La musica sul palcoscenico: il teatro d'eta repubblicana
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Negli spettacoli teatrali della Roma repubblicana la musica ha un ruolo importante, sotto forma di canti solistici, dialoghi cantati e interventi strumentali del tibicen, il suonatore di tibia (strumento a fiato a doppia ancia affine all’aulos greco), accompagnatore di tutte le parti musicate delle commedie, che costituiscono più della metà dell’intera rappresentazione.
Il primo riferimento storico sull’attiva presenza della musica nella più antica pratica teatrale latina è fornita dallo storico Tito Livio, il quale nell’opera Ab Urbe condita (7, 2, 4) riferisce che nel 364 a.C., a seguito di una violenta pestilenza, furono chiamati a Roma alcuni danzatori dall’Etruria, i quali si esibirono al suono di tibiae. Nello stesso passo lo storico afferma che, partendo in origine dall’imitazione dello spettacolo etrusco, si era giunti nel tempo a recitare eterogenee rappresentazioni teatrali ricche di musica (saturas impletis modis), con composizioni cantate accompagnate sempre dalla tibia (descripto iam ad tibicinem cantu). Tale testimonianza storica attesta la presenza assidua, sin dalle origini, del tibicen, del suonatore di tibia nelle più antiche forme d’espressione teatrale latina (saturae), e un’arcaica predilezione per la musica, o, se non altro, per l’accompagnamento strumentale.
Nel III secolo a.C. gli eserciti romani entrano e agiscono costantemente nella Magna Grecia: dalla seconda metà del secolo, una volta completata la conquista dell’intera Italia meridionale, i Romani si avvicinano definitivamente alle forme greche di rappresentazione teatrale, come dimostrato dall’incarico affidato al greco di Taranto Livio Andronico, condotto a Roma da Livio Salinatore, per la composizione del primo dramma in lingua latina ricavato da modelli greci (240 a.C.). A riguardo, abbiamo prove piuttosto evidenti della presenza del suonatore di tibia durante la rappresentazione del canto sulla scena, fra l’altro anche con notevole impegno fisico dell’attore esecutore, in questo caso lo stesso autore e interprete Livio Andronico, il quale aveva perso la voce proprio a causa del suo eccessivo impiego. Così infatti narra Tito Livio in Ab Urbe condita (7, 2, 9): “Richiamato spesso dagli applausi del pubblico a ripetere la parte, ebbe un abbassamento di voce e, chiesta venia agli spettatori, pose un sostituto a cantare davanti al tibicen e poi eseguì l’azione scenica richiesta dal monologo lirico con un mimica molto più efficace, poiché non era impacciato dal dover usare la voce”.
È verosimile che anche altri artisti greci, come Andronico, attori tragici, comici e, in particolare, abili strumentisti, auleti, arpisti, citaredi, già nella seconda metà del III secolo a.C. siano giunti a Roma in seguito all’espansione politica della capitale. La presenza di corporazioni di artisti in Roma va di pari passo con la diffusione massiccia e accertata nell’Urbe degli strumenti a corda: sempre lo storico Livio (39, 6, 8) individua una data precisa per tale avvenimento, il 187 a.C., quando Gneo Manlio Vulsone invita nella capitale, in occasione del suo trionfo per la vittoria in Asia Minore sui Galati, un gruppo di suonatrici di cetra e arpiste (psaltriae sambucistriaeque). Negli anni seguenti solisti e strumentisti greci si esibiscono a Roma per i ludi celebrati da Marco Fulvio Nobiliore e Lucio Scipione nel 186 a.C., e ancora più tardi, nel 167 a.C., per i giochi organizzati da Lucio Anicio.
Il successo popolare degli strumenti cordofoni, simbolo inequivocabile del “contagio” ellenico, è ampiamente documentato nella commedia repubblicana, in particolare in quella di Plauto, dove appunto sono presenti riferimenti a cortigiane suonatrici di lira (fidicinae), di cetra (citharistriae) e d’arpa orientale (sambucistriae). Nello Stichus, ad esempio, andato in scena nel 200 a.C., sono citate suonatrici d’arpa e di lira (vv. 380-381), fanciulle fra l’altro dotate di notevole bellezza; nella commedia Epidicus (vv. 500-501) si allude all’usanza di assoldare, da parte del vecchio Perifane, una suonatrice di lira (fidicina), una libera professionista ingaggiata per cantare durante un sacrificio religioso.
Verosimilmente, proprio rifacendosi anche alle esibizioni e alle virtuose interpretazioni dei professionisti del canto e degli strumenti provenienti per lo più dalla Grecia, gli autori teatrali latini possono trasformare in parti cantate o musicate, i cosiddetti cantica scritti in metri lirici, brani che negli originali greci erano destinati alla pura recitazione. I cantica, soprattutto nella forma dialogata, non sono pezzi a sé ma, diversamente dalla monodia del teatro greco classico, vengono a costituire elementi di progresso dell’azione rappresentata, quasi in una sorta di analogia con le forme del teatro musicale moderno e in particolare con l’opera buffa, in cui appunto i duetti, i terzetti e soprattutto i portentosi finali non sospendono la vicenda, ma sono azione essi stessi.
Il musicista quindi, il tibicen, accompagna con la tibia i suddetti cantica durante la rappresentazione teatrale; in sostanza questo solista della commedia ha l’incarico di sostenere il canto o comunque di accompagnare musicalmente la maggior parte dei metri poetici, ed egli stesso, probabilmente anche autore delle musiche, sceglie o compone la musica in base al ritmo poetico. Le didascalie delle commedie ci forniscono solo in due casi i nomi di musicisti teatrali, un collaboratore di Plauto, un tal Marcipor, schiavo di Oppio, e un tal Flaccus, collaboratore di Terenzio e servo di Claudio, a riprova della condizione servile del musico; entrambi sono forse esecutori di tibiae, sicuramente autori delle musiche, il primo in particolare della commedia Stichus, la cui musica è stata composta espressamente per le tibiae sarranae, strumenti di probabile origine nord-africana. Sono particolarmente interessanti a riguardo le didascalie iniziali riguardanti le commedie di Terenzio: qui si afferma che tibiae impares e dextrae, intercambiabili a seconda delle situazioni rappresentate, sono selezionate per le musiche della commedia Heautontimorumenos – impares per il Phormio, pares per l’Hecyra, pares dextrae per l’Eunuchus, pares dextrae vel sinistrae per l’Andria. Infine, per gli Adelphoe, commedia tratta dagli Adelphoi di Menandro, sono esplicitamente utilizzati strumenti fenici, appunto le tibiae sarranae.
Quali tipi di strumento si suonassero nel teatro latino è quindi a noi ampiamente noto: le tibiae pares dextrae (“uguali di destra”), verosimilmente chiamate anche tibiae lidie, dotate di un suono grave e potente e consistenti in un paio di tubi uguali, di apertura cilindrica; le tibiae pares sinistrae, costituite anch’esse da due tubi uguali ma più larghi e corti, che producono suoni evidentemente più acuti. Nella antica musica latina esistono anche le tibiae impares, strumenti composti appunto da due tubi di diversa lunghezza, le quali entrano anch’esse a far parte della prassi teatrale romana, come è appunto attestato nelle didascalie delle commedie Heautontimorumenos e Phormio.
Probabilmente il Flaccus di Terenzio sceglie i suoi strumenti in base alla tessitura meglio corrispondente al tono generale della commedia. Afferma secoli dopo a riguardo il grammatico Elio Donato (Excerpta de comoedia, 8, 11), vissuto nel IV secolo, che le tibiae di destra, gravi, erano per lo più utilizzate per le scene serie (sua gravitate seriam comoediae dictionem praenuntiabant), quelle di sinistra, più acute, per le scene comiche e movimentate (acuminis levitate iocum in comoedia ostendebat); l’unione poi delle differenti forme di tibiae era auspicabile nelle scene in cui s’incontravano caratteri e situazioni completamente opposti.
La ricchezza timbrica delle diverse tipologie strumentali sicuramente è utile nelle sequenze conclusive delle commedie, i cantica di chiusura: spesso il finale è animato da una scena di danza con la quale si celebra il termine della narrazione e a cui prendono parte il tibicen e i personaggi, ormai liberi dalla trama drammatica. Un commento sempre di Donato alla commedia Andria di Terenzio (Commentum Terenti, Andr. praef., 2, 3) sottolinea che in un determinato momento della rappresentazione la vicenda era conclusa (ibi actum esse finitum), per cui la danza e la musica prendevano totale possesso della scena.
Dell’importanza dell’azione strumentale della tibia in teatro si è ben accorto Cicerone (Orator 184), quando afferma che durante la recitazione di una monodia tratta da una tragedia di Ennio solo la musica del tibicen aveva permesso che i versi interpretati non assumessero l’aspetto di semplice prosa. Lo stesso Cicerone (Tusculanae disputationes, 1, 44, 106), citando alcuni ottonari giambici di un altro dramma teatrale, racconta che questi versi erano stati cantati con una melodia particolarmente toccante (pressis et flebilibus modis), tanto da indurre l’uditorio al pianto. Tali testimonianze confermano che sulla scena romana agiscono ottimi strumentisti, dotati di talento musicale e abili nel sottolineare le scelte ritmiche degli autori. Ancora Cicerone (De oratore, 3, 26) ci informa che i musicisti (qui fecerunt modos), meglio degli stessi attori, sono in grado di sfruttare una grande espressività dinamica e melodica; è probabile che durante l’accompagnamento della recitazione teatrale costoro dispongano già di un certo numero di frasi musicali di base e, scegliendole di volta in volta in base ai ritmi del testo, le adattino alle esigenze degli autori.
L’esecutore romano, possiamo ipotizzare, possedeva comunque un’ottima capacità mnemonica (non esistono testimonianze, letterarie o iconografiche, di spartiti sulla scena) e doveva essere ben conscio che solo un accompagnamento timbrico e musicale appropriato poteva raggiungere l’effetto di esaltare il ritmo continuo e mutevole dei versi recitati. È naturale che egli provasse con gli interpreti prima della rappresentazione, anche se quasi sicuramente ricopriva un ruolo subalterno rispetto agli attori.
La funzione del tibicen all’interno dell’azione scenica diviene nel tempo più importante e complessa, acquistando rilevanza sul palcoscenico romano. In origine lo strumentista si dispone in fondo alla scena e dietro ai protagonisti, come si evince dal già citato racconto dello storico Livio (7, 2, 9) riferito al fondatore del teatro latino, Livio Andronico: “egli pose un sostituto a cantare davanti al tibicen”. Ben diverso risulta l’atteggiamento del musicista sulla scena della più tarda commedia repubblicana: “Sono morto; non ho più un filo di fiato; che pessimo zampognaro sarei stato!”, recita Acanthio nel Mercator di Plauto (v. 125), sottolineando lo stressante movimento del solista durante la rappresentazione. Cicerone poi nell’orazione Pro Murena (26), collegandosi analogicamente al tribunale romano, fornisce una diversa, rapida ed efficace immagine di come le cose si svolgano sul palcoscenico durante le rappresentazioni della sua epoca: il tibicen si sposta rapidamente da un personaggio all’altro, dando l’attacco ai singoli attori.
In conclusione, lo spazio scenico della rappresentazione latina repubblicana è concepito come uno spazio musicale in cui elemento vivacizzante è sicuramente il suonatore di tibia: egli è una pedina importante, mentre la musica incide direttamente su tutta la recitazione e su tutto ciò che avviene sulla scena.