o prende parte a momenti particolari del mito come la nascita di Atena che, armata di tutto punto, salta fuori dalla testa di Zeus.
La presenza prima della cetra, e più tardi della lira, a sottolineare l’aspetto di Apollo come dio dell’ispirazione poetica, deriva dal fatto che, almeno fino a tutta l’età classica, i testi poetici sono eseguiti con l’accompagnamento di uno strumento a corde.
L’epiteto Musagete, con cui spesso viene indicato Apollo, sottolinea il suo ruolo di “guida delle Muse”, un gruppo di divinità femminili figlie di Zeus e Mnemosine (la memoria) dal cui nome deriva il termine mousike, “arte delle Muse”, che comprende il canto, la musica e la danza.
In origine le Muse erano un gruppo indistinto di divinità femminili che risiedevano sulle pendici del monte Elicona ed erano genericamente associate alla musica e al canto: nel corso del banchetto degli dèi descritto nell’Iliade, I, 603; 24, 63, Apollo accompagna la danza e il canto delle Muse al suono della phorminx, un antico tipo di cetra. Nelle immagini esse compaiono in numero variabile, spesso sedute su una roccia, con in mano strumenti musicali, lira, barbitos, aulos e syrinx, talora mentre si accingono a leggere testi poetici scritti su rotoli di papiro. Solo a partire dall’età ellenistica si definiscono in un gruppo di nove, ciascuna delle quali sovrintende a una determinata attività artistica o scientifica. Alcune fonti più tarde indicano le Muse come protagoniste di famose sfide canore: Ovidio racconta come vennero sfidate dalle Pieridi che, vinte, furono poi trasformate in gazze (Metamorfosi, 5, 294-678). Pausania, nella descrizione di una statua di Era nel tempio a lei dedicato a Coronea (Periegesi della Grecia, 4, 34, 3), racconta come le Sirene siano state convinte da Era a sfidare le Muse in una gara canora e come poi, avendo esse avuto la peggio, le Muse abbiano tolto loro le piume facendosene corone (Maurizio Bettini, Luigi Spina, Il mito delle sirene, 2007, pp. 59, 62-64). Anche la sfida con il cantore tracio Tamiri rappresenta un altro esempio di superbia punita (Apollodoro, Biblioteca, 1, 3, 3): distinguendosi per la bellezza e per l’abilità nel suonare la cetra, questi infatti sfida le Muse in una gara musicale dopo aver stabilito che, in caso di vittoria, si unirà con ognuna di loro; se perdente, invece, esse lo priveranno di ciò che vogliono.
Risultano superiori le Muse che, adirate, lo rendono cieco e “gli levano dalla mente l’arte della cetra” (Iliade, II, 600). Come si può leggere nel commento di Gostoli (2006) a questo passo dell’Iliade, in Grecia, come presso altre culture antiche, la cecità è connessa alla capacità di cantare e rappresenta la condizione perché gli dèi concedano agli uomini l’ispirazione poetica e l’eccellenza nel canto. In questa prospettiva, la punizione di Tamiri risulta particolarmente significativa, perché egli diventa cieco e allo stesso tempo privo della memoria che gli permette di ricordare le musiche e i testi dei canti nei quali eccelle.
Nelle immagini il cantore compare con un tipo particolare di cetra, con i bracci dalla caratteristica forma arrotondata, definita “cetra di Tamiri” o “cetra tracia” proprio perché essa è solitamente attribuita a musicisti di origine tracia come Tamiri e Orfeo.
Uno degli aspetti relativi all’espressione poetica e alla musica che l’accompagna che viene messo maggiormente in rilievo dalle fonti antiche riguarda la sua capacità di ammaliare e catturare l’uditorio con una forza quasi magica. Questo potere particolare viene attribuito, tra gli altri, al canto delle Sirene, le mitiche figlie di Acheloo e Melpomene, metà donne e metà uccello, che col loro canto attirano i marinai delle navi che passano accanto all’isola nella quale abitano e li divorano. Secondo Apollodoro, si chiamano Pisinoe, Aglaope e Telsiepia, e una di esse suona la cetra, la seconda canta e la terza suona l’aulos (Epitome, 7, 18). Odisseo, per resistere al loro “limpido canto”, si fa legare all’albero maestro della nave dopo aver riempito di cera le orecchie dei suoi compagni (Odissea, XII, 184-189).
Citaredo per eccellenza nella Grecia antica è Orfeo, anch’egli di origine tracia, come Tamiri: il mito più noto a lui legato riguarda la sua discesa agli inferi per riportare in vita la moglie Euridice. Nel mondo greco non vi sono però immagini che illustrino questo racconto: l’iconografia di Orfeo riguarda altri momenti del suo mito, ossia il potere ammaliatore della sua musica e la sua morte per mano delle donne di Tracia.
In un famoso cratere di Berlino Orfeo canta suonando la lira, seduto su una roccia, in mezzo a un gruppo di guerrieri traci. Questa iconografia è piuttosto diversa rispetto a quella che si diffonderà dall’età romana, quella cioè di Orfeo che incanta gli animali.
Qui, invece, a subire il fascino della musica sono audaci e forti guerrieri, “barbari” provenienti dalla lontana Tracia, come si può vedere dall’atteggiamento di uno dei personaggi rappresentato con gli occhi chiusi, completamente rapito e affascinato dalla musica. E saranno proprio le doti canore di Orfeo, già capaci di immobilizzare i feroci guerrieri, a suscitare la violenta aggressione delle loro donne, dalla quale egli tenta di difendersi brandendo la lira. Le donne lo uccidono e lo fanno a pezzi, ma la sua testa, come dotata di vita propria, arriva a Lesbo, e darà luogo all’“oracolo di Orfeo”.
Sul potere che la musica esercita sugli animali, Erodoto racconta un’altra storia che ha per protagonista Arione, “citaredo secondo a nessuno tra quelli del suo tempo”, che, di ritorno da una tournée in Magna Grecia, accortosi che i marinai della nave che lo trasportava stanno per aggredirlo, chiede di poter cantare un’ultima volta. Quindi, indossando il sontuoso costume di scena, prende la cetra e, dopo aver intonato il nomos orthios, la melodia sacra ad Apollo, si getta in mare. Un delfino, richiamato dalla bellezza del suo canto, dopo essersi avvicinato alla nave, lo prende su di sé portandolo in salvo (Storie, I, 24).
Anche il ragazzo con la cetra a cavallo di un delfino, rappresentato su alcune monete brindisine del IV secolo a.C., richiama un mito analogo, quello dell’eroe Falanto, fondatore della città di Taranto. Pausania (Periegesi della Grecia, 10, 13, 10) racconta che, mentre questi si reca a consultare l’oracolo di Apollo a Delfi, la sua nave fa naufragio e Falanto è messo in salvo da un delfino.
Al centro di un altro importante mito musicale è il satiro frigio Marsia: si narra infatti che la dea Atena, dopo aver inventato l’aulos, il cui suono ricorda le grida levate dalla Gorgone morente, lo getta via perché, specchiandosi, si accorge che nel suonarlo i tratti del suo viso si deformano. Marsia trova lo strumento, lo raccoglie e impara a suonarlo così bene da vantarsi di poter suonare meglio di Apollo (Erodoto, Storie, VII, 26). Le Muse, chiamate a giudicare la gara tra il dio e Marsia, decretano vincitore Apollo; un rilievo da Mantinea (IV sec. a.C., a cui si riferiscono le immagini di questo paragrafo) illustra i diversi protagonisti della vicenda: i due contendenti, Apollo seduto su roccia con una grande cetra e Marsia sul lato opposto, in atto di suonare l’aulos, e uno schiavo vestito all’orientale, col coltello in mano, che allude al terribile epilogo dell’episodio, quando Marsia, persa la gara, è scorticato da Apollo. Il rilevo continua con tre Muse, con doppio aulos e rotolo. Secondo una versione del mito, Apollo risulta vincitore perché canta mentre suona, cosa che non è possibile fare con l’aulos: l’esito della contesa ne evidenzia il significato simbolico, ossia il contrasto tra strumenti a fiato e strumenti a corda; questi ultimi risultano superiori, perché con l’aulos, con il quale non è possibile cantare e suonare contemporaneamente, il valore educativo del canto viene meno.
L’aulos, che suscita nell’animo le passioni invece di placarle, è considerato al contrario lo strumento della trance, soprattutto perché è associato a culti di origine orientale, in particolare quello di Dioniso. “Cantate Dioniso al suono profondo dei timpani, levate il canto a Dioniso, evoè, […] tra grida e suoni di Frigia, quando il loto sonoro diffonde sacre melodie, compagne al passo delle Menadi sfrenate che corrono al monte" Euripide, Baccanti, 155-165. Le voci acute delle Menadi, il suono stridulo dell’aulos, il grave rimbombo dei timpani e il martellante crepitio dei crotali: questi sono gli elementi sonori che accompagnano i ritmi sfrenati delle danze di satiri e menadi del tiaso dionisiaco. Talora le immagini mostrano Efesto che, fatto ubriacare da Dioniso, ritorna all’Olimpo per liberare Era, da lui imprigionata per vendetta su un trono incantato. Lo zoppo dio del fuoco, che incede cavalcando un mulo, è accompagnato dalla processione dionisiaca di satiri e menadi danzanti, guidata da un satiro auleta che scandisce il ritmo dell’incedere.
In queste scene troviamo anche il timpano, una specie di tamburello costituito da una pelle, tesa su un cerchio di legno o di bronzo, cui talora sono applicati sonagli o maniglie: secondo Euripide (Baccanti, 120-134), sarebbe stato inventato in una caverna cretese dai coribanti per coprire i vagiti di Zeus bambino e nasconderlo così a Crono che voleva divorarlo.
In alcune scene dionisiache troviamo anche strumenti a corda, in particolare il barbitos, un tipo di lira di origine orientale usata per accompagnare canti e danze durante il simposio: probabilmente per questo legame privilegiato con il vino e quindi con Dioniso, il suo uso viene esteso dalle attività dei mortali a quelle dei Satiri e delle Menadi del tiaso dionisiaco e, in un solo, eccezionale caso, a Dioniso stesso.