di Gianluca Pastori
La crisi ucraina e le tensioni che essa ha provocato fra la Russia e l’Alleanza Atlantica hanno riportato d’attualità il tema dell’allargamento della Nato verso est e dei limiti geografici di un’organizzazione che sempre più chiaramente si presenta e si percepisce come ‘globale’. Il processo di allargamento ha avuto inizio nei primi anni Novanta con l’ammissione della Germania Orientale dopo la riunificazione (1990), si è esteso a fine decennio a Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria (1999) ed è proseguito, quindi, prima con l’ammissione delle tre repubbliche baltiche, della Bulgaria, della Slovacchia, della Slovenia e della Romania (2004), infine con quella di Croazia e Albania (2009). Con il vertice di Bucarest (2008), la questione è stata, invece, messa ufficialmente in stand by; ciò nonostante la dichiarazione dei capi di stato e di governo confermasse in più punti la volontà di estendere la membership all’Ucraina e alla Georgia e di appoggiare la loro richiesta di ammissione al Membership Action Plan, passo che il vertice di Washington (1999) aveva reso necessario per acquisire lo status di membri dell’Alleanza.
La Russia ha guardato a questo processo con una preoccupazione che si è gradualmente trasformata in aperta ostilità. Già nel 2008, la crisi diplomatica e militare con la Georgia si è legata – oltre che alla questione della sovranità delle due repubbliche ‘secessioniste’ dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale – alla volontà di Mosca di riaffermare la sua centralità nello spazio ex-sovietico in un periodo in cui la prudenza dei vertici Nato si contrapponeva alle pressioni di Tbilisi per un rafforzamento della cooperazione politica con l’Alleanza. La frattura prodotta dal (peraltro breve) conflitto russo-georgiano non è stata sanata con il ‘restart’ voluto dall’amministrazione Obama nel 2009 e ha trovato un riflesso più o meno consapevole nelle vicende ucraine del 2014. In questo contesto, la difficile relazione di Kiev con le istituzioni occidentali non appare sufficiente a lenire i timori di Mosca; al contrario, le oscillazioni nell’atteggiamento dell’opinione pubblica e dei vertici politici ucraini concorrono ad alimentare, in Russia, il timore che decisioni ‘a sorpresa’ possano porre il Cremlino di fronte a qualche sgradito fatto compiuto.
Parallelamente, anche l’atteggiamento dell’Alleanza è andato incontro a un progressivo irrigidimento. L’interruzione della collaborazione tecnica e politica a livello di Nato-Russia Council (marzo 2014) se da una parte non ha interrotto il dialogo ad alto livello, dall’altra ha riportato le relazioni fra le parti a un livello ‘pre-restart’. Il peso assunto, in seno all’Alleanza, dai nuovi membri dell’Europa centro-orientale e dalle loro priorità di sicurezza ha concorso ad alimentare questo processo. Nella stessa direzione ha spinto la frammentazione del gruppo dei membri ‘storici’ e la crescente rinazionalizzazione delle loro agende di sicurezza. La crisi libica (2011), nelle sue dimensioni interne all’Europa e all’Alleanza Atlantica, ha fornito una chiara dimostrazione di questo stato di cose. Lo spostamento a est dell’attenzione della Nato rispecchia, in ciò, mutamenti profondi in seno all’Alleanza stessa; mutamenti che – come delinea anche il comunicato finale del vertice di Celtic Manor, con la sua rinnovata enfasi sul tema della sicurezza collettiva – paiono destinati ad avere effetti profondi e duraturi sulla sua nuova postura.
Se le ripercussioni del braccio di ferro in atto fra Mosca e Kiev hanno dato al problema particolare urgenza, il tema delle frontiere della Nato e della loro graduale estensione rispecchia, quindi, problemi più ampi. Al momento, due paesi (Fyrom/Macedonia e Montenegro) hanno siglato con l’Alleanza un Membership Action Plan, mentre un terzo (Bosnia-Erzegovina) è stato invitato a farlo dopo avere risolto alcune questioni relative ai propri assetti difensivi; la Georgia mantiene lo status di candidato in pectore ricevuto durante il vertice di Bucarest ed è attivo un programma di dialogo con la Serbia che, pur non essendo finalizzato all’adesione, mira ad approfondire la collaborazione in corso e a giungere alla stipula di un Individual Parnership Action Plan come quelli conclusi, fra il 2004 e il 2008, con Georgia, Azerbaigian, Armenia, Kazakistan, Moldova, Montenegro e Bosnia-Erzegovina. Diversi sono, quindi, i possibili fronti di scontro con Mosca che – seppure in maniera non ufficiale – ha già fissato nella possibile membership di Belgrado una linea rossa il cui superamento non sarebbe più disposta ad accettare.
La dinamica degli eventi non sembra destinata a stemperare queste tensioni. Quello che è percepito come l’atteggiamento neo-imperiale di Mosca produce, in seno alla Nato, una crescente ‘domanda di sicurezza collettiva’, che consolida la posizione dei membri più esposti e ne accresce il peso contrattuale. Allo stesso tempo, le ripetute richieste di Mosca di avere comunque voce in capitolo nella gestione del processo di allargamento spingono l’Alleanza ad arroccarsi in difesa del principio della ‘porta aperta’, incarnato nell’art. 10 del Trattato di Washington. L’irrigidimento del confronto sembra spingere, quindi, le parti verso una crescente estraniazione e accrescere, all’interno dell’Alleanza, il peso dei paesi dell’Europa centro-orientale. Ciò conferisce alla questione ucraina un peso e una profondità particolari. La posta in gioco a Kiev non è solo il futuro politico del paese e delle sue relazioni con l’ingombrante vicino russo, ma anche (forse soprattutto) gli assetti di una Nato che, dopo il ripiegamento post-Afghanistan, sembra avere trovato una ragion d’essere nella riscoperta del suo core business.