La nuova astronomia
I recenti e rapidi progressi nell’osservazione dell’Universo, combinati con nuove considerazioni di natura teorica e con simulazioni numeriche condotte con strumenti di calcolo sempre più potenti, hanno posto la questione dell’epoca e delle modalità di formazione delle prime galassie e della loro successiva evoluzione come uno dei temi di frontiera della moderna astronomia, stimolando l’interesse di gran parte della comunità astronomica nazionale e internazionale (A science vision for European astronomy, 2007). La risposta, infatti, richiede il contributo di discipline diverse, tra cui la fisica delle particelle, l’evoluzione stellare, l’astrofisica delle galassie e, naturalmente, la cosmologia, che nell’ultimo decennio hanno permesso di delineare un quadro di conoscenze molto coerente e convincente sulle proprietà globali dell’Universo. Queste ultime rappresentano il punto di partenza per chiarire quali processi abbiano acceso le prime stelle, forgiato i progenitori delle galassie e riunito i grandi ammassi in cui si raccolgono le galassie, plasmando il Cosmo così come oggi lo vediamo.
Lo studio della storia delle strutture cosmiche ha ricevuto un impulso senza precedenti non soltanto dall’entrata in funzione di un numero considerevole di nuovi e più potenti telescopi che, operando sia da terra sia dallo spazio, hanno aperto finestre di osservazione in tutte le bande dello spettro elettromagnetico, ma anche dalla possibilità di condurre sofisticate simulazioni numeriche in grado di esplorare fenomeni che non possiamo oppure non siamo ancora in grado di vedere direttamente.
Espansione, geometria ed età dell’Universo
L’espansione dell’Universo iniziata con il Big Bang è misurata dal redshift delle galassie, ossia dallo spostamento delle righe spettrali verso lunghezze d’onda maggiori, cioè verso l’estremo rosso dello spettro (a ciò si deve il termine redshift «spostamento verso il rosso»). Il redshift di un oggetto è pari a z quando il valore della lunghezza d’onda delle righe in assorbimento e/o in emissione che si osservano nel suo spettro è più grande di un fattore 1+z rispetto a quello misurato in laboratorio. Quanto maggiore è il redshift, tanto più l’Universo si è espanso dall’istante in cui la radiazione è stata emessa dall’oggetto. L’intervallo di tempo trascorso dipende dall’evoluzione dell’Universo, determinata dal suo contenuto di materia ed energia. Poiché la luce impiega più tempo a percorrere distanze maggiori, a redshifts più grandi corrispondono distanze più remote, e quanto più un oggetto è lontano da noi nello spazio tanto più l’epoca in cui ha emesso la luce che vediamo è vicina al Big Bang. Misurando il redshift di una galassia è quindi possibile determinarne la distanza nello spazio e nel tempo.
La velocità attuale di espansione dell’Universo è espressa dalla costante di Hubble (∼72 km/s/Mpc), che permette anche di convertire i redshifts in distanze. Nell’ultimo decennio, grazie al telescopio spaziale Hubble (HST, Hubble Space Telescope), le distanze di alcune decine di galassie sono state misurate con grande precisione fino all’Ammasso della Vergine, a 20 milioni di parsec dal Sole (un parsec corrisponde a 3,26 anni luce), studiando una classe di stelle variabili dette Cefeidi. Infatti, dalla misura del periodo di variabilità (da 1 a 100 giorni circa) di una Cefeide si risale alla luminosità intrinseca della stella che, confrontata con la sua luminosità apparente, permette di stimare la distanza della galassia che la ospita. Il valore della costante di Hubble è stato determinato, con un’accuratezza migliore del 10%, dal rapporto tra il redshift e la distanza delle galassie così studiate. Se la velocità di espansione dell’Universo fosse stata sempre quella attuale, la sua età corrisponderebbe al tempo di Hubble, cioè all’inverso della costante di Hubble. Per stabilire l’età dell’Universo è necessario conoscere in che modo la velocità di espansione è variata nel tempo, il che dipende strettamente dalla densità di materia e di energia dell’Universo. Questi parametri determinano la geometria e il destino del Cosmo, stabiliscono se l’Universo è piatto o curvo e se è destinato a espandersi indefinitamente o a ricollassare su sé stesso. Uno degli sviluppi più recenti e interessanti della cosmologia è stato la scoperta dell’energia oscura, interpretata come una forza che pervade l’Universo e ne accelera l’espansione. Questa conclusione si basa sull’osservazione delle supernovae lontane di tipo Ia, generate dalla distruzione di una nana bianca situata in un sistema binario con una compagna di massa inferiore, da cui attira materiale fino a diventare instabile ed esplodere. Le supernovae di tipo Ia raggiungono tutte la medesima luminosità massima, prima di affievolirsi e diventare invisibili: calibrando il valore assoluto della loro luminosità massima e misurandone il valore apparente è possibile stabilirne la distanza, la quale risulta sistematicamente maggiore di quanto sia previsto nel caso in cui l’espansione dell’Universo avvenga a velocità costante. Fino a oggi sono centinaia le supernovae di tipo Ia studiate, e di queste alcune decine raggiungono redshifts z>1.
Parallelamente, la teoria e le misure della radiazione del fondo cosmico di microonde suggeriscono che la geometria dell’Universo è piatta. Le mappe della radiazione di fondo ci offrono una visione dell’Universo circa 380.000 anni dopo il Big Bang (z∼1000), quando la sua temperatura era dell’ordine di 6000 K. A causa dell’espansione, questa temperatura oggi è scesa fino a ∼2,73 K, tanto da essere misurata dall’emissione nella banda di frequenze delle microonde. La radiazione di fondo presenta alcune piccole variazioni di temperatura, dette anisotropie, dell’ordine di qualche unità su 100.000, che sono state misurate con sempre maggior precisione sia da terra sia dallo spazio a partire dalla loro prima scoperta, avvenuta nel 1992. Tra le più recenti osservazioni da terra vanno menzionate quelle condotte tra il 1998 e il 2003 nell’ambito dell’esperimento BOOMERanG (Balloon Observations Of Millimetric Extragalactic Radiation and Geophysics), a guida italiana. Un bolometro raffreddato a 0,3 K e poi montato al fuoco di un telescopio di diametro pari a 1,3 m è stato trasportato da un pallone in volo stratosferico a circa 40 km di quota sopra l’Antartide per osservare, con una risoluzione di circa 10 minuti d’arco e una precisione nelle misure di temperatura di 10 μK, una porzione di cielo di circa 1000 gradi quadrati (che corrisponde al 2% dell’intera sfera celeste). Il diametro delle anisotropie più prominenti trovate da BOOMERanG è di circa un grado, che è esattamente quello che ci si aspetta nel caso di un Universo piatto, dove vale la geometria euclidea. Le anisotropie sarebbero state più piccole se l’Universo avesse avuto una curvatura positiva, più grandi nel caso di un Universo a curvatura negativa. Nel frattempo la NASA (National Aeronautics and Space Administration) ha lanciato, nel 2001, il satellite WMAP (Wilkinson Microwave Anisotropy Probe), che ha fornito una mappa completa della radiazione di fondo su tutto il cielo con una risoluzione spaziale e una precisione nelle misure confrontabili con quella di BOOMERanG. WMAP è stata la prima sonda a essere messa in orbita attorno al punto lagrangiano L2, uno dei cinque punti di equilibrio del sistema Terra-Sole, dove l’attrazione dei due corpi si annulla. Il punto L2 si trova a circa un milione e mezzo di km dalla Terra in direzione opposta al Sole, in una posizione ideale da cui scrutare lo spazio profondo, senza preoccuparsi dell’interposizione del Sole, della Terra e della Luna. Anche i telescopi spaziali Herschel e Planck (che continua l’opera di WMAP) sono collocati presso L2, così come altri in futuro, tra cui JWST (James Webb Space Telescope), il cui lancio è previsto per il 2014. La missione WMAP ha confermato i risultati di BOOMERanG sulla geometria euclidea dell’Universo e proprio a essa si devono le misure più accurate dei parametri dell’Universo.
Queste misure implicano che la densità totale di materia ed energia dell’Universo è prossima al cosiddetto valore critico (10−26 kg/m3) entro un margine d’errore dell’1%. Si tratta di un valore molto basso, pari a circa 6 protoni a metro cubo, ma che nel caso di un Universo fatto solo di materia sarebbe sufficiente per far sì che l’espansione seguita al Big Bang sia decelerata dall’azione della forza di gravità e l’Universo finisca per contrarsi su sé stesso. Dal valore della densità e dalla costante di Hubble si deduce che l’Universo ha un’età di 13,8 miliardi di anni, in accordo con le datazioni dell’età del Sole (circa 4,6 miliardi di anni) ottenute dallo studio dei decadimenti radioattivi e con quelle dell’età delle galassie basate sulle stelle degli ammassi globulari più vecchi (Frieman, Turner, Huterer 2008).
Composizione dell’Universo
Utilizzando le stime basate sulle supernovae, sulla radiazione di fondo e sulla massa degli ammassi di galassie, si deduce che la materia contribuisce a circa il 28% della densità totale, ma solo il 4% circa è dovuto alla materia ordinaria. Quest’ultima viene anche detta materia barionica, perché la sua massa corrisponde essenzialmente a quella dei barioni (cioè protoni e neutroni) che la costituiscono assieme agli elettroni, molto più leggeri. La maggior parte della materia, ossia circa un terzo della densità totale, è dunque costituita da particelle non barioniche. Anche la radiazione deve essere inclusa nella densità dell’Universo. La radiazione di fondo proveniente dal Big Bang rappresenta solo lo 0,01% della densità totale, quella emessa da tutte le stelle che hanno illuminato l’Universo non supera lo 0,001%. Il rimanente 72% della densità totale dell’Universo è dato dall’energia oscura. A questa forma di energia, la cui natura ci è del tutto ignota, si attribuisce una sorta di effetto antigravitazionale che a grandi distanze prevale sull’attrazione gravitazionale della materia ed è responsabile dell’espansione accelerata dell’Universo. Pertanto, la materia barionica, di cui noi stessi siamo formati, gioca un ruolo trascurabile nel bilancio cosmico tanto che il 96% della materia e dell’energia nell’Universo è ancora sconosciuto. In aggiunta va sottolineato come solo lo 0,5% della densità totale è dovuto a materia che risiede nelle stelle, detta quindi anche materia luminosa. Il resto è materia oscura, che include materia sia barionica sia non barionica e non può essere osservata direttamente attraverso la radiazione che emette, ma viene rivelata grazie agli effetti gravitazionali che induce sulla materia luminosa.
Quasi tutta la materia barionica si presenta sotto forma di idrogeno ed elio, gli atomi più leggeri. Infatti, gli altri atomi, tutti forgiati nei nuclei delle stelle e dispersi nell’Universo dai venti stellari e dalle esplosioni delle supernovae a eccezione di una piccola quantità di litio primordiale, rappresentano lo 0,01% del totale. Questo implica che solo una piccola quantità di materia oscura barionica potrebbe essere sotto forma di polveri, anche perché osservando il cielo non ne percepiamo un consistente effetto oscurante se non nella direzione del piano galattico, dove si concentrano le polveri della Via Lattea. La maggior parte della materia oscura barionica deve essere racchiusa in oggetti oscuri e compatti come, per es., i pianeti giganti simili a Giove, le nane brune (stelle di massa inferiore a circa 1029 kg, pari a un decimo di quella del Sole, insufficiente per innescare le reazioni di fusione nucleare), le nane bianche (stelle molto vecchie che possono essere molto fredde e poco luminose) e i buchi neri (che rappresentano le fasi finali dell’evoluzione delle stelle di grande massa). Tali oggetti sono i cosiddetti MACHO (Massive Astronomical Compact Halo Objects), i quali popolano gli aloni di materia oscura che avvolgono la nostra e le altre galassie. Negli ultimi anni sono stati avviati diversi programmi di osservazione alla ricerca dei MACHO in direzione della galassia di Andromeda e della Grande Nube di Magellano, sfruttando l’effetto di lente gravitazionale che si ha quando l’oggetto oscuro si trova di fronte a una stella luminosa più lontana: il campo di gravità del MACHO devia la luce della stella, focalizzandone l’immagine per breve tempo, e ciò produce una variazione della sua luminosità, che si misura ponendo a confronto immagini rilevate in epoche diverse. È fondamentale non lasciarsi confondere da tutte quelle sorgenti la cui luminosità è intrinsecamente variabile, come, per es., le novae e le supernovae, le stelle variabili e i nuclei galattici attivi. Si stima che fino al 20% della materia dell’alone della Via Lattea sia dovuto a MACHO, con masse comprese tra 0,1 e 1 masse solari (Schneider, Kochanek, Wambsganss 2006).
L’assione e il neutralino sono i candidati di maggiore interesse tra le particelle di materia oscura non barionica, collettivamente indicate come WIMP (Weakly Interacting Massive Particles), particelle debolmente interagenti dotate di massa. Di esse si occupa la fisica delle astroparticelle, coniugando i metodi della cosmologia con quelli della fisica delle particelle (Hooper, Baltz 2008). Queste particelle non sono state ancora osservate, ma la loro esistenza è richiesta dalle teorie della grande unificazione (GUT, Grand Unified Theories), le quali si propongono di fornire una descrizione completa di tutte le particelle elementari e delle interazioni cui sono soggette. Sebbene siano state predette masse molto diverse per gli assioni (un miliardesimo della massa del protone) e per i neutralini (100 volte la massa del protone), entrambi sarebbero emersi dal Big Bang viaggiando a una velocità molto inferiore a quella della luce. Questa proprietà caratterizza la cosiddetta materia oscura fredda e risulta cruciale nella formazione delle strutture su grande scala, in cui si addensano gli ammassi e i superammassi di galassie. Le particelle di materia oscura fredda tendono, infatti, ad agglomerarsi e ad attrarre la materia barionica, costruendo in tal modo sistemi che, con il passare del tempo, diventano sempre più grandi. Un notevole e decisivo passo avanti verso la loro identificazione potrebbe arrivare grazie agli esperimenti condotti dall’LHC (Large Hadron Collider), il nuovo acceleratore di particelle del CERN di Ginevra, e alle osservazioni nella banda dei raggi gamma effettuate dal Fermi Gamma-ray Space Telescope della NASA.
A differenza delle WIMP, i neutrini si muovono a una velocità prossima a quella della luce e rappresentano la componente calda della materia oscura non barionica. Nonostante siano prodotti in gran numero all’interno del Sole durante le reazioni nucleari che coinvolgono i neutroni, i neutrini elettronici sono molto difficili da intercettare poiché interagiscono assai debolmente con la materia avendo una massa inferiore a 2 eV. Inoltre, gli esperimenti finora compiuti ne hanno sempre rivelato un numero inferiore di almeno un terzo a quello inizialmente predetto dalla teoria. Questo si spiega con la conversione di alcuni neutrini elettronici nelle altre due varietà di neutrini, quelle associate al muone e al tauone, come confermato da esperimenti condotti a partire dal 1999 in Giappone (Super-Kamiokande) e nel 2006 in Canada (SNO, Sudbury Neutrino Observatory). Nel maggio 2010 presso i laboratori nazionali del Gran Sasso è stata osservata la trasformazione di un neutrino muonico in uno tauonico. I risultati di questi esperimenti implicano che queste particelle hanno una massa, sia pure molto piccola. Per il momento si possono determinare soltanto le differenze dei quadrati delle masse dei neutrini del muone e del tauone, ma non le loro masse, che probabilmente sono dell’ordine di 0,1 eV (Camilleri, Lisi, Wilkerson 2008). Ciò significa che i neutrini potrebbero contribuire per meno dello 0,01% alla densità totale dell’Universo, una quantità assolutamente insufficiente per rendere conto di tutta la materia non barionica.
Cartografia dell’Universo
Nell’Universo la materia luminosa si dispone in strutture ben definite, qualunque sia la scala considerata. Infatti, le stelle non sono distribuite uniformemente nello spazio, ma risultano raggruppate nelle galassie, le quali si mostrano con una varietà di forme (soprattutto ellittiche e a spirale) di dimensioni che vanno dal centinaio al milione di parsec. Le galassie nane contengono qualche milione di stelle, mentre quelle giganti possono arrivare a contarne anche mille miliardi. Pure la distribuzione delle galassie non è uniforme, poiché queste ultime tendono a raccogliersi in gruppi e ammassi. I gruppi di galassie possono contenere qualche decina di membri e possiedono un diametro di meno di un milione di parsec. Gli ammassi di galassie contano fino a qualche migliaio di oggetti e hanno un diametro di milioni di parsec. La massa di un gruppo di galassie è dell’ordine di mille miliardi di masse solari, quella di un ammasso può superare il milione di miliardi di masse solari. A loro volta gli ammassi si aggregano in strutture ancora più grandi, dette superammassi, che presentano una forma spesso appiattita o filamentare e sono separate da regioni di Universo praticamente prive di galassie, i grandi vuoti, il cui diametro è di centinaia di milioni di parsec.
Uno straordinario progresso nello studio delle strutture su grande scala si è avuto con l’avvio di una serie di imponenti campagne di osservazione finalizzate a cartografare vaste porzioni di Universo (Springel, Frenk, White 2006). Le diverse mappe della distribuzione delle galassie redatte in questi anni si possono distinguere a seconda della loro estensione, cioè dell’area di cielo studiata, e della loro profondità, ossia della capacità di localizzare oggetti sempre più deboli. Tra i programmi più ambiziosi vi sono i progetti 2dFGRS (Two-degree Field Galaxy Redshift Survey), SDSS (Sloan Digital Sky Survey), VVDS (VIMOS VLT Deep Survey) e Cosmic evolution survey (COSMOS). I primi due coprono vaste aree di cielo, ma si limitano a considerare le galassie dell’Universo locale; gli altri riescono a osservare galassie a redshift molto alto, ma sono confinati in piccole porzioni di cielo. Tutti questi progetti sono il risultato di ampie collaborazioni internazionali che coinvolgono centinaia di astronomi in tutto il mondo, a testimonianza di uno degli sviluppi più recenti in termini di organizzazione della ricerca a cui è andata incontro una parte dell’astrofisica, come era già avvenuto in passato per alcuni settori della fisica. Essi rappresentano un vero e proprio banco di prova per le previsioni teoriche e le simulazioni numeriche che descrivono lo sviluppo delle galassie e delle loro proprietà (come la forma, le dimensioni, la massa, la luminosità, la formazione delle stelle e l’attività delle regioni nucleari) in funzione del tempo cosmico e dell’ambiente in cui si trovano.
Il progetto 2dFGRS si è concluso nel 2002, dopo cinque anni di lavoro condotto da un gruppo di astronomi australiani e inglesi con lo spettrografo multifibra del telescopio AAT (Anglo-Australian Telescope), di 3,9 m di diametro, che si trova a Siding Spring in Australia. A ogni puntamento questo strumento tecnologicamente innovativo era in grado di misurare lo spettro di ben 400 oggetti sparpagliati in un campo celeste del diametro di due gradi (pari a circa 16 volte l’area della Luna piena). Proprio al campo di vista dello spettrografo si deve quindi il nome dell’intero programma. Sono stati misurati i redshifts di oltre 220.000 galassie più brillanti della magnitudine 19,45 nella banda bJ, preventivamente selezionate da atlanti fotografici già disponibili e convertiti in formato digitale. Tutte queste galassie con un redshift mediano di z=0,11 e un redshift massimo di z=0,3, appartengono all’Universo locale. Sono distribuite in un’area di cielo di circa 2000 gradi quadrati (il 5% circa della sfera celeste) e sono racchiuse in un volume equivalente a quello di un cubo di 700 milioni di parsec di lato.
Il progetto SDSS è stato promosso dalla Alfred P. Sloan foundation di New York e coinvolge venticinque tra università e istituti di ricerca negli Stati Uniti, in Europa e in Asia. Le osservazioni vengono eseguite con un telescopio di 2,5 m di diametro situato presso l’Apache point observatory in New Mexico ed esclusivamente dedicato alle operazioni di cartografia. Il telescopio permette di scattare immagini di 1,5 gradi quadrati (circa 8 volte l’area della Luna piena) in cinque diverse bande fotometriche e di misurare spettri per 600 oggetti alla volta. Durante le prime due fasi di SDSS (SDSS-I, 2000-2005; SDSS-II, 2005-2008) sono stati fotografati 11.700 gradi quadrati di cielo (oltre un quarto della sfera celeste). Dalle immagini è stato redatto un catalogo con oltre 230 milioni di oggetti, di cui sono stati poi presi spettri per più di 930.000 galassie e 120.000 quasar, tutti più brillanti della magnitudine 17,77 in banda r. La maggior parte di questi oggetti ha redshift z<0,2 e, quindi, anche SDSS fornisce una visione dell’Universo vicino. Il progetto è entrato nella sua terza fase di mappatura dell’Universo (SDSS-III) che si dovrebbe concludere nel 2014.
Il progetto VVDS è frutto di una collaborazione italo-francese ed è composto di due programmi paralleli, cominciati nel 2001 e ribattezzati VVDS-Deep, con cui si vogliono misurare i redshifts di tutti gli oggetti più brillanti della magnitudine mAB=24 (definita come mAB=−2,5logf −48,60, con f flusso monocromatico misurato in erg/s/cm2/Hz) in un’area di 1,3 gradi quadrati suddivisa in due campi, e VVDS-Wide, che si ferma agli oggetti di magnitudine mAB=22,5 in un’area di 11 gradi quadrati suddivisa in quattro diversi campi. Grazie allo spettrografo VIMOS (VIsible MultiObject Spectrograph) del telescopio VLT (Very Large Telescope) sul monte Paranal in Cile, saranno misurati i redshifts di 150.000 galassie, molte delle quali sono talmente lontane da permettere di tracciare l’evoluzione delle strutture cosmiche fino a un’epoca in cui l’Universo aveva appena 1,2 miliardi di anni (z∼5). Le galassie sono state selezionate dalle fotografie scattate in diverse bande, dal visibile al vicino infrarosso, dai telescopi ESO (European Southern Observatory) 2.2m e NTT (New Technology Telescope) dell’osservatorio astronomico di La Silla in Cile, e CFHT (Canada-France-Hawaii Telescope), situato sulla sommità del vulcano Mauna Kea nelle isole Hawaii. Il campo VVDS-1003+01, che si trova nella costellazione equatoriale del Sestante, risulta coincidere con l’area di cielo studiata da COSMOS.
Iniziato nel 2003, il programma COSMOS vede impegnati molti telescopi spaziali (XMM-Newton, Chandra, GALEX, HST e Spitzer) e i più grandi telescopi a terra che operano nell’ottico (tra cui VLT, Magellan a Las Campanas in Cile e Subaru sul Mauna Kea), nel millimetrico (il James Clerk Maxwell telescope e il Caltech submillimiter observatory sul Mauna Kea, e l’antenna dell’Institut de radioastronomie millimétrique sul Pico Veleta in Spagna) e nel radio (il Very large array, che conta 27 antenne di 25 m di diametro, vicino a Socorro in New Mexico) per raccogliere dati fotometrici e spettroscopici in un ampio intervallo di lunghezze d’onda, dalla banda X a quella radio, delle galassie che si trovano in una regione di cielo di 1,4 gradi quadrati di coordinate α=10h00m28,6s e δ=+02°12′21,0″ (J2000.0). Quest’area è stata opportunamente scelta vicino all’equatore celeste in modo che possa essere osservabile sia dai telescopi che si trovano nell’emisfero boreale sia da quelli nell’emisfero australe. Nei prossimi anni COSMOS identificherà circa 2 milioni di galassie fino a z∼6, distribuite in un volume di Universo lontano di dimensioni confrontabili con quelli coperti localmente da 2dFGRS e SDSS.
Simulazioni numeriche
Le strutture su grande scala che si osservano nell’Universo attuale sono una versione amplificata delle piccole fluttuazioni di densità formatesi nell’Universo primordiale, visibili sotto forma di anisotropie nella radiazione del fondo cosmico alle microonde. Per studiare come le strutture della radiazione di fondo a z∼1000 si trasformino nelle strutture cosmiche odierne a z∼0 si ricorre alle simulazioni numeriche di carattere cosmologico, che permettono anche di condurre ulteriori verifiche sulla geometria e sul contenuto di materia e di energia dell’Universo. Le proprietà delle strutture cosmiche sono derivate dal variare dei parametri cosmologici e delle condizioni iniziali e confrontate con le osservazioni, mettendo così alla prova la validità delle ipotesi effettuate. In questo modo si escludono, per es., la presenza della sola materia oscura calda, cioè costituita esclusivamente di neutrini, della sola materia oscura barionica e, nel caso di un Universo piatto, anche della sola materia oscura non barionica.
La Millennium simulation, completata nel 2004 per opera di un gruppo di ricercatori europei, statunitensi e canadesi, è la migliore simulazione cosmologica mai condotta sino a oggi, sia per la potenza di calcolo investita sia per la quantità di memoria occupata dai dati. Questo spiega la scelta del nome, con cui si è voluto anche celebrare l’inizio del nuovo millennio. La simulazione considera un volume di Universo di quasi 700 milioni di parsec di lato e contiene 10 miliardi di particelle di materia oscura non barionica, ciascuna delle quali si muove sotto l’azione della forza di gravità di quelle rimanenti. Ogni particella ha una massa di 1,2 miliardi di masse solari. Se basta un centinaio di particelle per rappresentare una piccola galassia, come NGC 205 e M 32, due di quelle satelliti della galassia di Andromeda, ne servono alcune migliaia per descrivere una galassia come la Via Lattea e addirittura diversi milioni per assemblare i grandi ammassi di galassie, simili a quelli che si osservano nelle costellazioni della Vergine e della Chioma di Berenice.
Il volume della simulazione contiene aloni di materia oscura di tutte le dimensioni all’interno dei quali si vanno a depositare i barioni che formeranno le stelle delle galassie. Contrariamente ai complessi processi che regolano l’evoluzione della componente barionica della materia, quelli relativi alla componente non barionica sono relativamente semplici da trattare perché coinvolgono solamente la gravità. Partendo da piccole variazioni di densità di massa corrispondenti alle fluttuazioni di temperatura misurate nella radiazione di fondo, la materia oscura comincia ad aggregarsi per effetto dell’attrazione gravitazionale. Con il trascorrere del tempo la materia oscura si addensa in alcune regioni a spese di altre, che si svuotano sempre più. Si formano così i filamenti e i grandi vuoti. Le prime galassie e gli ammassi si formeranno dove la densità di materia è più alta, ossia dove si incrociano i filamenti. Alla crescita delle strutture finirà per contrapporsi l’espansione accelerata dell’Universo. Alla fine, la materia oscura sembra tessere una sorta di ragnatela cosmica, che connette tutti gli aloni ed è pronta per ospitare la materia luminosa. I risultati della Millennium simulation occupano una memoria di 25 terabyte e permettono di seguire la formazione e l’evoluzione di circa 20 milioni di galassie e di capire come si muovono nello spazio per costituire i gruppi, ossia ammassi e superammassi, in un intervallo di tempo che inizia circa 10 milioni di anni dopo il Big Bang (z=126). Tutti questi dati sono stati resi disponibili, affinché il volume di Universo simulato possa essere studiato in dettaglio come se si trattasse di una porzione dell’Universo vero. La diffusione delle informazioni avviene in seno agli osservatori virtuali che mirano alla creazione e alla gestione di archivi di dati astronomici digitali, grazie ai quali si può accedere liberamente non soltanto ai risultati delle simulazioni numeriche ma anche alle osservazioni condotte da terra e dallo spazio.
Altre simulazioni studiano in dettaglio l’evoluzione dell’alone di materia oscura di solo uno o di pochi ammassi o anche di una singola galassia, come il Via Lactea project, che considera un sistema galattico con la stessa massa totale della Via Lattea (circa 2000 miliardi di masse solari) utilizzando più di un miliardo di particelle di materia oscura non barionica, ciascuna con una massa di 4000 masse solari. Qualora l’alone oscuro fosse popolato di neutralini che annichilendosi producono raggi gamma, il confronto del flusso gamma predetto dalla simulazione con quello che sarà effettivamente misurato con il satellite Fermi potrebbe aiutarci a comprendere la natura e la distribuzione della materia oscura non barionica.
Le prime stelle e le galassie primordiali
La nucleosintesi primordiale seguita al Big Bang produsse gli elementi più leggeri, come l’idrogeno e l’elio, oltre a piccole quantità di deuterio e litio che, a causa dell’alta temperatura, erano allo stato ionizzato, cioè senza elettroni. Tutti gli altri elementi, genericamente indicati come metalli, furono successivamente sintetizzati nelle stelle per poi essere dispersi nell’ambiente. Nelle sue prime fasi di vita l’Universo era opaco, perché la densità della materia era così alta che la radiazione non poteva attraversarlo liberamente. Con il passare del tempo la temperatura e la densità dell’Universo diminuirono a causa della sua espansione e, circa 380.000 anni dopo il Big Bang, gli elettroni cominciarono a combinarsi con i nuclei formando atomi neutri. Iniziò l’era della ricombinazione e l’Universo da opaco divenne trasparente. L’evoluzione della radiazione da quel momento in poi continuò indipendentemente da quella della materia, che si trovava sotto forma di gas diffuso di bassa densità costituito in gran parte da idrogeno neutro. Oggi quello stesso idrogeno è completamente ionizzato e il modo in cui è avvenuta la sua reionizzazione è direttamente in rapporto con la formazione delle prime stelle che hanno illuminato l’Universo (Loeb, Barkana 2001).
La ricombinazione terminò 2 milioni di anni dopo il Big Bang e fu seguita dall’era del buio cosmico, che durò per circa 100 milioni di anni fino a quando non si accesero le prime stelle (z∼30). Non abbiamo ancora avuto la possibilità di osservare direttamente la fase buia dell’Universo e la nascita delle prime stelle, ma si prevede di farlo nel prossimo decennio con l’entrata in funzione dei nuovi telescopi giganti che raggiungeranno fino a 50 m di diametro, del radiotelescopio ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), che l’ESO sta costruendo a Chajnantor in Cile, e del telescopio spaziale James Webb di 6,5 m di diametro, voluto fortemente dalla NASA e dalle agenzie spaziali europea e canadese, che sostituirà Hubble. Nel frattempo i modelli teorici, che descrivono la vita delle prime stelle, sono verificati attraverso l’uso di sofisticate simulazioni numeriche (Bromm, Larson 2004). Secondo questi modelli, le stelle di prima luce hanno masse comprese tra 100 e 1000 masse solari, raggi fino a 20 volte quello del Sole e temperature superficiali di 100.000 K. Emettono fino a 30 milioni di volte più energia del Sole, prevalentemente in forma di radiazione ultravioletta che riscalda e ionizza il gas circostante. Attorno a ciascuna stella si forma una bolla di gas ionizzato, la quale diventa sempre più grande mentre la stella invecchia. La reionizzazione dell’Universo procede via via che si generano nuove stelle. Il numero e le dimensioni delle regioni di gas ionizzato crescono con il tempo, al punto che le singole bolle finiscono per fondersi tra loro e non rimane più gas neutro. Stando alle osservazioni dei quasar ad alto redshift, il gas risulta ormai completamente ionizzato già a redshift z∼6, cioè quasi un miliardo di anni dopo il Big Bang. I quasar sono nuclei galattici molto brillanti, che si possono osservare fino a grandi distanze. Nel loro spettro si contano centinaia di righe di assorbimento, prodotte dalle nubi di idrogeno intergalattico che la luce del quasar ha attraversato per giungere fino a noi e da cui è possibile stimare la frazione di idrogeno ionizzato presente nell’Universo. Secondo i dati di WMAP soltanto metà dell’idrogeno è ionizzato a z∼11, circa 400 milioni di anni dopo il Big Bang.
La reionizzazione fu un processo lungo, e ancora non sappiamo se sia avvenuto con continuità o attraverso fasi successive dovute a più generazioni di sorgenti ionizzanti, non soltanto stelle, ma anche galassie e nuclei galattici, che ancora non conosciamo. Il breve ciclo vitale delle prime stelle si esaurì in qualche milione di anni, ma è comunque sufficiente per determinare la successiva evoluzione dell’Universo. Infatti, oltre a dare il via all’epoca della reionizzazione, queste stelle sintetizzarono e dispersero i primi metalli e il loro collasso potrebbe avere dato origine ai primi buchi neri supermassicci cresciuti al centro delle galassie attraverso un processo di fusioni successive, che a loro volta costituirono la sorgente di energia dei quasar e degli altri nuclei galattici attivi.
Nell’ipotesi corrente, le prime galassie, dette anche protogalassie, apparvero tra 100 e 300 milioni di anni dopo il Big Bang formandosi dalle disomogeneità di materia riconoscibili nelle anisotropie della radiazione cosmica di fondo. Le sovradensità di materia collassarono sotto l’azione della gravità, diventando via via più dense fino a permettere la formazione di stelle dentro di esse. Le galassie più lontane, e quindi più giovani, che oggi conosciamo hanno redshifts compresi tra 8 e 10, e la loro luce iniziò il suo cammino verso di noi quando l’Universo aveva meno di 500 milioni di anni. Per poterle osservare è stato necessario sfruttare l’effetto di lente gravitazionale di alcuni ammassi di galassie particolarmente massicci. Il loro campo gravitazionale devia e amplifica la debole luce delle galassie che si trovano dietro di loro, rendendole visibili e facendole apparire decine di volte più luminose di quello che sono. La ricerca è stata ulteriormente affinata scattando le immagini in un preciso intervallo di lunghezze d’onda, dove queste galassie lontane sono particolarmente brillanti per via dell’intensa attività di formazione stellare da cui sono caratterizzate. In questo modo è stato possibile localizzare Abell 1689 c1 che, con un redshift di z=10,23, ha nettamente superato il precedente record di distanza di IOK-1, una galassia con z=6,96. Ma la maggior parte di ciò che conosciamo delle galassie primordiali deriva dall’osservazione di un piccolo settore di cielo situato nella costellazione australe della Fornace, meglio noto come HUDF (Hubble Ultra Deep Field). Si tratta di un campo celeste di coordinate α=3h32m39,0s e δ=−27°47′29,1″ (J2000.0), con un’area di circa 11 minuti d’arco quadrati (corrispondenti a circa il 2% dell’area della Luna piena). Tra il 2003 e il 2004 questa regione è stata fotografata nel visibile e nell’infrarosso dal telescopio Hubble con le camere ACS (Advanced Camera for Surveys) e NICMOS (Near Infrared Camera and Multi-Object Spectrometer). La somma delle 800 immagini scattate da ACS equivale a una posa di 11,3 giorni, la più lunga mai ottenuta con un telescopio ottico.
L’HUDF è stato successivamente puntato e studiato da tutti gli altri telescopi spaziali oltre che dai più potenti telescopi a terra. In esso si contano circa 10.000 galassie, di cui alcune centinaia con un redshift 3<z<4, circa un centinaio con 4<z<5 e qualche decina con z>5. Le galassie più distanti fotografate da ACS hanno redshift z∼7 e contengono stelle che si sono formate meno di 800 milioni di anni dopo il Big Bang. NICMOS potrebbe avere individuato degli oggetti addirittura a redshift z∼12, pari a meno di 400 milioni di anni dopo il Big Bang, in virtù della sua maggiore sensibilità nell’infrarosso, proprio dove è più intensa la radiazione emessa dalle galassie più lontane che risulta fortemente spostata verso il rosso. Queste galassie primordiali hanno una luminosità apparente di mAB∼30 e un diametro di 50 millesimi di secondo d’arco. Ciò significa che sono almeno 4 miliardi di volte meno brillanti delle stelle più deboli visibili a occhio nudo e che ci appaiono grandi come una moneta da un euro vista alla distanza di quasi 100 km. Si tratta di sistemi stellari che senza l’aiuto delle lenti gravitazionali sarebbero fuori dalla portata dei telescopi terrestri, anche ricorrendo alle innovative tecniche di ottica adattiva che minimizzano il deterioramento della qualità delle immagini dovuto agli effetti della turbolenza atmosferica. Le protogalassie dell’HUDF non hanno equivalenti in qualsiasi altra immagine ottenuta prima, sono più piccole e meno massicce delle galassie dell’Universo locale, ma formano molte più stelle. Hanno morfologie assai varie, soprattutto irregolari e distorte, e quindi sono molto diverse dalle galassie ellittiche e a spirale che oggi vediamo. Inoltre si trovano spesso nelle vicinanze di altre galassie, andando così a formare coppie o piccoli gruppi molto compatti, e risultano testimonianze di un’epoca in cui la vita delle galassie è dominata dalle interazioni (Hu, Cowie 2006).
Formazione ed evoluzione delle galassie
In passato si pensava che le galassie fossero sistemi isolati che si formavano dal collasso monolitico di grandi nubi di gas primordiale in lento moto di rotazione. La nascita di una galassia ellittica piuttosto che di una spirale dipende essenzialmente dalla rapidità con cui la nube collassa verso il centro e dal tempo impiegato dalle stelle della galassia per accendersi. La nube protogalattica è, infatti, caratterizzata da moti turbolenti che durante il collasso ne provocano la frammentazione. Dal raffreddamento e dalla condensazione di questi frammenti si formano sia le singole stelle sia gli ammassi stellari. Se il processo di formazione stellare è rapido, allora il collasso della nube protogalattica darà vita a una galassia ellittica caratterizzata da una lenta rotazione d’insieme. Viceversa, se la formazione delle stelle è più lenta, allora le nubi protostellari prima di condensarsi si urteranno più volte disponendosi sul piano perpendicolare all’asse di rotazione del sistema e formando un disco in rapida rotazione in virtù della conservazione del momento angolare. Il disco della galassia risultante sarà tanto più esteso e massiccio quanto maggiore è la rotazione iniziale della nube protogalattica.
Con il passare degli anni si sono accumulate sempre più evidenze a favore dell’idea che le galassie siano sistemi in continua interazione, come testimoniano le immagini di veri e propri scontri, fusioni e passaggi ravvicinati tra galassie, che finiscono per modificare e talvolta anche disgregare i sistemi coinvolti. Questa scoperta, insieme con quella degli aloni di materia oscura, ha cambiato radicalmente la nostra visione della formazione delle galassie. Oggi si ritiene che le galassie si formino in un processo di aggregazione gerarchica a partire da quei piccoli aloni di materia oscura che si sono isolati durante le prime fasi di vita dell’Universo e che si fondono per effetto della reciproca attrazione gravitazionale andando a costituire agglomerati via via più grandi. Al centro di questi aloni il gas si raffredda e si condensa formando le stelle dei cosiddetti dischi protogalattici. Le galassie che oggi vediamo sono il risultato finale dei diversi e numerosi processi d’interazione che hanno coinvolto queste protogalassie. Per es., le simulazioni numeriche mostrano che dalla fusione di due galassie a disco di massa comparabile si genera una galassia ellittica, mentre se le due protogalassie hanno massa significativamente diversa si ottiene qualcosa di più simile a un piccolo sferoide. Quest’ultimo può attirare materiale dall’ambiente esterno attorno a sé fino a formare un disco e ad assumere l’aspetto di una galassia a spirale.
In effetti, guardando galassie sempre più lontane e quindi sempre più giovani si trovano sistemi via via più piccoli e disturbati dall’alta frequenza delle interazioni cui sono soggetti, essendo la loro densità più alta rispetto a oggi. Questo schema, secondo cui le galassie più massicce dovrebbero essere quelle che si sono assemblate più di recente, viene rimesso in discussione dalla scoperta di galassie ellittiche giganti che, pur avendo una distanza paragonabile a quella dei quasar più lontani oggi conosciuti (z∼7), possiedono una massa stellare che è pari a quella delle galassie più massicce dell’Universo locale. Questo proverebbe che la formazione stellare è avvenuta prima e più rapidamente di quanto non ci si aspetti nello scenario classico di aggregazione gerarchica. La galassia ellittica HUDF-JD2, a z=6,5, è un esempio di questi sistemi molto evoluti per l’epoca remota a cui appartengono. La formazione stellare è stata così rapida e intensa che HUDF-JD2 è diventata in meno di 900 milioni di anni quasi dieci volte più massiccia della Via Lattea, che è invece una galassia vecchia di 13 miliardi di anni. Sorge allora il problema di come conciliare la crescita gerarchica degli aloni di materia oscura con l’andamento antigerarchico dei processi di formazione stellare, che sembrano avvenire nei tempi caratteristici dello schema del collasso monolitico. Così risulta, da un lato, che gli aloni più massicci sono quelli assemblatisi più di recente, mentre, dall’altro, che le galassie più massicce hanno smesso per prime di produrre stelle per poi evolvere in modo passivo, al contrario di quelle più piccole, che invece continuano a formare stelle (Renzini 2006). Oggi una buona frazione (circa il 25%) dei barioni che osserviamo si trova nelle stelle vecchie (fino a oltre 10 miliardi di anni) e nei resti stellari, che formano la componente sferoidale delle galassie la quale a sua volta corrisponde all’intero sistema nel caso delle galassie ellittiche o al solo rigonfiamento centrale nel caso delle galassie a spirale. Negli ultimi anni si è consolidata l’idea secondo cui ognuno di questi sferoidi ospita al suo centro un buco nero.
Buchi neri supermassicci al centrodelle galassie
Un interessante sviluppo riguarda proprio la rivelazione al centro delle galassie di buchi neri con massa compresa tra un milione e un miliardo di volte quella del Sole. Considerazioni teoriche suggeriscono che questi buchi neri siano la causa delle straordinarie quantità di energia emesse dai nuclei delle galassie attive. L’intensa forza di gravità del buco nero accelera la materia, che si muove verso di esso, fino a velocità prossime a quella della luce. La materia, che non punta direttamente verso il buco nero, inizia a orbitargli attorno formando il cosiddetto disco di accrescimento. In un processo dissipativo simile alla frizione, essa cede energia e gradualmente spiraleggia verso il buco nero fino ad attraversare l’orizzonte degli eventi, detto anche raggio di Schwarzschild, entrando in quella regione da cui nemmeno la luce riesce a sfuggire. L’energia liberata sarà tanto più alta quanto più rapidamente il buco nero ruota su sé stesso. La conservazione del momento angolare prevede che se della materia si muove verso il buco nero allora ci deve essere altra materia che si allontana da esso. Ciò avviene lungo getti contrapposti allineati con l’asse di rotazione del disco di accrescimento e collimati da un intenso campo magnetico, le cui linee di forza si avvolgono su sé stesse.
Per via della loro grandissima massa i buchi neri al centro delle galassie vengono comunemente chiamati buchi neri supermassicci, così da distinguerli da quelli di origine stellare. Poiché tutte le galassie hanno attraversato una fase di attività nucleare più o meno intensa, ci si aspetta che i buchi neri supermassicci costituiscano una componente fondamentale non solo delle galassie attive, ma anche di quelle che oggi sono quiescenti. Queste speculazioni hanno trovato una conferma sperimentale soprattutto grazie alle osservazioni condotte con il telescopio Hubble, con cui è stato possibile misurare con grande precisione i moti d’insieme delle stelle e del gas nelle regioni nucleari di circa 50 galassie vicine, provando l’esistenza di grandi concentrazioni di materia (Ferrarese, Ford 2005). Infatti, più è alta la velocità di rotazione delle stelle e del gas, tanto maggiore è la concentrazione di massa attorno a cui ruotano. Ma vi sono soltanto prove indirette che queste concentrazioni siano effettivamente buchi neri supermassicci e non dei superammassi di stelle poco luminose (come nane brune o stelle di neutroni) o condensazioni di particelle elementari. Questi indizi a favore del buco nero sono particolarmente convincenti nel caso della Via Lattea, dove la misurazione della concentrazione di massa è stata fatta studiando le orbite di singole stelle che ruotano attorno al centro galattico. Esso si trova in prossimità della sorgente radio compatta Sagittario A* a una distanza di circa 8000 parsec dal Sole. Le stelle che si vedono a meno di 1 secondo d’arco (circa 0,04 parsec) da Sagittario A* sono chiamate stelle S. Sono monitorate dai telescopi VLT in Cile e Keck a Mauna Kea, con osservazioni di ottica adattiva condotte nella banda infrarossa per penetrare le polveri che si addensano in questa regione. A oggi si contano 28 stelle S la cui orbita è stata determinata con accuratezza: ciò ha permesso di stimare che la massa del buco nero della Via Lattea è pari a 4,3 milioni di masse solari; la presenza del buco nero è anche invocata per spiegare la variabilità dell’intensa emissione radio, X e infrarossa che proviene dal centro galattico.
Il numero di buchi neri supermassicci noti è ancora esiguo e ogni nuova misurazione è salutata con grande interesse, soprattutto se si tratta di masse molto piccole oppure molto grandi, come nel caso di Abell 1836-BCG. Il buco nero di questa galassia ellittica, che si trova a 147 milioni di parsec di distanza in direzione della costellazione della Vergine, ha una massa di 3,6 miliardi di masse solari ed è il più massiccio finora trovato. Per contro, la crescita dei buchi neri attraverso fusioni successive richiede l’esistenza di buchi neri di massa intermedia, più grandi di quelli stellari ma più piccoli di quelli supermassicci. Questi buchi neri, con masse fino a qualche decina di migliaia di masse solari, sono stati trovati al centro di alcuni ammassi globulari della Via Lattea (M15 e ω Centauri) e della galassia di Andromeda (G1). Sono solo le galassie più massicce di qualche decina di miliardi di masse e dotate di una componente sferoidale a possedere un buco nero centrale; nelle altre, si trova invece un nucleo stellare compatto. Si tratta di aggregati di stelle assimilabili a superammassi globulari con masse fino a 100 milioni di masse solari, che sono molto comuni nelle galassie meno luminose.
I buchi neri supermassicci e i nuclei stellari compatti hanno masse pari allo 0,2% della massa totale della galassia ospite, il che lascia pensare a una loro evoluzione congiunta. Se la connessione tra buchi neri e nuclei stellari è ancora da stabilire, è ormai chiaro che l’evoluzione della galassia influenza direttamente la crescita del buco nero centrale. Infatti, fenomeni come le fusioni tra galassie, le interazioni mareali e alcuni processi dinamici sono in grado di convogliare gas verso il nucleo e quindi alimentare il buco nero. A sua volta il buco nero influenza l’evoluzione della galassia ospite. Quando diventa attivo, il buco nero genera un vento tanto intenso da spazzare via il mezzo interstellare circostante, che viene proiettato nell’ambiente intergalattico. Attorno alla galassia si forma un’intricata rete di filamenti e archi composti da gas riscaldato a temperature di milioni di gradi kelvin, che si estendono per decine di migliaia di parsec e sono visibili nelle immagini in banda X ottenute dal telescopio spaziale Chandra. In assenza di gas sia la formazione stellare sia la crescita del buco nero subiscono una battuta di arresto. Lo studio delle relazioni che legano le proprietà dei buchi neri a quelle delle galassie che li ospitano è dunque cruciale per avere un quadro coerente della loro reciproca influenza, la quale sta alla base del nuovo concetto di coevoluzione. Si tratta di un termine mutuato dall’ecologia, nell’ambito della quale indica una sequenza di cambiamenti evolutivi correlati tra specie interagenti, che ormai è stato introdotto anche in astrofisica.
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