Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La Norvegia acquista l’indipendenza dalla Svezia nel 1905 pur mantenendone molti punti in comune nell’evoluzione politica. Partecipa dell’esperienza della socialdemocrazia scandinava e all’avvio della seconda guerra mondiale tenta, senza riuscirvi, di rimanere neutrale. Una volta liberatosi dall’oppressione nazista, il Paese entra a far parte degli organismi internazionali e dell’alleanza atlantica. Nella seconda metà del secolo i suoi governi, sostenuti dall’opinione pubblica, assumono sovente atteggiamenti di isolamento rispetto alle prospettive di unificazione europea.
Tempo di guerra: la politica del non intervento
Durante il XIX secolo la Norvegia vive una felice stagione caratterizzata da successi politici ed economici. Tra l’altro il Paese può avere una bandiera nazionale, viene soppressa la carica di viceré e la Costituzione di Eidsvoll del maggio 1814, la più liberale del tempo, dà tutto il potere legislativo allo Storting (parlamento) e concede al re solo un voto di sospensione. Il parlamento norvegese, che viene eletto a suffragio censitario, si divide in due sezioni: il Lagting o Camera alta e l’Odelsting o Camera bassa. Anche l’economia conosce un ampio sviluppo: la pesca, il cabotaggio, il trasporto per conto di altre nazioni fanno della flotta norvegese la terza, per tonnellaggio, al mondo. Un notevole fervore caratterizza altresì la vita culturale che è alimentata dalle energie di famosi artisti ed esploratori; questa élite di intellettuali (fra i quali si ricordano Ibsen, Bjørnson, Lie, Kielland, Hamsun) contribuisce a creare una coscienza della reale situazione e delle reali possibilità del Paese e rende possibile la diffusione sempre più ampia del sentimento nazionale che mira a ottenere l’indipendenza completa dalla Svezia. Del resto i legami ancora esistenti con il Paese egemone, si rivelano dannosi sul piano economico. Per questo motivo e per un lungo periodo lo Storting reclama la creazione di consolati norvegesi, che contribuiscano a realizzare una politica commerciale diversa da quella di Stoccolma.
Sotto la spinta dei liberali, il 7 giugno 1905, lo Storting dichiara il sovrano svedese Oscar II decaduto dalle funzioni di re di Norvegia. La Svezia è costretta a questo punto ad accettare la separazione e lo Storting elegge re di Norvegia un principe danese con il nome di Haakon VII. Il Paese già nel 1898 adotta il suffragio universale maschile ed è fra i primi al mondo a concedere nel 1913 il diritto di voto alle donne. Come la Svezia, il Paese si mantiene neutrale nel corso della prima guerra mondiale. Tale scelta non è senza conseguenze sul piano della struttura territoriale del Paese: nel 1914 la Norvegia perde l’Islanda e le isole Faer Oer, perché appartenenti alla Danimarca; il Paese deve altresì rinunciare alla Groenlandia e accontentarsi delle Spitzbergen, che le vengono riconosciute dal trattato di Versailles, conclusivo della guerra, nel 1920. D’altra parte, la neutralità, tutto sommato, stimola lo sviluppo delle industrie chimiche, alimentari e della cellulosa, che non si interrompe affatto nel dopoguerra, tanto da determinare una notevole prosperità economica e il conseguente elevamento generale del tenore di vita. Questa felice stagione economica favorisce l’affermarsi di un forte movimento sindacale, su cui si appoggia, sul modello britannico, il Partito Laburista. Nel 1935, per la prima volta, questa formazione politica entra nel governo del Paese, con il gabinetto Nygaardsvold, ma per poter governare è costretto ad allearsi con i partiti Conservatore e Agrario, e si deve accontentare di riforme limitate.
Fedele alla sua linea pacifista, anche all’avvio della seconda guerra mondiale il governo norvegese tenta di proclamare la propria neutralità, ma un segmento della sua classe politica non nasconde le sue simpatie e il suo appoggio politico alla Germania. Malgrado la sua dichiarata astensione, il Paese viene coinvolto, comunque, nel conflitto e la questione del suo controllo diventa un motivo di contesa fra i belligeranti, per l’importanza delle sue coste ai fini della guerra sottomarina, e del porto di Narvik come sbocco per la “strada del ferro” svedese. Ecco perché agli inizi del 1940, sia in Gran Bretagna, sia in Germania si studiano progetti di intervento in Norvegia. Ma è la Germania a prendere di sorpresa i franco-inglesi, anche perché Hitler può contare sull’appoggio del Partito Nazista Norvegese di Vidkun Quisling (1887-1945), sostenuto dagli agrari più conservatori. Sebbene la marina franco-britannica abbia posato mine nelle acque territoriali norvegesi, dopo un ultimatum rivolto a Oslo l’8 aprile 1940, Hitler fa occupare dalle sue truppe i porti di Oslo, Stavanger, Trondheim e Narvik. Il governo e il re reagiscono, consapevoli di poter contare sull’aiuto delle democrazie occidentali, le cui truppe, sbarcate a Namos e ad Andalsness, tentano invano di riprendere Trondheim e Narvik. Il 9 giugno 1940 l’esercito norvegese è costretto ad arrendersi. Mentre il re e i suoi ministri si rifugiano in Inghilterra, viene formato dai Tedeschi un governo collaborazionista e nominato commissario di Norvegia il Gauleiter (ossia il capo di distretto) Josef Terboven (1898-1945), che riconosce come unico partito il movimento fascista Nasjonal samling diretto dall’ex ministro della Guerra Quisling, che più di ogni altro, in Europa, esemplifica lo spirito subalterno di questa classe politica filonazista. Alla Norvegia quindi insieme ad altri Paesi dell’area occidentale (Danimarca, Paesi Bassi, Francia di Vichy ecc.) viene riservato il privilegio di autogovernarsi. Il leader del nuovo governo può contare sull’appoggio dello scrittore Knut Hamsun (1859-1952), ma non su quello della maggior parte della popolazione, che rifiuta di collaborare con i nazisti. La Resistenza norvegese è organizzata dalle più alte personalità politiche e religiose del Paese, che resistono alle vessazioni impartite dai Tedeschi, ostentando un forte sentimento nazionale.
La politica interna del secondo dopoguerra
Anche in Norvegia, come in altre nazioni occupate dai nazisti, la capitolazione delle forze tedesche il 9 maggio 1945 rende possibile il ritorno del re e dei laburisti che riprendono la direzione del governo. La nazione che dal 1944 ha una frontiera in comune con l’URSS, aderisce al Patto Atlantico, ma dichiara di non voler accettare truppe straniere sul suo territorio in tempo di pace. Il governo laburista, al potere nel secondo dopoguerra ininterrottamente per quasi un ventennio, realizza una politica di pianificazione economica e raggiunge gli obiettivi del welfare state secondo il modello laburista britannico. In particolare interventi strutturali dello Stato portano alla nazionalizzazione delle miniere e della maggior parte delle industrie elettrotecniche. La crisi del modello laburista norvegese sopraggiunge quasi contemporaneamente alla crisi dei governi di sinistra in altri Paesi europei, soprattutto scandinavi. Dopo una prima crisi, nel corso del 1963, del governo laburista di Einar Gerhardsen (1897-1987), in carica dal 1955, e una breve parentesi governativa del conservatore Lyng, alla guida dell’esecutivo viene richiamato Gerhardsen, che, nonostante le buone intenzioni espresse nel piano economico 1966-1969, non supera lo scoglio elettorale del 1965. Il Partito Laburista perde diversi seggi, ma non la maggioranza relativa in parlamento, la guida del governo passa però alla cosiddetta “coalizione borghese”, della quale fanno parte i partiti Conservatore, Liberale, del Centro Agrario e Cristiano Popolare, il primo ministro è Per Borten (1913-2005), leader del Partito del Centro. Questi si impegna, tra l’altro per l’adesione del Paese alla CEE, pur riaffermando la fedeltà della Norvegia alla EFTA, e proprio in questa delicatissima fase di transizione viene accusato di aver reso pubbliche notizie riservate sulle trattative per l’ingresso della Norvegia nella Comunità Europea. Il 2 febbraio 1971 si vede costretto a rassegnare le dimissioni. La guida del governo passa di nuovo nelle mani del Partito Laburista, il cui leader Trygve Brattelli (1910-1984) forma un governo laburista minoritario in parlamento e tenta di portare la Norvegia nella CEE, ma la sua linea viene disapprovata dalla popolazione norvegese che si esprime, nel referendum del 1972, con il 54 percento di voti contrari. Del resto è sin dal 1959 che il Paese fa parte dell’Associazione Europea di Libero Scambio, che è però ispirata dal Regno Unito. Le elezioni legislative del settembre 1973 penalizzano il Partito Laburista che, pur restando il primo partito del Paese, retrocede, in termini di consenso elettorale. Brattelli mantiene la guida di un governo minoritario, nel 1976 si ritira dalla carica, favorendo l’ascesa di Odvar Nordli (1927-). Il risultato più significativo del nuovo gabinetto laburista è offerto dall’avere portato il tasso di disoccupazione sotto l’1 percento, e l’elettorato premia il suo operato, nelle elezioni del settembre 1977, assegnando un buon risultato al Partito Laburista.
Il buon andamento economico del Paese è sostenuto oltre che dalle tradizionali attività, dai notevoli proventi che gli derivano dallo sfruttamento del petrolio del Mare del Nord, in grado di assicurare una produzione annuale di quasi 20 milioni di tonnellate. Proprio nell’intento di favorire un più libero svolgersi del suo nuovo ruolo di grande produttore di petrolio, oltre che per i consistenti umori anti CEE del suo elettorato, la Norvegia non entra nell’Unione monetaria europea. Il nuovo ruolo economico che il Paese svolge nel mondo sembra avere conseguenze anche sul piano politico interno, in cui si rafforzano i gruppi legati ai partiti “borghesi”. Le elezioni del settembre 1981 sanzionano, e questa volta in modo inequivocabile, la fine dell’era laburista e determinano la formazione di una coalizione di centrodestra, tra cristiano-popolari e conservatori; alla guida del nuovo esecutivo viene posto il conservatore Kaare Willoch (1928-), al quale i Norvegesi rinnovano la loro fiducia quattro anni più tardi. La miscela di esigenze socio-economiche contraddittorie, rappresentate, come si è visto, dal ruolo mondiale della Norvegia tra i grandi produttori di petrolio, e dalla difficoltà di coniugare una politica rigidamente neoliberista, esito più o meno inevitabile di tale ruolo, con l’ingresso in un’area come quella della CEE prima, dell’UE dopo, nonché i problemi di conciliare queste scelte con il mantenimento di una politica sociale di alta protezione, secondo il modello socialdemocratico scandinavo, avviano una fase ventennale di instabilità politica. Nel maggio 1986 Willoch rassegna le dimissioni, ad appena un anno dalla sua rielezione, per il voto contrario del parlamento alle misure di austerità da lui proposte. Un governo minoritario laburista propone al sistema politico norvegese la novità di una donna, la signora Gro Harlem Brundtland (1939-) alla guida del governo. Ovviamente una simile novità politica non è per se stessa in grado di ridare stabilità al governo norvegese. Si assiste, comunque, a un triennio di guida laburista della signora Brundtland (dal 1986 al 1989), a cui si deve la svalutazione della corona del 12 percento; ma questa politica ultraliberale provoca scontento proprio fra i suoi elettori di sinistra. Il risultato delle legislative del settembre 1989 manifesta la disapprovazione dell’elettorato laburista ed è l’opposizione conservatrice che, con un governo minoritario, si pone alla guida del Paese, restando in carica per un solo anno, poiché, nel corso del 1990, sull’eterno problema dei rapporti con l’Europa comunitaria, la coalizione di centrodestra si sfalda, riconsegnando la guida dell’esecutivo alla signora Brundtland. Il primo ministro riesce per un quinquennio a mantenersi al governo, con un successo elettorale nelle legislative del 1993, e nello stesso tempo a fallire nell’obiettivo più importante della sua politica: l’ingresso del Paese nella CEE. A sanzionare questa sconfitta è il referendum popolare del novembre 1994, in cui il Paese respinge nuovamente l’adesione all’Europa comunitaria. La Brundtland resta in carica fino a quando, nell’ottobre 1996, alla guida del governo viene sostituita da Thorbjorn Jagland (1950-) del Partito Laburista. Dopo appena un anno quest’ultima è costretta a dare le dimissioni, dopo che alle legislative dell’ottobre 1997 i laburisti subiscono una nuova sconfitta. Si forma, quindi, un ennesimo governo minoritario di centrodestra guidato da Kjell Magne Bondevik (1947-), esponente del Partito Progressista.
Tre anni più tardi, la caduta del prezzo del greggio sui mercati mondiali, l’incapacità dell’esecutivo di aumentare gli introiti fiscali per l’opposizione dei partiti “borghesi”, il problema dell’ingresso del paese nella UE che dal 2000 si è data una moneta unica, costituiscono le ragioni di una nuova frana del governo di centrodestra e del passaggio della guida dell’esecutivo nelle mani del socialdemocratico Jens Stoltenberg (1959-). Così, all’inizio del 2001, la Norvegia, senza essere un membro dell’UE, approva l’adesione alla Convenzione di Schengen, in modo da assicurare ai propri cittadini la circolazione in gran parte del territorio europeo, ma le elezioni del settembre 2001 segnano una sconfitta storica del partito del primo ministro, che ottiene il 24 percento dei consensi, un risultato che rappresenta la percentuale più bassa ottenuta dai laburisti a partire dal secondo dopoguerra. Bondevik ritorna alla guida del governo con una coalizione “borghese”, composta dai conservatori che hanno ottenuto il 21,8 percento dei consensi, dai democratici cristiani con il 12,8 percento e dai liberali con il 3,7 percento.