Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La biologia nasce come scienza autonoma, fra Sette e Ottocento, al termine di un lungo processo di erosione della “filosofia meccanica” derivante dalla crescente consapevolezza che i fenomeni della natura vivente non possono essere compresi facendo riferimento alle leggi della fisica, ma richiedono una spiegazione ad hoc. Viene così imboccata una “terza via” oltre alle soluzioni tradizionali del meccanicismo e dell’animismo.
Premessa
Il processo di erosione della “filosofia meccanica” consiste in tre distinte scoperte: che la natura vivente è molto più varia e complessa di quanto i meccanicisti avevano postulato; che alcuni suoi fenomeni sono tanto anomali e sorprendenti, dal punto di vista della “filosofia meccanica”, da far seriamente dubitare che questa riuscirà mai a comprenderli; e infine che non solo tali fenomeni imprevisti scoperti di recente, ma anche tutti quelli ordinari e noti da tempo, vanno completamente reinterpretati alla luce di una nuova ipotesi di lavoro: la teoria dell’evoluzione.
La scoperta della complessità
La scoperta della complessità consiste nella constatazione che la natura vivente non è un dominio omogeneo (come postulato dai meccanicisti) ma eterogeneo, tanto rispetto alla morfologia e all’anatomia dei corpi viventi, quanto rispetto alla loro fisiologia e ai loro comportamenti. Chi, a partire dal 1740, prepara l’avvento della biologia come scienza autonoma, insiste con frequenza martellante sulla “meravigliosa varietà” dei corpi viventi, i quali testimoniano che la natura ha lavorato su una “grande diversità di modelli”: così, per esempio, Charles Bonnet nel 1764. Diderot dieci anni prima aveva già osservato: “Pare che la natura si sia compiaciuta nel variare uno stesso meccanismo in un’infinità di modi diversi”. È evidente, ribadisce Jean-Baptiste De La Métherie nel 1787, “che la natura segue vari percorsi” e che “ha più di una via per giungere allo stesso scopo”.
Ebbene quei “modi”, quei “percorsi”, quelle “vie” costituiscono altrettante eccezioni alle leggi generali, su cui si comincia a riflettere con grande attenzione perché producono fenomeni “strani” e “stupefacenti”. Le pagine dei naturalisti si riempiono di questi aggettivi, che testimoniano di un grande disagio.
Bonnet si imbatte in una “strana eccezione alla regola” e deve ammettere di star lavorando su “specie del tipo più anomalo”.
De La Métherie è costretto a riconoscere che anche “le analogie più generiche presentano eccezioni” e che alcuni corpi viventi “hanno stupito gli scienziati per i fenomeni singolari che essi presentano”. Ciò apre la strada a una radicale revisione degli schemi interpretativi ereditati dalla tradizione e, in particolare, al diffondersi della convinzione – espressa fra gli altri da Moreau de Maupertuis – che “i corpi degli animali e dei vegetali siano macchine troppo complicate” per essere comprese meccanicamente. “È come se fosse caduto”, afferma Bonnet, “il velo che ci nascondeva un altro mondo”.
I fenomeni imprevisti
A rivelare questo “altro mondo”, ovvero a convincere che una porzione del vecchio universo meccanico (la natura vivente) costituiva in realtà un dominio diverso e separato, era stata l’osservazione di fenomeni che violavano le leggi della meccanica.
Essi riguardavano soprattutto la riproduzione e la rigenerazione delle parti amputate.
Nel 1740 Bonnet scopre la partenogenesi degli afidi, cioè l’esistenza di ben strane “macchine” (volendo inforcare gli occhiali della tradizione), che generano altre “macchine” – cioè si riproducono – senza alcun intervento esterno. Nello stesso 1740 Trembley scopre il “polipo d’acqua dolce” (l’ hydra viridis) e la sua sorprendente, insospettata e meccanicamente incomprensibile capacità di rigenerazione. “Tagliato a pezzi”, conferma di lì a poco Maupertuis, “il troncone cui è rimasta la testa riproduce la coda; quello cui è rimasta la coda riproduce la testa, e i tronconi senza testa e senza coda riproducono l’una e l’altra”. “Ne fui sorpreso”, commenta lo stesso Trembley, perché “mi aspettavo di veder morire questi polipi sminuzzati”. E invece l’animale si rivelava una “Idra più stupefacente di quella della favola” perché non moriva (e anzi si rigenerava e poi si riproduceva) sia che fosse stato tagliato trasversalmente, longitudinalmente e in entrambi i sensi fino a cinquanta volte, sia che fosse stato rigirato. Davvero “un nuovo spettacolo”, che i meccanicisti non solo non avevano previsto ma avevano escluso: uno spettacolo che verrà più volte – e sempre con grande eccitazione – ripetuto in pubblico, sarà subito annoverato fra i più importanti problemi scientifici dell’epoca, diventerà argomento di conversazione anche nei salotti, e finirà per coinvolgere delicatissime questioni teologiche: poiché apre la possibilità che anche l’anima sia – come il corpo – divisibile (e quindi materiale). I Gesuiti avvertiranno odore di eresia.
Nel 1745 Needham ripropone una versione sofisticata di generazione spontanea, che impone di ripensare lo stesso concetto di materia elementare (che la tradizione meccanicistica pretendeva essere assolutamente inerte): i suoi esperimenti sembrano infatti testimoniare la presenza di una “forza vegetativa in ogni punto microscopico della materia” (anche all’interno dei corpi “bruti”), che opera con tanta energia da “ridare la vita a una sostanza morta”. La sorpresa è grande: Maupertuis può commentare che queste osservazioni “ci svelano una nuova natura”.
Nel 1752 von Haller scopre l’irritabilità della fibra muscolare, individuando un fenomeno che palesemente viola ogni legge della meccanica, poiché consiste in una reazione di intensità sproporzionata all’intensità dello stimolo. E che dire della tremella, studiata da Adanson, che “secca, perde i suoi movimenti, e umida li riprende”? Essa “risorge”, come arriva a sostenere senza esitazioni Spallanzani, e può “risorgere” più volte – si esperimenta – al pari di altri vegetali e di numerosi insetti.
Tutte queste scoperte sono cruciali perché rivelano – come afferma De La Métherie, esprimendo lo sconcerto di molti – che il vivente è “una macchina che confonde tutte le nostre idee di meccanica”. Empiricamente fondata, la reazione al meccanicismo biologico si fa così epistemologicamente consapevole, portando alla redazione di veri e propri manifesti antimeccanicistici.
I manifesti antimeccanicistici
Nel 1749 Leclerc de Buffon rileva che molti fatti non rientrano sotto le leggi meccaniche (“per un fenomeno che può esservi ricondotto, ve ne sono mille che non ne dipendono affatto”), e conclude che ormai i meccanicisti “immeschiniscono la filosofia”. Nel 1751 Maupertuis esprime la convinzione che “mai si spiegherà la formazione di un corpo organizzato con le sole proprietà fisiche della materia” e afferma che i filosofi i quali pensano “di poter spiegare tutta la natura con la materia e il movimento” devono ammettere che se i loro principi meccanici “hanno spiegato assai felicemente certi fenomeni, non sono ancora capaci di spiegarne parecchi altri”.
Nel 1757 Haller sostiene che “vi sono molte cose nella macchina animale che sono del tutto estranee alle comuni leggi della meccanica”. Analogamente, nel 1763 un anonimo osserva sull’ Encyclopédie che i corpi viventi “sono governati da leggi loro proprie” e che il principio che ne regola i movimenti “sembra non aver niente in comune con quello dei movimenti che si osservano nelle macchine inanimate”.
Bonnet aveva già rilevato che ormai “la filosofia ha compreso l’impossibilità di spiegare meccanicamente la formazione degli esseri organici”, e può concludere senza mezzi termini, nel 1764, che “quando la fisica ha tentato di spiegare meccanicamente la formazione dei corpi viventi si è persa nella notte delle congetture”. Nel 1779 Blumenbach afferma l’esistenza di una “forza vitale” che “si distingue da tutte le forze puramente meccaniche”, e osserva che l’idea stessa di corpo vivente “comporta necessariamente quella di un fine, di uno scopo”, e perciò “distrugge assolutamente tutte le spiegazioni puramente meccaniche”. Diderot, poi, era stato durissimo: il meccanicista sostiene “un’infinità di sciocchezze”, aveva rilevato nel 1778, e quando “tralascia la sensibilità, l’irritabilità, la vita, la spontaneità, non sa quel che fa”.
Il nuovo programma di ricerca
Questo movimento di idee trova la sua espressione più alta nelle pagine di Jean-Baptiste Lamarck. Egli giunge a ridefinire il concetto di vita e a impostare una nuova forma di materialismo. Già nella Flore française Lamarck aveva definito la vita come l’espletamento di determinate funzioni che sono più o meno complesse – egli aveva affermato – in funzione della maggiore o minore complessità dell’organizzazione corporea. Sino al 1800, tuttavia, Lamarck continua a considerare la vita come un “principio” per sempre inconoscibile all’uomo. Al pari di Blumenbach, Lamarck sostiene che il principio responsabile di tutti i fenomeni vitali non assume valenza metafisica né tantomeno teologica: come in fisica si ricorre al principio della gravitazione universale, grazie a cui si può dar conto di complessi movimenti celesti, così dalle proprietà osservabili dei corpi viventi si deduce l’esistenza di un principio vitale. A partire dal 1800, Lamarck abbandona il riferimento al “principio” vitale, e afferma di poter spiegare tutti i fenomeni dei viventi nei soli termini delle leggi fisico-chimiche. La vita è dunque un epifenomeno – un’“emergenza”, si direbbe oggi –, della struttura materiale. Lamarck libera così la nuova scienza dei viventi da ogni ipoteca animistica.
Ma come essere materialisti senza ricadere nella filosofia meccanica? Il naturalista francese disegna nel 1802 (Hydrogéologie e Recherches sur l’organisation des corps vivans) l’ambizioso progetto di una “fisica terrestre” articolata su tre sotto-discipline: la “meteorologia”, o scienza dell’azione dei fluidi atmosferici; l’idrogeologia, scienza dell’azione dei fluidi che plasmano la superficie terrestre; e la “biologia”, la scienza dei fluidi fisici e organici che costantemente scolpiscono e trasformano gli organismi viventi. Combinandosi – egli teorizza nel 1802 – la materia acquista nuove proprietà: “ogni composto può variare all’infinito nel suo stato di combinazione e nelle proporzioni dei suoi elementi. Dopo ogni modificazione, grande o piccola, tale composto avrà, necessariamente, proprietà particolari relative al suo nuovo stato.”
Fra quelle proprietà vi sono anche le funzioni vitali: così per Lamarck la vita può “emergere” dalla materia senza l’intervento di alcun principio estraneo alla materia stessa (poiché essa è semplicemente “un prodotto dell’organizzazione”), e la scienza della vita può iscriversi all’interno di una nuova fisica di cui Lamarck si considera il nuovo Newton.
Fra quelle proprietà vi sono anche le funzioni vitali: così per Lamarck la vita può “emergere” dalla materia senza l’intervento di alcun principio estraneo alla materia stessa (poiché essa è semplicemente “un prodotto dell’organizzazione”), e la scienza della vita può “emergere” dalla fisica senza rischiare di configurarsi come una metafisica.
Lamarck è tra i primi (con Roose, Burdach, Treviranus) a usare il neologismo “biologia”, ed è colui che gli attribuisce il significato moderno: la biologia è “la teoria dei corpi viventi”, che indaga “quale sia l’origine delle specie e quali le principali cause della loro diversità, degli sviluppi della loro organizzazione e delle loro facoltà”.
Dietro la comparsa di un neologismo non stanno solo motivazioni formali ma anche nuovi programmi di ricerca. Nella fattispecie vi è un sogno – l’unificazione del campo biologico – realizzato grazie alla possibilità, finalmente offertasi, di dotare le histoires naturelles dei viventi della medesima ipotesi di lavoro: teoria dell’evoluzione, abbozzata da Lamarck nel 1800, affinata nel 1802 e compiutamente espressa nella Philosophie zoologique del 1809.
Da una parte sarà Fodera nel 1826 a scrivere il primo e organico Discours sur la biologie, e solo Comte nel 1838 riuscirà a redigere l’atto di nascita della biologia; ma dall’altra essi semplicemente svilupperanno il progetto di Lamarck, che certamente costituisce uno dei pilastri centrali della “seconda rivoluzione scientifica”.