La musica sacra come luogo di trasmissione della fede
Fin nelle più disparate direzioni musicali, l’ecclesia è sempre stata comodo piedistallo antropologico su cui accomodarsi: dal ‘rituale risorgimentale’ svolto in chiesa1 alla electric church di Jimi Hendrix. Se questa ‘banda larga’ in seno alle vicende laiche di società e cultura è quasi scontata – segno della preponderanza subliminale del riferimento cattolico presso terzi –, ci si aspetterebbe un fronte meno polisemico infra moenia, parlando cioè di musica sacra o direttamente liturgica. In principio essa fu sì uniforme, vivendo ancora la tradizione come indiscussa auctoritas entro un conservatorismo ereditato da pontefici come Gregorio XVI. Tuttavia, l’indole sarebbe stata via via quella di una crescente contaminazione – anche in ragione delle complesse dinamiche geo-politiche e culturali-religiose internazionali –, fino alle dispersioni stilistiche e funzionali dei giorni nostri, così intelligentemente spiate da Berselli nell’ironica «interazione ricostruttiva» dei contrafacta musicali tra sacro e profano:
«Mettiamo, una sera a cena, che dopo […] avere classicamente eseguito Noi vogliam Dio sulle note di Bandiera rossa e viceversa, a qualcuno venga in mente la sfida più tremenda e affascinante, la ricostruzione testuale e melodica del visionario canto “di chiesa” Inni e canti sciogliamo o fedeli. È una prova che non è arrischiato definire suprema. “Inni e canti sciogliamo o fedeli / al divino eucaristico re / Egli ascoso nei mistici veli / cibo all’alma fedele si die’”. Se c’è uno spiritoso che comincia a dire sciocchezze sulla vocazione antropofagica del mito giudaico-cristiano, voi ignoratelo. Se invece riuscite a ricordare i versi successivi siete a buon punto. “Dei tuoi figli lo stuolo qui prono / o Signor dei potenti ti adòòòòòra!”. Qui invece è gradito sottolineare che le folle in processione di norma non riuscivano a capire dove mai fosse ascoso il soggetto e concludevano quindi “ti adòòòòòro!”. E a questo punto potete finire con un trascinante coro: “Per i miseri implora perdono / per i deboli implora pietà”. Lo cantavano anche nei palazzi dello sport quando la squadra ospite veniva triturata. Se riuscite anche a ricostruire parole e melodia di Bella tu sei qual sole, e la vostra vicina di tavola è magari bianca più della luna, potete considerare riuscita la serata. Se poi qualcuno sa ancora a memoria Mira il tuo popolo bella signora che pien di giubilo oggi ti onora, siamo prossimi al trionfo»2.
Nello spazio qui previsto, l’aspetto più intricato sarà quello di delineare spunti di percorsi e problematiche sull’intero arco dei fatti musicali sacri, dall’iniziale Unità politico-nazionale alle macro-direttive del globalismo post-conciliare – vi sono sottesi nodi gordiani come i legami culturali e religioso-artistici tra élite e società subalterna, per via di opere pie e di culto, istruzione, intellettualità, ecc.3 –, fino alle reazioni anti-liberali tra le due guerre, alle crescenti massificazioni e ai miscugli contemporanei. E di attuare tale percorso ‘attraverso l’occhio del fedele’.
Questa impostazione comporta la ricerca dell’identità musicale sacra come luogo di trasmissione della fede; prevede cioè piani di ricostruzione con evidenti componenti semio-sociologiche e alternativi a quelli della musicologia liturgica ufficiale, votata al Palestrina di turno e della relativa storiografia istituzionale (da Katschthaler a Garbini4). Lo studioso diventa quasi un ‘inviato’ che intervista la plurale fruizione, dal cui lume gestire ogni bilancio critico complessivo, soprattutto fermandosi tra la comune gente e i fedeli, tra gli intellettuali e il clero, decrittandone la fede quotidiana sub specie musicae.
Alcuni passi dei nostri scrittori ‘minimi’ risultano parafrasi del titolo di questo saggio, e insieme ne costituiscono una traccia di stesura. Leggiamo da un libro per adolescenti di un propagandista di Azione cattolica, in tal caso attraverso gli occhi di una madre devota di Casalpusterlengo:
«La sera dell’otto settembre 1914 Chiara Carmeli entrò nel Santuario, mentre vi risuonava l’ultimo canto dei fedeli: un canto popolare, semplice come il cuore della turba; ma come esso pieno di ardore e di fede»5.
Non è che un indizio di quella sterminata religiosità musicale lasciata fuori dal recinto della storia indottrinata, che altrimenti dovrebbe verificare, per dir di Perosi, se la stanchezza del pubblico teatrale negli anni Cinquanta per i suoi oratori vivesse anche tra i fedeli in chiesa e nell’ordinaria prassi delle scholae forgiate sui ‘modelli’ suoi e di altri quali Refice. Dunque, più che dissertare in punta di penna sullo stile perosiano, misurandone col regolo gli assi wagneriani e bachiani6, occorrerà render ragione dell’assunto generale per cui nella nostra Italia la frequenza dell’andare a messa è dipesa significativamente da una buona musica. E ancora: più che disquisire, sempre per dire, sul rapporto tra cecilianesimo e passatismo, si dovrà confrontare la condanna per tanti repertori liturgici ammorbati di profanità (infinite le discussioni sulla vena lirico-bandistica e teatrale) con il fatto che si trattava di forme di comunicazione, soprattutto per le classi subalterne, in grado di annullare il gap di una funzione sorbita stancamente. E così via.
Ecco allora che la nostra bibliografia sarà sovente stravolta e solo tangenziale ai documenti formali, siano essi repertori, cerimoniali e regolamenti o encicliche, atti e commissioni sinodali; interessa il ‘metabolismo vissuto’ di quell’ufficialità musicale, nascosto in tanta pubblicistica e creatività invisibili (fogli musicali volanti e manuali di scuola, ‘tesori’ di narrativa edificante e minuzie di commentatori, moralisti ed istruttori, il vasto mare della ‘buona stampa’ cattolica, ecc.). In tal senso il presente testo è anche proposta di una nuova euristica bibliografica sulle tematiche trattate.
La differente condizione dello Stato pontificio rispetto al ribollire italiano pre- e primo-risorgimentale si rispecchia anche nella vita liturgica e nei relativi indirizzi musicali monocromi e ben piantati entro il solco della tradizione; ciò soprattutto fino alla morte di Pio IX nel 1878, periodo che corrispose ad un’arcigna impenetrabilità rispetto ai rivolgimenti storici e alle nuove tendenze. Ma anche ogni passo successivo sarebbe stato all’insegna del prudente sospetto, vista la perdurante contingenza antivaticana del liberalismo ateo e naturalista (anche nella scuola e nel giornalismo). Ad esso si oppose la parte neotomistica e conservatrice della Chiesa, molto attiva anche in ambito musicale sacro soprattutto dal 1850 attraverso una sentinella come «La Civiltà cattolica», così moderna nel progetto – si ritiene oggi – perché pensata in termini ‘italiani’ prima ancora che esistesse politicamente l’Italia. Era questa la sponda di gran parte dell’aristocrazia devota, a cui apparteneva Cristina, il cui rapporto con il Risorgimento è riassumibile in un batter d’occhio: «Gesù Cristo [… è] un gran personaggio come Alessandro Magno, Napoleone I, Garibaldi? – Questa è un’infamia e una bestemmia orribile e infernale. E io non la posso sopportare»7.
Dietro simili quinte, nel bel mezzo della Restaurazione, solo a guardar Rossini vi sono prelati colti in abitudini opulente; non tanto perché salottieri, il che era nell’economia di un papato ancora Stato (a Passy Rossini era «troneggiante in parrucca» sui nobili invitati, «tra i quali fluttuava talvolta persino la serica tunica violetta del cardinale legato del Papa»), ma nella routine privata: a fine anni Trenta Rossini, tornato a Bologna e ormai prossimo allo Stabat Mater, passava pigramente le ore «da eremita epicureo giocando a carte con amici prelati e dividendo con loro il piacere di laute mense prelibate»8.
Nel confronto con la Chiesa, la portata interlocutoria della musica nell’alta società si può misurare tra i nostri padri risorgimentali. Spiccava l’attitudine musicale di Mazzini, meditata e carica di finalità socio-educative, come pure immagine del suo romanticismo umbratile. Cavour era invece emblema del cliché aristocrazia = musica (domestica e lirica), che permane anche in mancanza di talento, almeno per quel minimo che la noblesse richiedeva; il nostro infatti «non aveva alcuna inclinazione artistica. S’intendeva un po’ di musica, strimpellava malamente il violino e a Parigi, vedendo I Puritani al Théâtre Italien, capì che si trattava di un capolavoro»9.
La tela musicale della Chiesa nel cuore dell’Ottocento era dipinta su una tradizione più praticata piuttosto che su base filologica. La liturgia insisteva su quei pezzi attraverso cui sarebbe passato il tentativo di un gregoriano per tutti, facendo ormai parte della devozione di gente modesta e aristocrazia, come per quelle figlie nobili a «fronte scura» per il «sacrificio [di] terminare l’anno senza andare in Chiesa per il Te Deum!»10. In genere la monodia liturgica era scolpita su un cantus planus distante dall’indole gregoriana antica, in cui dal Sei-Settecento aveva messo radici un certo epigonismo. Tale fisionomia si era diffusa in più direzioni, come dimostra la Messa royale di H. Du Mont (1610-1684); composta per i reali francesi, fu poi in grado di entrare nei libri di canto ecclesiastico – dai graduali e messali post-barocchi ai manuali corali ceciliani, anche nella versione con organo11 –, altrimenti facendo da tema per elaborazioni di personalità quali Charpentier, arrivando poi alla religiosità fascista12. Lo spirito che animava questa messa in primo tono, cara all’aristocrazia francese, era il facile svolgimento melodico, capace di modellare l’antica monodia secondo il gusto moderno di «quel plain-chant musical il cui ritmo e cromaticismo (utilizzazione della sensibile) differiscono notevolmente dal gregoriano»13. Si badi che la fortuna di questa composizione attestava il punto di vista multifunzionale dei fedeli rispetto alla bocciatura dei puristi, con un’efficacia dai risvolti etnomusicali:
«Il celebre Cardinale di Cheverus, Arcivescovo di Bordeaux († 1836), racconta che, quand’egli era Missionario negli Stati Uniti d’America, viaggiava una domenica per una foresta, accompagnato da una guida; e udì, in lontananza, un gran numero di voci che cantavano. Allora si arrestò: tese l’orecchio, e gli parve di conoscere quella melodia. Quando quei cantori gli furono da presso, egli vide che erano selvaggi nomadi i quali vivevano solo di caccia e di pesca. Essi cantavano la Messa Reale del Dumont, solita allora a cantarsi nelle Cattedrali di Francia. Quei poveri selvaggi l’avevano imparata dai Missionari; e quel giorno, essendo domenica, e non avendo essi un prete che celebrasse la Messa, santificavano, come meglio potevano, il giorno del Signore»14.
In tali retaggi e aggiornamenti para-gregoriani si rinveniva un codice stilistico ‘allargato’, in qualche modo aperto alla partecipazione proprio sulla falsariga dell’antica monodia sacra – non a caso il nostro Du Mont è contenuto in un Manuel de chant populaire15 –, un po’ come oggi succede per quel riposante neo-gregoriano, anche su testi in italiano, ormai entrato nella spiritualità contemporanea (penso ad esempio all’incantevole liturgia camaldolese16).
Nell’Ottocento il fattore divulgativo della musica sacra va confrontato con il concetto di ‘consapevolezza’ del rito liturgico da parte del fedele, anche in ragione di piaghe sociali come quella dell’analfabetismo. Sia allora che in seguito alla pedagogia cattolica non sarebbe dispiaciuto sottolineare la relativa oscurità del codice rituale, evocata dallo stesso ‘mistero liturgico’: «non c’è mica il bisogno di capir tutto il mistero della Messa, cosa impossibile anche agli adulti. Basta che abbiano una cognizione adatta alla loro capacità»17.
Poiché il distacco complessivo dall’azione liturgica era l’anticamera della disaffezione, quel postulato di misteriosità facilitava la gragnola di regole che il teologo poneva in ordine alla ‘partecipazione’ complessiva, da allargare a tutte le funzioni parrocchiali, tridui, novene, esercizi spirituali e predicazioni compresi. Era inoltre evidenziato che alla messa si deve «assistere», ossia v’è «il dovere di ascoltarla»18, in barba a disposizioni in quell’epoca assai più aperte, come quelle boschiane, secondo cui occorre «tener lontano la minaccia e la sferza. Non mai obbligare i giovanetti alla frequenza de’ santi Sacramenti, ma soltanto incoraggiarli e porgere loro comodità di approfittarne»19. Non dissimuliamo che il coinvolgimento non mancava invece nelle feste patronali e in manifestazioni analoghe, dove la fede diventava partecipazione attiva e incondizionata: la borgata cuneese di Frabosa Soprana, per la solennità dell’Addolorata nel 1869 era «parata a festa con vari, eleganti, e ricchi archi trionfali sormontati da relative iscrizioni»; la calca passava, senza farsi tante domande sui misteri liturgici, dalla «messa solenne cantata con accompagnamento d’organo da bravi giovani Musici» – per la comunione «più di 400 persone» – alle acclamazioni sul sagrato «Evviva Maria Regina del Cielo, e della terra!» e ai serali «brillanti fuochi artificiali con grandiose illuminazioni»20.
Chi in effetti aveva saputo essere autorevole alternativa nell’educazione popolare primo-risorgimentale fu proprio il sacerdote Giovanni Bosco, il cui ‘oratorio’ – poi salesiano su approvazione di Pio IX –, oltre a intuizioni come quelle sui diritti del lavoro, sperimentò un’educazione scolastica mai incline alla punizione, semmai correggendo e formando con carità e buon senso, carezzando la povertà dei discoli. E questo anche con la musica, educativa nei teatrini e ricreativa nei liberi sfoghi. Lui, che nella poverissima fanciullezza fu alacre nell’apprendere una multiforme professionalità da chi glielo avesse concesso, tanto che «poté prodursi presto in orchestra a cantar parti obbligate con felice successo, e nello stesso tempo incominciò ad esercitarsi nel suono del violino e a tentar la tastiera di una vecchia spinetta per poter accompagnare qualche volta sull’organo». Ancora ragazzo, si preoccupava di attrarre i fanciulli alla religione facendo uso delle sue tante attitudini, valendosi pure «della buona voce e del buon orecchio per intrattenerli in un primo momento e poi fermarli per far recitare le preghiere»21.
Con ciò si preannunciava quel metodo oratoriale libero e pratico, in cui si sarebbe vietato di incolpare i giovani; posizione forse utopistica, ma resistente alle repressioni interiori e ai castighi di tanta precettistica presente e futura – fino al Catechismo di Pio X (vedi infra) –, divenendo in seguito ingrediente per una pedagogia familiare più mansueta:
«Si dia ampia libertà di saltare, correre, schiamazzare a piacimento. La ginnastica, la musica, la declamazione, il teatrino, le passeggiate sono mezzi efficacissimi per ottenere la disciplina, giovare alla moralità e alla sanità. Si badi soltanto che la materia del trattenimento, le persone che intervengono, i discorsi che hanno luogo non siano biasimevoli. Fate tutto quello che volete, diceva il grande amico della gioventù S. Filippo Neri, a me basta che non facciate peccati»22.
Una tale didattica si prolungherà idealmente anche in future attività similari e partendo da presupposti analoghi: su tutte, le scuole di santa Teresa di Calcutta, da ragazzina buona mandolinista e con ottima voce, oltreché poetessa, nei movimenti cattolici albanesi tutti ‘prega e canta’ in cui si era formata.
Nei piani educativi salesiani non si dimentica la cultura, che veniva filtrata nei termini pratici del vissuto, entro luoghi deputati alla ‘verosimiglianza’ propedeutica della vita adulta quali il cortile e il teatro. In quel ‘sapere’ il latino permane senza peso nei programmi scolastici, oltre che in quel poco di gregoriano spesso facilitato (alias strofizzato). Per i nostri obiettivi è proficuo anche solo ripercorrere le scene del film Don Bosco23; questi i momenti musicali salienti, conformi al quadro effettivo rispettivamente liturgico-devozionale ed educativo-scolastico: 1) in chiesa i fanciulli si esercitano coralmente, accompagnati dall’harmonium, sulla melodia strofica Cantate Domino, alleluia, gioiosa e di immediata gradevolezza; 2) tra le varie azioni dell’allegro svago in cortile, spinto da don Bosco, vi è anche la presenza di un settimino bandistico (ottoni e percussioni) impegnato su una fiera marcetta; 2a) altra marcia degli adepti che accompagna la sgangherata processione di trasferimento di sede oratoriale a Valdocco, tenendo in alto il Crocifisso e senz’aver dimenticato il pesantissimo harmonium; 3) nel corso di un’ispezione commissariale nella classe scolastica, don Bosco spiega che per i fanciulli alla lettura e alla scrittura sono stati aggiunti ‘aritmetica e musica’; 3a) proseguendo la visita ai laboratori, nella sede tipografica spunta un numero in folio delle «Letture cattoliche», che si sa aperte a ingredienti musicali.
Sfogliando le antologie di prediche del secondo Ottocento, che flagellavano letteralmente i peccatori, compaiono istanti di elevazione angelica laddove si propongono esercizi di pentimento, a volte associati ai canti. Sono inni e strofe delle beghine, che col nudo testo o in musica si nascondono in filotee, novene e altri uguali libretti in brossura nera, dalle carte fruste anche all’altezza dei canti. «Ogni mattina, dice [una nobile fiorentina], leggo la Filotea e vi medito sopra»24, quasi a ribadire la valenza socialmente istituzionale, da breviario privato, di queste pubblicazioni atte a catechizzare nobili e plebe, anche col loro ‘rosario’ di canti. Nella funzione contro la bestemmia, è centrale l’esposizione del SS. Sacramento,
«intuonando cantici di lode, e di benedizione; lodando e benedicendo Iddio, Gesù Cristo, e la Vergine Santissima; unendoci tutti nel ripetere queste lodi, nel ripeterle con tutto lo slancio de’ nostri cuori, nel ripeterle in modo da farle salire insino al Cielo. Così, o fratelli, daremo a Dio la debita riparazione […]»25.
Un crescendo icastico, vero mantra, con tanto di libretti per le istruzioni; non solo questo ora citato, che reca il testo del Cantico a Dio da intonare, giacché eventualmente «può servire l’aria indicata nel volumetto delle istruzioni al n. XL, od anche al n. XXV». Come un sacerdote celebra la funzione saltando da un sacro libro all’altro tra segnacoli e rubriche, così le fedeli e i fedeli hanno il loro daffare davanti al minuto e invisibile altare della loro fede, sempre profumato di canti.
Altro punto sensibile della fede in musica è quello para-liturgico del repertorio musicale rappresentativo, che con veste più o meno colta indorava le solennità. Spesso nella bibliografia in calce ai periodici cattolici si offriva una sezione su drammi e commedie, farsette e favole, pezzi agiografici, ecc. A loro volta, i racconti sull’Ottocento italiano non tralasciano simili circostanze, di cui la presente citazione è stata scelta tra moltissime:
«Il giorno di Natale, la famiglia, al completo, aveva assistito ad una rappresentazione sacra sul mistero del giorno, data con un certo sfarzo e con molta proprietà, intermezzata da musica classica, eseguita da cori e da orchestra, in un istituto religioso […]. Il primo canto dei pastori […] era musica bellissima di C. Gounod, eseguita con accompagnamento d’orchestra sulle parole tradotte liberamente da un salmo […]. La fattura e la esecuzione erano piaciuti molto»26.
Era questa un’auspicabile conseguenza delle intenzioni salesiane, i cui principi avevano fatto proseliti anche all’aperto, presso le famiglie nobiliari, nei cui giardini prendevano vita raffinate coreografie per gli invitati. Al Corpus Domini del 1883, presso villa Meoni,
«un drappello di bambine, bianco vestite e coronate di candidi gelsomini […] tornò al suo posto e circondando l’altarino campestre intonarono una divota canzoncina, accompagnata dal dottore Roberto Meoni, che in un attimo fu assiso ad un pianoforte, colà preparato. La canzoncina, musicata semplicemente ma con gusto recitava: Su figlie, cantate […]. La signorina Agnese dirigeva le bambine e le accompagnava colla sua dolce vocina, mentre la Cristina sovrintendeva a tutto il coro […]. La canzoncina venne ripetuta più volte ad invito generale di tutta la brigata dei signori, che non finiva di applaudire alle angiolette, che cantavano, a quelle che dirigevano e anche al suonatore che le accompagnava»27.
Scene d’arcadia sacra confezionate per i giovani lettori, di cui diamo cenno in nome del reticolo intricatissimo delle forme minori e minuscole di fede in musica. La fonte è stata ancora uno scrittore di don Bosco, che abbiamo scelto per enfatizzare l’importanza del ceppo salesiano; ivi, l’ipertestualità dell’impiego musicale costituiva una rete di protezione e insieme di prudente apertura della vieta tradizione; così com’era il largo abbraccio dell’oratorio-scuola, tanto incisivo da essere ancora oggi segno di contraddizione negli indirizzi riformistici della scuola statale.
Più che compendiare la posizione che ebbe la Chiesa-istituzione, vale la pena offrire qualche assaggio su come certe esperienze e repertori ‘spuri’ plasmassero il sentimento sacro vissuto.
Anzitutto nelle forme più composte dell’educazione. Ancora una volta sono in testa gli istituti salesiani: alla fine dell’udienza di Pio XI nel 1922,
«impartita l’Apostolica Benedizione, gli alunni, con l’accompagnamento della banda, cantarono ancora un inno. Quindi il Santo Padre ammise al bacio della mano i Superiori e si avviò per risalire nei suoi appartamenti, salutato da uno scroscio di applausi. Alla seconda loggia, Sua Santità si affacciava per benedire nuovamente gli alunni che seguitavano ad acclamare, mentre la banda ripeteva l’Inno Pontificio»28.
In senso più generale, il bandismo appare come sale della piacevolezza liturgico-devota dei semplici, il cui idioma oltrepassa il primo Risorgimento, crescendo anzi d’invadenza nelle feste ottocentesche fuori e dentro la chiesa, fino a modellare le consuetudini del Novecento, anche come semplice elemento del variopinto sacro popolare en plein air (si vedano i «segni sonori e forme vocali di tradizione» delle feste religiose nel messinese dei nostri decenni, in cui appaiono sequenze come «scampanata, marcia funebre, moschetteria, Evviva Maria» per l’Assunta29). A guardare una di quelle scene dalla dissacrante e grottesca novella di Verga Guerra di santi (1880)30, dal romanzo-diario di Munthe La storia di San Michele (1929) o dal film Operazione San Gennaro (1966) pare non sia cambiato granché, soprattutto per la scompostezza con cui banda e lirica/canzone si (con)fondono, in cui preghiera, tradizioni etnico-popolari e libera parafrasi anche pagana del precetto rituale si tenevano per mano. Andiamo in Campania:
«Alle otto la chiesa era già riempita fino all’ultimo posto, da una parte gli uomini, dall’altra le donne con i bambini in grembo. Nel centro la banda, nella tribuna appositamente costruita. I dodici preti di Anacapri, negli stalli dietro l’altare maggiore, si slanciavano coraggiosamente nella Missa Solemnis del Pergolesi, fidando nella Provvidenza che la banda, che li accompagnava, li sorreggesse sino alla fine. Intermezzo musicale, un galoppo furioso suonato con grande bravura, molto apprezzato dalla congregazione. Alle dieci, messa cantata dall’altare maggiore con degli a solo dolorosi del povero vecchio don Antonio e tremolii di protesta e improvvisi gridi di angustia dall’interno del piccolo organo, consumato da tre secoli di uso […]. Mezzogiorno. Grande eccitazione sulla piazza.
Esce la processione! Esce la processione! […] Quando le campane suonavano l’Ave Maria, il ricevimento era terminato […]. La banda, sempre più in vena, apriva la marcia verso la piazza [… e,] ansando, issava i suoi istrumenti sulla tribuna eretta per l’occasione […]. Il maestoso capo-banda alzava la sua bacchetta, il gran concerto principiava. Rigoletto, Il Trovatore, Gli Ugonotti, I Puritani, Un ballo in maschera, una scelta selezione di canzoni napoletane, polche, mazurche, minuetti e tarantelle si susseguivano ininterrottamente fino alle undici […]. A mezzanotte il programma ufficiale era esaurito, ma nemmeno per sogno lo erano gli Anacapresi e la banda»31.
Nello Stato pontificio queste piacevolezze mutavano in «abusi gravissimi» per gli ortodossi cattolici, i quali dagli anni Settanta-Ottanta si sarebbero trasformati in riformisti ceciliani, inflessibili nel registrare una situazione pressoché immutata ancora nel 1907, tempo di una lettera così chiusa:
«Dopo che si è tanto sbraitato, in Napoli si ha l’ingenua persuasione di conoscere a perfezione il canto liturgico, mentre che sul buon cammino della restaurazione appena si è dato qualche passo incerto: nella polifonia poco si è fatto, ma molto poco; mentre regnano tuttora abusi gravissimi»32.
In chiesa la lirica soccorreva aspettative sia aristocratiche che popolari, quasi accomunate in una simile religiosità teatrale; naturalmente, ogni parte sociale con modalità proprie, dal «programma musicale» per l’esequie di Rossini nella Chiesa della Trinità di Parigi33 alle pie scimmiottature rurali da locandina melodrammatica. Per la gente comune l’appuntamento domenicale era un abbonamento a teatro, garanzia di evasione e commossa partecipazione. Lo stile di quelle sonorità si giocava su stilemi nazionali, al riparo dal Wagner di turno, che invece sarebbe stato caro ai nostri giovani intellettuali anti- e contro-tradizionalisti; essi tra Otto e Novecento avrebbero teso imboscate a Verdi e al belcanto, anticipando il ghigno futurista, mentre correva quel tenorismo che domina il primo cinquantennio del Novecento, nonostante gli sforzi riformatori di Pio X34.
Tali insubordinazioni giovanili erano il controcanto di un humus dalle radici profondissime, cresciuto in una simbiosi tra opera lirica e musica liturgica in cui avvenivano anche prestiti dalla chiesa al teatro, ossia inflessioni sacro-liturgiche nello stile operistico35. Anche da tale status quo i ceciliani vollero partire per riformare la musica di chiesa; in fondo, adattamenti sacri d’indole lirica come lo Stabat Mater rossiniano ammorbidivano il carattere della loro crociata antioperistica, la quale, soprattutto sull’onda del Verdi sacro, sembrò pregustare uno stile ideale nel dialogo con la contemporaneità musicale laica. Nel 1874, fu questo il senso della rassegnata constatazione svolta da Amelli (sacerdote milanese pioniere del nostro cecilianesimo) di fronte alla speranza di una conversione del talento verdiano, soprattutto sul filo del Requiem,
«non avesse egli temuto “forse di non essere compreso da un secolo indifferente per religione, e che si vanta incapace dell’altezza di tale sentimento”, non avesse abbandonato l’ardire del genio, “il quale non curando le false opinioni de’ suoi contemporanei, marcia sempre direttamente per la via da lui ritrovata”, per “incensare l’idolo della moda, il Romanticismo melodrammatico dell’odierna musica sacra”»36.
Diversa la sorte di Rossini, che a metà Ottocento non aveva ricevuto nessun invito a porre la propria musa al servizio della santa causa, e ciononostante post mortem lo si sarebbe adottato alla bisogna: la fremente retorica antiatea contro la politica scolastica delle Romagne, scomoda le grandi opere artistiche ispirate dalla fede: «se Dante avesse pensato come voi, non avreste la Divina Commedia»; tocca poi a Raffaello, Michelangelo, Brunelleschi… e «se Rossini non avesse creduto a Dio, non avreste lo Stabat»37.
La lettura del caso verdiano ci assiste nel far meglio comprendere l’impostazione specifica del presente saggio. Nel passo sopracitato, la parabola verdiana era fatta ‘giustamente’ rientrare nel ‘negativo indirizzo antiriformistico’ che i primi ceciliani d’Italia provarono a scardinare. Ora, invece, misurare il polso della fede attraverso la musica comporta valutare le potenzialità del genio verdiano in sé come portatrici di un afflato devoto; viene altresì da pensare a cosa sarebbe accaduto se nell’avvicinamento a Verdi il rinnovamento liturgico-musicale avesse rinunciato a quei precondizionamenti. Tale ipotesi basa la sua ragionevolezza su una situazione analoga verificatasi quasi cent’anni dopo per Fellini, quando due illuminati testi del padre gesuita Taddei favorevoli alla Dolce vita, che cioè «motivavano “cristianamente” il giudizio positivo sul celebre film del grande regista», si trovarono ingoiati dal ‘presuntuoso’ sistema valutativo cattolico di default. Queste riflessioni censurate sono trasferibili esattamente ai casi trattati, sia per Verdi sia in relazione all’ostilità prevenuta verso tanta musica entrata in chiesa dall’Unità d’Italia ad oggi:
«Il gesuita era convinto che Fellini, se non fosse stato osteggiato dai cattolici sarebbe diventato “il cantore della Grazia”: con La dolce vita Fellini, spiegava Taddei, “voleva parlare della spiritualità del cristianesimo. Ma rimase talmente turbato e amareggiato da quell’accoglienza che nel film successivo Otto e mezzo, film pagano all’acqua di rose, se la prese con la Chiesa ufficiale”»38.
Tutti impegnati a purificare, i ceciliani paiono non comprendere che dietro le mode, il teatro in quanto tale fosse un laboratorio politico-sociale al pari della «scuola moderna» e della «pubblica stampa», «ché anch’esso è una scuola, anzi scuola vivente, scuola pratica» la quale, detta nei termini vaticani d’allora, influenzava il «popolo-re [… a] gridare: morte al Re!»39. Anche in musica, era mettendosi in ascolto del vissuto extra-ecclesiastico che si sarebbe stati più in grado di leggere il variopinto caleidoscopio dei fedeli – che non significa uniformarsi alle loro condizioni, né fare concessioni ai «teatri immorali»40, ma progredire la concezione primo-ottocentesca di un teatro ove «e l’animo, e l’orecchio, e l’occhio, e si può aggiungere anche la lingua, restano contaminati»41.
In questi pressi, inutile dire che da una parte le società corali e dall’altra i corpi bandistici funsero da ‘oratori laico-popolari’, da autentiche fucine per il gusto musicale devozionale e liturgico delle classi minori, a cui contribuiva, anch’essa imbevuta d’opera, la ‘passionaccia’ per lo sfavillio scenico degli addobbi celebrativi e quella per le processioni con musica lungo le strade di città e località, che i politici avversi avrebbero più o meno strumentalmente vietato, ad esempio «per non impedire la viabilità» delle prime automobili…42, ma pure, stando a Verga, per inoppugnabile disordine pubblico:
«– Giacché è così! – aveva conchiuso il sindaco – e non si può portare un santo in piazza senza legnate, che è una vera porcheria, non voglio più feste, né quarantore, e se mi mettono fuori un moccolo, che è un moccolo! li caccio tutti in prigione»43.
Dal punto di vista cattolico, tra i legami con lo Stato spuntava la finalità di formare il ‘buon cittadino’. Tuttavia i concetti di ‘amore patrio’ e ‘laboriosità’ sono declinati in opposizione alla politica educativa pubblica, tacciata di fuorviante corruzione. La Chiesa aveva un’offerta scolastica vastissima, capace di garantire, accanto all’istruzione religiosa, la «disinfezione dei trattati usati nelle scuole pubbliche, quando ce n’è bisogno, e mezzi profilattici per non lasciarsi far girare la testa dal massonismo che penetra molti libri specialmente di storia e scienze naturali»44.
In questa condizione, la Chiesa conobbe una rigidezza dottrinale che ebbe a manifesto il Catechismo della dottrina cristiana di Pio X, capillarmente diffuso anche sotto forma di compendi e varie raccolte di primi elementi di dottrina, spesso divisi per classi scolastiche, con o senza tabelle di digiuni e astinenze; esso rappresentò un vademecum di norme così meticolose e da mandare a memoria, che il suo abbandono nel 1965 sarà salutato con sollievo. A quel tempo, però, in Italia tale manuale riassumeva autorevolmente la vasta precettistica di altre ‘dottrine cattoliche’, pescando dalla moltitudine di libri educativi e di esercizi spirituali, combattimenti e discorsi apologetico-morali, soprattutto per le fasce d’età giovanile, uniti nel far da scudo alla permissività dei cosiddetti ‘moralisti della mondanità’.
Le varie forme di distrazione vengono tutelate dagli eccessi mediante tattiche puntuali, che evidenziano quali fossero le modalità ricreativo-musicali di comunicazione, talune potenzialmente utili nell’educazione, altre assolutamente degeneri. Tentiamo di seguire il ragionamento dell’educatore su un punto dove si cada anche nel musicale. L’impurità, ad esempio: quali le cause? Ozio, cattive compagnie e pessima stampa, spettacoli lussuriosi e, ancor sempre, balli, «che a dì nostri sono officine di impudicizia, o almeno un grande incentivo alla lussuria»45. Sul banco degli imputati sedeva anche il ‘cristiano alla moda’, categoria intermedia da tener lontana dalla buona gioventù dei ‘circoli cattolici’; in cima alle tentazioni erano il carnevale e annessi, contro i cui miasmi fin dall’Ottocento si erano perorate “unioni di preghiere”, architrave dei gruppi oranti(-cantanti) in età fascista46. Ne esce un ritratto fosco e sconsolante, quasi non difendibile davanti a chi, come l’ateo filosofo americano Brewster, di casa a Firenze, asseriva che «i popoli cristiani sono spesso, appena usciti di chiesa, veri e propri pagani»47.
Il Catechismo di Pio X aveva posto gli «spettacoli immorali» tra i peccati contemplati nei comandamenti della castità: sesto «Non commettere atti impuri» e nono «Non desiderare la donna d’altri». Nella convulsione dei commenti ci finiva dentro tutto, anche commedie per musica la cui presunta licenziosità era ormai sbiadita dai secoli, quali Il pastor fido di Guarini, che l’educatore squalificava con le parole del cardinal Bellarmino rivolte all’autore: «Signor Cavaliere, io credo che abbiate fatto più male voi col vostro libriccino, di quanto ho fatto io di bene con tutti i miei volumi in foglio»48.
Fuori dalla terna scuola-oratorio-chiesa la musica era condannata dai teologi quale espediente peccaminoso. Perlomeno in teoria, i ragazzi erano letteralmente impauriti da una «Babilonia di scandali» da lasciar stecchiti; chi avrebbe osato muovere un passo, quando li si informava che la loro domenica avrebbe potuto anche finire tra le braccia «del diavolo. Passeggiate, scampagnate, gare, caccie, allegrie, spettacoli, festini, balli, orgie… con la sequela di altri peccati. Ecco le belle opere con cui da taluni si santificano le feste»49. In verità, soprattutto le fanciulle erano conquistate da queste amenità, che costituivano pure argomenti ideali per novelle e romanzi su cui fecero affari d’oro i nostri editori, con titoli italiani (come Vita mondana, 189150) o stranieri (come Invitation to the waltz, 1932, di Rosamund Lehmann, romanzo passato in Italia da Bompiani a Mondadori51); questi libri sono testimoni dell’esteriore società sognata dalle nostre giovani, divise tra gli estenuanti baluginii del ballo e la paura di essere accompagnate dall’anziano chaperon, nell’incomunicabilità tra le generazioni e lungo il rimprovero dei pedagogisti cattolici.
Più che mai a quest’altezza si avverte nell’educazione la propensione manichea, distante dalle tensioni in cui andava rimodellandosi il presente, riuscendo con difficoltà a formare i ragazzi con moderato acume e nell’ascolto dell’opinione altrui; «tollerate molto le loro dissipazioni»52 aveva ingiunto don Bosco ai maestri, logicamente nell’intesa dell’osservanza di regole e buoni costumi. Come ormai sappiamo, tra i colpevoli chiamati in causa vi sono anche i teatri, giacché «se usate alla Messa, alla predica, ai Sacramenti, il mondo dirà che siete bigotti; se frequentate gli spettacoli, i divertimenti, i balli, dirà che siete leggieri»53. I manuali educativi cattolici rispondevano alle nuances mondane con capitoli appositi sul ballo e, per via di indagini sul versante francese, pare che i teologi fossero impegnati in particolare sul valzer, pericoloso senz’altro nella pratica, di più forse in merito alla quaestio di un’equivalenza con il peccato mortale. In tale temperie, fecero capolino posizioni più indulgenti, che riconsideravano i «balli con volteggio» mitigandone la gravità anche in base ad interessanti note sociologiche, nella convinzione «secondo cui meno si padroneggia la tecnica, più è difficile provare piacere ballando»54.
Il fascismo avrebbe assecondato la Chiesa in questi timori, anzi li avrebbe cavalcati, associandoli a una politica xenofobica travestita di moralismo verso i divertimenti di sponda avversa. Nei nostri dizionari, ad esempio, si italianizzava il music-hall, mettendo in guardia che quei locali «servivano di pretesto a intrighi e stravizzi. Vi strepitavano mènadi e coribanti, e vi “agivano” le così dette chanteuses […,] divettes e soubrettes», ma rassicurando che si trattava «di cosa che in Italia è finita (almeno nella sua forma illecita e triviale)»55. Da parte loro, gli intellettuali governativi – come Guido Milanesi – sciorinavano letteratura d’avventura e moraleggiante in ambientazioni sempre più multietniche, fatta di una gioventù carpe diem aggrappata agli svaghi da baccanti, tra rumbe, quadriglie e tanghi, su cui s’inscenava la reprimenda severa del religioso al cospetto dell’aria sardonica e canzonatoria del giovinastro di turno: «– Parli in latino, parli in latino, reverendo: è la lingua che il diavolo comprende meglio – disse in francese. – Provi un “vade retro, satana” –»56.
Sul rapporto tra educazione e musica, si è già considerato in altra sede come i libri di scuola del periodo fascista testimoniassero il vulnus musicale precedente.
«al pedagogista Giovanni Calò, che nel consigliare un salutare allargamento del concetto di “testi classici” menziona di tutto fuorché la musica: “oratori, matematici, filosofi, medici, storici, poeti, scrittori d’architettura e di culinaria, scrittori cristiani, fonti giuridiche, giurisprudenza … Ahimè!”. Quell’amnesia era paradigmatica del confino musicale; in fondo Calò “dice chiaramente quel che meglio sta o più facilmente può venire a galla nel ‘lago culturale’ dello spirito italiano. Tutto, fuorché la musica. È un pesce morto ormai giacente nel limo, questa”»57.
Anche nella scuola tra i due secoli i manuali di ‘patrie lettere’ erano stati parsimoniosi verso argomenti e personaggi musicali. Tra questi ultimi uno dei più esaltanti fu Palestrina, che si avviava a prolungare la ricca recezione ottocentesca58. Aprendo una crestomazia della tipografia salesiana59 vi troviamo l’ode La musica di Palestrina, scritta da Francesco Zanetti, un minore carducciano prossimo a Pio X. Palestrina appare come campione della musica per la liturgia, la «sonante preghiera cristiana» con cui «Palestrina avanza il pallido volto divino». Per il resto – fermandoci ai poeti contemporanei – di Pascoli si sceglie La chiesa, in cui a funzione finita «Il rombo delle pie laudi nell’aria palpita ancora»; di Nencioni leggiamo Dopo una sinfonia di Beethoven, tutta un agitarsi di sentimenti sollecitati anche «dagli organi devoti in Chiesa Ispana»; ancora organi e laudi in Musica sacra e In duomo di Giovanni Marradi; e via dicendo tra omaggi alla Beata Vergine e alle campane, alla mamma e agli umili.
La manualistica morale, tanto per cambiare, non trovava sostentamento dalla musica, puntando semmai verso esempi edificanti tratti da santi e venerabili figure, tra scienze letteratura e arte, da proporre ai giovani come esempi di fede.
In città l’apprendimento musicale per professione o diletto dipende da un’idea della musica come ‘lusso’ e ornamento superfluo, non inseribile nel progetto di un investimento culturale qual è assegnato ad altri campi di docenza come lingue, scienze, lettere, ecc. E ciò inequivocabilmente in campo femminile60.
La musica, pur se difficile e per pochi, rientra tra le «convenienti, buone piacevoli occupazioni», relegata però nelle scuole statali entro una mera professionalità pratica e tecnico-artigianale «senza sapere»61: «un pianoforte, una macchina da cucire, un piccolo banco da falegname, uno strumento musicale, produssero in certi casi ottimi effetti»; «buon rimedio sarebbe lo sport, il gioco all’aperto; anche la musica (sezioni musicali dei circoli giovanili) può fare ottimo effetto»62. Così confezionata, la musica protegge, soprattutto nel ‘periodo della crisi’ giovanile, quando i ragazzi volano con la fantasia tra poetare, perigliosa lettura di romanzi e irrazionalità musicale. Eppure, quando si vagheggia sul daimon artistico, altrimenti romanticamente ‘dannato’63, la posizione cattolica sulla stravaganza è sorda ai timori educativi e può comportare idealizzazioni formidabili, come per la devozione del diafano genio chopiniano: la sua diventa «la vita di un eroe, di un genio o di un santo […] in modo che l’azione, l’arte o il pensiero, diventano per dir così le realizzazioni materializzate delle vibrazioni delle anime sovrane». Chopin vi attua la sua catarsi un poco per volta, passando – recita Salvaneschi64 – dalla patria agli amori, alla malattia e finalmente alla «sete dell’infinito»; ecco allora una profondità misteriosa che, soprattutto mediante il viatico del dolore, quasi tocca gli angeli e sale a Dio.
Nel cecilianesimo a cavaliere del secolo, sotto la direzione di Amelli (1880-1885 nella «sua diletta Milano» e 1905-1909) – a cui sarebbe succeduto (1909-1922) il gesuita Angelo De Santi –, la condotta riformistica rimase coerente con lo spirito ardito delle fasi iniziali. Punti chiave furono un respiro associativo europeo e il lungimirante sostegno al gregoriano dell’atelier di Solesmes presieduto da dom Pothier; in altri termini, dapprima l’impronta istituzionale di Ratisbona e Malines, poi l’intuizione della valenza del ‘gregoriano riformato’ solesmense, il cui sostegno al congresso di Arezzo nel 188265, profetico quanto incauto, causerà ad Amelli quelle inimicizie e incomprensioni – gli ‘untori’ lo avrebbero bollato come duce degli «scismatici di Arezzo»66 –, che avrebbero affrettato il suo primo ritiro nel 1885. Quel che tuttavia non poterono i gelosi oppositori fu la cancellazione di un rinnovamento la cui fase amelliana al momento del motu proprio di Pio X avrebbe risaltato presso la critica più avveduta come un’autentica «rivoluzione artistica»67.
Proprio quest’ultimo fattore non va sottaciuto, perché è l’indizio più prezioso di una parabola riformistica in rapporto alla fede vissuta, al di là dei pesanti condizionamenti dovuti ai ‘mestieranti’ imboscati nel vastissimo novero di cappelle musicali e scholae, che «spiccano per dilettantismo e la pigrizia dei maestri di coro»68.
Il severo giudizio sul Catechismo di Pio X si è irradiato anche nella valutazione della sua riforma musicale. Bisognerebbe capire, tuttavia, che l’obiettivo a cui quelle regole tendevano è inciso nel suo magistero, incluso quello sull’introspezione di gregoriano, polifonia e organo rinnovati69.
La disamina storico-critica del cecilianesimo mostra tuttavia una riforma non troppo incisiva oltre il circolo degli adepti; le applicazioni del motu proprio di papa Pio X del 1903-1904, soprattutto le direttive sul vetus sonus, dovettero imbrigliarsi in una fronda vescovile-diocesana, senza particolari colpevoli o tiri mancini, ma sistematica nelle conseguenze complessive. L’impulso riformistico, nel passamano di diocesi e parrocchie, fu indebolito da omissioni e diffidenze spesso forgiate sulle vecchie consuetudini sopra descritte; e nonostante fosse avvenuto il riassetto di seminari e collegi, oltre al tentativo da più parti celebrato sia di un aggiornamento dell’antica polifonia teso a superare il mero esercizio stilistico sia di un gregoriano popolare.
A quest’ultimo riguardo, certa divulgazione cattolica, pubblicizzando quasi trent’anni dopo l’efficiente qualità della nazione italiana, si avventurava in orizzonti utopistici. Mi riferisco a un racconto morale per adolescenti ambientato nelle Alpi Retiche, impenetrabili a ogni mondanità e forse anche per questo qui divenute fondale artefatto di un gregoriano idealmente democratizzato:
«Nella Messa cantavano tutti. Gli uomini, mettendo nei Kyrie tutta la forza delle loro voci poderose, facevano tremare la Madonna nella sua nicchia aperta in fondo all’abside […]. A Messa finita, il prete rientra; ma il popolo non si muove. Padò il fabbriciere, dal coro, apre le tende rosse a guardare la folla e dopo un attimo di silenzio intona l’Angelus Domini, a cui rispondono tutti»70.
Verità è che quelle musiche faticavano a divenire pratica diffusa, incuneate com’erano dall’immaginario d’un monachesimo che ancora ne rimaneva esclusivo interprete. Tale spirito ascetico elevava le anime e provocava una crisi di rigetto, che è chiara per esempio in un racconto su Montecassino di Brocchi, scrittore di forte propensione socialista: la salita ai luoghi di Benedetto e Scolastica lo avvicinano a Dio quasi fino alla vocazione; è l’antico e ancora penetrante fascino del cenobio (per codici, architetture, canti e preci odorosi del coro ligneo), che comanda al suo cuore «come il Tempio del Santo Graal dominava il Castello di Klingsor», ma apparendo infine un mero ‘sogno’ da cui ritrarsi:
«importava non perdere il treno, e giungere d’improvviso a Milano per accertarsi cautamente che il suo sogno era stato un assurdo, stupido, sacrilego sogno che non si poteva neppur confessare d’aver sognato, senza impallidire di vergogna»71.
Il beato dialogo dell’autore con l’abate cassinese si era volatilizzato, al pari dell’angelico gregoriano di Pio X nella comune liturgia. Entrambi sogni, dai quali una Milano qualunque avrebbe subito fatto svegliare.
Mentre l’abbraccio mistificante del fascismo si ammantava di fumose componenti sovra-culturali dovute a storici come Balbino Giuliano – che a Milano, a pochi giorni dal Natale 1931, «pronunzia una elevata dissertazione sul concetto di Mistica del Fascismo»72 –, la liturgia era in marcia di avvicinamento al regime, indossando sempre più cerimonialità estetizzanti e divise musicali fatte su misura del provinciale ‘Genio italiano’. Mescolandoci tra i fedeli, le domande partono da impulsi terra terra. Prendiamo la messa festiva. Fino a che punto la distrazione e il chiacchiericcio in chiesa – delle massaie, i cui doveri non conoscevano domenica, o dei giovani, in questo bacchettatissimi73 – potevano anche celare l’inadeguatezza di una soporifera e incomprensibile azione sacra – tacciamo sulle omelie traboccanti retorica –, salvo quando una qual certa musica intervenisse? Complementarmente: l’hit music lacrimevole dei vari Schubert e Gounod ha modificato l’allergia delle classi povere verso l’ultima messa di domenica mattina, quella mai démodé del lusso ostentato74? Tra l’altro, fungendo spesso da passe-partout tra ruralità e alta società (lo stesso Panis angelicus di Franck calpestato in campagna è tra i canti del celebre tenore Tito Schipa per il matrimonio a Milano di uno dei figli del gerarca fascista Starace75).
L’identità corale e massificante dell’ideale littorio, dai balilla alle camicie nere, trova sintonia in un vissuto religioso espresso su dimensioni altrettanto collettive, di cui la schola è un fenomeno correlato. Questo appare nelle sillogi corali ispirate a una tattica educativa che è apodittica fin dai titoli; si veda quella a cura di Schinelli, uscita a Milano nel 1924 per l’editore Signorelli, su incarico del ‘Gruppo d’azione per le scuole del popolo di Milano’: Canzoniere del popolo italiano. 212 canti corali. Scherzi, giochi, danze, canti ginnastici, ecc. affetti, canti della natura, canti patriottici, canti dei soldati, canti regionali, canti religiosi, cori d’opere teatrali per le scuole elementari, per i corsi integrativi e per gli istituti magistrali. La terza edizione, per la milanese ‘Alba’, sarà ancora più fitta di canti e amplierà il raggio d’adozione scolastica su certificazione ministeriale: Canzoniere del popolo italiano. 235 canti corali […] per le scuole elementari, per le scuole d’avviamento professionale, per gli istituti magistrali e per società corali. Approvato dalla Commissione Ministeriale. Non si lasciò certo scappare l’affare l’editore Ricordi, e nel 1923 uscì infatti Cento canti popolari ordinati per tre e quattro voci ad uso dei cori misti senza accompagnamento, articolato in cinque sezioni tipiche, chiavi con cui aprire ogni porta di educazione e fede precostituite: «I. canti religiosi e morali | II. per varie solennità | III. canti giovanili | IV. canti patriottici | V. canti sulla natura». Vi si specchierà fedelmente il pacchetto dello svago musicale anche a guerra finita: nell’antologia curata da Piglia nel 1951 per le edizioni del noto ceciliano Casimiri76, troviamo canzoni militari e bacchiche; romantico-amorose, nei campi, sull’aia; buffe, grottesche, storie, filastrocche, canzoni a danza; ninne nanne, stornelli.
Altro angolo visuale è quello dei bei libri a tagli rossi dei canti di chiesa. Qui il mutamento è meno marcato quanto alla tradizione latina (quasi costantemente estrapolata per la monodia dal solco gregoriano, oppure polifonica da due a quattro voci raramente non omoritmiche), più indicativo invece nella mobilità del repertorio su testo italiano: si veda in merito la Tavola sinottica (vedi sezione Tabelle), svolta su quattro antologie per coro, una del primo Novecento (impostata sul repertorio gregoriano o nelle classiche 4 voci per le poche necessità in italiano), una del periodo fascista (appositamente non la più nota, curata da Rostagno77), confrontate con un terminus post quem distribuito su due pubblicazioni78, in cui si noterà la progressiva crescita dell’italiano per numero di canti e varietà liturgica, con grande attenzione alle ricorrenze mariane.
In via generale, uno dei vettori della musica continuava ad essere il movimento di idee che attraversava i salotti europei, uno dei palcoscenici del dialogo tra fede e laicità in musica che in Italia la cultura liberale svolgeva entro una sorta di ‘panteismo’ giocato su nobili e raffinate aperture cattoliche. Si veda il ritratto, dedicato al colto giornalista Carlo Placci, «buon cattolico» e wagneriano convinto, che avvicinava «ministri, cancellieri, ambasciatori e nunzi»79.
È tuttavia il confronto tra donna e famiglia a tener banco. Già gli anni precedenti al fascismo presentano una società italiana in cui l’emancipazione femminile inizia a contrapporsi alla figura della donna cattolica, all’insegna di proclami del tipo «e non pretenderete che noi facciamo come le povere fanciulle che vanno ancora a messa, e fanno il bucato, e attendono in casa con rassegnazione lo sposo»80. Questa incipiente nemesi non si capirebbe del tutto se non tornassimo al punto di partenza, l’archetipo domestico pre-risorgimentale, diffuso anche tra le nobildonne.
Se volessimo ritrarre il carattere femminile, quasi non basterebbero come modello le tante Signorine di Panzini, tra damigelle che mirano l’innamorato «tutta la sera, mentre suonavano Strawinski», o sciantose e saccenti, fino alla smorfiosetta «confessione della studentessa», fatta su consiglio della nonna solo per scaramanzia prima degli esami, che lascia il «pretino […] come paralizzato»:
«– Ma lei è cattolica?
La domanda sorprese la giovinetta come fosse stata fatta in una lingua lontana. Un piccolo corrugare delle ciglia come per ricordarsi.
– Ah, sì, sì. Questo! Così si dice: cristiana-cattolica. Mia nonna è terribilmente cristiana-cattolica. Conta anche il tempo con le preghiere: “il tempo che ci vuole a dire un credo e tre avemarie”; e questa cosa fa molto ridere [...].
– La nonna ha detto anche un’altra cosa. Ah, sì! La benedizione.
Si levò, si accostò con quella sua testolina per farsi benedire. Ma il pretino fece un gesto appena per aria, e disse: – Assolvo, assolvo, basta che lei se ne vada!.
Allora ella riprese il suo dizionario e la sua carta, e passando l’un piedino dietro l’altro, fece l’inchino come in un ballo.
– Buon giorno, grazie, signore»81.
È evidente la teatralità della devozione giovanile, «come in un ballo» e così sbarazzina, capace di essere fiorita-odorosa nell’incantevole maggio pur nel tedio delle preci mariane. Da questa condizione all’inflessibilità delle beghine – per alcuni represse croniche, per altri ultimo baluardo della fede82 – vi stanno anche la gamma dei gusti musicali sacri, da quelli appena sbocciati alla masticata tradizione.
Il contrasto con le nuove generazioni femminili si faceva evidente, soprattutto sul percorso della famiglia, propagandato dalla Chiesa su canoni fissi con effetti durati decenni.
I piccoli sono i comuni fedeli perlopiù giovani, che in campagna sentono meno il vezzo della modernità, facendosi più malleabili ai dettami educativi, vista anche l’ingenuità con cui i genitori valutano le vanitates e, più in città e per le figlie, applicano lo strumento del dorato ritiro domestico. Su questo versante occorre recuperare il sempre attuale impianto educativo-culturale di don Bosco. Durante il Ventennio, molti e molti giovani sembravano ancora quelli folgorati dal sacerdote piemontese, quando gareggiavano nell’onorarlo con canti popolari; questi stessi avrebbero prefigurato la volgarizzazione del repertorio, il suo modellarsi al gusto condiviso – che le masse avrebbero incarnato – di un’educazione nell’allegrezza, in cui la musica trasmette le ‘regole auree’ dispensate ai ‘figli del popolo’. Ecco una scenetta gustosa descritta da un allievo dell’oratorio sugli effetti della spiegazione svolta da don Bosco sulle virtù del re Davide:
«Noi tutti esclamammo – Evviva D. Bosco nostro re! Detto fatto: i giovani più alti e robusti gentilmente sollevarono sulle spalle D. Bosco e lo portarono in trionfo per il cortile-giardino, e noi seguendolo in giro cantammo la canzone imparata in quei giorni:
Come augel di ramo in ramo
Va cercando albergo fido, ecc.
con immenso nostro, e forse suo, diletto»83.
Le campane poi, tratteggiano la dimensione ornante per natura e azione liturgica, tra canto e salmodia. Bozzetti come il seguente, sull'origine d'un santuario goriziano, si ‘ciclostilavano’ ad amplissimo raggio, sempre sull’ostinato motivo vesperale delle campane che «singhiozzavano quà, là, sui monti, da lungi e da vicino» e lontane «mandavano l’eco dell’avemaria»84:
«Ed ecco Monte Santo.
Un dì la gloriosa Madre del divin Salvatore scese sulla sua vetta e ne fece un santuario di pace: i boschi, su’ suoi fianchi, risuonarono d’un canto sacro, ed il mattutino gorgheggio degli uccelli armonizzò col suono dell’ave ed il devoto salmodiare dei frati»85.
Per il cuore dei giovinetti le campane vengono anche fatte cantare, magari al fine di nascondere il dolore per l’inspiegabile scomparsa di un coetaneo:
«Dal campanile la voce festosa dei bronzi insegue il singolare corteo, lo circonda con le voci liete e continue che folleggiano sulla valle: – Gloria! Gloria! Bettina è davanti a Dio! […]. Il corteo, colla croce dorata, [… è] seguito dal canto delle campane: – Gloria! Gloria! Gloria! Bettina va in cielo!»86.
È anche questa la fede in musica dei piccoli, nelle campane vicarie delle voci angeliche, su parafrasi di celebri agiografie, in tal caso della morte di santa Rita da Cascia. Tutto questo mentre ai piani alti si nazionalizzavano a più non posso santi e grandi uomini, tra i quali brillava il ‘nostro’ Guido Aretinus, che i francesi volevano sottrarci, o nientemeno che Pitagora, di cui stavolta eravamo noi i ladri87.
Nell’Italia risorgimentale, rovistando dentro il baule di annuari, strenne e libretti storico-statistici per famiglie, non si trovano in genere spunti d’incontro con le confessioni cristiane protestanti. Chi erano quegli adepti? Presto detto: «i forestieri, per l’ordinario sono inglesi, o ginevrini, o quelli che in Piemonte si chiamano Barbetti [i valdesi]. Gl’Italiani per lo più sono o settarii, o preti e frati apostati e rinnegati, od infine giovinastri scapestrati già stati sedotti essi medesimi»88.
In realtà per la storia della musica sacra protestante89, rimane senz’altro caratterizzante l’intento di modellare le raccolte dei canti sullo spirito della partecipazione assembleare. Un manualetto di fine Ottocento dalla Svizzera francese «pour les assemblées d’alliance évangélique, de mission, d’évangélisation et autres», tende a variare ed arricchire lo stretto «caractère ecclésiastique» con nuovi innesti entro una tradizione non certo di miope autoreferenzialità, visto che «nous avons fait une large place aux cantiques anciens, publiés dans les recueils des diverses Églises. Ils ont acquis droit de cité dans nos assemblées chrétiennes, et sont connus et aimés de tous»90. Il che, andando per autori, significava da Händel, Haydn, Mozart, Mendelssohn a Lutero, Vulpius, Malan, Bost, agli anonimi d’arie antiche/popolari e melodie tradizionali interne. Tutti canti su testo volgare, secondo un abito che solo in tempo di Seconda guerra la Santa Sede intenderà come «vero apostolato» (escluse parti quali il Proprium per le solennità, pontificali o popolari che fossero).
Un tal legame tra passato e novità non ha mutato i criteri di compilazione di innari e di raccolte canore devote più recenti, dove «la modernità, l’attualizzazione delle melodie è garantita», fino a rivisitare Fabrizio De Andrè91. È il caso valdese, generalizzabile alle opzioni delle confessioni non cattoliche, soprattutto – va ribadito – nella riformabilità prudente del repertorio musicale, che già prima del Risorgimento italiano gli scrittori ecclesiastici registravano «tra tutti i cotestoro errori», usando quell’accento sprezzante sopra motivato.
L’inquisizione educativa sopra descritta sarebbe risultata sempre più inattuale nella sua immobilità etico-pedagogica fino almeno agli anni Cinquanta-Sessanta, anche se è evidente che un Dna parrocchiale che a ben guardare teneva a battesimo i primi balbettii della moda dilagante di una Caterina Caselli o il pigolare della futura audacia di un Pasolini, la cui vita artistica fu tutta «al ritmo dello stigma della sonorità. Dai canti dei giovani nei paesi contadini, a quello nelle parrocchie a quello inconfondibile delle donne, a cavallo tra la fine del fascismo e il dopoguera»92. Ormai la saga degli Armstrong, Presley e dei Rolling Stones, anche nelle periferie aveva affabulato i giovani, che mal sopportavano «l’odore di muffa» dell’istruzione musicale dispensata dalla Chiesa, ancora intenso in questo beffardo ricordo di un ritorno all’istituto da un saggio musicale:
«Il vecchio portone di legno è così vicino, adesso, che i ragazzi fiutano l’odore di muffa della clausura. Ancora duecento metri, calcola Bruno contando i passi: e attacca un “madrigale” che attribuisce a un anonimo del ’600.
E sempre allegri
non si può stare
ma nemmeno malinconia
va’ a ramengo morosa mia
che in America voglio andà.
Quando il portone si spalanca, c’è suor Agnese, la più anziana di tutte, a far da guardia […]. Quando apre la bocca, il suo volto di cuoio bruno essiccato dalle fiammelle dei ceri diventa una ragnatela di grinze e rughe, da cui emergono però il sorriso della fiducia in Dio e la certezza del paradiso.
– Com’è andata figlioli?
– Oh, madre, el gà sonà divinamente, specie nella seconda parte.
– Un grande.
– Un Dio!
– Buonanotte figlioli.
– Buonanotte santa madre»93.
Vero è che la Chiesa del dopoguerra si mosse nell’improba mediazione tra tradizionale moralismo e prudente massificazione, sollecitata a un indirizzo più netto con e dopo il Vaticano II, soprattutto nella Sacrosanctum concilium di Paolo VI (1963) che, va sottolineato, posizionava su novelli desideri e contesti una richiesta al laicato già di Pio X e Pio XII94. Sullo ‘sguardo aperto’ conquistato da Giovanni XXIII avrebbe subito tirato il vento della contestazione sessantottina. A un sussulto ideologico così scioccante, la Chiesa reagì con una ‘ossessione per il consenso’, nella cui ricerca si sarebbe modellata anche la strategia musicale. Così pare stessero le cose:
«“Siamo dei contestatori”, disse Paolo VI esortando il suo “gregge” a rivolgere l’attenzione alle sollecitazioni dei non credenti. Attenzione necessaria e vitale per una Chiesa ancora impastoiata nelle polemiche controriformistiche e paleoclericali ereditate dal secolo precedente. Un’attenzione presto confusa, tuttavia, da una “ossessione per il consenso” non ancora completamente guarita, forse, nonostante lo sforzo spirituale e intellettuale di Benedetto XVI e la santità carismatica di Giovanni Paolo II»95.
Dunque, la linea spartiacque a cui di norma si associa il ruolo del Vaticano II andrebbe dilatata a simili componenti, imprescindibili in ordine al cruciale confronto liturgico-musicale tra globalizzazione e stylus antiquus96.
Pur muovendoci su altri piani, non dimentichiamo che il dirompere dei conflitti socio-antropologici e culturali (con in testa la musica) di queste generazioni ha costretto gli studiosi a faticosissimi affreschi di simbologie97. Per esempio a fine anni Sessanta, sul versante politico-culturale laico, mentre i giovani si sedevano sulle scalinate delle chiese con la chitarra in mano, il gregoriano ‘era’ la vituperata Chiesa ufficiale in uno spettacolo-manifesto come Mistero buffo (1968-1969) di Dario Fo, che ambienta la dissolutezza di Bonifacio VIII nell’insensato gramelot salmeggiante, innalzando così il gregoriano a colonna sonora della temporalità papale antica-attuale processata dal Sessantotto. Ma prima e dopo quell’etichetta di Chiesa = individualità borghese (che al di là di tutto liberò un’inventiva musicale nuova anche in parrocchia), l’antico canto era e sarebbe rimasto un insopprimibile scavo dell’anima: nello stupore raffinatissimo di Simone Weil e Cristina Campo, altrettanto pregnante nella poetica artistico-musicale odierna, porgendosi a eteree confessioni, dall’Officium di Jan Garbarek (1994) alle Tenebrae di Guarnieri (su testi di Massimo Cacciari, 2010); come anche nell’impressione diffusa e comune di molti fedeli di mezz’età, impauriti di esserne privati:
«È un brano della stupenda sequenza di Tomaso da Celano “Dies irae” che, dai tempi medioevali fino a qualche tempo fa, la Chiesa cantava in latino nelle Messe dei defunti; oggi la si recita, non sempre, poveramente tradotta, in italiano. Privata così del fascino della lingua latina e dell’emotività del canto gregoriano, mal si sfugge al profondo tedio che reca il sentire la massa dei fedeli sillabare una nenia che nulla ha più della solennità descrittiva del dramma ultimo di ognuno»98.
Questa istantanea bolognese dagli anni Settanta rappresenta un filone ancora agguerrito99, la cui giustificata severità parve ai suoi tempi un déjà vu ottocentesco. Oggi però la sua valenza rischia di essere scambiata per quella di un predicozzo rispetto a testimonianze come questa dal chioggiotto:
«“La messa domenicale è vivacissima. Ci sono tutte le famiglie, i bambini e anche il coro, un coro splendido. Pensa che non predico neanche dall’ambone, ma in mezzo alla gente, per essere vicino a tutti e per tenere viva l’attenzione”» prosegue, mentre già immagino orde di chitarristi scordati e vedove dai lunghi baffi che incasinano la liturgia»100.
Rock e chitarra si stavano unendo in chiesa nella Guitar mass e i movimenti avevano adottato una vasta gamma stilistica dal frastuono della band al melodismo dolciastro, tra cui lo spopolare dei Gen, innovazione bifronte (verde e rossa) delle nuove GENerazioni focolarine, ancora oggi di penetrazione, insieme ad altri stili, cantautorali, del musical (come il progetto Nuova civiltà dell’Ordine francescano secolare) o del melodismo a presa immediata (nel Rinnovamento dello Spirito Santo, è il canto spolpato di ogni ‘intelligenza’ tecnico-compositiva, ostacolo tra ‘cuore’ e preghiera)101.
Logicamente a fine del secolo XX vige più la popolare concezione del secondo passo, rinforzata dalla schietta globalità alias transitabilità dei nostri giovani dai Carmina burana alla Misa criolla, al tifo da pop star per il commento-canto Abbà Padre di Giovanni Paolo II o per il gregoriano dei monaci di Silos. Un simile sfarfallare di fiore in fiore è incluso nell’indirizzo post-conciliare di sostegno alla musica tradizionale, che si sta sviluppando entro una complessità legata allo sfuocamento post-moderno e al confronto con le musiche di consumo contemporanee. I giovani ci vedono una linea fashion nuova e sincretica, allergica a teorizzazioni e steccati, che noi potremmo spiegare solo respirandone la viva fede, per la quale Benedetto XVI offre al Terzo millennio la messa in latino o benedice tra canti spirituali in salsa rock e pop vestendo un copricapo rinascimentale (d’eco palestriniana, quasi diremmo)102.
Anche sul versante musicale una storia-ponte sia necessaria per problematizzare almeno le ragioni dello stylus antiquus avanzato da Benedetto XVI, altrimenti fagocitabile per accusa e difesa entro semplificazioni rispettivamente arcaistiche e reazionarie.
Entrati nel Duemila, che il Vaticano II si stia facendo strada lo si vede anche dai contorcimenti sul ruolo morale della musica d’uso: forme prima rigettate come diaboliche vengono ripescate entro un processo di normalizzazione che ne ri-genera l’identità, soprattutto in merito ai vari volti del rock. A parte le messe-rock benedette da Giovanni Paolo II – di cui molti esempi sono attualmente ripresi sul web – e dopo innumerevoli sillabi di autori maledetti, nel recente presente vi è chi, tra i conservatori, sta iniziando a tracciare una linea di riammissione «dei nostri diavolacci rock e blues», a partire da Elvis Presley, in base a ragioni musicali e non di vaglio testuale. Ciò spiazzerebbe i luoghi comuni, magari però passando ad altri criteri un po’ banali, quali l’ossessività ritmica, che ingoia la melodia, o il ‘picchiare’ violento del volume come sinonimi di incomunicabilità, su cui ricamare.
La fede pratica non sta certo ad attendere una dotta vidimazione, affaccendata a riconoscersi anche al ritmo di un ‘rock liturgizzante’, che ha già generato il filone detto christian sound103.
Al di là di ciò, tuttavia, la medietà dell’animazione liturgico-musicale post-conciliare predilige elementari schemi melodico-armonici e per testo-musica, i quali più che l’indizio di ‘illetteralità musicale’ sono stati il filo rosso della inarrestabile trasformazione del gusto dal grave idioma mottettistico-corale in prevalenza sul latino di raccolte post-belliche come Mystica corale di Carrara (dal 1948) alle volgarizzazioni piacevoli capeggiate dal prontuario Nella casa del Padre della Elle Di Ci (dagli anni Settanta). In queste pagine, potremmo dire, il Vaticano II trova un momento strutturale della sua pastorale pratica, inoltrandosi in quella partecipazione fatta anche di stanca omologazione e di quelle sottoculture divenute ormai un baricentro semio-estetico irrinunciabile. Qui l’alto share è rapportato a una tipologia antologica che dà forma al presente, sempre in fieri nel suo sommario. Tuttavia, ormai da quarant’anni, il metti/togli dei foglietti mobili ha visto crescere un cantautorato liturgico, decantando un corpus classico guidato dal noto forlivese Claudio Chieffo, ormai imperdibile come un Händel o un Gruber.
Tralasciando le scholae famose, in una tal operosità non si contano oggi i cimenti discografici dei vari gruppi, per noi recettori di una medietà distribuita, ad esempio per l’inflessione neoromantica alla/di Frisina, ecc. Non sono che riposizionamenti di preferenze anni Settanta-Ottanta, perpetuate in raccolte-tipo per coro e organo, in cui gli interpreti medesimi s’infilano tra gli ‘obbligati’ Händel Marcello Albinoni e Franck Sibelius Elgar, passando dal tradizionale-popolare allo spiritual, alla miriade di autori particolari – Stella, Ortolani, Prati, Machetta ed altri – fino appunto al filone dei Chieffo104.
Siamo di fronte a un repertorio di vastità imprendibile, rispetto a cui sarebbe un grave errore tentare una tassonomia chiusa e uni-disciplinare: il «canto liturgico nella periferia della chiesa italiana», sconta l’assenza di una «storiografia della musica liturgica del post-concilio (tanto meno italiana)»105 che deve misurarsi con le rifrazioni tra musica e fede: liturgia d’arte o pop o animazione, tradizionalismo, linguaggio dei canti, neocecilianesimo, rock, canti tra prassi e pedagogia per comunità-assemblee, ecc.
Premonire un nuovo concilio è una provocazione messa in campo ormai con sollecitudine crescente, i cui paradossali pre-requisiti tuttavia, a furia di richiamarlo, si intravedono anche al nostro riguardo, soprattutto nel fatto che gli strabismi della fede musicale odierna – cibo dell’anima pur se teologicamente anemica – sono lo stesso multiforme volto della centralità liturgico-musicale: scenario nuovo, ma impensabile in discontinuità col Vaticano II, tale da richiedere negli studiosi – ingiungeva Lercaro di fronte alla parrocchia ‘sclerotizzata’ del Duemila – la «più dura delle esigenze: quella di una “metànoia” mai pensata o prevista»106, che per l’ineunte storiografia musicale postconciliare italiana sarà di non smarrire il senno e la fisiologia della musica sacra come luogo di trasmissione della fede.
1 Lo descrive G. Mameli, Un triduo prima del combattimento, «Il pensiero italiano», 2, 24 marzo 1849, p. 72.
2 E. Berselli, Il più mancino dei tiri, Roma 2010, pp. 26-27.
3 Ne è strumento utile C. Gennari, Quistioni canoniche di materie riguardanti specialmente i tempi nostri, Roma 1907, già l’anno dopo in seconda edizione «con giunte e correzioni».
4 Da una nota storia musicale sacra di fine Ottocento, di cui cito il più completo ampliamento sull’Italia, ad uno tra i più recenti e organici compendi: J.B. Katschthaler, Storia della musica sacra. Terza edizione italiana stereotipa con una nuova edizione rifusa e ampliata della storia della riforma ceciliana in Italia a cura di don Paolo Guerrini, Torino 1926; L. Garbini, Breve storia della musica sacra. Dal canto sinagogale a Stockhausen, Milano 2005.
5 B. Soffiantini, Il rapito. Romanzo per adolescenti, Padova 1937, p. 91; nostro il corsivo.
6 Specifico tema musicologico, pser es. affrontato da D. de’ Paoli, La crisi musicale italiana (1900-1930), Milano 1939, pp. 38-39.
7 I.M. Vigo, Cristina ossia Un tesoro all’imminente bancarotta sociale. Scene contemporanee, Torino 1884, p. 4.
8 Per le due citazioni cfr. G. Adami, Tre romanzi dell’Ottocento, Milano-Roma 1943, pp. 250, 192-193.
9 G. Dell’Arti, Pensare male di Camillo?, «La Stampa», 22 maggio 2010, p. 52.
10 P.A. Del Corona, La principessa Giulia Bertolini-Carrega. Memorie, Firenze 1909, p. 277.
11 Cfr. H. Du Mont, Messe royale avec accompagnement d’orgue par le dr. P. Wagner, Paris [190?].
12 Si veda la tavola inserita nella sezione Tabelle alla fine del II volume.
13 M.-Th. Bouquet, s.v. Du Mont Henry, in DEUMM [Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti, 16 voll., a cura di A. Basso, Torino 1983-1990], Le biografie, II, p. 577.
14 G. Mortarino, La parola di Dio per via di esempi. Esercizi spirituali e altri discorsi per i fanciulli e per la gioventù, Vicenza 1925, p. 493.
15 H. Delépine, Manuel de chant populaire pour la messe, les vêpres et les saluts, Arras 1905.
16 Cfr. Comunità dei monaci di Camaldoli, Salterio monastico, canto e preghiera, a cura di Th. Matus, Bologna 1993.
17 F. Chiesa, Alle donne cristiane. Conversazioni fra madri di famiglia, Roma-Alba 1930, p. 143.
18 G. Mortarino, La parola di Dio, cit., p. 486.
19 B. Fascie, Del metodo educativo di don Bosco. Fonti e commenti, Torino 1927, 195222, pp. 41-42.
20 Solenne consacrazione di un popolo a Maria Addolorata, «Giardinetto di Maria», 2 (serie 3), 1870, 4, coll. 115-116.
21 I due passaggi in B. Fascie, Del metodo educativo, cit., pp. 10, 15.
22 Ibidem, p. 41.
23 Si tratta del film di Lodovico Gasparini, con Flavio Insinna nella parte di don Giovanni, prodotto nel 2004 per la San Paolo Video.
24 P.A. Del Corona, La principessa Giulia Bertolini-Carrega, cit., p. 283.
25 E. Berardi, E. Graziani, L’uomo apostolico provveduto. Volume che contiene 17 prediche ad uso non solo di missioni, ma anche di quaresimali, avventi ecc., Faenza 1892, pp. 40-41.
26 G.B. Perenzoni, Un innamorato di Chopin. Romanzo del secolo scorso, Alba 1940, pp. 17-18.
27 I.M. Vigo, Cristina, cit., pp. 16-17.
28 La sovrana bontà del S. Padre verso i figli di don Bosco, «Bollettino salesiano», 46, 1922, 7, p. 173.
29 Festa. Segni sonori e forme vocali di tradizione, fra sacro e profano, nei contesti festivi di Messina e provincia, a cura di M. Sarica, G. Fugazzotto, CD Phonè GE007, Messina 2006.
30 Nella raccolta di G. Verga, Vita dei campi. Cavalleria rusticana ed altre novelle, Milano 1880, 19008, pp. 173-193.
31 A. Munthe, La storia di San Michele, Milano 1933, 195134, pp. 442-447.
32 Lettera di Celestino Mercuro ad Ambrogio M. Amelli, Badia di Montevergine, 2 gennaio 1907, Archivio della badia cassinese di S. Maria del Monte di Cesena.
33 Cfr. la descrizione in G. Adami, Tre romanzi, cit., pp. 238-239.
34 A. Melloni, Il canto liturgico nella periferia della chiesa italiana: problemi e casi di studio, «Musica e storia», 13, 2005, 3, pp. 471-488, in partic. p. 488; il saggio rientra negli atti del seminario della Fondazione Levi, La produzione musicale per la liturgia in Italia dopo il Vaticano II, Venezia 2004.
35 Si veda per esempio l’originale contributo di M. Beghelli, Strutture liturgiche nella retorica del melodramma, in Aspetti del Cecilianesimo nella cultura musicale dell’Ottocento, a cura di M. Casadei Turroni Monti, C. Ruini, Città del Vaticano 2004, pp. 109-135.
36 Citato in M. Casadei Turroni Monti, L’attività ceciliana di Amelli a Milano (1874-1885) dal suo epistolario presso la badia di S. Maria del Monte di Cesena, «Benedictina», 46, 1999, pp. 89-90.
37 L’insegnamento ateo giudicato da un frammassone, «Giardinetto di Maria», 2 (serie 3), 1870, 6, col. 188.
38 A. Fagioli, Fellini, i cattolici e la «Vita non dolce», «Avvenire», 7 luglio 2010, p. 31.
39 A. Bocci, I complici del regicidio e i cattolici conservatori in Italia, Pistoia 1879, Firenze 1885, p. 25.
40 F. Chiesa, Alle donne cristiane, cit., p. 470.
41 A. Muzzarelli, Delle cause dei mali presenti e del timore de’ mali futuri e i suoi rimedi. Avviso al popolo cristiano, Imola 1838, p. 171.
42 In G. Sabatini, Ai téimp dal pòver Scarabèll. Figure, fatti, minuzie del tempo trascorso narrati in dialetto bolognese da Gardenio Sabatini, a cura di G. Marchetti, Bologna 1973, p. 173.
43 G. Verga, Vita dei campi, cit., p. 179.
44 F. Chiesa, Alle donne cristiane, cit., pp. 240-241.
45 G. Mortarino, La parola di Dio, cit., pp. 521-522.
46 Si veda ad es. A. Cojazzi, I gruppi del vangelo, Torino 1927 (Biblioteca della «Rivista dei giovani», 6).
47 G. Papini, Passato remoto 1885-1914, Firenze 1994, p. 152.
48 G. Mortarino, La parola di Dio, cit., p. 438.
49 Ibidem, p. 489.
50 Memini (pseudonimo dell’autrice I. Benaglio Castellani-Fantoni), Vita mondana, Milano 1891.
51 Questa la prima edizione di Mondadori, su licenza Bompiani: R. Lehmann, Invito al valzer, Milano 1956.
52 Citato in B. Fascie, Del metodo educativo, cit., p. 94.
53 Per le due citazioni cfr. G. Mortarino, La parola di Dio, cit., pp. 456, 447.
54 Così il sacerdote faentino Emilio Berardi nel suo De recidivi seu occasionariis sulla casistica confessionale (almeno sei edizioni aggiornate dal 1873 al 1909), citato da R. Hess, Il valzer. Rivoluzione della coppia in Europa, Torino 1993, p. 268.
55 A. Jacono, Dizionario di esotismi, Firenze 1939, pp. 263-264.
56 G. Milanesi, Sancta Maria. Romanzo, Milano 1936, 194412, p. 16.
57 M. Casadei Turroni Monti, La musica “senza sapere” nella scuola italiana tra le due guerre, in Remus: Reggio Emilia Musica Università Scuola. Studi e ricerche sulla formazione musicale, Atti e documentazioni del III e IV Convegno-concerto, anni 2006-2007, a cura di A. Coppi, Perugia 2008, pp. 245-246.
58 Si veda La recezione di Palestrina in Europa fino all’Ottocento, a cura di R. Tibaldi, Lucca 1999.
59 A. Equini, Letture poetiche italiane ad uso delle scuole ginnasiali, normali, tecniche e complementari, Torino 1899.
60 «Imparare a suonare e cantare per mestiere, cioè per andare poi nei caffè, teatri e simili, no assolutamente. Imparare per insegnare e diventar professori di musica, piano forte, violino ecc. si fa bene, quando abbiano le qualità che promettano una seria riuscita. Imparare invece per puro diletto, è cosa da giudicarsi caso per caso, a seconda della condizione della famiglia, del tempo disponibile, e dell’inclinazione della figlia, nonché dell’utilità che se ne può trarre. È una cosa di lusso o, almeno per noi, non comune, come per una donna portare il cappello, il manicotto», F. Chiesa, Alle donne cristiane, cit., p. 232.
61 Definizione assunta dal titolo di M. Casadei Turroni Monti, La musica “senza sapere”, cit.
62 Le due citazioni da F. Chiesa, Alle donne cristiane, cit., pp. 176, 202.
63 Si veda il cliché della diabolica estrosità paganiniana, ad esempio in Heine, H. Heine, Le notti fiorentine, Roma 1992, pp. 30 segg.
64 N. Salvaneschi, Il tormento di Chopin, Milano 1934, 19418, pp. 224, 228-229.
65 Se ne veda la ricostruzione fatta da P. Combe, Histoire de la restauration du chant grégorien d’après des documents inédits, Solesmes 1969, pp. 102-103.
66 Questo giudizio durissimo ebbe tra i responsabili il card. Bartolini, prefetto della Sacra congregazione dei riti, che già quattro anni prima aveva bloccato in modo intransigente i primi malumori contro le edizioni ufficiali di Pustet, antitetiche alle elaborazioni solesmensi, come si vede in F. Rainoldi, Sentieri della musica sacra dall’Ottocento al Concilio Vaticano II. Documentazione su ideologie e prassi, Roma 1996, p. 202. Amelli ricorderà ancora questa ferita vent’anni dopo (cfr. A.M. Amelli, L’apostolato della musica sacra nel secolo XX. Visione nel XIII centenario di san Gregorio Magno, dal 12 marzo al 12 aprile 1904 per un solitario, Montecassino 1904, pp. 3-4), quando la sua allegorica ricostruzione arriverà al futuro Pio X: «Oh dolce visione! Al suo primo apparirmi d’un insolito sussulto palpitommi il cuore, e una voce amica parea mi dicesse: “Ti conforta, è uno del bel numero degli aderenti di Arezzo! Ei laverà alfine l’onta di scismatico gratuitamente inflitta”».
67 Valetta (pseudonimo di G.I. Franchi-Verney, conte della Valetta), La musica nel santuario da Gregorio I a Pio X, «La Nuova antologia», 1904, p. 522, n. 1.
68 M. Casadei Turroni Monti, Cenni sulla condizione delle scholae cantorum italiane nel primo Novecento, con riferimento ai giorni nostri, in Remus, cit., p. 153.
69 Per uno sguardo d’insieme, dal colto al popolare, per gregoriano polifonia ed organo si vedano i capitoli di M. Sablayrolles, Il canto gregoriano, e F. Raugel, M. Mignone, Il canto polifonico e la musica sacra nella liturgia, in Enciclopedia liturgica, a cura di R. Aigrain, Alba 1957, pp. 372-437.
70 G.R. Bodini, La Madonna del Lago, Roma 1938, 19514, pp. 40-41.
71 V. Brocchi, Immedesimazione, in Gioia di raccontare. Due romanzi, Milano 1935, pp. 153-194: 194.
72 Dal periodico L’antico Vesta-verde. Almanacco-annuario 1933, Milano 1932, p. 144.
73 Tra le tante attestazioni, cfr. G. Mortarino, La parola di Dio, cit., passim, soprattutto pp. 79, 487.
74 Una colorita circostanza nella Cesenatico degli anni Trenta, in occasione di un matrimonio nella «messa delle 11, quella che era frequentata dall’élite paesana, ma che la povera gente disprezzava e chiamava “la Messa, di Sgnùr, di padrùn e dal putèni”. Ferrer accompagnato all’organo da Eliseo Ceccarelli suonava l’Ave Maria di Schubert, Gounod, l’Adagio di Albinoni e il Largo di Haendel coi fedeli rapiti dalla dolcezza delle esecuzioni. Sì, si andava alla cerimonia matrimoniale di quella messa si può dire per ascoltare Ferrer suonare il violino», L. Maltoni, L’usignolo di Cesenatico. Ferrer Rossi: un genio, un portento, «La Voce», 14 marzo 2010, p. 26.
75 Di questa esecuzione, con Goffredo Giarda all’harmonium, vi è una rara foto su «Il gazzettino illustrato», 17, 3 ottobre 1937, 40, p. 12.
76 Dai monti al mare. Le più belle canzoni d’ogni regione e d’ogni età per una voce media (con II voce ad lib.) a cura di E. Piglia, Roma 1951.
77 Anche in tal caso ne sapremo qualcosa di più dal confronto tra due titoli di tale compilazione: Il Parrocchiano cantore. Manuale contenente gli esercizi di pietà del cristiano, i canti collettivi per la partecipazione del popolo alla messa letta, alla messa solenne, al vespro, alle funzioni rituali in genere ed alle pie pratiche di devozione. 5° edizione nuovamente riveduta, corretta ed ampliata, a cura di G.I. Rostagno, Torino 1924; Id., Il Parrocchiano cantore. Manuale per la partecipazione collettiva ai canti della liturgia. Opera completa: Kyriale. | Graduale e Vesperale delle domeniche e feste di I e II classe. | Canti vari, Torino 1938.
78 Legenda: PC (1914) = F. Ercoli (curatore), Preci e canti (grande). Vade-mecum per l’assistenza e l’accompagnamento delle sacre funzioni. Rito romano, Milano 1914; CP (1930) = S. Ferro (curatore), Il Cantorino parrocchiale. Libretto di preghiere e di canti spirituali per il popolo. Manuale indispensabile ai fedeli, pel canto collettivo nella messa cantata, e nel vespro, e nelle funzioni di chiesa in genere, Genova 1930?; MD (1956) = Manuale diocesano a uso dei sacerdoti e dei fedeli [Parte prima: sacre funzioni – mottetti per la s. messa, canti al Signore, canti alla Madonna, canti per devozioni e circostanze particolari, canti e preci per alcune occasioni straordinarie, appendice: canti popolari], Firenze 1956; CS (1957) = Vito da Bondo (pseudonimo di V. Carrara), Coralino di “cantica Sion”. Manuale di canto sacro per i fedeli, Bergamo 1957.
79 G. Papini, Passato remoto, cit., pp. 140-142.
80 A. Panzini, La signorina in attesa, in Id., Signorine, Milano 1926, p. 223.
81 Per le due citazioni cfr. A. Panzini, La confessione della studentessa, in Id., Signorine, cit., pp. 257, 264-265.
82 Il primo caso è quello tipico: «intorno al confessionale, il popolino delle donnette, pronte a prendere i primi posti, attaccabrighe, facce beghine, sguardi a due a tre scatti; labbra santamente serrate o segnate da una cattiva piega», G. Bernanos, Sotto il sole di satana, Milano 1957, p. 170; il secondo caso rimanda ad un timoroso Emilio Cecchi, sovvenzionato dal fascismo, che «è ossessionato, letteralmente, dalla paura della Russia [… che] invaderà l’intera Europa e ne distruggerà per sempre la civiltà: “Si salverà”, continuava a ripetere, “qualche briciolo di fede cristiana, in qualche vecchierella che biascicherà il pater a ginocchi…”», P. Mieli, L’Italietta intellettuale a libro paga del Duce, «Corriere della sera», 1 giugno 2010, p. 39).
83 B. Fascie, Del metodo educativo, cit., p. 90.
84 Cfr. L. Zuccoli, La freccia nel fianco, Milano 1913, 1944, pp. 288, 48.
85 B. Soffiantini, Il rapito, cit., p. 166.
86 G.R. Bodini, La Madonna del Lago, cit., pp. 74-75.
87 S. Muzzi, Vite d’italiani illustri da Pitagora a Vittorio Emanuele II, Bologna 1870.
88 G. Perrone, Catechismo intorno al protestantesimo ad uso del popolo, Ancona 1854, p. 37.
89 F. Körndle, La musica sacra del Sei e Settecento nelle tradizioni cattolica e luterana, in Enciclopedia della musica, diretta da J.-J. Nattiez, IV, Storia della musica europea, Torino 2004, pp. 552-568.
90 Chants évangéliques, Lousanne 1885, 18955.
91 Befane-rock. Nuove tendenze musicali nelle chiese valdesi, «Il Peccato», http://www.peccato.org/valdesi/valdesi12.php (20 ott. 2010).
92 G. Perrone, Catechismo intorno al protestantesimo, cit., pp. 95-96.
93 M. Fumagallo, Pasolini, l’arte dell’usignolo, «Alias», 13, 2010, 25, p. 13.
94 E. Mo, Ma nemmeno malinconia. Storia di una vita randagia, Milano 2007, p. 63.
95 Cfr. A. Saberschinsky, La liturgia, fede celebrata, Brescia 2008, pp. 210 segg.
96 G. Battioni, Il Concilio Vaticano II “tradito” dal ’68?, «Liberal», 28 maggio 2010, p. 20.
97 Da non perdere la trattazione di D. Sabaino, Da “umile ancella” a “compito ministeriale”. Sensi e percorsi della musica ‘sacra’ da Pio X al Vaticano II (con qualche spunto per l’attualità), in «Fidei canora confessio». La musica liturgica a 40 anni dalla Sacrosanctum Concilium, Atti del V Convegno nazionale di musica per la liturgia (Palermo 2003), Palermo 2003, pp. 28-76.
98 Cfr. M. Canavacci, Ragazzi senza tempo. Immagini, musica, conflitti delle culture giovanili, Genova 1993.
99 Cit. in G. Sabatini, Ai téimp dal pòver Scarabèll, cit., p. 177.
100 Non troppe le antologie-cronologie critico-documentarie da cui trarre informazioni: vedi p. es. F. Rainoldi, Sentieri della musica sacra, cit.; V. Donella, Dal pruno al melarancio. Musica in chiesa dal 1903 al 1963, Bergamo 1999.
101 C. Melina, Vita da preti. Grazie e disgrazie del ministero sacerdotale, Firenze 2010, p. 17.
102 Per le due ultime occorrenze cfr. F. Zaccarini, Musica per una nuova civiltà, «Messaggero cappuccino», 54, 2010, 4, pp. 52-54; A.J. Pedrini, Come partecipare ai gruppi di preghiera del RnS, Roma 1990, pp. 114-119.
103 Si legge d’un fiato Benedetto XVI, La musica. Un’arte famiglia al Logos, Città del Vaticano 2009.
104 Tratto dalla recensione di B. Giurato, Alleluia, anche i teocon ballano Elvis Presley e la musica del diavolo, «Il Giornale», 9 marzo 2010, p. 32, di cui è indicativo il sottotitolo: Un saggio di Roger Scruton sulla moralità delle sette note rivaluta a sorpresa blues e rock. Bocciati dance e metal.
105 G. Mariani, Il rock è la mia chiesa, «Il Manifesto», 24 aprile 2010, pp. 12-13.
106 Si vada ad es. alla registrazione live Noi verremo a te…, complesso vocale-strumentale “S. Maria in Viara”, CD, direzione e organo Padre Callisto (pseudonimo di L. Giacomini), Cesena 2005.
107 A. Melloni, Il canto liturgico nella periferia, cit.
108 Dalla chiusura della presentazione del cardinale Giacomo Lercaro a F. Connan, J.-C. Barreau, La parrocchia del 2000, Bologna 1969, p. 10.