La musica nell’era digitale
L’alta fedeltà come fenomeno di massa
Il pubblico iniziò ad associare l’aggettivo digitale al suono e alla musica negli anni Settanta del secolo scorso. Gli appassionati di alta fedeltà ebbero occasione di conoscere il termine a partire dal 1972, quando in Giappone vennero prodotte le prime apparecchiature per la registrazione digitale e furono realizzati i primi dischi con questo nuovo sistema.
Più vasta era la comunità degli ascoltatori che stavano familiarizzando con due innovazioni che, per quanto indipendenti dalla tecnica digitale, hanno fortemente contribuito alla sua affermazione e a formare alcune delle modalità di fruizione della musica più caratteristiche dell’età dell’accesso digitale, ossia la stereofonia e le cuffie. La democratizzazione dell’ascolto stereo e la diffusione nei generi popular a partire dagli anni Settanta propagarono una cultura dell’alta fedeltà intesa come riproduzione il più possibile prossima a un ‘originale’ (che gli ascoltatori di musica colta e di jazz identificano con l’esecuzione dal vivo), ma contemporaneamente iniziarono a minare le sue fondamenta. La registrazione di un disco popular nasce da sovrapposizioni, montaggi, trattamenti a posteriori del materiale: si cominciò così a intuire che il termine di riferimento per l’ascolto ‘fedele’ non era più un’esecuzione dal vivo ma la registrazione eseguita in studio o, ancora meglio, il master finale.
Analogamente le registrazioni di musica colta prevedono l’utilizzo di montaggi e perfino nel jazz gli album pionieristici di Miles Davis (1926-1991) intorno al volgere del decennio ruppero il tabù della totale estemporaneità, poiché erano basati sulle manipolazioni dei nastri. Nel momento in cui furono introdotte le tecniche di registrazione digitale del suono, la loro commercializzazione si basò sia sulla diffusione nel senso comune della nozione di alta fedeltà, sia sull’ambizione delle élites socioeconomiche di avere ancora qualcosa di più, sia infine sulla consapevolezza, da parte del pubblico giovanile, dei processi di produzione della popular music.
La tecnologia audio digitale
Il principio della conversione di un segnale audio in una sequenza di numeri era già noto da decenni, ma soltanto negli anni Settanta l’avanzamento delle tecnologie di base ne rese possibile l’applicazione per ottenere registrazioni di qualità. Il procedimento di memorizzazione e riproduzione di un suono digitale si attua in alcuni passaggi. Una volta che un suono è stato convertito in un segnale elettrico grazie a un microfono, è possibile eseguire misurazioni a intervalli brevissimi del livello del segnale elettrico. Ogni misurazione è rappresentata da un numero, che viene memorizzato in qualunque modo disponibile (la memoria di un computer, un supporto magnetico). Per riprodurre il suono, è necessario richiamare i numeri dalla memoria con la stessa frequenza alla quale sono stati ricavati, e utilizzarli per ricostruire un segnale elettrico, che a sua volta può essere trasformato in suono da un altoparlante. I registratori digitali introdotti negli anni Settanta utilizzavano come supporto per lo più le cassette dei videoregistratori. A quell’epoca i computer erano poco potenti, le loro memorie costose e di scarsa capacità, le linee di trasmissione dei dati lente: la registrazione e la parziale elaborazione del segnale erano le uniche applicazioni commerciali disponibili.
Verso la fine degli anni Settanta fu chiaro che, grazie alla tecnologia di lettura laser, si sarebbe potuto realizzare un sistema di distribuzione di registrazioni in formato digitale, il compact disc (CD). Philips e Sony iniziarono a studiare il sistema nel 1979. Le case discografiche intuirono che il nuovo supporto avrebbe elevato di molto gli standard dell’alta fedeltà, e investirono sul futuro, specialmente nel settore della musica colta che, come sempre, sarebbe stato inizialmente privilegiato dalle fasce di consumatori più abbienti. Proprio intorno al 1979 s’intensificò la realizzazione di registrazioni digitali di musica colta (le tecniche di montaggio digitale disponibili all’epoca erano ancora primitive e inadatte alle procedure della popular music).
Nello stesso periodo, l’introduzione dei microprocessori e di memorie ad accesso più rapido e di maggior capacità rese possibile l’elaborazione del suono. Le registrazioni (analogiche) di popular music erano sempre più ricche dei suoni generati con questi sistemi; nella produzione dei grandi centri di ricerca per la musica elettronica (come l’IRCAM, Institut de Recherche et Coordination Acoustique/Musique, di Parigi) si aprì l’era del live electronics, la generazione e l’elaborazione del suono in tempo reale. L’elaborazione digitale dei suoni e la comunicazione di dati musicali entra nella pratica quotidiana dei musicisti con l’introduzione nel 1982 del protocollo standard MIDI (Musical Instrument Digital Interface), il quale permette ancora oggi la comunicazione tra sintetizzatori e sequenziatori, e fra computer e strumenti musicali elettronici di ogni tipo.
L’avvento del compact disc
Il CD fu lanciato sul mercato giapponese nel 1982 e nel resto del mondo nel 1983. Immediatamente pose all’industria discografica problemi di non facile soluzione. In primo luogo ci si chiese se avrebbe avuto successo. Inoltre, poiché le fabbriche per la realizzazione dei CD erano costose, si ebbe il timore che si sarebbe verificata una concentrazione monopolistica della manifattura. Ci si chiese come e quando trasferire su CD il repertorio già in catalogo; come rendere accettabile da parte del pubblico la pubblicazione di supporti digitali che ospitavano registrazioni analogiche; come utilizzare la maggiore durata disponibile (oltre 70 minuti), visto che tutti gli album realizzati per l’LP (Long Playing) duravano non più di 45 minuti; ci si chiese come organizzare la successione dei brani in un album popular, su un supporto che non presentava le stesse caratteristiche (due facciate, scomodità di accesso alle tracce) del 33 giri; ci si interrogò su come sarebbero state accolte le piccole dimensioni del supporto e della sua confezione, dopo almeno due decenni di album popular amati anche per le loro copertine di 30 centimetri di lato, e se l’introduzione del CD avrebbe eliminato il fenomeno della copia privata su cassetta, che all’inizio degli anni Ottanta aveva raggiunto le sue punte massime. Le case discografiche a tale proposito avevano proposto in tutto il mondo l’introduzione di tasse o royalties sulle cassette vergini: misura che per lo più aveva avuto una sua efficacia.
L’industria musicale era assolutamente impreparata ad affrontare queste domande e in molti casi non fu in grado neppure di riconoscerle. Frastornati dalle novità del loro settore, i discografici non si resero nemmeno conto delle implicazioni musicali del fenomeno più appariscente in quel periodo, cioè il boom dell’informatica personale e la conseguente possibilità di scambio di informazioni tra computer. I primi computer erano lenti, avevano memorie minuscole e soltanto alcuni offrivano la possibilità di collegamenti in rete, a banda molto ristretta.
Il CD si affermò lentamente, ma il declino dell’LP fu rapido. Il supporto su vinile venne sopravanzato, a partire dalla metà degli anni Settanta, dalla cassetta, disponibile da un decennio sul mercato con la codifica Dolby, un sistema per la riduzione del rumore di fondo del nastro, il cui successo fu potenziato dal lancio del walkman. L’ascolto con gli auricolari in mobilità, immersi in un proprio spazio musicale tendenzialmente separato da quello circostante, rappresenta una variante e un’innovazione di grande portata nei modelli di ascolto socialmente accettati e sottintende trasformazioni di natura antropologica e semiotica (Hosokawa 1984). Fino ai primi anni Novanta i lettori portatili di CD erano pesanti, costosi e poco affidabili, e le autoradio dotate di lettore CD altrettanto (il CD ‘saltava’ alla prima scossa). Il successo delle nuove forme di mobilità musicale spiega dunque un altro fenomeno: i consumatori iniziarono a duplicare i CD su cassetta, ricavandone copie di qualità superiore a quella delle cassette commerciali, ed evitando di portare con sé i nuovi supporti, cari e delicati. Anziché porre fine alla copia privata, il CD (insieme al walkman e all’autoradio) la rese un’abitudine. Attraverso il bricolage tecnologico diventato comune, il pubblico iniziò ad abituarsi a manipolare le registrazioni, a creare ‘scalette’ personalizzate; il disco, cui era stata conferita l’aura di ‘opera’ con gli album popular degli anni Sessanta, divenne una sorgente di materiale liberamente riorganizzabile. Il copyright iniziò a essere leso in profondità: l’utente aveva ormai la convinzione di aver acquistato, insieme a un CD, la possibilità di usarne il materiale a proprio piacimento.
Nel corso degli anni Novanta cominciarono ad apparire lettori di CD portatili sempre più leggeri, economici, dotati di dispositivi in grado di stabilizzare la riproduzione anche durante le attività fisiche più intense. Lo stesso accadde per i lettori incorporati nelle autoradio. Iniziò a manifestarsi il paradosso dell’alta fedeltà non necessaria: non solo nell’impiego mobile, ma nella maggioranza delle utilizzazioni domestiche, il pubblico utilizzava le apparecchiature audio in contesti a bassa fedeltà. Ben pochi ascoltavano musica dal proprio impianto stereo ponendosi in un vertice del triangolo che ha agli altri due vertici le casse audio, e così si vanificò la sofisticazione del panorama stereofonico progettato negli studi di registrazione. Ai musicisti questa tendenza non era sfuggita già verso la fine degli anni Settanta: la ambient music di Brian Eno era nata allora anche da una riflessione sull’improprietà dell’ascolto stereo ‘di massa’. Per di più, l’elevata dinamica offerta dalla registrazione e dal supporto digitale influenzò solo in parte la produzione di popular music, il cui tratto dominante restava la dinamica compressa e l’alto volume, adatti ad ambienti a bassa fedeltà, codificati nell’epoca del rock and roll, del jukebox, del disco analogico.
Altri supporti digitali
Il paradosso non sembrò influenzare le scelte dell’industria. Veniva dato per scontato che il pubblico desiderasse l’alta fedeltà, qualunque fosse il posto occupato dalla musica nella vita delle persone. Per completare l’offerta mancava un registratore digitale che sostituisse la musicassetta. Il primo a comparire sul mercato fu il DAT (Digital Audio Tape) della Sony, nel 1987. Si trattava di un apparecchio costoso che aveva però il vantaggio di registrare con gli stessi standard qualitativi delle apparecchiature professionali: una copia su DAT di una registrazione digitale era indistinguibile dall’originale. Per questo l’industria discografica si oppose alla diffusione dell’apparecchio, temendo che il successo commerciale e la produzione su larga scala lo ponessero a portata delle tasche del pubblico di massa, facendone uno strumento di duplicazione illegale. Una campagna di lobbying guidata dalla major discografica CBS sostenne l’introduzione nei circuiti dell’apparecchio di un sistema di controllo della copia (copycode) tale da arrestare la registrazione se il segnale risultasse provenire da un compact disc commerciale; questo significava anche introdurre su tutti i compact disc un ‘taglio’ nello spettro frequenziale che poteva essere riconosciuto dal dispositivo. La prospettiva scatenò proteste da parte degli studi di registrazione, i quali avevano appena investito somme ingenti per acquistare apparecchiature digitali in grado di ottenere un equilibrio mai raggiunto prima nella riproduzione di tutte le frequenze. La vicenda venne risolta in modo, si potrebbe dire, balzachiano: nel 1988 la Sony acquistò la CBS, ma il DAT rimaneva un apparecchio caro, che non usciva dalla nicchia degli utenti professionali. La sua produzione sarebbe terminata nel 2005.
Rafforzata dall’esperienza passata, nel 1991 la Sony lanciò un nuovo registratore-riproduttore, il MiniDisc, nel quale il segnale veniva registrato su un disco magneto-ottico in un formato digitale compresso (ATRAC, Adaptive TRansform Acoustic Coding). Per la prima volta venne offerto un sistema di compressione lossy, basato su fenomeni psicoacustici, che permetteva di ‘perdere’ parte dei dati di una registrazione, considerati inutili per ricostruire l’effetto acustico dell’originale. In questo modo i dati erano memorizzabili su un supporto più piccolo, e l’industria non doveva temere copie bit a bit delle proprie registrazioni. Tuttavia il pubblico, nonostante la qualità del MiniDisc rimanesse elevata, non ne rimase impressionato, e continuò ancora per un po’ di tempo a copiare i propri compact disc su cassette analogiche, che ben si adattavano ai contesti d’ascolto prevalenti. Il MiniDisc divenne un prodotto di nicchia, mentre il registratore equivalente lanciato dalla Philips, il DCC (Digital Compact Cassette), commercializzato nel 1992, fallì in maniera catastrofica: la produzione cessò, infatti, nel 1996.
La masterizzazione
Sulla base delle specifiche diffuse da Philips e Sony nel 1988, venne sviluppato un sistema per realizzare CD scrivibili una sola volta, i CD-R (Compact Disc-Recordable). Nel 1994 la Yamaha introdusse il primo registratore di CD-R ad ‘alta velocità’ (4X). Fino alla fine del 1995 si trattò dell’unico prodotto disponibile, molto costoso (5000 dollari) e collegabile a un computer attraverso un’interfaccia poco diffusa. Per di più, pareva indirizzato primariamente alla registrazione di dati: nessuno lo chiamava ancora masterizzatore. L’industria discografica, che aveva reagito al DAT con veemenza solo sette anni prima, fu colta di sorpresa. Nel giro di un anno o due comparvero masterizzatori a prezzo sempre più basso, facilmente collegabili a un computer, dotati del software necessario alla realizzazione di CD-R audio. Attualmente è possibile acquistare computer con incorporati il masterizzatore e il relativo software, e in breve questa caratteristica è diventata standard. I CD non si duplicano più su cassetta: si copiano su altri compact disc. La soglia elevatissima per l’investimento in una fabbrica di compact disc (che richiede personale specializzato ed è impossibile da nascondere in uno scantinato) ha cessato di essere un deterrente per la malavita organizzata, che si è lanciata nell’‘affare’ della pirateria mettendo insieme batterie di masterizzatori collegati a computer, per produrre copie digitali perfette dei CD commerciali, disponibili sul mercato illegale in anticipo rispetto ai prodotti originali.
MPEG e MP3
Nel frattempo gli utenti di computer nel mondo erano diventati centinaia di milioni, di cui una percentuale crescente con accesso a Internet. Il numero di computer collegati a Internet superava i centomila nel 1989, il milione nel 1992, i dieci milioni nel 1995, i cinquanta milioni nel 1999, i cento milioni nel 2000, i trecento milioni nel 2004, per arrivare a circa un miliardo e mezzo nel 2008.
Nel 1988 il Moving picture experts group (MPEG), gruppo di lavoro dell’organizzazione internazionale degli standard ISO/IEC, definì le specifiche di uno standard per la codifica di dati audiovisuali. Lo standard di compressione dei video CD è MPEG-1; per quanto riguarda l’audio, sono previsti tre layers («strati») di dati di complessità crescente, e quello sul quale si concentra l’attenzione degli sviluppatori è il terzo. Tra il 1991 e il 1992 il layer 3 venne perfezionato presso il Fraunhofer institut for integrated circuits e venne pubblicato nel 1993. MPEG audio layer 3 fu battezzato MP3. Si tratta di un formato compresso, lossy, che sfrutta fenomeni psicoacustici allo scopo di ridurre la quantità di dati necessaria per riprodurre una registrazione. Vengono sfruttati gli effetti di mascheramento e la diversa sensibilità dell’orecchio nei confronti della direzionalità dell’informazione acustica a diverse frequenze. Le dimensioni del file compresso possono essere un decimo di quelle del file originale, e anche oltre. I tempi di trasmissione per via telematica di un file audio vengono ridotti di un fattore dieci, e la quantità di file immagazzinabile sull’hard disk di un computer aumenta dello stesso fattore.
L’alta fedeltà nell’era della compressione
Anche se un ascoltatore esperto, in condizioni ottimali, è in grado di distinguere il suono di un file compresso da quello dell’originale, i file MP3, solo moderatamente compressi (a 256 kB/s, cioè utilizzando 256 kbit per codificare un secondo di musica), sono giudicati comunemente ‘ad alta fedeltà’: ma quello che più conta è che i file compressi fino a 128 kB/s hanno una qualità adeguata al contesto nel quale si svolge l’ascolto per la maggior parte degli utenti. Chi ascolta un file MP3 in auto, da un lettore portatile in un ambiente rumoroso e/o con auricolari di qualità media, da un computer dotato di una ventola di raffreddamento, o attraverso un impianto hi-fi immerso nel rumore di fondo della vita quotidiana, molto difficilmente può cogliere la differenza tra quel file compresso e la registrazione digitale originale disponibile su un CD. Le basi socioacustiche del fenomeno sono già state poste fin dall’inizio degli anni Ottanta, con l’utilizzo del walkman e delle autoradio con lettori di cassette per ascoltare copie analogiche dei CD: non c’è da stupirsi se i file MP3 sono stati accolti come una tecnologia affidabile dal pubblico degli utenti di Internet. Negli anni Novanta, inizialmente in ristrette comunità di utenti, si diffuse un software per la codifica a partire da CD (encoders), e lettori software di file MP3, la cui interfaccia grafica simulava l’aspetto di un lettore di CD o una radio, grazie ai quali era possibile programmare l’ascolto di scalette (playlists) dei file MP3 memorizzati sull’hard disk. Contemporaneamente gli utenti collegati a Internet, in particolare gli studenti statunitensi che potevano fruire delle connessioni a banda larga delle loro università, cominciarono a scambiarsi file, adattando alla rete la pratica già familiare (con le cassette) dall’inizio degli anni Settanta. Anche in questo caso una ‘rivoluzione’ tecnologica deve il suo successo a un substrato socio-antropologico consolidato.
Il downloading, da MP3.com a iTunes
Il sito MP3.com nacque nel 1998. Il fondatore, Greg Flores, si rese conto che nei motori di ricerca il suffisso MP3 era una delle chiavi più utilizzate. Allestì quindi un sito dove i musicisti potevano depositare le registrazioni dei loro brani e dove gli utenti potevano trovarle e scaricarle (download) sul proprio computer. Aderirono artisti sconosciuti o emergenti, ma anche qualche rock star affermata, come David Bowie. Quotata in borsa nel pieno della ‘bolla’ speculativa delle Dot-com, MP3.com sembrò destinata a un successo enorme. Ma un nuovo servizio di distribuzione in streaming (cioè di trasmissione sulla rete senza trasferimento integrale del file) del materiale proveniente dai CD posseduti dagli utenti scatenò l’opposizione dell’industria discografica, che avrebbe vinto la causa, portando MP3.com al declino. La controversia più nota fra l’industria discografica e Internet, però, è quella che riguarda Napster, un servizio di distribuzione di file MP3 nato nel 1999 e basato in parte sulla tecnica peer-to-peer (P2P). Il sistema metteva in contatto fra loro i computer degli utenti collegati, che potevano scambiare direttamente (da pari a pari) i file che interessavano. Poiché gli utenti che mettono a disposizione registrazioni coperte da copyright per la legge commettono un reato, la RIAA (Recording Industry Association of America) oppose immediate contestazioni a Napster. Alla risposta che il servizio non interveniva nello scambio di file effettuato tra gli utenti, i legali della RIAA, delle principali case discografiche e di alcuni artisti sostennero che gestire con un proprio server le informazioni sugli utenti collegati costituiva favoreggiamento o complicità. Mentre il servizio raggiungeva nel febbraio del 2001 ventisei milioni di utenti in tutto il mondo, il tribunale condannava Napster, ingiungendo di istituire un sistema di controllo che bloccasse il traffico di registrazioni coperte da copyright. L’impossibilità di realizzare tale sistema portò in luglio alla chiusura di Napster. In seguito, vennero introdotti altri servizi (Gnutella, Kazaa, eMule, BitTorrent), basati su una tecnologia P2P ‘pura’, in quanto il fornitore del servizio non teneva traccia dei collegamenti. Ma l’accorgimento non fermò le cause, mentre settori della discografia cercarono di sabotare tali servizi, inquinandoli con l’offerta di file fasulli. Vari tentativi di aprire servizi di vendita legale di file musicali incontrarono indifferenza e conquistarono quote di mercato minime, fino a quando Apple, nell’aprile del 2003, aprì il proprio sito iTunes music store. Tale sito è progettato per interfacciarsi con il lettore software iTunes, reso disponibile fin dal gennaio 2001 sia per i computer Macintosh sia per i computer basati su sistema operativo Microsoft, e attraverso quello con l’iPod, il lettore portatile di file musicali lanciato nell’ottobre del 2001. Ogni brano costa in media 0,99 dollari (oppure euro, quando siti nazionali vengono aperti in Europa), e un album intero in media 9,99. L’offerta, grazie ad accordi con le case discografiche, si presenta ampia: inizialmente limitata agli album delle multinazionali e degli artisti più noti, si è in seguito estesa anche alle etichette indipendenti e alle produzioni di ogni epoca e di molti Paesi del mondo. Nella primavera del 2008 Apple ha annunciato di aver venduto, dall’apertura del ‘negozio’, quattro miliardi di brani, e di essere diventata il primo rivenditore di registrazioni (includendo nel computo anche i supporti fisici) di tutti gli Stati Uniti.
Musica sul computer
Già nel 1977 Jacques Attali aveva osservato una contraddizione della fonografia: «[…] l’uomo deve consacrare il proprio tempo a produrre i mezzi per acquistarsi la registrazione del tempo degli altri», perdendo non solo l’uso del proprio tempo, ma anche il tempo necessario all’uso di quello degli altri. «[…] Si comprano più dischi di quanti se ne possano ascoltare. Si accumula quello che si vorrebbe avere il tempo di ascoltare» (1977; trad. it. 1978, p. 152). L’accessibilità dei file MP3, sia come risultato della conversione dei CD posseduti, sia in quanto scambiabili gratuitamente (attraverso la rete o grazie a supporti di memoria, come CD-R o penne USB), sia perché acquistabili dovunque e in ogni momento, potenzia l’accumulo. Jonathan Sterne (2006) ha notato un altro aspetto contraddittorio: sebbene i file MP3 (e gli altri formati digitali) «esistano come software, le persone tendono a trattarli come oggetti (il che dimostra che dovremmo analizzarli come artefatti), forse perché sono usati per maneggiare registrazioni in quanto oggetti fisici». E continua: «[…] se accettiamo il linguaggio della materializzazione e della dematerializzazione della musica, gli MP3 ci presentano una biforcazione interessante. Gli utenti si riferiscono alla dematerializzazione della musica quando discutono delle loro pratiche di utilizzo, ma insistono a trattare la musica come un oggetto culturale quando discutono del loro possesso della musica» (p. 832). Nel gergo ormai accettato, i file MP3 vengono trattati come canzoni (songs), e sia i dispositivi hardware sia le applicazioni software vengono valutati in base al numero di canzoni che possono contenere. Il che dimostra la polarizzazione verso la popular music che ha guidato la nascita di queste applicazioni, ma soprattutto dimostra il carattere di ‘contenitore’ della tecnologia (Sterne 2006, p. 827), che si presenta come trasparente, veicolo della ‘musica’ o delle ‘canzoni’, focalizzata verso il possesso e il consumo di una molteplicità di oggetti singoli. Nonostante le strategie di vendita (a volte un insieme di brani è reso disponibile soltanto se si acquista un album intero, e il costo di un album è inferiore a quello della somma dei prezzi dei brani contenuti), il consumo dei brani singoli, ‘sciolti’, è favorito. L’utente non è obbligato, per ascoltare il brano al quale è interessato, ad acquistare l’album intero, in contrasto con la politica dei discografici negli anni del compact disc, quando un album veniva confezionato con due o tre brani di buona qualità e una dozzina di canzoni mediocri come riempitivo. Il mercato dei ‘singoli’ aveva iniziato il suo declino negli anni Sessanta (nel 1968 per la prima volta il numero di album venduti superò quello dei singoli) ed era quasi scomparso nell’era del compact disc: con Internet il singolo è tornato in auge. Ed è possibile perfino acquistare un singolo movimento di una sinfonia: ossia, secondo la terminologia ufficiale di iTunes, una canzone.
Streaming e web radio
Nella tecnologia dello streaming un file viene trasmesso sulla rete suddiviso in pacchetti, che vengono poi raccolti e convertiti da un software residente sul computer dell’utente; la riproduzione del file avviene prima che siano trasferiti tutti i pacchetti, quando ne siano stati memorizzati in un numero sufficiente. Si tratta della forma di trasmissione di contenuti sulla rete più affine al broadcasting radiofonico e televisivo e non prevede che l’intero file sia trasferito in modo definitivo sul computer destinatario. Per questo, malgrado sia stato all’origine della prima importante vittoria legale contro un servizio di distribuzione di contenuti audio (MP3.com), lo streaming è stato considerato con maggiore tolleranza rispetto al downloading da parte dei titolari dei contenuti. In realtà, sono disponibili in rete applicativi che permettono di intercettare il flusso di dati in streaming e di ricostruire e memorizzare il file originale; il fatto però che la tecnologia in sé non implichi il possesso da parte del destinatario di una copia della registrazione originale, ma solo la sua utilizzazione, e il fatto che sia individuabile con precisione l’emittente, fanno ritenere all’industria discografica e cinematografica di poter mantenere un certo controllo. Sullo streaming si basano le web radios che, iniziando la programmazione intorno alla metà degli anni Novanta, hanno raggiunto un buon livello di diffusione. La struttura più tradizionale della distribuzione ha permesso di arrivare a una gestione ampiamente accettata del copyright, sancita da modifiche alle leggi e ai regolamenti di applicazione. Ma il fenomeno più appariscente dell’impiego dello streaming è YouTube, un servizio di condivisione pubblica di video fondato all’inizio del 2005, acquistato da Google alla fine del 2006 e divenuto in breve tempo uno dei siti web più frequentati. Permette agli utenti registrati di caricare sul sito filmati da loro realizzati, e a qualsiasi utente di vedere i filmati, rintracciabili attraverso un motore di ricerca. La musica è presente in abbondanza, sia con videoclip sia con riprese di concerti; numerosissimi i filmati didattici, per i generi musicali più svariati.
La ricerca dei contenuti: tagging e categorie
Fin dalla prima diffusione di massa di Internet i maggiori operatori del settore si sono posti il problema di come rendere rintracciabili dagli utenti i contenuti disponibili. Per quanto riguarda la musica, i motori di ricerca hanno riportato in auge le classificazioni in generi, mentre i siti di commercio on-line hanno istituito un sistema di archiviazione delle preferenze dei clienti, capace di suggerire nuovi acquisti sulla base di quelli precedenti. Microsoft e Sony hanno finanziato ricerche per arrivare alla realizzazione di algoritmi capaci di riconoscere il genere di un brano da una scansione del file corrispondente: per quanto questo approccio sia nella maggioranza dei casi reso inaccettabile dalla stessa natura dei generi musicali, spesso definiti dalle rispettive comunità sulla base di caratteristiche extramusicali, la possibilità di riconoscere in modo automatico l’appartenenza a un genere noto anche soltanto di una minima frazione del repertorio disponibile in rete risulterebbe vantaggiosa. I file MP3 e quelli in formati analoghi portano con sé informazioni testuali, codificate secondo lo standard ID3 (IDentify an MP3). La prima versione, elaborata nel 1996, permetteva di allegare a un file audio informazioni essenziali, condizionate dall’impostazione popular e dall’annesso concetto di canzone. Includeva un elenco di 80 (poi 148) generi predefiniti, dal quale era facile riconoscere la provenienza (statunitense e adolescenziale) dei codificatori. La seconda versione, presentata nel 1998, ha reso possibile una classificazione più articolata e la scrittura di dati particolareggiati. Ciononostante, l’etichettatura (tagging) di brani di musica colta è ancora resa problematica da un sistema di categorie basato sulla centralità dell’interprete e su brani isolati, raccolti in album di canzoni, non in opere fatte di movimenti, atti o scene. L’effettiva classificazione, comunque, è lasciata agli utenti, che possono inviare i dati a un data-base centralizzato (Gracenote), che a sua volta viene consultato ogni volta che un utente di iTunes (o di sistemi simili), collegato in rete, converte un proprio compact disc in file MP3. Il data-base riconosce ogni singolo CD dalla sequenza delle durate dei brani, e trasferisce le informazioni relative che vengono associate ai file dell’utente. La situazione risulta caotica: i titoli dei brani sono scritti utilizzando convenzioni disparate; l’anno di pubblicazione risulta essere più spesso quello dell’edizione sul web (per l’iTunes Store) o su compact disc, il che risulta sviante per tutti i brani registrati prima del 1982, indipendentemente dal genere; le classificazioni di genere sono fantasiose, in quanto operate spesso da utenti che non hanno familiarità con la musica che stanno codificando. Il sistema presenta tutti i difetti dell’enciclopedia di Internet Wikipedia, senza averne però il lato positivo: la possibilità cioè da parte di altri utenti di criticare e revisionare i contenuti. Il potenziale didattico implicito nella disponibilità di musica di ogni epoca, genere e provenienza rimane inutilizzato.
Hanno avuto qualche interesse anche teorico, per la loro attenzione all’influenza dei prototipi nell’orientare i processi di categorizzazione, i sistemi elaborati da due servizi basati sullo streaming, Pandora e Last FM (due web radio interattive). L’utente segnala alcune preferenze di ascolto, e il sistema (sulla base di un’interpretazione ‘genetica’ delle somiglianze, o dei comportamenti di altri utenti) propone ascolti che dovrebbero risultare graditi, fornendo la possibilità di raffinare sempre di più le scelte. Il risultato è una radio che trasmette soltanto il tipo di musica preferita dall’utente, senza che sia costretto a nominare il tipo o a compiere categorizzazioni esplicite.
I lettori portatili
Per quanto la nozione di accesso digitale implichi la disponibilità di un collegamento alla rete, il successo della musica ‘liquida’ è legato a dispositivi il cui accesso diretto alla rete è stato reso possibile soltanto a cose fatte (nel caso dell’iPod nel 2007, con il modello Touch dotato di funzionalità Wi-Fi, Wireless Fidel;ity). Per molto tempo i lettori portatili di file MP3 e di formati affini sono stati poco più che dispositivi di memoria portatili, capaci solo di ricevere dati da un computer attraverso un’interfaccia standard (USB o FireWire) e di riprodurli in mobilità. Ciò li ha salvati dall’attacco della RIAA, la quale nutriva timori fondati che la diffusione dei lettori digitali facesse crescere la pratica del downloading fuori da ogni controllo. Ma un tribunale statunitense deliberò che il lettore Rio, prodotto dalla Diamond multimedia a partire dal 1998, non era altro che una memoria di massa per computer (non, dunque, un registratore digitale), e i suoi fabbricanti non potevano essere ritenuti responsabili del suo utilizzo per ascoltare musica scaricata illegalmente dalla rete. La sentenza contribuì ad aprire il mercato, soprattutto in seguito al lancio (avvenuto nell’ottobre 2001) dell’iPod, il lettore Apple. Alla fine di marzo 2008 risultavano già venduti 140 milioni di iPod in tutto il mondo.
Dal punto di vista della funzionalità primaria (permettere l’ascolto di brani registrati in mobilità) l’iPod e i dispositivi analoghi offrono le stesse possibilità già accessibili con il walkman a cassette, i lettori portatili di CD, il MiniDisc: il loro successo è probabilmente spiegabile con la familiarità che gli utenti avevano acquisito con l’ascolto in mobilità. Ciò che cambia è la quantità di musica disponibile. Anche i lettori dotati di poca memoria possono contenere centinaia di brani, e i più diffusi addirittura migliaia o decine di migliaia. Un lettore portatile può diventare il custode dell’intera raccolta di musica dell’utente, e ciò, oltre a potenziare il fenomeno del collezionismo, comporta problemi di accesso e ricerca, a causa dell’interfaccia grafica essenziale dei lettori portatili. Anche da questo deriva il ricorso sempre più diffuso alla modalità di accesso casuale, nella quale è il lettore stesso a proporre all’utente una sequenza random di brani. Basata su un algoritmo elementare, questa modalità di selezione del materiale da ascoltare era già presente sui primi lettori di compact disc, fino dal 1982, ma aveva poco senso, visto che si limitava a rimescolare casualmente la sequenza della ventina di brani al massimo presenti su un compact disc. Apple l’ha introdotta a partire dalla prima versione del software iTunes (2001), e nel 2004 l’ha resa disponibile nella pagina principale dell’interfaccia; la denominazione shuffle (dal verbo inglese che significa «mescolare», per es. le carte) si è diffusa anche in prodotti concorrenti. All’inizio del 2005 Apple ha presentato l’iPod shuffle, un lettore che è in grado di caricare e riprodurre i brani soltanto in modalità casuale.
Come è stato osservato (Sterne 2006; García Quiñones 2007) la modalità shuffle determina l’insorgere di un sistema di aspettative e di sorprese che trasforma l’ascolto. Pur trattandosi della propria collezione privata, l’ascolto avviene in condizioni di attesa molto simili a quelle dell’ascolto radiofonico, e questo implica non poche volte la scoperta di brani che non si sapeva di possedere. Inoltre, la casualità propone accostamenti fra brani che possono metterne in evidenza relazioni inaspettate. Infine, lo shuffle interagisce con le caratteristiche specifiche dell’ascolto in mobilità (o di sottofondo), la cui funzione primaria sembrerebbe quella di creare un ambiente, una ‘bolla’, una separazione uditiva dal contesto (in questo modo almeno era stata trattata dagli studiosi che se ne erano occcupati prima dell’iPod): un ascolto apparentemente ‘disattento’. Tuttavia, l’effetto sorpresa rende l’utente consapevole di stare ascoltando, crea quindi un flusso continuo dentro e fuori l’attenzione, rendendo perlomeno problematica la stessa definizione della polarità ‘attenzione/disattenzione’.
Musica digitale e telefonia cellulare
Il mercato della distribuzione di file musicali ha suscitato subito l’interesse delle società di telefonia. In Paesi come il Giappone, dove la diffusione dei computer è inferiore rispetto all’Europa o agli Stati Uniti, ma i telefoni cellulari di ultima generazione sono posseduti da una percentuale elevata della popolazione, la vendita di file musicali per via telefonica risulta di gran lunga più fiorente che nel resto del mondo. Una volta scaricati nella memoria del telefono cellulare, i file vengono utilizzati con modalità identiche a quelle offerte dai lettori portatili. Un fenomeno collaterale, uniformemente distribuito nei Paesi più ricchi, è quello del commercio di suonerie (ringtones) che, come è ovvio, non si ascoltano di norma in cuffia, ma attraverso l’altoparlante del telefono. In molti casi non si tratta neppure di registrazioni digitali di qualità, ma di sequenze di dati che permettono ai dispositivi audio dei cellulari di riprodurre una melodia; il loro consumo è il sintomo dell’importanza della funzione identitaria della musica, la quale si dispiega ben al di là dei confini delle sottoculture giovanili. Affermare che non si tratti di un ‘vero’ consumo musicale, perché non implica un’attività di ascolto concentrato ed esteticamente orientato, risulta problematico. Chi sceglie una suoneria lo fa decidendo di essere rappresentato in pubblico da quel suono, da quella melodia, con un valore simbolico notevole; per molte persone può rappresentare l’atto musicale più rilevante che compiono per un lungo tratto della loro vita.
Nuovi rapporti tra artisti e comunità
L’accesso alla rete ha modificato profondamente le modalità di distribuzione dei fonogrammi, anche se la variazione più drammatica che si ricordi nella storia dei media fu determinata all’inizio degli anni Trenta dal successo della radio e dalla crisi economica del ’29: allora il mercato discografico crollò di oltre il 90%. Anche in quell’occasione l’industria discografica aveva visto nel nuovo medium un concorrente, e solo dopo qualche tempo si rese conto che avrebbe potuto costituire un canale promozionale. Complice la guerra, il ravvedimento durò una ventina di anni: furono i disc jockey dei primi anni Cinquanta a determinare il trionfo del rock and roll e una risalita rapida delle vendite di dischi. Con Internet le cose sono andate più velocemente: nei primi anni del 21° sec. si contano non pochi artisti che hanno raggiunto un vasto pubblico mondiale attraverso la rete, promuovendo anche la vendita di supporti fonografici tradizionali. Agli scambi diretti tra appassionati e ai siti ‘ufficiali’ si sono aggiunti i portali dedicati alla socializzazione, tra i quali il più famoso è MySpace. Nato nel 1998, trasformato nel 2004 con la creazione di servizi specifici per la musica (MySpace music), è stato acquistato nel 2005 dalla News corporation di Rupert Murdoch. Gli utenti registrati (circa centocinquanta milioni all’inizio del 2008) possono creare pagine personali dove vengono fornite informazioni sulla loro attività, anche attraverso un blog e un sistema di messaggeria istantanea, e dove è concesso di ospitare un numero ristretto di brani, ascoltabili in streaming attraverso un software di proprietà del portale. Se MySpace è diventato lo standard di fatto nella comunicazione promozionale sulla musica, adottato da dilettanti e da artisti famosi, l’interazione tra i musicisti e il loro pubblico si è svolta e continua a svolgersi anche sulla base di iniziative non istituzionalizzate e frammentarie, che vanno dall’offerta gratuita di registrazioni destinate al downloading da parte di esordienti, a grandi campagne commerciali, come, per es., quella attraverso la quale i Radiohead nel 2007 hanno messo sul mercato a offerta libera i brani del loro album In rainbows, arrivando a venderne un milione e duecentomila copie nell’arco di due mesi, prima che il loro compact disc raggiungesse i negozi. Nei mesi successivi, al pubblico è stato offerto anche di scaricare dalla rete una versione di un brano nel formato di uno dei più diffusi software di registrazione e manipolazione del suono, in modo che gli utenti potessero rimissare il materiale a loro piacimento: una dimostrazione della consapevolezza che una gran parte di coloro che usano Internet per scopi musicali non sono soltanto terminali passivi della produzione altrui, ma svolgono un ruolo potenzialmente o effettivamente creativo.
Dallo home recording all’hard disk recording
Le prime avvisaglie di una possibile ‘democratizzazione’ della produzione di fonogrammi risalgono alla metà degli anni Settanta, quando alcune aziende giapponesi misero sul mercato sistemi di registrazione multitraccia a basso costo. I fenomeni del punk e della new wave e delle etichette discografiche indipendenti, in Gran Bretagna e altrove intorno al 1977-78, erano strettamente legati al fai-da-te reso possibile da quelle apparecchiature. All’inizio degli anni Ottanta ne esisteva già un mercato fiorente, affiancato da pubblicazioni specializzate indirizzate a un pubblico di semiprofessionisti. L’interfaccia MIDI (1982), la diffusione massiccia del computer (1984), la disponibilità di campionatori e moduli di sintesi relativamente economici, e di pacchetti software di sequencing per pilotarli, hanno modificato i processi collaborativi nella popular music, portando a una progressiva riduzione del numero dei componenti dei gruppi e alla creazione di nuovi generi (house, techno) per i quali le apparecchiature degli studi di registrazione professionali sono sempre meno necessarie. All’inizio degli anni Novanta sono comparsi i primi sistemi di registrazione multitraccia basati su computer (Pro Tools e altri). La loro evoluzione tecnologica, guidata dall’aumento di potenza dei computer, dal costo decrescente della memoria, nonché dalla sempre maggiore efficacia degli algoritmi di programmazione, è stata rapida, tanto che già a metà del decennio anche la produzione di album impegnativi ha teso a trasferirsi su questi sistemi, ospitati in ambienti diversi dagli studi di registrazione tradizionali. Mentre gli studi di registrazione professionali hanno affrontato una crisi senza precedenti, la diffusione dei sistemi basati su computer ha catalizzato la produzione di registrazioni di qualità anche nei Paesi che in precedenza erano svantaggiati dal gap tecnologico, favorendo i processi di globalizzazione e offrendo (via Internet) una platea molto più vasta alle musiche dell’ex Terzo Mondo, che in Occidente vengono raccolte sotto la denominazione di world music. Nel primo decennio del nuovo secolo un applicativo per la registrazione multitraccia, non particolarmente sofisticato ma ben più potente dei primi applicativi professionali del 1991, è presente nella dotazione standard di tutti i computer Apple. La rete e la registrazione digitale, combinando i propri effetti, rivoluzionano la qualità e gli equilibri culturali ed economici del sistema mondiale della musica.
I sistemi di composizione computerizzati
L’uso del computer come strumento di sintesi, sotto il controllo di linguaggi e programmi orientati alla composizione, risale alla prima metà degli anni Sessanta, grazie alle ricerche di Max Mathews. A quell’epoca si usavano i grandi elaboratori dei centri di ricerca scientifica e tecnologica, e i programmi si appoggiavano sui linguaggi allora disponibili (Assembly, Fortran IV). L’elaborazione avveniva in tempo differito: una volta sviluppato il progetto di un brano e realizzato il programma, occorrevano circa venti minuti di calcolo per ogni secondo di composizione. Quando il computer aveva terminato di elaborare e aveva memorizzato i valori, un convertitore digitale-analogico permetteva di ascoltare il brano. Soltanto tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo la velocità di elaborazione è salita abbastanza da permettere la sintesi e il controllo in tempo reale, possibili grazie alla progettazione di un hard;ware specializzato, accessibile solo attraverso strutture istituzionali di ricerca musicale e informatica: è il caso del sistema 4X progettato da Giuseppe Di Giugno presso l’IRCAM di Parigi. La complessità dei linguaggi e l’uso di apparecchiature non standard rendevano indispensabile (come già dagli inizi della musica elettronica) la presenza di tecnici, come mediatori tra il pensiero dei compositori e le tecnologie sofisticate capaci di trasformarlo in suoni reali. Mai come in quel periodo la musica è stata un’attività astratta, esemplificazione ultima del paradigma cartesiano della separazione tra res cogitans e res extensa. Si è infatti realizzata una convergenza tra il grado di sviluppo della tecnica e una corrente della riflessione storico-filosofica sulla musica, quella che nella seconda metà dell’Ottocento aveva promosso la concezione formalista e la reificazione della musica nella partitura (Small 1998). È sembrato che l’annullamento del corpo e dell’interpretazione, sotto il controllo di macchine e linguaggi sofisticati, potesse cancellare tutti gli aspetti contraddittori e residuali rispetto alla teoria, che pure avevano contribuito allo sviluppo della musica dell’Occidente: il ruolo dell’improvvisazione, quello degli autori-interpreti, il rapporto con la danza e il teatro. Lo sviluppo della tecnica e il dibattito filosofico hanno letteralmente smontato quella costruzione ideologica e le sue istituzioni: nel giro di pochi anni (gli anni Ottanta, i primi anni Novanta) i centri di ricerca sono stati costretti ad abbandonare le macchine create ad hoc e a utilizzare moduli di sintesi standard (gli stessi utilizzati dai musicisti popular), e tra i linguaggi di programmazione e i software di composizione hanno resistito quelli utilizzabili su computer, che una nuova generazione di compositori ha imparato a utilizzare senza bisogno di intermediari.
La disponibilità di linguaggi e applicativi dedicati alla composizione ha trasformato le pratiche e l’economia della musica colta occidentale. I compositori possono ascoltare il risultato del loro lavoro – anche quando è destinato a organici tradizionali – durante la stesura della partitura (grazie a moduli di sintesi software, installati nei loro computer) e non soltanto a cose fatte, se e quando sono disponibili degli esecutori. La funzione degli editori di musica si è sostanzialmente ridotta al lavoro promozionale, da quando i compositori sono in grado di stampare autonomamente partiture e parti, o spedirle per posta elettronica a esecutori singoli, orchestre, teatri.
La musica da film nell’era digitale
Se il lavoro del compositore di musica colta è stato toccato profondamente dalla disponibilità dei mezzi informatici (per quanto non pochi abbiano continuato a scrivere con la matita su fogli pentagrammati, ricorrendo marginalmente alle nuove tecnologie), il lavoro del compositore di musica da film ne è stato rivoluzionato. Molte delle abilità specifiche del compositore per il cinema, sulle quali si era basata la selezione delle prime generazioni di autori, erano rese necessarie dai limiti tecnologici, combinati con le esigenze economiche della produzione. Servivano musicisti capaci di lavorare rapidamente, nell’intervallo più breve possibile fra la fine del montaggio e l’inizio della distribuzione, componendo partiture che dovevano essere sincronizzate al singolo fotogramma, grazie al computo dei tempi e del metronomo. Non è un caso se l’incontro fra alcuni dei massimi compositori del Novecento e il cinema sia stato di reciproca insoddisfazione e se, ciononostante, i migliori compositori di musica da film siano stati musicisti con una formazione accademica rigorosa, ma dotati anche di un grande talento pratico.
Con i sistemi di composizione e registrazione basati su computer viene offerto al musicista un controllo accurato dei parametri più sensibili per il lavoro con il cinema: un brano può essere allungato o accorciato modificandone la velocità senza alterare l’altezza dei suoni, sono possibili tagli e interpolazioni, gli aggiustamenti richiesti dal regista oppure dalla produzione all’ultimo minuto sono realizzabili in modo elementare. I compositori, piuttosto che sui dettagli pratici, si possono concentrare sull’orchestrazione, sulla creazione di sonorità sempre più programmate.
Pubblicità, sound design, videogiochi, suonerie
I sistemi di composizione computerizzati mettono a disposizione dei loro utenti una percezione del suono e della musica (tradotta con metafore visive) molto minuziosa. Finiscono per esigere un’attenzione concentrata sul dettaglio, che favorisce le applicazioni di breve durata, come quelle destinate alla pubblicità o ancora di più al sound design: la progettazione di suoni di avviso, icone sonore, loghi acustici (come quelli che segnalano l’accensione dei computer con diversi sistemi operativi, o che identificano stazioni radio e televisive, marche di automobili, siti web ecc.). Nel caso della musica per la pubblicità ci troviamo in una situazione analoga a quella della musica per il cinema: un’arte (e/o un mestiere) che è stata trasformata dalle nuove tecnologie. Con il sound design, la musica per videogiochi e le suonerie per i telefoni cellulari siamo invece in presenza di pratiche e professionalità che sono state di fatto create dalle tecnologie informatico-musicali e che pongono problemi nuovi sotto i più diversi aspetti, da quello estetico a quello giuridico.
Cos’è l’opera?
Come si è accennato, esiste un’ambivalenza nei rapporti degli ascoltatori/utenti della rete nei confronti dei brani musicali che collezionano: li considerano come entità immateriali se invitati a riflettere sulla loro natura, ma come oggetti fisici in quanto cose possedute. Questa ambivalenza è tutt’altro che nuova e circoscritta al formato digitale. Nella storia della musica occidentale l’identificazione dell’opera musicale con un oggetto materiale (la partitura) è un fatto relativamente recente che si è andato consolidando con la diffusione della stampa litografica, lo sviluppo dell’editoria, l’elaborazione del diritto d’autore. Ludwig van Beethoven, che eseguiva per la prima volta in pubblico le proprie composizioni talvolta a partire da schizzi, annotazioni sommarie o improvvisando, e che concedeva agli editori di stampare partiture e parti dopo aver sfruttato economicamente il proprio lavoro compositivo attraverso concerti organizzati direttamente, si colloca al confine tra un’epoca caratterizzata da uno statuto fluido (si pensi al problema posto dalla realizzazione del basso continuo) e quella più recente nella quale l’opera viene reificata nella partitura. Il compimento di questo processo nella seconda metà dell’Ottocento ha fatto sì che, dopo l’invenzione del fonografo, i legislatori, posti di fronte al problema di tutelare i diritti sulle opere in formato fonomeccanico, non siano riusciti a far meglio che considerare questi ultimi diritti come secondari e derivati rispetto alla forma scritta. Una gerarchia, si noti, entrata in vigore solo pochi anni prima della comparsa sulla scena del jazz, musica improvvisata che trova nel fonogramma l’unica vera possibilità di fissazione. Almeno dagli anni Cinquanta del Novecento, il fonogramma è la forma primaria di creazione della popular music, per la quale la notazione è quasi sempre un derivato impreciso, di utilità parziale. Di fronte all’obiezione che l’opera musicale esiste solo nel momento in cui può essere percepita come suono, alcuni musicologi hanno obiettato che la partitura contiene molto più pensiero musicale di quanto non sia trasmissibile in una singola interpretazione: ma si può sostenere anche il reciproco, e cioè che ogni singolo evento musicale in forma sonora è più ricco di valori umani socializzati (anche di natura estetica) di quanti ne possono essere letti in uno spartito. Senza sminuire il valore della partitura, la ricerca musicologica più recente tende a concentrarsi sulla musica in quanto evento sonoro socializzato (sul musicking, come lo definisce Small 1998), mettendola in relazione con le sue rappresentazioni simboliche e con le forme di memorizzazione. In questo senso, il fatto che un evento sonoro sia tradotto in una notazione grafica bisognosa di interpretazione, in incisioni microscopiche su una superficie di gommalacca o vinilite, in polarizzazioni di particelle di ossido di ferro incollate su un nastro, in successioni di bit rappresentate da superfici opache o riflettenti in un disco di policarbonato o da stati diversi nei registri di memoria di un computer, non modifica il fatto che l’unica musica ‘liquida’ (o volatile) è quella che si diffonde nell’aria come vibrazione, e tutto il resto è una rappresentazione concreta. Una revisione dello statuto dell’opera musicale, dunque, è sollecitata dall’avvento dell’era digitale soprattutto in quanto questa ha messo in discussione e in alcuni casi ridotto alla marginalità le istituzioni che si erano costruite intorno alla partitura, l’editoria musicale innanzitutto. L’opera musicale, meglio che come una cosa, un oggetto, può essere intesa come un tipo cognitivo, una categoria prototipica, una famiglia di eventi musicali legati da una parentela, da criteri socialmente condivisi di riconoscibilità (Fabbri 2006).
È vero, però, che la percezione dell’opera musicale come una ‘nuvola’ di eventi e possibilità è stata sollecitata dalla ricerca dei compositori attivi nella seconda metà del Novecento, e dalle loro composizioni problematiche rispetto alla definizione dominante all’epoca: happenings, composizioni aleatorie, oggetti sonori indeterminati. Il formato digitale ha offerto nuove possibilità, come nella cosiddetta poetica dell’errore, seguendo la quale supporti digitali vengono sottoposti a trattamenti eterodossi per sollecitare effetti imprevedibili durante la riproduzione. Le tecniche di composizione basate sul computer, sviluppatesi come un compimento al massimo grado dell’idea wagneriana dell’opera d’arte totale e del ruolo demiurgico del compositore, si sono risolte anche nell’esatto contrario, in quella musica sperimentale definita, secondo John Cage, proprio dall’imprevedibilità del risultato.
L’economia di Internet e l’industria musicale
La revisione dello statuto dell’opera musicale, che sul piano teorico è stata solo in parte determinata dalla digitalizzazione, ma che comunque ha subito un’accelerazione parallela agli sviluppi della tecnologia, non ha prodotto risultati omogenei in campo giuridico: la questione del diritto d’autore sulle musiche improvvisate, o il riconoscimento del lavoro dell’arrangiatore, del tecnico del suono, del produttore (che non hanno alcuna tutela sul piano del diritto d’autore) restano ancora senza soluzione. I legislatori, invece, sono stati sollecitati dagli interessi economici in gioco a occuparsi della questione del copyright sui fonogrammi, dato che con la disponibilità in rete il pubblico è in grado di procurarsi, teoricamente solo attraverso il downloading, ma in pratica anche con lo streaming, copie funzionalmente quasi identiche (a meno della riduzione di dati implicita nei formati compressi) di registrazioni digitali, violando il diritto monopolistico dei titolari dell’opera. Formalmente è ineccepibile che chi effettua il down-load di un file musicale senza pagare un corrispettivo al titolare dell’opera trasgredisca le leggi sul copyright. E sempre sul piano formale non è sufficiente l’obiezione che nel caso del download non venga di fatto sottratto nulla (non si tratti, quindi, di un furto), perché quello che è in questione è proprio il diritto di realizzare una copia. Ma nel corso della decina d’anni durante i quali le istituzioni coinvolte hanno spesso teso a criminalizzare il singolo utente che si appropria di fonogrammi grazie alla rete, non è stato ancora affrontato con chiarezza sufficiente il tema del cui prodest. Chi si avvantaggia dello scambio di file attraverso i sistemi peer-to-peer? In gran parte, si tratta dei fornitori di accesso a Internet, dei produttori di computer e sistemi operativi e di tutti gli accessori (hardware e software) utilizzati da chi si collega alla rete. I servizi Internet a banda larga forniti dalle grandi società di telefonia, i computer, i sistemi operativi, vengono pubblicizzati per la possibilità di effettuare con soddisfazione le stesse operazioni di down-load contro le quali altri settori industriali combattono feroci battaglie giudiziarie; i chiarimenti secondo i quali la pubblicità si riferisce ai soli servizi legali, a pagamento, sono sempre stampati in caratteri minuscoli, e del tutto evitati nelle pubblicità televisive. La pseudogratuità dell’economia di Internet nasconde, di fatto, un colossale trasferimento di risorse dall’industria musicale ad altri settori industriali: eppure la possibilità che siano questi ultimi, e non gli utenti, a doverne sostenere la compensazione è stata prospettata solo molto di recente.
Bibliografia
J. Attali, Bruits. Essai sur l’économie politique de la musique, Paris 1977 (trad. it. Milano 1978).
S. Hosokawa, The walkman effect, «Popular music», 1984, 4, pp. 165-80.
C. Small, Musicking. The meanings of performing and listening, Middletown 1998.
F. Fabbri, La musica: un falso molto autentico, veramente fasullo, in Falsi, contraffazioni, finzioni, a cura di P. D’Angelo, «Rivista di estetica», 2006, 31, pp. 161-71.
J. Sterne, The MP3 as cultural artifact, «New media & society», 2006, 8, 5, pp. 825-42.
M. García Quiñones, Listening in shuffle mode, in Lied und populäre Kultur/Song and popular culture, hrsg. M. Matter, N. Grosch, «Jahrbuch des Deutschen Volksliedarchivs», 2007, 52, pp. 11-22.