Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
All’inizio del Cinquecento si aprono nuovi spazi alle relazioni economiche e politiche internazionali, si dilatano i confini del mondo e si impongono potenziali umani e risorse finanziarie prima sconosciuti. In questo scenario possono diventare protagoniste della scena politica solo grandi costruzioni statali, come la Francia e la Spagna, che si combattono per avere il predominio sull’Italia. In questo secolo prende forma e si afferma il termine “Stato”.
Conclusasi positivamente per la dinastia dei Valois la guerra dei Cent’anni contro l’Inghilterra, la Francia riprende rapidamente il suo rango di grande potenza, tanto più che la morte in battaglia di Carlo il Temerario (1477) non ha significato soltanto la fine di una minaccia sul confine orientale del regno, ma anche l’acquisizione di alcune province prima soggette al ducato borgognone. Poco dopo (1481), l’estinzione della dinastia angioina porterà anche la Provenza e l’Anjou sotto la corona dei re di Francia, e una serie di matrimoni vi aggiungerà la Bretagna. Nello stesso arco di anni il Regno di Castiglia e quello di Aragona si uniscono in seguito alle nozze fra i loro sovrani – Isabella di Castiglia e Ferdinando il Cattolico – che nel 1492 conquisteranno il Regno di Granada, ultimo residuo della dominazione araba nella penisola iberica, e successivamente la Navarra transpirenaica. Di là dall’Oceano, poi, i re cattolici estenderanno i loro domini sugli imperi americani. Le due monarchie sono impegnate per tutta la prima metà del XVI secolo a combattersi: in gioco vi è il predominio sull’Italia, i cui deboli Stati sono rapidamente sconvolti da quel prolungato conflitto che porterà alla fine della “libertà italiana”.
I processi di aggregazione territoriale e di accentramento del potere, nonché le guerre prolungatesi tanto a lungo con dispendio crescente per il sempre maggiore impiego di forze militari – ora dotate di armi da fuoco e di artiglierie – impongono amministrazioni organizzate ed entrate fiscali proporzionate ai nuovi bilanci: si assiste così allo sviluppo e alla trasformazione della cosa pubblica, e non è un caso che proprio in questo secolo prenda forma e si affermi il termine “Stato”. Lo storico Alberto Tenenti ha scritto: “Il senso moderno di Stato s’impone nella lingua italiana verso il 1550 e trionfa rapidamente nella seconda metà del Cinquecento. In francese Etat avrà un successo non inferiore, ma con alcuni decenni di ritardo. Già questo significa che durante tutto il XVI secolo la sensibilità e il pensiero politico sono travagliati da questo concetto. Esso, inoltre, si ritrova attraverso tutta la riflessione teorica di Jean Bodin, e anzi il campo concettuale costituito da questa idea dominante in gestazione è il luogo ove maggiormente si sviluppa il suo dialogo implicito o esplicito con Machiavelli”. Possiamo assumere Machiavelli e Bodin come nomi emblematici della riflessione sui problemi che la nuova età va scoprendo, dando vita a un pensiero politico innovatore.
La nascita della politica nell’età del Rinascimento non è dovuta alla riscoperta di testi antichi: gli scritti di Aristotele e di Platone su questo tema erano ben noti anche a teologi e filosofi medievali, sebbene nella loro visione gli ordinamenti terreni fossero generalmente connessi con preoccupazioni metafisiche. La battuta con cui Machiavelli replica all’amico Francesco Vettori nella lettera del 26 agosto 1513 – “né so quello si dica Aristotile delle republiche divulse (divise)” – vale in generale per tutto il suo pensiero; egli infatti non ha trovato nei classici la chiave degli avvenimenti e dei fenomeni politici moderni, e soprattutto non crede in modelli astratti: “Molti si sono immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere”, e occorre invece “andare dreto alla verità effettuale della cosa” (Il principe, XV). Certo, “la verità effettuale” non esclude la conoscenza degli avvenimenti passati, capace di mostrare esempi da seguire e da imitare, ma si fa pregnante se congiunta all’esperienza delle cose moderne: si potrebbe dire che per Machiavelli tutto il vissuto, degli antichi e dei suoi contemporanei, si trasforma in storia, o se si preferisce, che passato e presente si fondono in un unico quadro da analizzare nella sua concezione del mondo. L’immagine che Machiavelli dà di sé in un’altra famosa lettera al Vettori – quella del 10 dicembre 1513, in cui annuncia la composizione del Principe – ci fa comprendere anche il suo modo di procedere che unisce alle cure e alla curiosità per il vivere quotidiano la meditazione sui classici: proprio l’intreccio fra il continuo contatto con la vita e l’assiduo studio dei grandi autori del passato dà alla sua opera una peculiare originalità. Così, la recente vicenda di Cesare Borgia, detto il Valentino può offrire un ammaestramento, “perché io non saprei quali precetti mai dare migliori a uno principe nuovo che lo esemplo delle azioni sue” (Il principe, VII); ma insieme all’esperienze del presente non va trascurata la lezione delle vicende trascorse, soprattutto quelle dei Romani nei secoli in cui costruirono la loro repubblica. Dalla crisi che l’Italia, “corsa da Carlo, predata da Luigi, sforzata da Ferrando e vituperata da’ svizzeri” (Il principe, XII), conosce in quegli anni potrebbe venire “occasione a uno prudente e virtuoso d’introdurvi forma che facessi onore a lui e bene all’università delli uomini di quella” (Il principe, XXVI). Da qui scaturisce la riflessione di Machiavelli, resa però dolorosa dalla consapevolezza di quanto sia difficile arrivare a uno sbocco positivo, ossia a un rinnovamento analogo a quello che ha trasformato le grandi monarchie transalpine: “alcuna provincia non fu mai unita o felice se la non viene tutta alla ubbidienza d’una Republica o d’uno principe, come è avvenuto alla Francia e alla Spagna” – scrive nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (I, 12) – e l’ostacolo sta nella grande corruzione dei diversi Stati italiani e nella Chiesa che “ha tenuto e tiene questa provincia divisa”. “Machiavelli” – ha scritto Benedetto Croce – “scopre la necessità e l’autonomia della politica”. Questa sfera dell’agire umano è vista sciolta da qualsiasi subordinazione ad altre leggi e regole religiose, morali, consuetudinarie, che invece la condizionavano negli scritti dei pensatori precedenti. Gli uomini – e in questo è viva la lezione di Aristotele – sono animali politici e vanno considerati come un insieme di individui che formano un popolo, uno Stato. Il problema che Machiavelli si pone è la società, la res publica, a cui il cittadino è subordinato: per questo il mondo etico, in cui l’uomo agisce solo, non è tenuto in considerazione. Per Machiavelli, le leggi e la forza regolata dagli ordinamenti sono i cardini del vivere civile, e questo dev’essere assicurato anzitutto: lo afferma già nei suoi primi scritti politici, quando, preoccupato dalla debolezza di Firenze e scorgendo i rovinosi effetti delle milizie mercenarie, riesce a far prevalere l’idea di ricorrere ad “armi proprie”. Allora, spiegando La cagione dellOrdinanza premette: “Ognuno sa che chi dice Imperio, Regno, Principato, Republica, chi dice uomini che comandono [...] dice iustizia et armi”. La forza, è certamente essenziale, ma anche quello che con termine moderno chiamiamo consenso. E ripetutamente Machiavelli professa la sua ammirazione per la Francia, “il quale Regno è moderato più dalle leggi che alcuno altro Regno di che ne’ nostri tempi si abbia notizia” (Discorsi, I, 50). Per “mettere le barbe”, gettare profonde radici negli Stati, soprattutto nuovi, è opportuno fondarsi sul popolo, che ha “più onesto fine” dei grandi, “volendo questi opprimere e quello non essere oppresso”. Ma se è da preferirsi il “vivere libero”, il “vivere politico”, ossia il vivere sotto il governo di leggi valide per tutti, non possono essere date norme eterne e immutabili. Fra chi governa “quello è felice che riscontra el modo del procedere suo con el tempo” (Il principe, XXV), e capire il variare dei tempi e della fortuna è appunto virtù del politico. La virtù senza fortuna non basta, anzi l’esempio di Roma, che si era data ordini e leggi grazie alle quali aveva potuto accrescere e conservare il suo dominio, conquistato con la virtù dei suoi cittadini, mostra “quanto possa più la virtù che la fortuna” (Discorsi , II, 1). Né “autonomia della politica” significa necessariamente la sua anteriorità rispetto alla morale. Solo nelle “republiche corrotte” si può essere costretti a prescindere da ogni considerazione etica e ricorrere a “una mano regia”, oppure “dove si delibera al tutto della salute della patria”: in tale caso straordinario “non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d’ingiusto, né di pietoso né di crudele, né di laudabile né d’ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e mantenghile la libertà”. È la traduzione, in fondo, dell’antico principio ripetuto da Cicerone: “Salus populi suprema lex esto” (De legibus, III, 3). E tuttavia, chi ha enunciato queste norme, che gli hanno valso condanne ed esecrazione, aveva saputo intuire ciò che soltanto la moderna antropologia storica ha notato nella città antica: nella sua vita politica, anche quando vige un regime democratico che implica un processo di laicizzazione, la dimensione religiosa è essenziale.
Così per Machiavelli, “a volere mantenere una civiltà”, la religione è “cosa al tutto indispensabile” (Discorsi, I, 11): certo, la religione degli antichi era più idonea a fondare le basi di uno Stato bene ordinato, perché suscitava passione civile e solidarietà patria, mentre “la nostra religione [...] ci fa stimare meno l’onore del mondo” (Discorsi, II, 2), e per di più è travagliata da una “declinazione” che l’ha allontanata dai suoi principi e non si è “mantenuta secondo che dal datore dessa ne fu ordinato” (Discorsi, I, 12). Queste considerazioni che attribuiscono funzione fondamentale alla religione, però, non vanno confuse con quelle norme della “ragion di Stato” tendenti a ridurre la fede a instrumentum regni: a differenza di ciò che afferma Machiavelli, non si tratta in questo caso di rinnovare le istituzioni politiche, ma di stringere un’alleanza conservatrice fra trono e altare, per garantire l’azione dei monarchi assoluti con l’opera di disciplinamento intrapresa dalla Chiesa della Controriforma.
Lettore attento di Machiavelli (nonostante qualche giudizio dettato da opportunità), anche il giurista francese Jean Bodin è spinto a riflettere sulla politica dalla crisi francese della seconda metà del Cinquecento. Dopo il prestigioso regno di Francesco I e quello di Enrico II, troncato drammaticamente nel 1559, la Francia – entrata nel tempestoso periodo delle guerre civili fra cattolici e ugonotti – appare a Bodin come una nave squassata “con tale violenza che i capitani e i piloti sono tutti ugualmente stanchi e sfiniti dalla diuturna fatica”. Tutti devono intervenire a prestare soccorso: “Perciò, per mio conto, non potendo far niente di meglio, ho intrapreso questo mio discorso sullo Stato”. Nondimeno, proprio in quei tormentosi decenni il Paese offre la prova della solidità delle sue strutture politiche e civili, mantenendo la sua individualità con un progressivo senso di solidale aggregazione che assumerà sempre più chiaramente carattere nazionale, così da dar vita a una fioritura culturale che si orna dei nomi di Rabelais, di Ronsard e dei poeti della Pléiade, di Montaigne e dello stesso Bodin. Per capire questa tenuta della Francia come corpo unitario, nonostante le feroci lotte intestine e i contrasti religiosi, va tenuto presente che una forza sociale si leva allora a dare nuove energie e nuove risorse al Paese: è quell’aristocrazia del Terzo Stato che, arricchitasi con i commerci e le operazioni finanziarie, va indirizzando un numero crescente dei propri figli verso gli studi giuridici, grazie ai quali si aprono loro nuove carriere e nuovi poteri negli uffici e nelle cariche amministrative del Regno. Forte del proprio sapere e del proprio prestigio economico e sociale, questo ceto svolge una preziosa funzione politica e culturale, formando quasi il tessuto connettivo del corpo statale. Uomo di legge è lo stesso Bodin: dopo il 1550 è per un decennio all’università di Tolosa e in seguito diventa avvocato nel parlamento di Parigi, dove pronuncia un giuramento di fedeltà al cattolicesimo che altri illustri giuristi avevano giudicato lesivo per la propria dignità intellettuale. Seppure in un’ottica diversa da quella di Machiavelli, anche per l’autore della République la religione è un vincolo sociale che non va spezzato. Sarebbe tuttavia superficiale vedere una contraddizione fra il teorico dello Stato e il pensatore che nel Dialogo dei sette saggi fa discutere insieme “sulle sublimi cose arcane” sette sapienti seguaci di diverse fedi religiose e di diverse filosofie. Chi nel 1561 scrive a un amico “la vera religione non è altro che un volgersi al vero Dio di una mente purificata”, negli Stati generali convocati a Blois nel 1576 è fautore deciso della pace religiosa sotto l’egida del sovrano, contro i propositi oltranzistici della Lega cattolica. Se poi in vari casi sceglie la via della dissimulazione, è probabilmente perché altro è assumere ferme posizioni in consessi politici riuniti per deliberare, altro esporsi individualmente in mezzo a disordini popolari. La posizione difesa a Blois e contrastata dalla fazione leghista si ricollega a uno dei cardini dell’opera di Bodin: l’idea di sovranità come più alta espressione della vita politica. Ancora in quegli anni vi era stata una ripresa di ideali neoghibellini (a favore dell’imperatore), legata alla comparsa sulla scena europea di Carlo V e alle speranze riposte nel più potente monarca della cristianità, perché rendesse possibile il superamento dei contrasti religiosi provocati dalla Riforma protestante, rinnovando l’azione che nel IV secolo l’imperatore romano Costantino aveva svolto convocando e presiedendo il concilio di Nicea (325). Nella seconda metà del Cinquecento si tende ad attribuire a diversi principi, ciascuno nel proprio dominio, autorità in ambito temporale e spirituale, un primato fino allora assegnato soltanto all’imperatore. In effetti, un potere assoluto è stato da tempo riconosciuto proprio al re di Francia, il quale – secondo un’antica formula – “non ha superiori nel suo Regno”. La formulazione di Bodin è netta: “Per sovranità s’intende quel potere assoluto e perpetuo che è proprio dello Stato” (République, I, VIII). La sua trattazione procede in modo sistematico, anche perché la sua opera rispecchia la complessità della monarchia francese, sebbene svolta nella linea culturale caratteristica dei giuristi francesi, che avevano introdotto nei loro studi il metodo storico-filologico degli umanisti, esaminando il diritto e le istituzioni politiche come prodotti del tempo legati ai progressi della società. Con decisione viene affermata la preferenza per la forma monarchica ed ereditaria: seppur sottoposta a leggi che impediscano l’arbitrio, l’interesse dello Stato può tuttavia richiedere l’intervento del potere assoluto. Così, in caso di torbidi e situazioni ambigue – ed è evidente l’influsso che su tale indicazione hanno le vicende francesi del tempo – possono essere necessarie misure straordinarie di emergenza prese dal sovrano che, meglio di ogni altro, anche del legislatore e del magistrato, è in grado di valutare la priorità del bene pubblico su quello privato, secondo la varietà dei tempi. Pur distinguendo il monarca dal tiranno, Bodin afferma la necessità di rispettarne sempre gli ordini, piuttosto che rischiare la ribellione e l’anarchia. Insomma, la sovranità dev’essere assoluta, superiore a tutto e a tutti, e indivisa; il suo sovrano poteva piacere a Luigi XIV di Borbone, il Re Sole, perché era invitato a imitare la saggezza divina mostrandosi raramente ai sudditi e in ogni modo con maestà conveniente alla sua grandezza. Nel respingere le opinioni di pur “grandi personaggi” che avevano giudicato migliore di tutte la forma mista di governo, Bodin confuta quegli scrittori che hanno visto nel regime francese un insieme di aristocrazia (il parlamento di Parigi), di democrazia (gli Stati generali) e di monarchia: “Tale opinione, oltre che assurda, è criminosa: infatti fare i sudditi compagni e colleghi del principe sovrano è crimine di lesa maestà” (République, II, 1). Se teniamo presente che l’opera viene scritta appunto nel corso delle guerre civili, quando il potere regale viene continuamente contestato e la stessa persona del principe è minacciata dagli oppositori dell’assolutismo, possiamo capire l’insistenza con cui Bodin, per impedire il naufragio della Francia, indica nel re una maestà poco meno che divina: l’essenza dello Stato è la sovranità e le prerogative di questa non sono separabili l’una dall’altra. Quasi intuendo i futuri sviluppi delle lotte intestine e il demagogico governo dei Sedici che costringerà Enrico III ad abbandonare Parigi nel 1588, alla fine dell’opera Bodin arriva ad affermare che se “la tirannide di un principe è perniciosa, quella di molti (è) ancora peggiore, ma non c’è tirannide più pericolosa di quella di tutto un popolo” (République , VI, 4). E più avanti, confrontati i tre regimi democratico, aristocratico e monarchico e indicati i disastrosi inconvenienti dei primi due, come pure i pericoli del terzo, vede questi ultimi farsi minimi in una monarchia ereditaria; in ogni modo, “il punto principale dello Stato, che è il diritto di sovranità, non può essere né sussistere, a parlare con esattezza, se non nella monarchia”. Bodin afferma dunque deciso: “Nessuno può essere sovrano in uno Stato se non uno solo; se ci sono due o tre o più persone che esercitano la sovranità, nessuno in realtà è sovrano, poiché nessuno può dare né ricevere legge dal suo compagno” (République, VI, 5). Nelle pagine finali, l’antropomorfismo dello Stato serve a paragonare il monarca all’intelletto umano “che tiene luogo di unità”, ma non è del tutto indispensabile, giacché esistono uomini che ne sono privi: “Così l’aristocrazia e la democrazia, che non hanno un re, continuano a reggersi e governano il loro Stato, e tuttavia non sono unite né internamente collegate come lo sarebbero se ci fosse un principe, che è come l’intelletto che unisce tutte le parti e le accorda insieme” (République, VI, 6). Non è facile stabilire quanto la lezione di Bodin sia stata assorbita effettivamente dalla cultura politica francese del suo tempo, ma è certo su questa linea che il Regno sarebbe stato restaurato alla fine delle guerre di religione e si sarebbe sviluppato nel corso del Seicento, ponendosi come esempio per quasi tutte le altre monarchie d’Europa.