Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Se allo scadere del primo millennio il canto sacro si lega in modo pressoché esclusivo alla liturgia, a partire dal X secolo esso inizia a comparire in forme di carattere paraliturgico ed extra-liturgico, in latino e in volgare, accanto ai primi esempi di monodia profana, quali espressioni di una cultura che progressivamente sposta il suo baricentro dall’ambiente ecclesiale-monastico a quello laico-cittadino, sullo sfondo degli eventi storici che porteranno alla nascita dei Comuni.
Il fatto che non si conoscano a tutt’oggi testimonianze musicali scritte relative a repertori di musica profana anteriori al IX-X secolo non nega l’esistenza di una tradizione orale ininterrotta di canti e danze lungo tutta la tarda Antichità e l’alto Medioevo, di cui restano solo tracce in fonti indirette (di carattere storico e giuridico) che niente, però, ci dicono sulla musica. Accanto all’intonazione neumatica di testi di autori classici (Ovidio, Virgilio, Orazio ecc.), tra i primi esempi di una produzione musicale profana si annoverano i planctus, ossia compianti di vario tipo che vanno dal lamento funebre per la morte di personaggi illustri, principalmente sovrani o eroi (del IX sec. il Planctus de obitu Karoli per la morte di Carlo Magno), a compianti lirico-drammatici che danno perlopiù voce al dolore femminile. La più antica raccolta di planctus è trasmessa da un manoscritto proveniente dall’abbazia di San Marziale del X secolo (Parigi, BNF, lat. 1154): per quanto profana, essa è ancora prodotta da monaci e chierici, e forte si mantiene il collegamento con la musica liturgica (in particolare con la sequenza) da cui spesso le melodie vengono mutuate e adattate ai nuovi testi (contrafacta). A partire dal XII secolo il planctus diviene lamento drammatico e semidrammatico della Vergine Maria (planctus Mariae, genere che conoscerà grande fortuna nel secolo XIII) e più numerosi si fanno i complaintes d’amour. In questo ambito occupa una posizione di rilievo il teologo, filosofo e poeta francese Pietro Abelardo i cui sei planctus, che attraverso immagini bibliche celebrano il suo sfortunato amore per Eloisa, mostrano originalità e varietà sia nella struttura strofica e prosodica che in quella dell’intonazione musicale, rigorosamente sillabica.
Tra le forme principali di monodia profana in latino si annovera anche il conductus, componimento strofico in versi ritmici sviluppatosi alla fine dell’XI secolo a partire da un tipo di tropo che da interpolazione di melodia e testo al brano liturgico diviene brano autonomo, atto a collegare momenti ufficiali dell’azione liturgica. Nel corso del XII secolo il conductus perde la sua originaria funzione di accompagnamento e la sua dimensione liturgica iniziando ad accogliere temi profani, ma pur sempre di carattere solenne, e arrivando nel XIII secolo a ricevere veste polifonica e omoritmica (cioè con un andamento ritmico nel quale tutte le voci seguono una misura metrica uniforme).
Resta infine da accennare alla produzione di canti goliardici, cui partecipa lo stesso Abelardo (uno dei pochi autori di cui si conosca il nome), raccolti nella nota silloge dei Carmina Burana (dal nome dell’abbazia benedettina, Benediktbeuern, da cui proviene il duecentesco manoscritto miniato che li conserva, oggi presso la Staatsbibliothek di Monaco, con segnatura 4660). Si tratta di componimenti poetici satirici in una notazione neumatica di difficile lettura, per lo più anonimi, che inneggiano all’amore, all’eros e al vino o, nelle forme più moraleggianti, che condannano la ricchezza e la corruzione della curia romana, offrendo un affresco dell’ambiente sociale e religioso del secolo XIII. Essi si collegano al fenomeno dei clerici vagantes, ossia di quegli studenti-chierici girovaghi, dalla vita sregolata e dalla discutibile condotta morale, che conducevano i loro studi spostandosi tra le varie università europee.
La redazione scritta (realizzata all’inizio del XI secolo) delle leggende popolari sulla Vergine, che verranno raccolte nel XII secolo in sillogi più ampie sotto il titolo Miracoli della Beata Vergine Maria, è assai determinante nella forte accelerazione della diffusione del culto di Maria, ulteriormente accentuato nella spiritualità dei Francescani e dei Domenicani, artefici con la loro azione evangelica del risveglio di un profondo sentimento religioso popolare e di quel fervore mistico che porta, in particolare in Italia, alla fondazione di confraternite laicali. Tre i fenomeni poetico-musicali generati da tale fervore: i Miracles de Notre -Dame in Francia, le Cantigas de Santa Maria nella penisola iberica e la lauda in Italia, tutti repertori accomunati dalla centralità della figura della Vergine, dalla finalità paraliturgica e dall’adozione dell’autoctona lingua volgare.
Con il titolo di Miracles de Notre-Dame ci è trasmessa in oltre 80 manoscritti la più antica ampia raccolta di canti mariani in lingua vernacola. Si tratta del lungo poema francese (circa 30 mila versi) sui miracoli della Vergine del monaco troviere Gautier de Coincy, composto tra il 1214 e il 1233, e caratterizzato (così come il coevo Roman de la Rose) dall’interpolazione al testo poetico di canzoni sacre (soprattutto mariane): 22 manoscritti ne riportano l’intonazione musicale, in parte ottenuta attraverso la contraffazione di conductus, sequenze e soprattutto chansons trovieriche.
Le Cantigas de Santa Maria, frutto della diffusione del movimento trobadorico oltre i Pirenei, rappresentano la testimonianza più importante della pietà religiosa iberica. A esse si lega il nome di Alfonso X el Sabio, re di Castiglia e di León a partire dal 1252, cui va il merito di averne raccolte oltre 400 – e forse di averne anche composte alcune – in una vasta collezione oggi conservata in quattro manoscritti splendidamente miniati, tre dei quali, databili tra i secoli XIII e XIV, sono completi di melodie in notazione quadrata. Si tratta di canzoni mariane in lingua gallego-portoghese (all’epoca considerata la lingua della poesia lirica iberica) in una forma poetica simile al virelai francese, con un ritornello iniziale (estribillo) che si ripete identico dopo la strofa. Le melodie che intonano il testo, anonime, sono state in parte identificate in melodie profane del repertorio trobadorico e trovierico (contrafacta). Esse vengono in quell’epoca probabilmente eseguite da uno o più cantori e sono accompagnate da uno o più strumenti e dalle coreografie di alcuni danzatori, come si evince dalle miniature che esornano i testi.
Espressione dello spirito religioso popolare italiano in epoca comunale, la lauda nasce come canto devozionale in lingua volgare intonato nelle contrade cittadine, lungo i cammini dei pellegrini, così come nelle processioni e nelle adunanze di quelle confraternite laicali che in Toscana e in Umbria prima che altrove animano la spiritualità cittadina con atti di penitenza, preghiere e canti. Le prime esperienze ufficiali sono quella dei Laudesi a Siena (1267) e dei Disciplinati a Perugia; quest’ultima sulla scia della rivolta spirituale promossa dall’eremita Ranieri Fasani che nel 1260 incita i cittadini alla penitenza e all’autoflagellazione pubblica con una “disciplina” di strisce di cuoio.
Ma se per i Disciplinati (anche detti Flagellanti o Battuti) il canto della lauda, che accompagna le processioni penitenziali e i riti della Settimana Santa, prelude alla lauda drammatica da cui deriverà il teatro religioso italiano in volgare, per i Laudesi il canto e l’insegnamento ai pueri della lauda diventa il fulcro dell’attività confraternitale, favorendone la cura dell’aspetto tecnico-formale e la trasmissione scritta. A confraternite di Laudesi, infatti, si riconducono i due principali e più antichi Laudari corredati di musica in notazione quadrata: il ms. 91 della Biblioteca Comunale di Cortona (fine XIII secolo) e il ms. della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Banco Rari 18, più ricco di miniature.
La forma principale della lauda è quella della ballata con il suo schema musicale ABA (dove il motivo A, melodicamente caratterizzato, sillabico e di facile memorizzazione, rappresenta la ripresa e la volta destinate al canto corale, e il motivo B, più melismatico, le mutazioni affidate al solista). Si assiste a una fioritura immensa di testi poetici laudistici che raggiungono alti livelli d’arte e di definizione formale – basti pensare alle laude di Iacopone da Todi, modello di riferimento sino a tutto il XV secolo – cui non corrisponde un’analoga produzione d’intonazioni musicali. Il problema viene ovviato, già nel Laudario cortonese, attraverso il ricorso alla contraffazione (contrassegnata nei manoscritti dalla dicitura “cantasi come” seguita dall’incipit del testo preesistente), mutuando le melodie dapprima dallo stesso repertorio laudistico e successivamente, quando anche questa fonte non riesce più a soddisfare le richieste dei laudografi, da repertori profani e popolari. All’interno di quest’ultimo ambito vi è un duplice criterio di scelta adottato, quello dell’identità della struttura formale, tipico della normale contraffazione, e quello della relazione al contenuto poetico, che dà vita al cosiddetto “travestimento spirituale” del testo originario.
L’avvento dell’ ars nova italiana porterà nel corso del XIV secolo allo sviluppo della lauda polifonica.
La monodia dei secoli XI-XIII, sia sacra che profana, in latino o in volgare, pone al musicologo il difficile problema dell’interpretazione ritmica: la notazione quadrata su tetragramma che trasmette per lo più queste composizioni, infatti, consente di ricostruire l’esatto profilo melodico dei brani, ma nulla ci dice sul loro andamento ritmico e sulla durata dei suoni. Pochi i casi fortunati in cui si dispone di versioni più tarde scritte in una notazione mensurale; per il resto sono state proposte varie soluzioni che vanno dall’applicazione alla musica della stessa metrica del testo intonato, alla superimposizione degli schemi della ritmica modale (il primo sistema ritmico impiegato nell’ambito dell’ ars antiqua), all’adozione di un mensuralismo particolare in cui si combinano misure binarie e ternarie: metodi che si sono rivelati tutti ugualmente insufficienti a coprire l’ampia casistica di ogni forma, lasciando dunque irrisolta la questione.