Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A partire dalla circolazione del Decameron di Giovanni Boccaccio (1348) fino alla metà del XV secolo, la Toscana è ancora l’epicentro di una novellistica italiana bilingue, in volgare italiano e in latino. Da Firenze le novelle scritte in volgare prima si propagano verso le altre città toscane, poi si muovono verso il Sud (a Napoli con Masuccio Salernitano) e verso il Nord (a Bologna con Sabadino degli Arienti). Nello stesso tempo, sulle orme di Francesco Petrarca, nasce la novella umanistica, scritta in latino, che condurrà all’Historia de duobus amantibus (1446) del futuro papa Pio II, Enea Silvio Piccolomini.
La narrativa breve fra latino e volgare
Antonio Manetti
Beffa del Brunelleschi ai danni di Manetto Ammanatini
Novella del Grasso legnaiuolo
La città di Firenze ha avuto uomini molto sollazzevoli e piacenti ne’ tempi adietro, e massime l’età passata, nella quale accadde nello anno 1409 che, così come per lo adietro erano usati, ritrovandosi una domenica sera a Siena insieme certa brigata et compagnia di più uomini dabbene, così di regimento come maestri d’alcune arti miste e d’ingegno, quali sono dipintori, orefici, scultori e legnajuoli e simili artefici, in casa di Tomaso Pecori, uomo molto dabbene e sollazzevole e d’intelletto, appresso del quale egli erano, perché di loro pigliava piacere grandissimo; et avendo cenato lietamente, e sedendosi al fuoco, perche era di verno, quando in disparte e quando tutti insieme quivi di varie e piacievoli cose ragionando, conferivano intra loro la maggiore parte dell’arte e professione sua. Et mentre che confabulavano insieme, disse uno di loro: Che vuol dire che questa sera non ci è stato Manetto legniajuolo? (ché così aveva nome uno, che era chiamato el Grasso:) e nel rispondere si mostrò che alcuno di loro gliene avessi detto e non ve lo avesse potuto condurre, che se ne fussi stata la cagione.
Giovanni Sercambi
Ganfo il pellicciaio
Comica di Ganfo pellicciaio
Ganfo messosi la via tra’ pie e caminato pianamente pervenne al bagno senza aver beuto e mangiato altro che un pogo di acqua. E quella beve alla Lima, che volendo passare la ditta acqua, non volendo montare in sul ponte, si misse per l’acqua; e lui debile e l’acqua grossa, quasi non afogò. E in questo modo Ganfo avea beuto una pogo d’acqua.
Giunto al bagno e andando a vedere lui le persone si bagnavano, vedendovi dentro centonaia di omini nudi, disse fra se medesmo: “Or come mi cognoscerò tra costoro? Per certo io mi smarirei con costoro se io non mi segno di qualche segno”. E pensò mettersi in sulla spalla ritta una croce di paglia, dicendo: “Mentre che io arò tal croce in sulla spalla io sarò desso”.
E come ordinò misse in effetto, che la mattina rivegnente il ditto Ganfo, nudo colla croce in sulla spalla ritta, entrò innel bagno. E quine stando, guardandosi la spalla e veduta la croce, dicea: “Ben sono esso”. Dimorando alquanto e facendoli alle spalle freddo e <innell’> acqua gallegiava, tirandosi abasso, la croce della spalla se li levò e a uno fiorentino, che a lato a lui era presso, la ditta croce in sulla spalla li puose. Ganfo, guardando sè e non vedendo la croce, voltandosi la vidde a quel fiorentino. Subbito trasse a lui dicendo: “Tu se’ io et io son tu”. Il fiorentino, non sapendo quello volesse dire, disse: “Và via!” Ganfo replicando disse: “Tu se’ io et io son tu”. Lo fiorentino, parendoli costui fusse mentagatto, disse: “Và via, tu se’ morto!”.
Masuccio Salernitano
Novella III
Novellino
Catania nobele e clarissima, come chiaro sapemo, tra le notevoli città dell’Isola de Cecilia è nominata: ne la quale non è gran tempo vi fu un dottore de medicina maestro Rogero Campisciano nominato. Costui quantunque de anni fosse pieno prese per moglie una giovenetta chiamata Agata, de assai onorevole famiglia della città predetta, la quale secondo la comune sententia era la più bella e leggiadra donna che in quei tempi in tutta l’isola se trovasse.
Negli ultimi decenni del Trecento e nei primi anni del Quattrocento, subito dopo la prima ricezione del Decameron, alla novellistica in volgare – caratterizzata dalla molteplicità dei temi e, tra essi, da una irriverente vena fiabesca, comica e grottesca – si affianca molto presto una produzione di brevi narrazioni in latino, più orientate verso una dimensione storica, pedagogica e morale.
Tra questi due percorsi della narrativa breve post -boccacciana, sostanzialmente bilingue, si inserisce una terza ipotesi narrativa – dai toni scherzosi ma sempre improntati a una raffinata ironia di stampo umanistico – rappresentata dal genere della cosiddetta “facezia” quattrocentesca, di cui il massimo rappresentante europeo è Poggio Bracciolini. La facezia è una forma narrativa breve incentrata su una prova d’arguzia dialettica o su un detto spiritoso: già conosciuta nel mondo classico, viene ripresa dagli umanisti proprio per l’icasticità dell’espressione verbale.
Le forme brevi del narrare si avviano, in generale, verso una doppia ricerca linguistica, retorica e stilistica che segna profondamente la tradizione narrativa italiana ed europea. Per un secolo le due strade del narrare, in latino e in volgare, si incrociano e si intersecano. Tra i narratori in volgare italiano – dalla fine del Trecento con il Pecorone di Ser Giovanni detto Fiorentino (XIV sec.) alla seconda metà del Quattrocento con il Novellino di Masuccio Salernitano – e i narratori in latino umanistico – dalla traduzione latina della Griselda boccacciana di Francesco Petrarca, del 1373-1374, alle Facetiae di Poggio Bracciolini e all’Historia de duobus amantibus del futuro papa Enea Silvio Piccolomini, del 1446 – vi sono ampie differenze, che riguardano le finalità poetiche del narrare, ma intercorrono anche significative tangenze, che si realizzano nei prestiti tematici, nelle intertestualità lessicali e nelle rielaborazioni formali di un materiale narrativo sempre più magmatico e metamorfico.
I primi eredi di Boccaccio e gli umanisti quattrocenteschi sperimentano nuove forme del narrare, a partire anche dalle prove di riscrittura in latino di novelle volgari. L’idea di un’appropriazione umanistica delle forme novellistiche in volgare nasce dall’imitazione del progetto culturale umanistico promosso da Francesco Petrarca, primo lettore e traduttore d’eccezione del Decameron. Difatti la traduzione in latino di Petrarca dell’ultima novella di Boccaccio è l’inizio di questo duplice percorso (latino e volgare) del narrare breve post boccacciano. Tra il 1373 e il 1374 Petrarca decide di riscrivere la novella di Griselda (Decameron X, 10), ma la ripropone in latino: le attribuisce, inoltre, un nuovo titolo (De insigni obedientia et fide uxoria) e la inserisce tra due lettere di accompagnamento, indirizzate all’amico Boccaccio (Seniles XVII 3 e 4). La proposta petrarchesca di riscrivere in latino una novella in volgare, e di inserire una novella nelle maglie della riflessione umanistica, verrà molto imitata dagli umanisti del Quattrocento, che si misureranno sempre più volentieri con la narrazione in latino di argomento storico e di orientamento pedagogico. Il De insigni obedientia et fide uxoria di Petrarca costituisce per tutto il Quattrocento – e fino al Cinquecento con le Novelle di Matteo Bandello – un modello umanistico di narratio, non solo per la forma scelta da Petrarca (un corpus di lettere che contiene una novella), ma anche per le riflessioni di teoria narrativa contenute. Il ricorso alla forza evocativa di una storia esemplare legittima così la potenziale capacità normativa della tradizione narrativa.
L’umanista (da Petrarca in poi) ricorrendo anche esplicitamente alle antiche “storie” che celebrano “detti” e “fatti” di personalità straordinarie, intende piegare la novella verso un registro sempre più nobile, dove il rapporto tra diletto e utilità dell’invenzione narrativa – che Boccaccio nel fondare il Decameron aveva ripreso da Orazio – diventa con il pensiero umanistico sempre più stretto. La novella umanistica acquista uno scopo educativo, pedagogico e moraleggiante e, così trasformata, diventa uno spazio letterario tutto nuovo, dove anche un dotto umanista può misurare la propria vocazione narrativa senza venir meno alle esigenze di decoro e senza rinunciare ai saperi condensati negli eleganti aneddoti degli storici greci e latini.
L’eredità boccacciana e il modello della cornice
Nello stesso tempo l’influenza del Decameron, come modello antologico di racconti, è evidente nella ricezione e nella rielaborazione della sua macrostruttura narrativa: la cornice della “lieta brigata”. Tra la Toscana e l’Inghilterra e quasi negli stessi anni che chiudono un secolo (il Trecento) e ne aprono un altro (il Quattrocento), gli scrittori di novelle decidono di misurarsi con l’architettura testuale che regge la raccolta di forme brevi. Questo accade, non solo con lo scrittore inglese Geoffrey Chaucer – che immagina i suoi Canterbury Tales narrati in viaggio dai pellegrini –, ma anche con scrittori toscani, che propongono diverse raccolte di novelle, scritte in volgare: il Pecorone di Ser Giovanni – scritto a Dovadola nei pressi di Forlì nel 1378 ca. –, il Trecentonovelle (1385-1386 ca.) del fiorentino Franco Sacchetti e il Novelliere (primo decennio del Quattrocento) del lucchese Giovanni Sercambi. In queste raccolte è la cornice a subire le trasformazioni più importanti.
Il Pecorone è una raccolta di 50 novelle, narrate da due voci nel parlatorio di un convento: 25 di frate Auretto e 25 della sua amata monaca Saturnina. La cornice scelta da Ser Giovanni è quasi la deformazione grottesca e parodica della cornice dialogica, caratteristica dei racconti edificanti di origine orientale: l’obiettivo dei racconti di Auretto, infatti, è di convincere Saturnina a concedersi. Tra i racconti si ricorda la storia fiabesca del ricchissimo mercante di Venezia che adotta il figlio di un amico – Giannetto che lo porterà alla rovina per amore della misteriosa donna di Belmonte – che sarà di ispirazione a William Shakespeare per il suo Mercante di Venezia, specie per quanto riguarda il drammatico scontro tra l’usuraio (ebreo) e il mercante (cristiano), il cui debito, in assenza di denaro, viene misurato in “libbre” della sua stessa carne.
Franco Sacchetti propone una raccolta antologica aperta, in cui emerge la voce energica dello scrittore, che si definisce più volte “io scrittore” e che va a sostituirsi al gruppo di narratori (o la “lieta brigata”), caratteristica macrostrutturale del Decameron. Nel Trecentonovelle, dunque, manca la cornice e l’autore (Sacchetti stesso) non solo è il narratore in prima persona delle novelle, ma diventa a volte anche il soggetto del racconto. L’estrema eterogeneità delle novelle pervenute trova un unico denominatore nella focalizzazione degli eventi da parte di Sacchetti, che filtra in modo personale gli avvenimenti raccontati. Del Novelliere di Giovanni Sercambi sono pervenute 155 novelle, legate da una cornice viatoria, che nasce dall’imitazione del Decameron (è una brigata in fuga dalla peste del 1374) ma che è molto simile alla cornice dei Canterbury Tales di Chaucer – la brigata viaggia per l’Italia, seguendo un percorso molto simile anche al Dittamondo di Fazio degli Uberti. L’eterogeneità delle fonti restituisce un dettato narrativo vivace e plurimo, dove emerge la rappresentazione di un mondo popolare esilarante, come nella novella del pellicciaio Ganfo, alla ricerca confusa della sua identità.
Altre forme della narrativa breve
Nel Quattrocento nuove macrostrutture antologiche vanno a sostituire la forma-cornice, veicolata dal modello decameroniano, mentre nuovi microgeneri narrativi si sviluppano a partire dalla rielaborazione del materiale di scavo umanistico sempre più vasto, che riporta all’attenzione storie antiche, esemplari, leggendarie, fiabesche. Nuove raccolte di “istorie” e di “novelle” vanno ad aggiungersi alla costellazione del Decameron, modello assoluto per tutti i nuovi narratori.
Nel Quattrocento le forme brevi del narrare, tra volgare e latino, sviluppano diversi sottogeneri, rispetto al genere-novella codificato da Boccaccio, con caratteristiche formali e stilistiche differenti, a seconda delle condizioni ambientali in cui si trovano inseriti: la facezia, forma contigua alla novella in volgare – così Poggio Bracciolini con la sua raccolta di fatti inconsueti, scritti in latino e raccolti nel suo Liber facetiarum, 1438-1452, o, a Ferrara, Ludovico Carbone con le sue Facezie, 1466-1471) –; la riscrittura latina delle novelle del Decameron su imitazione petrarchesca –così Leonardo Bruni, Filippo Beroaldo, fino a Matteo Bandello –; le novelle umanistiche a sfondo storico – Giovanni Conversini o Bartolomeo Facio) –; la novella tragica, in forma di epistola latina del Piccolomini; le novelle elegiache o storiche o comiche di “beffa”, scritte in volgare e senza cornice, cosiddette “spicciolate” di area fiorentina (tra le altre: il Grasso Legnaiuolo, Bianco Alfani, Lisetta Levaldini o la Novella di un Piovano); il cantare novellistico (come il Geta e Birria, composto a Firenze all’inizio del Quattrocento); la novella utile al dialogo e alla conversazione che confluisce in macrostrutture molto diverse dalla semplice raccolta antologica di novelle, come ad esempio il trattato latino – come il De Sermone di Giovanni Pontano, 1498 – o le novelle incastonate in una sorta di romanzo filosofico, come nel caso del Paradiso degli Alberti di Giovanni Gherardi da Prato (databile al terzo decennio del XV secolo).
Oltre la cornice: nuove forme della raccolta di novelle
Dalla Toscana la novella si sposta in altre regioni e diventa lo specchio di una nuova realtà, cortigiana e umanistica. Si cercano nuovi assemblaggi di un materiale sempre più eterogeneo e fluttuante: anche in Francia Les cent nouvelles nouvelles (1462) rappresentano il primo trapianto del modello boccacciano fuori dai confini. Dopo la disgregazione della raccolta decameroniana in un proliferare di novelle singole o legate alla circolazione epistolare, è Tommaso Guardati, detto Masuccio Salernitano, alla corte aragonese di Napoli a offrire un modello rinnovato con la sua raccolta di 50 novelle.
Il Novellino napoletano (1474 ca.) è diviso in cinque decadi, divise in temi, alcuni dei quali ricordano il Decameron (come la satira anticlericale, la beffa, amori tragici e lieti, le virtù dei nobili). Alcune novelle sono ambientate in città siciliane (Trapani, Catania) e campane, sospese tra la realistica descrizione dei luoghi e la fiabesca invenzione letteraria. Il caleidoscopico mondo decameroniano torna nel Novellino ma con significative differenze, come la critica ai vizi muliebri o come il ricorso a un marcato stile macabro e grottesco, che si fa feroce nella descrizione di fatti estremi e violenti. Alla cornice Masuccio preferisce una nuova forma macrotestuale, formata da sezioni narrative (novelle), che al loro interno sono suddivise in diverse parti: l’argomento (presentazione del tema scelto), l’esordio (una lettera rivolta a un dedicatario o dedicataria della corte), la narrazione (la novella vera e propria) e “Masuccio” (una conclusione dell’autore).
A Bologna Sabadino degli Arienti (1445 ca. - 1510) scrive alla fine del secolo le Porretane (1492-1498), nate alla corte dei Bentivoglio, come un interessante intarsio tra l’ormai lontano modello decameroniano e le nuove forme del narrare: a un proemio, simile all’archetipo, e a una brigata che ama raccontare novelle, lo scrittore bolognese aggiunge l’idea più lieve di un passatempo vacanziero alle terme di Porretta, località vicino a Bologna. La peste (quella del 1478) è sempre presente come sfondo storico imprescindibile del narrare, ma viene ricordata alla fine, come amara riflessione sul presente. Le 61 novelle sono distribuite in cinque giornate, ma non sono legate a un tema e non rispecchiano una simmetria numerica. L’architettura del Decameron si è ormai perduta nel disordine della nuova contemporaneità: lo studio della macrostruttura antologica, utile a formare il “libro” di brevi narrazioni (o novelle o favole o facezie o istorie o epistole), continua a richiamare alla luce quell’anarchico insieme di forme della prosa d’invenzione che continua a scorrere prima e dopo l’esperienza boccacciana e che giungerà a maturazione in pieno Rinascimento con le Novelle di Matteo Bandello, ultimo baluardo della novellistica in Italia.