Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Definire dei confini precisi per la musica strumentale non è semplice, perché nel XV secolo essa gode di uno statuto differente da quello del repertorio vocale, sul quale l’attestazione manoscritta appare ancora focalizzata. Eppure non mancano numerose testimonianze in favore di una prassi strumentale o vocale-strumentale e, del resto, proprio in questo periodo cominciano ad apparire con sempre maggiore frequenza trattati dedicati nello specifico alle varie tipologie organologiche; anche nell’arte, nella forma dipinta, nonostante le inevitabili “sviste” degli artisti visivi, è riconoscibile un coerente strumentario “reale”.
“Forme” e fonti della musica strumentale
Quali sono i generi nei quali è ravvisabile una prassi strumentale, quantunque non documentata da attestazione scritta? Senz’altro nel cosiddetto cantare super librum, ossia nel canto improvvisativo con accompagnamento strumentale.
Si tratta della declamazione di versi poetici basata sui cosiddetti aeri, ossia moduli melodici trasmessi oralmente, che costituiscono il bagaglio dal quale l’esecutore attinge per elaborare le proprie intonazioni. Sono formule monodiche che in sede esecutiva vengono trattate con elasticità tale da adattarsi a testi diversi. Il poeta-cantore, quindi, a guisa di “novello aedo” di presunta afferenza classica, si produce nel canto dei versi poetici improvvisando, per l’appunto, sugli aeri e accompagnandosi al liuto o alla viola o alla lira da braccio; per questo tale pratica performativa è detta anche “cantar a liuto” o “cantar alla viola”. Alcuni improvvisatori sono notissimi: Leonardo Giustinian, Raffaele Brandolini e Aurelio Brandolini, Baccio Ugolini, Serafino Aquilano e, soprattutto, Pietrobono del Chitarrino, il cantore ferrarese più celebrato del XV secolo.
In alcuni casi il poeta-cantore si limita alla sola declamazione dei versi, delegando l’accompagnamento strumentale a un altro esecutore. Accanto a questa forma di accompagnamento, per sua natura non documentata da fonti scritte, ne possiamo rintracciare un’altra meno labile, all’interno del repertorio di chansons borgognone. Si tratta di composizioni profane, in genere a tre voci, dalla cui attestazione manoscritta trapela la compresenza di voci e strumenti: la voce superiore è, infatti, generalmente dotata di testo, laddove le parti inferiori sono sine litteris e, quindi, destinate a esecuzione strumentale. Se in questi generi è evidente un ruolo ancillare nei confronti della musica vocale, non mancano segnali di emancipazione della musica strumentale, che si sgancia del tutto dal canto e inizia ad acquisire una propria dignità “autonoma”. Pur restando nell’ambito di forme improvvisative, troviamo infatti forme alternative al canto a liuto (o alla viola); una di esse è rintracciabile nel repertorio di basses danses: un corpus di melodie strumentali a destinazione coreutica la cui attestazione scritta – in apposite raccolte quali il ms. 9085 detto des Basses Danses della Biblioteca Reale di Bruxelles oppure nei trattati di danza di Domenico da Piacenza, Antonio Cornazano – e Guglielmo Ebreo da Pesaro è, in genere, limitata al solo tenor e necessita dell’integrazione estemporanea delle altre voci; un’esecuzione, dunque, interamente strumentale.
Abbiamo, poi, il caso del Canzoniere Casanatense (Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 2856) quasi certamente redatto a Ferrara intorno al 1480; al suo interno troviamo composizioni vocali di noti autori del momento trascritte sine litteris, cioè per esecuzioni strumentali. Se ne conserva una registrazione di pagamento nella quale il volume è definito “un libro di canto figurato, che scripse e notò Don Alessandro Signorello a la pifaresca”, ossia una raccolta di brani da suonarsi con il “piffaro”, quindi con uno strumento a fiato. Ma questo ferrarese non è l’unico codice destinato alla prassi strumentale; nella seconda metà del XV secolo incominciano ad apparire le cosiddette intavolature. Si tratta di sistemi notazionali elaborati per strumenti a corda e tastiera (organo o liuto) in cui i singoli suoni sono indicati da numeri o lettere (talvolta associati anche a note su pentagrammi). Ricordiamo il Fundamentum organisandi di Conrad Paumann, stampato nel 1452, e il Buxheimer Orgelbuch (ms. Mus. 3725 della Staatsbibliothek di Monaco di Baviera) che attestano composizioni vocali “rimaneggiate” per esecuzioni tastieristiche e trascritte con note e lettere. Oppure pensiamo alle intavolature per liuto in cui serie di numeri o lettere sono collocate in una griglia che rappresenta graficamente l’assetto dello strumento, le linee rappresentano le corde e il numero o la lettera il dito da premere sul manico.
Gli strumenti musicali nelle corti e nelle città
Gli strumenti musicali godono sempre di più, nella vita sociale del Quattrocento, di un ruolo importante, rilevabile anche dalla loro raffigurazione nelle opere d’arte: infatti, anche se in contesti paradisiaci, non sono più da intendersi come riflesso o concretizzazione visiva di una musica divina, come nel Medioevo, ma come rappresentazione abbastanza fedele della musica realmente eseguita.
Gli ensembles sono decisamente interessanti: in questo periodo, sviluppando quanto era già parzialmente avvenuto nei secoli precedenti, gli strumenti si dividono, a seconda della potenza del suono emesso, tra hauts – dal suono forte e penetrante, adatti quindi a essere suonati in spazi ampi – e bas dal suono, cioè, contenuto e quindi adatti ad ambienti chiusi e raccolti. Si comincia a parlare anche degli effetti e degli affetti che la musica produce sull’ascoltatore e dunque a parlare di musica non più secondo una concezione esclusivamente dottrinaria e astratta o fondata su argomentazioni teorico-matematiche.
Nelle grandi e nelle piccole corti del Rinascimento, accanto all’istituzione corale ufficiale (la “cappella”, come era chiamata), si comincia a registrare la presenza di strumentisti assunti proprio per fornire le proprie prestazioni musicali in maniera stabile e professionale: dunque anche gli strumenti diventano oggetto di studio e sperimentazioni tecniche da parte di artigiani specializzati, i liutai. Uno dei primi trattati (ms. lat. 7295, della Bibliothèque Nationale di Parigi), che ha per argomento specifico il problema della costruzione di strumenti musicali (fornendo disegni tecnici, misure e note per la costruzione del liuto e del clavicordo), risale al 1440 ed è opera del borgognone Henri Arnault de Zwolle.
Nelle corti e nella vita sociale dei Comuni sono diverse le occasioni di intrattenimento musicale in ambito sia religioso, sia civile; la musica strumentale, in particolare, è eseguita in occasioni profane e laiche, lasciando alla musica solamente vocale (o al massimo accompagnata dal suono dell’organo) il compito di seguire lo svolgimento delle funzioni religiose. Si sviluppa così un nuovo interesse per la musica, non più racchiuso nell’ambito ristretto dei teorici o dei dotti, ma diffuso tra le classi sociali sia dei nobili, sia dell’alta borghesia; ciò comporta la richiesta, da parte dei nuovi appassionati – che sono comunque dilettanti –, di codici e trascrizioni musicali alla loro portata. Conoscere la musica e saper suonare diventano parte integrante dell’educazione di ogni individuo che si voglia reputare “nobile” nel senso più alto e ampio del termine, riconoscendo alla musica oltre a un ruolo educativo anche una funzione morale. Il grande teorico Johannes Tinctoris individua, nel trattato Complexus effectuum musices (1470 ca.), ben 20 effetti benefici della pratica musicale, tra cui: mandare via la tristezza, elevare la mente umana, rallegrare gli uomini, aumentare la gioia dei conviti. In un altro trattato, di qualche anno posteriore (De inventione et usu musicae, 1484), Tinctoris focalizza il proprio interesse sulla musica degli strumenti musicali del periodo, illustrandone le caratteristiche tecnico-costruttive e, tra l’altro, celebrando la straordinaria abilità di improvvisazione al liuto di Pietrobono del Chitarrino.
Tipologie e caratteristiche degli strumenti musicali
Due nuovi strumenti sono elaborati nel Quattrocento e diventano, nel giro di pochi decenni, l’emblema della prassi strumentale della nobiltà: il clavicordo e il clavicembalo. Nati entrambi dall’applicazione di un sistema di tasti al salterio medievale, si differenziano per una caratteristica sostanziale: nel clavicordo le corde sono percosse da una punta di metallo (chiamata tangente) applicata all’asta della leva del tasto; nel clavicembalo le corde sono pizzicate da una punta che funge da plettro (di solito una penna di corvo) applicata al saltarello (un’asticella di legno che, applicata verticalmente all’asta del tasto, si muove, saltando, su e giù). Nelle raffigurazioni artistiche che incominciano a ritrarre uomini e donne intenti a far musica, il clavicordo e l’ancora più diffuso clavicembalo diventano, assieme al liuto e ai flauti diritti, i protagonisti assoluti delle raffigurazioni della musica da “camera”.
Nella musica all’aperto, invece, gli strumenti hauts sono i più adatti, proprio per la caratteristica di emettere suoni dal volume importante e penetrante: sono dunque le trombe e le bombarde che più di altri strumenti si prestano ad accompagnare le parate, le cerimonie di investitura di principi, l’arrivo delle ambascerie e le danze. La tromba è sicuramente uno degli strumenti più antichi e conosciuti; usata in ambito sia bellico sia civile, è, dal punto di vista organologico, molto semplice, essendo formata da un tubo metallico lungo fino a due metri (che a volte, per comodità, può essere ritorto), dal canneggio perfettamente cilindrico fino a 30 centimetri dalla campana finale. La bombarda è uno strumento ad ancia (una sottile canna che viene fatta vibrare all’interno di un cilindro su cui poggiano le labbra del suonatore) che deriva dalla zampogna; la caratteristica del cilindro di legno traforato che protegge la chiave che chiude, al posto delle dita, l’ultimo foro dello strumento ne fa la caratteristica più rilevante.
Accanto a questo modo di far musica, spesso utilizzato anche per accompagnare la danza in ambienti chiusi, si afferma anche la cosiddetta prassi del “cantar a liuto” o “alla viola” in cui il canto vocale è accompagnato in particolare da due strumenti, il liuto o la viola, che forniscono l’accompagnamento polifonico alla melodia del canto.
Il liuto in quest’epoca si è ormai stabilizzato nella forma e nelle dimensioni che sono giunte fino a noi: una cassa armonica abbastanza grande, detta guscio, formata da doghe di legno, una tavola armonica in abete con il foro armonico traforato che conserva di massima il tradizionale disegno di base di una stella a sei punte (simbolo della compenetrazione tra mondo divino e mondo umano) e cinque ordini di corde (tutte doppie tranne la più acuta che resta singola), chiamati “cori”, che corrono sul manico diventato più largo proprio per fornire il giusto spazio alle dita della mano destra tra un coro e l’altro. L’abbandono del plettro a favore dell’uso delle dita della mano destra favorisce la possibilità di pizzicare più corde contemporaneamente e quindi di poter realizzare gli accordi per l’accompagnamento e di suonare, allo steso tempo, una melodia.
Oltre al “cantar a liuto” si può anche “cantar alla viola”, dove per viola non si intende più, come nel Medioevo, un generico strumento a corda sfregata in forma variabile ma, più propriamente, la “lira da braccio”, un nuovo strumento che proprio in questo periodo viene codificato. È curiosa la sua storia: lo strumento nasce come rielaborazione della lyra di Apollo – cioè di quello strumento a sette corde suonato a pizzico con l’ausilio di un lungo plettro, spesso legato alla cassa armonica – che nel mondo classico era stato reputato come il più importante e nobile di tutti e che aveva fornito, nella nomenclatura delle corde, i modi musicali greci. Nella rivisitazione del mondo classico fatta dagli umanisti del Quattrocento la lyra greca è trascritta nella forma di uno strumento da suonarsi, curiosamente, con un archetto, fraintendendo l’immagine, che risultava in alcuni reperti archeologici, del lungo plettro in osso solitamente attaccato con una cordicella allo strumento. Così, lo strumento a pizzico più importante del mondo greco è diventato nel XV secolo uno strumento ad arco. La lira da braccio conserva nel dettaglio della cassetta dei piroli, a forma di cuore, la linea delle braccia dello strumento classico. La lunghezza dell’archetto della lira è funzionale al fatto che le sette corde dello strumento (cinque tastabili sul manico e due non tastabili in quanto corrono fuori da esso e permettono quindi un accompagnamento fisso) sono appoggiate su un ponticello piatto fornendo allo strumento la caratteristica tecnica di poter eseguire accordi. Tra i più famosi amanti di questa prassi si annovera anche Leonardo da Vinci (1452-1519) che si costruì personalmente la propria lira da braccio.