Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Uguaglianza, libertà e benessere sono i valori guida della rivoluzione americana. Negli anni Settanta il conflitto politico-costituzionale con l’Inghilterra e l’esigenza di conquistare autonomia e libertà commerciale sui mari portano all’insurrezione delle colonie. Nel processo rivoluzionario convergono, condizionandosi reciprocamente, il radicalismo popolare, la cultura illuminista e la tradizione puritana.
I contrasti con la madrepatria e l’inizio della rivolta
Con la fine delle guerre europee e soprattutto con la vittoria inglese nella guerra dei Sette anni (1763) esplodono le tensioni da tempo latenti tra le colonie e l’Inghilterra: a far precipitare la situazione sono le nuove direttive del governo inglese, intenzionato a sfruttare appieno, più che in passato, le ricchezze d’oltreoceano. Inoltre, il debito pubblico contratto nei lunghi anni di guerra impone nuovi sforzi al Paese, che deve anche pagare i costi per la difesa e il governo di vecchi e nuovi possedimenti territoriali. Per aumentare il gettito fiscale proveniente dalle colonie, generalmente piuttosto basso, il primo ministro inglese George Grenville intende razionalizzare e accentrare la gestione degli affari coloniali, improntata precedentemente a una certa negligenza organizzativa, e limitare fortemente i poteri politici delle assemblee elette nei territori americani.
È la stessa depressione postbellica, dunque, a provocare lo Sugar Act (1764). In realtà, questo provvedimento abbassa l’imposta da pagare sulle importazioni di melassa provenienti dai Caraibi non inglesi da 6 a 3 pence il gallone, ma stabilisce controlli doganali più rigidi e conferisce maggiore potere e protezione ai doganieri. Tale legge è decisa dal governo inglese nella speranza di arginare il contrabbando e di aumentare considerevolmente le entrate dello Stato. La legge scatena però l’opposizione dei coloni, disposti ad accettare i decreti che regolano l’attività commerciale ma non i provvedimenti di natura fiscale, che hanno come unico scopo quello di arricchire le casse di uno Stato sentito sempre più distante e sopraffattore.
Nel 1765 l’emanazione dello Stamp Act, una legge che impone una tassa di bollo su giornali, fatture commerciali e atti legali, provoca l’immediata reazione dei territori americani che fanno appello nella loro protesta ai principi sanciti dalla Common Law e agli ideali della Gloriosa Rivoluzione inglese del 1688. Il parlamento, dove i coloni non sono rappresentati, non ha alcun diritto di tassare le colonie, secondo il principio per il quale si può essere tassati solo da propri rappresentanti regolarmente eletti: No taxation without representation.
Guidata dalle élite del luogo, la ribellione dei coloni assume contenuti e forme sempre più radicali: attraverso la stampa la protesta si allarga a macchia d’olio, coinvolgendo mercanti, artigiani e popolo delle città. I comitati e le associazioni di cittadini (Sons of Liberty) danno vita a numerose manifestazioni di piazza e si battono per assumere il controllo politico dei territori.
Sempre le élite, decise a sostenere i loro interessi commerciali e a conquistare la maggioranza nelle assemblee, promuovono la partecipazione delle masse alla vita politica delle colonie, accattivandosi le simpatie e il consenso popolare.
Nonostante la revoca dello Stamp Act (marzo del 1766), l’Inghilterra ribadisce la costituzionalità dei suoi decreti in materia fiscale e la sua piena sovranità sulle colonie. Lo fa prima in linea di principio, con il Declaratory Act, e poi, pochi mesi più tardi, con i Townshend Acts (dal nome del cancelliere dello Scacchiere), che impongono alti dazi di entrata sulle merci importate nelle colonie. In risposta, gli Americani si pronunciano per il boicottaggio delle merci inglesi e a Boston, nel Massachusetts, la folla assale i funzionari doganali.
L’arrivo di reggimenti dall’Inghilterra fa precipitare gli eventi: nel cosiddetto “massacro di Boston” cinque civili vengono uccisi dai soldati (marzo del 1770).
Dopo alcuni anni di relativa calma, tra il 1772 e il 1773 si raggiunge il culmine della protesta: l’occasione è il privilegio accordato alla Compagnia inglese delle Indie Orientali sull’esclusiva della vendita di tè in America ( Tea Act , 1773). A Boston un gruppo di patrioti mascherati da indiani getta nelle acque del porto una grossa partita di tè della Compagnia (Boston Tea Party).
Con le leggi del 1774, note come Coercive or Intolerable Acts, gli Inglesi intendono punire in maniera esemplare il Massachusetts, dove si trovano i più radicali oppositori della corona: viene imposta la chiusura del porto di Boston fino all’avvenuto risarcimento dei danni provocati alla Compagnia, vengono ampliati i poteri del governatore e si ribadisce l’obbligo di fornire alloggi alle truppe.
Nel settembre del 1774 i rappresentanti di dodici colonie (tutte a eccezione della Georgia) si riuniscono a Filadelfia per il primo Congresso continentale, dove viene confermato il boicottaggio di qualsiasi merce proveniente da Gran Bretagna e Irlanda, per ottenere il ripristino dei diritti commerciali e fiscali precedenti alle restrizioni causate dalla pace di Parigi del 1763. Sebbene i lavori del Congresso siano dominati dai moderati, le risoluzioni approvate nell’ottobre del 1774 rivendicano alle assemblee coloniali pieno ed esclusivo potere legislativo, in completa autonomia dal parlamento e nel rispetto dell’autorità superiore del solo sovrano inglese. Di lì a poco, nell’aprile del 1775, si verificano in Massachusetts i primi combattimenti.
Gli anni di guerra
Dopo gli scontri di Lexington e Concord nell’aprile del 1775, la prima vera battaglia combattuta per l’indipendenza americana è quella di Bunker Hill, una collina nelle vicinanze di Boston (17 giugno 1775). Gli Americani sono costretti alla ritirata, ma sono gli Inglesi a subire le maggiori perdite. Pochi giorni prima il secondo congresso continentale, che si era aperto a Filadelfia il 10 maggio, aveva nominato George Washington, proprietario terriero della Virginia, comandante dell’esercito nazionale (Continental Army).
In questi mesi il dibattito politico che accompagna le sessioni del Congresso è sempre più acceso: tra gennaio e marzo del 1776 vengono vendute circa 100 mila copie di Il senso comune di Thomas Paine, un pamphlet in cui l’autore, un inglese emigrato in America soltanto due anni prima, attacca violentemente l’istituto monarchico ed esalta gli ideali egualitari, democratici e repubblicani. L’opuscolo costituisce una base teorica all’azione per l’indipendenza; solo sei mesi più tardi, il 4 luglio del 1776, il Congresso vota la Dichiarazione d’indipendenza, un documento di poche pagine redatto in larga parte da Thomas Jefferson e ispirato ai valori della cultura illuminista.Tra i redattori c’è anche Benjamin Franklin, scrittore, politico e scienziato, fino a pochi anni prima portavoce degli interessi coloniali presso la monarchia inglese. Autodidatta, di famiglia puritana, fortemente influenzato dalla cultura illuminista, Franklin rappresenta meglio di molti altri i valori etico-morali, i princípi religiosi e gli ideali economici della nascente società americana.
Sul fronte militare, dopo il fallito tentativo dei ribelli di invadere il Canada (dicembre del 1775), la grandissima sproporzione delle forze in campo favorisce gli Inglesi, che inviano nelle colonie 30 mila mercenari.
Nell’agosto del 1776 Washington è duramente sconfitto a Brooklyn Heights (Long Island, NY) e New York viene occupata dagli Inglesi fino alla conclusione del conflitto. Alla fine dell’anno le milizie americane versano in gravi difficoltà, ma la vittoria nella battaglia di Saratoga Springs, nell’ottobre del 1777, risolleva le loro sorti. A questa vittoria contribuiscono anche il marchese di La Fayette e il futuro eroe nazionale polacco Tadeusz Kosciuszko, accorsi a difendere con altri illuministi europei l’indipendenza degli Stati Uniti. Dopo la vittoria di Saratoga la Francia, che già riforniva di armi i ribelli, decide di scendere in campo contro l’Inghilterra e stringe con gli Americani un’alleanza, la quale sancisce che i territori espugnati siano annessi agli Stati Uniti e la pace firmata di comune accordo. Anche la Spagna si allea alla Francia e ai ribelli, nella speranza di riconquistare Gibilterra.
Con l’intervento delle potenze europee il teatro di guerra si sposta a sud: qui gli Inglesi sperano nell’appoggio determinante dei lealisti (i coloni rimasti fedeli a re Giorgio III) e strategicamente sperano di impedire eventuali collegamenti militari tra le Antille e il continente. Il 29 dicembre 1778 cade Savannah in Georgia e il 12 maggio dell’anno successivo a Charleston, nel South Carolina, gli Americani subiscono la loro più grave sconfitta.
Nell’ottobre del 1781, dopo numerosi episodi di guerriglia che minano la resistenza degli Inglesi, le truppe franco-americane passano al contrattacco e costringono alla resa la guarnigione britannica di Yorktown. La disfatta porta alle dimissioni del primo ministro Frederick North e all’apertura dei negoziati di pace: Benjamin Franklin, John Adams e John Jay sono inviati in Europa a trattare le clausole dell’accordo. La pace di Versailles, firmata il 3 settembre del 1783, riconosce l’indipendenza degli Stati Uniti d’America e la loro sovranità sul territorio che va dalla costa atlantica alla riva orientale del Mississippi; la Florida, a sud, viene restituita dagli Inglesi alla Spagna.
Gli Stati Uniti dopo la rivoluzione
Mentre ancora si combatte, nel novembre del 1777 il Congresso approva gli articoli della Confederazione, ratificati dagli Stati solamente quattro anni più tardi per le contestazioni sollevate da alcuni di essi in merito all’assegnazione dei territori dell’Ovest. Secondo questa prima Costituzione americana, il Congresso, in qualità di organo confederale, ottiene poteri alquanto ridotti: le sue competenze sono limitate alla difesa, a comporre le dispute tra gli Stati e alla cura delle relazioni diplomatiche internazionali. La riscossione delle tasse e la legislazione sul commercio rimangono saldamente nelle mani dei singoli Stati, che contestualmente si dedicano alla redazione delle rispettive carte costituzionali. La confederazione appare a molti poco più di una generica alleanza tra Stati sovrani, che conservano intatti i propri poteri e difendono gelosamente l’autonomia legislativa.
In questi anni la riduzione delle esportazioni, in seguito alla rottura dei rapporti con l’Inghilterra, e l’improvviso venir meno della pressione bellica sull’industria provocano una crisi economica che acuisce i conflitti e le tensioni sociali. Benché la situazione ben presto si normalizzi e il commercio raggiunga – anche grazie alla crescita del mercato interno – i livelli di scambio precedenti alla guerra, serpeggia sia tra il popolo sia tra le élite un certo malcontento.
Tra le risoluzioni prese dal Congresso, di grande importanza è l’Ordinanza di Nord-Ovest (1787), con la quale si definisce l’assetto dei territori a nord del fiume Ohio e a ovest degli Appalachi: si decide che, appena raggiunto un numero sufficiente di abitanti, la vasta regione venga suddivisa in tre o cinque Stati diversi. Questa ordinanza è resa possibile dalla cessione all’Unione dei diritti che i singoli Stati vantano sui territori in questione. Nei distretti stabiliti dall’Ordinanza, fatta eccezione per i terreni riservati alle scuole e alle municipalità, le terre vengono vendute all’asta in appezzamenti non inferiori ai 640 acri, favorendo così i grandi speculatori. Quando la popolazione del distretto raggiunge i 60 mila abitanti, il territorio diviene Stato della Confederazione in piena parità con gli altri. L’Ordinanza garantisce la libertà religiosa e proibisce la schiavitù in tutta l’area; quello della schiavitù dei neri rimane però un problema irrisolto nella società americana. Il Congresso di Filadelfia, infatti, aveva espunto dalla Dichiarazione d’indipendenza la ferma condanna della schiavitù voluta da Thomas Jefferson e che diviene legge solo nella Nuova Inghilterra. Il Sud rimane così fedele a un istituto che contribuisce a creare una spaccatura sempre più profonda nel Paese.
Negli anni Ottanta soprattutto i gruppi finanziari e industriali del Nord appaiono i promotori del movimento favorevole a una più solida unione tra gli Stati. Rafforzare il potere centrale e ridurre il più possibile le autonomie locali sono scelte obbligate per garantire un controllo politico superiore sulla vita degli Stati e assicurare l’egemonia alla grande borghesia urbana. Alexander Hamilton e James Madison, fautori di questo programma, raccolgono le loro tesi nel volume intitolato The Federalist. Solo con l’aiuto dei grandi proprietari del Sud, però, è possibile dare un indirizzo conservatore al governo dell’Unione, frenare le spinte democratiche e localiste degli strati popolari e creare un unico mercato nazionale che sostenga le industrie nascenti. Questo è proprio quanto temono i piccoli agricoltori e i ceti medio-bassi, preoccupati di non poter far valere le proprie ragioni in un governo centrale, lontano dalle loro città e dalle tenute agricole e certamente dominato dai ceti affaristici e industriali.
Sul programma federalista convergono inizialmente le posizioni dei maggiori protagonisti della rivoluzione: da Washington a Franklin, da Jefferson a Madison. La nuova Costituzione degli Stati Uniti d’America, varata da una Convenzione appositamente convocata, viene approvata nel 1787 e vede un grande accentramento di potere nelle mani del governo federale.
Il potere legislativo viene attribuito al Congresso, composto di Camera e Senato. Alla Camera gli Stati sono rappresentati in proporzione al numero degli abitanti, mentre al Senato, che esercita funzioni di controllo sulla politica estera, gli Stati hanno diritto a due rappresentanti ciascuno. Il potere esecutivo è del presidente, eletto ogni quattro anni da un collegio di grandi elettori, e unico responsabile degli incarichi di governo. Il potere giudiziario è affidato alla Corte Suprema.
Ma nel 1791, appena quattro anni dopo la ratifica della Costituzione, e due anni dopo l’elezione di George Washington a primo presidente degli Stati Uniti, vengono approvati i Dieci emendamenti, che accolgono le richieste di quanti si preoccupano che la nuova costituzione assicuri ampiamente i diritti degli individui e non sia lesiva dell’autonomia degli Stati.
Intanto la politica economica di Hamilton, che raggiunge lo scopo di risanare le finanze dell’Unione, favorisce sempre più apertamente i ceti industriali del Nord. Con la creazione di una banca nazionale e l’adozione del protezionismo, il segretario di Stato al tesoro finisce con il subordinare gli interessi agrari del Sud a quelli finanziari. Le posizioni di Jefferson, ostile alle pressioni del capitale bancario e all’alienazione prodotta dall’attività industriale, non possono essere più lontane: il futuro presidente degli Stati Uniti idealizza una società di piccoli e liberi agricoltori, una sana democrazia di tipo rurale dove sia garantita la più ampia libertà di coscienza.
Così, all’inizio degli anni Novanta, dalla spaccatura del partito federalista nasce il partito repubblicano-democratico, guidato dallo stesso Jefferson. Dopo la presidenza di Washington, caratterizzata dalla nascita di nuovi Stati (Vermont, Kentucky, Tennessee) e dalla neutralità americana nei conflitti europei, e dopo la presidenza del federalista John Adams (1797-1801), Jefferson diviene il terzo presidente degli Stati Uniti d’America (1801-1809).