La nazione oggi
Con la caduta del muro di Berlino nel 1989, la fine del comunismo nell’Europa orientale e il disfacimento dell’Unione Sovietica, sembrò che una nuova era di pacifica convivenza internazionale potesse seguire a quasi mezzo secolo di antagonismo fra le due maggiori superpotenze, ideologicamente contrapposte in uno stato di Guerra fredda, vissuto attraverso alterne fasi di tensione e di distensione, ma sempre sotto l’incubo di una guerra atomica. Alla speranza di una rifondazione di un ordine internazionale su basi pacifiche si accompagnava la convinzione, già da tempo diffusa, che la fine dell’epoca della Guerra fredda avrebbe dato maggior impulso anche al superamento definitivo del fenomeno del nazionalismo, che per duecento anni aveva dominato la storia europea e mondiale, provocato due guerre mondiali e plasmato l’assetto politico del pianeta sulla base del principio e della realtà dello Stato nazionale come la massima forma di organizzazione collettiva, rigidamente distinta dall’affermazione della propria sovranità entro confini territoriali, considerati immutabili e intangibili.
Le previsioni sul tramonto del nazionalismo, della nazione e dello Stato nazionale giungevano alla fine di un secolo interamente dominato dal nazionalismo, che lasciava al nuovo secolo l’eredità di un mondo organizzato in Stati nazionali. Anche se «nazione» e «Stato» sono entità storicamente e concettualmente differenti, è significativo che le due principali organizzazioni internazionali di Stati sovrani, istituite nel corso del Novecento per garantire la pace e la sicurezza, siano state denominate Società delle nazioni (1920-46) la prima, Organizzazione delle nazioni unite (costituita nel 1945) la seconda, quasi a voler conferire, in questa forma, un riconoscimento ufficiale al primato della nazione sia come principale forma di aggregazione dei popoli sia come principio universale di legittimazione dello Stato.
All’odierna situazione del pianeta suddiviso in Stati nazionali l’umanità è giunta attraverso un processo storico, che si è svolto nel corso degli ultimi due secoli del secondo millennio, sebbene, come accade per qualsiasi processo storico, premesse e condizioni che ne hanno favorito la nascita e lo sviluppo possano essere ricercate anche più indietro nel tempo. Tuttavia solo nell’Età contemporanea lo Stato nazionale come organizzazione politica, giuridica e militare, che deriva dalla nazione la sua legittimità, è emerso e si è imposto quale massimo protagonista degli eventi politici e militari che hanno deciso la vita interna e internazionale dell’umanità, svolgendo, inoltre, un ruolo decisivo nelle grandi trasformazioni economiche, sociali e culturali che hanno forgiato il mondo attuale.
Lo Stato nazionale e il nazionalismo sono principalmente creazioni della civiltà europea. Essi si fondano su una concezione della nazione che si è venuta formando nel corso del 19° secolo. Prima dell’Età contemporanea, il termine «nazione» era variamente adoperato per definire un qualsiasi aggregato umano distinto da una o più caratteristiche comuni, etniche, linguistiche, territoriali o religiose, anche se il più delle volte si trattava di aggregati di composizione e con contorni fluidi e cangianti, perché mancava a essi il fattore coesivo di una consapevole e attiva volontà unitaria, quale si afferma, generalmente, nella coscienza politica. In effetti, prima dell’Età contemporanea molto raramente la nazione era concepita come una popolazione unita dalla coscienza di una comune identità storica e culturale, che trovava poi attuazione in una comune coscienza e volontà politica.
Nei vari modi in cui l’idea di nazione è stata interpretata nel corso dell’Ottocento e del Novecento, si è dato maggior risalto, nell’indicazione dei suoi elementi generatori e costitutivi, ora ai fattori naturali, come la razza, la stirpe, l’etnia; ora ai fattori culturali, come la lingua, la religione, i costumi, la tradizione, le istituzioni; ora – ed è il caso più frequente – a una varia combinazione di questi fattori, con l’accentuazione dell’uno o dell’altro. La nazione, secondo una prevalente concezione moderna, come principio di legittimazione dello Stato, è un aggregato umano che condivide un’identità collettiva, risultante da un complesso di fattori unificanti, sia oggettivi sia soggettivi, quali l’etnia, la lingua, il territorio, la tradizione, la cultura, la religione, i costumi, le istituzioni. Come tale, la nazione è un aggregato umano che ha una propria individualità, e diviene consapevole di sé perpetuandosi nel tempo attraverso la memoria e la volontà di quanti ne fanno parte, nella successione delle generazioni. Corollario di questa concezione è divenuto, fin dalla metà dell’Ottocento, il principio di nazionalità, cioè il diritto della nazione a organizzarsi politicamente in modo autonomo, in uno Stato indipendente e sovrano. In tal modo, nell’Età contemporanea, «Stato» e «nazione» sono stati progressivamente accostati fin quasi a diventare necessariamente complementari nell’istituzione dello Stato nazionale.
In realtà la coincidenza fra la nazione e lo Stato, nella realtà dello Stato nazionale, è più un postulato ideologico, un progetto politico, un’aspirazione ideale che un’effettiva realtà. Non solo, infatti, gli Stati nazionali attualmente esistenti sono in numero notevolmente inferiore rispetto alle aggregazioni umane che ritengono di possedere una propria individualità nazionale, ma in realtà molto spesso lo Stato con più antica storia di unità politica – come la Spagna, l’Inghilterra, la Francia – contiene entro i suoi confini minoranze etniche, linguistiche e religiose, che in molti casi rivendicano una nazionalità diversa dalla nazione dominante, e quindi aspirano a costituirsi in uno Stato proprio, o reclamano una sostanziale autonomia, per preservare e perpetuare la loro peculiare identità. Inoltre, va considerato che, nella storia contemporanea, lo Stato ha esercitato ovunque un ruolo decisivo nel formare – o nel tentare di formare – una coscienza nazionale in popolazioni che non solo ne erano sprovviste, ma spesso condividevano ben pochi elementi comuni – come per es. la Svizzera – che potessero indicarle già come aggregazioni costituenti una nazione, nel senso moderno.
La moderna concezione della nazione è connessa comunque con l’idea dello Stato indipendente e sovrano e con il fenomeno del nazionalismo. Per nazionalismo è da intendersi, nel senso più generale in uso nella storiografia e nell’analisi teorica (e quindi senza attribuirgli una connotazione morale o politica), qualsiasi movimento che: a) afferma l’esistenza della nazione come realtà di fatto e ne auspica la conservazione; b) sostiene e promuove il primato della nazione nella vita collettiva, e tende a realizzarlo principalmente nell’istituzione di uno Stato indipendente e sovrano; c) colloca al vertice dei valori civici del cittadino il dovere di lealtà e fedeltà verso lo Stato nazionale, circondando la nazione di un’aura di sacralità. Per il nazionalismo, la funzione dello Stato nazionale non è solo di assicurare, regolare e proteggere lo svolgimento della vita collettiva della popolazione che esso governa: lo Stato nazionale ha altresì il compito fondamentale di coltivare, preservare e perpetuare l’identità nazionale nella coscienza dei cittadini, affratellandoli nell’amor di patria.
La nazione, il nazionalismo, lo Stato nazionale hanno raggiunto una dimensione planetaria nella seconda metà del Novecento. È in questo periodo, infatti, che si registra il più alto indice di natalità di nuovi Stati, come dimostra l’aumento dei membri delle Nazioni unite: erano 51 nel 1945, all’atto della sua costituzione; divennero 82 nel 1960, 135 nel 1973, 159 nel 1988, fino ad arrivare, nel 1997, a 187 e nel 2010 a 192. La Seconda guerra mondiale segnò una svolta decisiva nella storia del nazionalismo. Nell’Europa devastata e distrutta si levarono autorevoli voci di politici e intellettuali, i quali reclamavano la fine di ogni nazionalismo e il superamento dello Stato nazionale, considerati principali responsabili delle guerre e degli stermini inflitti all’umanità in meno di mezzo secolo. Nella coscienza delle democrazie europee, il ricordo della Seconda guerra mondiale favorì una profonda trasformazione culturale e morale nei confronti del nazionalismo, facendo scomparire dal centro della politica la mentalità razzista o tendenzialmente razzista, la cultura marziale che esaltava i valori militari come essenza del patriottismo, il mito della politica di potenza associata alla forza delle armi e all’estensione dei domini territoriali, tutto ciò, insomma, che era stato associato al nazionalismo europeo, dalla metà dell’Ottocento alla Seconda guerra mondiale. Le ambizioni e le esibizioni di grandezza e di potenza degli Stati nazionali, che avevano dominato e tormentato la vita del continente per secoli, furono relegate definitivamente fra le memorie di un tragico passato, anche se qualcuno degli Stati più grossi fra i vincitori del secondo conflitto mondiale, come la Francia e la Gran Bretagna, mantenne ancora atteggiamenti da grande potenza sulla scena mondiale. Ripudiare il nazionalismo che divideva i popoli europei fu considerata la sola via per preservare all’Europa, nella nuova epoca degli Stati continentali, la sua identità culturale, e per dare agli europei la capacità di controllare e decidere il proprio destino. L’emergere di una più vigorosa aspirazione a superare antichi odi e rivalità fra le nazioni europee, riscoprendo comuni matrici culturali e tradizioni spirituali, sembrò incoraggiare i tentativi miranti alla riduzione e alla limitazione della sovranità degli Stati nazionali entro nuove strutture politiche ed economiche di dimensioni europee, attraverso forme più o meno accentuate di federalismo.
Con questo spirito furono gettate le basi per la costruzione di una comunità europea che, nell’intento dei suoi promotori, avrebbe dovuto portare al superamento dello Stato nazionale nello stesso continente nel quale il fenomeno nazionale era nato e si era sviluppato.
Ridimensionato in Europa, dalla Seconda guerra mondiale il nazionalismo trovò nuovi e più vasti territori di espansione in Asia, in Africa, in Oceania, dove si affermò con il successo dei movimenti rivoluzionari anticolonialisti, che posero fine ai possedimenti imperiali europei, accrescendo notevolmente il numero degli Stati nazionali. Dall’esperienza dei movimenti di liberazione anticolonialista sono sorte varie forme di nazionalismo, ognuna recante tracce della tradizione nazionale europea combinata con predominanti motivi della cultura indigena, nella ricerca di una formula nuova, volta a esaltare l’originalità della nazione in costruzione. Questo nazionalismo anticolonialista, antimperialista, populista, socialista o socialisteggiante, in gran parte creazione di élite indigene occidentalizzate, ha sviluppato una sua originalità innanzi tutto nell’avversione, più o meno radicale, per l’Occidente e la civiltà occidentale e, quindi, nell’esaltazione delle proprie tradizioni; quest’ultima spesso però accompagnata da un’ideologia modernizzatrice, variamente associata a forme di socialismo e di collettivismo, entro regimi a partito unico che avevano notevoli analogie con i nazionalismi totalitari, compresa una spiccata componente razzista e xenofoba. Con questi mezzi, i nazionalismi anticolonialisti, dopo la liberazione, si proponevano di creare una nuova nazione dall’eterogeneo aggregato di popolazioni ereditato dal colonialismo.
Da questo punto di vista, le vicende dei nazionalismi anticolonialisti sembrano ripercorrere, in situazioni completamente differenti, ma avendo comunque presente l’esperienza occidentale, il cammino dei nazionalismi europei, dal nazionalismo risorgimentale a quello totalitario. Le credenze religiose – soprattutto la religione islamica – hanno altresì avuto un ruolo decisivo nella formazione di questi nazionalismi e nella rivolta contro l’Occidente, ma si sono rivelate anche un ostacolo insormontabile ai progetti di modernizzazione e di laicizzazione che i nazionalismi anticolonialisti intendevano realizzare. Nello stesso senso, il prevalere del tradizionalismo etnico e dei violenti antagonismi tribali, la scarsità o lo sperpero delle risorse, il predominio di nuove caste militari hanno reso quanto mai incerta e precaria la costruzione della «nuova nazione».
La forza e la celerità espansiva del fenomeno nazionale costituiscono uno dei più complessi e affascinanti problemi del mondo contemporaneo. Sempre più numerosi sono diventati, dopo la Prima guerra mondiale e soprattutto nella seconda metà del 20° sec., i tentativi fatti per analizzare e interpretare l’origine e la potenza di questo fenomeno. Centrale, in questi tentativi, è innanzi tutto la questione della nazione, che riguarda non solo la sua definizione concettuale, ma il problema stesso della sua natura: se la nazione è da considerarsi una realtà perenne, un’entità primordiale e insopprimibile, perché ha le basi nella natura stessa dell’essere umano, e quindi è e sarà costantemente presente nel suo divenire; oppure se si tratta di una realtà temporanea, cioè di una forma di aggregazione collettiva, che è apparsa in un’epoca recente della storia, ha avuto origine da esigenze e necessità economiche e politiche dello Stato moderno, dalla centralizzazione, dalla burocratizzazione, dall’industrializzazione, e che pertanto, in tempi più o meno prossimi, andrà incontro a un superamento, se non proprio all’estinzione, in seguito al cambiamento delle circostanze storiche da cui la nazione, lo Stato nazionale e il nazionalismo hanno avuto origine.
L’ideologia e l’organizzazione dello Stato nazionale, secondo alcuni studiosi, non appaiono più funzionali alle nuove forme di organizzazione sociale e politica che scaturiranno da questi processi sovranazionali in rapido sviluppo, e saranno perciò inevitabilmente accantonate, insieme con i confini territoriali e la sovranità assoluta dello Stato nazionale, a favore di organizzazioni politiche più ampie, come l’Unione Europea. Allo stesso modo, la globalizzazione culturale e le migrazioni dei popoli, tendendo a dissolvere le artificiali costruzioni delle identità nazionali, condannano il nazionalismo stesso a una prossima estinzione, anche se preceduta dalle fiammate di una sua residua vitalità. A tale previsione parevano recare ulteriore conferma i sintomi evidenti di una crisi dello Stato nazionale nel mondo occidentale e in particolare in Europa. L’avversione generalizzata per lo Stato burocratico centralizzato; l’impulso a una sempre maggiore particolarizzazione della democrazia entro dimensioni locali; l’attivazione politica di rivendicazioni etniche secondo una logica esclusivistica; la spinta individualistica a rivendicare spazi sempre più ampi ai propri diritti, a scapito dei tradizionali doveri civici connessi con lo Stato nazionale: tutto ciò, unito ai processi internazionali accennati, può effettivamente accelerare la crisi dello Stato nazionale e dell’idea che lo sostiene, nella forma derivata dalla tradizione ottocentesca. Ma, nelle più recenti vicende del mondo contemporaneo, anche i sostenitori dell’altra interpretazione traggono elementi di verifica e di conferma. I sostenitori della teoria della nazione reale, pur non negando la realtà di un nuovo mondo in formazione, sono tuttavia convinti che le nazioni, in quanto realtà di fatto e non mere costruzioni ideologiche, non siano destinate a scomparire, come mostrano il risveglio delle nazionalità e dei nazionalismi dopo il crollo dell’impero sovietico e il perdurare delle tensioni e dei conflitti etnici, anche se l’attuale organizzazione dello Stato nazionale dovesse essere superata entro configurazioni politiche nuove. Dopo il 1989, un imprevisto incentivo alla nascita di nuovi Stati nazionali, indipendenti e sovrani, è provenuto dal crollo dell’impero sovietico e dalla fine dei regimi comunisti nell’Europa orientale, cui hanno fatto seguito la dissoluzione dell’URSS (dicembre 1991), la disgregazione della Iugoslavia (1991-92), la divisione della Cecoslovacchia (gennaio 1993). Alla fine del secondo millennio, l’umanità continua a vivere divisa in nazioni e in Stati nazionali, e non sembra affatto prossimo un loro effettivo superamento. Il nazionalismo, più di qualsiasi altra forza politica, ha rivelato una straordinaria plasticità di adattamento e un potente fascino di mobilitazione. Da movimento e ideologia originariamente tipici dell’aristocrazia e della borghesia liberali e progressiste, il nazionalismo si è sviluppato spesso, per la sua stessa logica, come forza interclassista, anche se con prevalenza dei ceti medi, quale appare nella storia europea, e come forza populista, quale appare specialmente nell’America Latina e nel Terzo mondo. Infine, il nazionalismo conferma la sua plasticità nell’adattarsi a essere forza di mobilitazione sia per il tradizionalismo sia per il modernismo: agisce come fattore di accelerazione del progresso e del cambiamento oppure come fattore di riattivazione e di rinvigorimento della difesa intransigente della società tradizionale. Dall’intreccio di nazione, Stato nazionale e nazionalismo è sorto il fenomeno nazionale contemporaneo, assumendo l’efficacia e la potenza della principale forza politica, capace di influenzare, condizionare e trasformare tutte le altre forze con le quali entra in collaborazione o in competizione, riuscendo a trapiantarsi e a svilupparsi in ogni continente, adattandosi alle più varie culture e civiltà, combinandosi con le più diverse ideologie e religioni, dando così origine, nella concreta vicenda della storia contemporanea, a una complessa varietà di nazionalismi. Il nazionalismo, comunque si voglia definire la nazione, non ha perso il suo fascino come forza di mobilitazione politica, la sua capacità di adattamento, di metamorfosi e di simbiosi. La riattivazione di movimenti xenofobi, e spesso razzisti, nelle più sviluppate società occidentali, specialmente per reazione a fenomeni migratori di massa dai Paesi poveri dell’Africa e dell’Asia; la ricerca di identità culturali entro confini regionali e su basi etniche; il risveglio o la nascita di movimenti di micronazionalismo separatista negli Stati nazionali europei possono predisporre le condizioni per un’ulteriore metamorfosi del nazionalismo, in forme e dimensioni nuove. Non si può esser certi che la nazione, come realtà o come mito, abbia esaurito la sua fecondità produttrice di nuovi Stati. In molte regioni del mondo sono vivi, e spesso animosi e violenti, i sentimenti, le passioni, e i conflitti attivati da varie forme di nazionalismo. In tutti i continenti, all’interno di Stati di antica o di recente costituzione, si agitano minoranze etniche, religiose o linguistiche che, affermando di possedere una propria nazionalità, si considerano sottoposte e sfruttate dalla nazione dominante e, di conseguenza, si agitano per rivendicare l’autonomia o la sovranità politica, oppure aspirano a congiungersi allo Stato al quale, per affinità nazionale, ritengono di appartenere. In conclusione, alla fine del primo decennio del 21° sec., nonostante l’apparente superamento dello Stato nazionale, della nazione e del nazionalismo per effetto della globalizzazione e delle trasformazioni della vita economica e sociale contemporanea (dove sempre più si impongono relazioni collettive sopranazionali e si diffonde l’adozione di valori, conoscenze, atteggiamenti, comportamenti, mentalità e costumi internazionali uniformi) non sembra affatto che il fenomeno nazionale e gli elementi che lo compongono – la nazione, lo Stato nazionale e il nazionalismo – siano destinati a scomparire in un prossimo futuro.
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