La nuova disciplina del contratto a termine
Il presente contributo analizza le novità introdotte dal “decreto dignità” del Governo Conte (d.l. 12.7.2018, n. 87, conv. con mod. dalla l. 9.8.2018, n. 96) in materia di contratto a termine, offrendo una visione d’insieme della disciplina attualmente vigente e dei principali problemi applicativi ed interpretativi, con una ricognizione sintetica delle fonti del diritto dell’Unione europea e della previgente disciplina di legge nell’ordinamento nazionale.
La nuova disciplina del contratto a termine contenuta nel cd. “decreto dignità” (d.l. 12.7.2018, n. 87, conv. con mod. dalla l. 9.8.2018, n. 96) ha cambiato in modo significativo l’impostazione generale nella regolamentazione dei rapporti di durata che era stata adottata nella precedente legislatura. Si tratta di un nuovo indirizzo su uno dei versanti più delicati e sensibili del diritto del lavoro, con il passaggio da un regime di disciplina ispirato ad una politica di liberalizzazione dei contratti di lavoro, per stimolare l’occupazione, ad una regolamentazione maggiormente restrittiva e sorvegliata del potere contrattuale del datore di lavoro.
Il numero particolarmente elevato di rapporti di lavoro a termine che caratterizza l’attuale struttura occupazionale e soprattutto la sproporzione fra rapporti di durata e rapporti a tempo indeterminato, ha rappresentato la ragione contingente dell’intervento legislativo, in cui tuttavia si scorgono diverse prospettive di governo del mercato del lavoro rispetto al recente passato e una più incisiva tendenza all’intervento della legge nella regolamentazione dei rapporti di lavoro1. D’altra parte, da sempre il contratto a termine, fra i contratti definibili come “atipici”, è il più diffuso ed importante, derivando da tale “centralità” sia i continui rimaneggiamenti in via legislativa che la rilevante conflittualità giudiziaria. La legislazione sul lavoro a termine nel settore privato ha dunque un’importanza peculiare, anzi cruciale per il sistema economico e produttivo, determinando, in sostanza, la possibilità dell’impresa di variare il numero di addetti impegnati nella produzione e la loro collocazione nel processo produttivo. Allo stesso tempo, il contratto a termine rappresenta spesso, nella realtà attuale del mercato del lavoro nazionale, l’unica possibilità occupazionale, soprattutto per le fasce giovanili, con i noti rischi di precarietà della condizione lavorativa ed esistenziale. Il problema che si pone ciclicamente è, pertanto, il necessario bilanciamento fra le legittime esigenze imprenditoriali di poter fronteggiare con appropriate modifiche nell’organico aziendale le mutevoli dinamiche del mercato – esigenze definibili come “flessibilità” del lavoro – e la tutela, anch’essa in linea di principio irrinunciabile, dell’interesse dei lavoratori alla stabilità dell’impiego, vale a dire, più concretamente, che del contratto a termine non si abusi, utilizzandolo in modo improprio ed elusivo, o ripetutamente, senza ragioni oggettive2.
Per un quadro d’insieme affidabile è bene chiarire, innanzitutto, che la dir. 99/70/CE, che ha recepito l’accordo quadro del 18.3.1999 sottoscritto dalla Confederazione europea dei sindacati (CES) con UNICE e CEEP, ha rappresentato un punto di svolta nella regolamentazione del lavoro a tempo determinato. Attuando tale direttiva con il d.lgs. 6.9.2001, n. 368, il legislatore ha abrogato (pur non avendone forse la necessità) la precedente l. 18.4.1962, n. 230 e ha dettato una disciplina organica del contratto a termine su cui, dopo alterne vicende e parziali modifiche (legate al momento politico o alla situazione oggettiva del mercato del lavoro)3, è intervenuto il d.l. 20.3.2014, n. 34 (cd. “decreto Poletti”, conv. con mod. dalla l. 16.5.2014, n. 78), successivamente trasfuso integralmente nel d.lgs. 15.6.2015, n. 81, meglio noto come Jobs Act. Questa normativa, che ha sostituito ed abrogato il decreto legislativo del 2001, è stata poi oggetto di integrazioni e modifiche ad opera del “decreto dignità” del Governo Conte (d.l. n. 87/2018). In particolare, allo scopo di impedire abusi nella reiterazione dei contratti a termine, il d.lgs. n. 368/2001 aveva previsto un criterio di regolazione del contratto a termine basato su specifiche causali autorizzative (“ragioni” tecniche, produttive, organizzative e sostitutive)4. In questo modo il legislatore non aveva interrotto la tradizionale configurazione del contratto a termine come contratto di carattere derogatorio rispetto alla “forma comune” dei rapporti di lavoro. Il filtro selettivo così istituito ha non di meno sollevato discussioni e problemi interpretativi, a vari livelli, che hanno interessato e diviso la stessa giurisprudenza, che pur avendo elaborato modelli generali di orientamento ha poi dovuto calarli nell’ambito dei singoli rapporti lavorativi. Il controllo sull’autonomia negoziale mediante fattispecie di carattere generale o clausole in “bianco”, ha di fatto spostato la verifica della conformità del comportamento negoziale delle parti, caso per caso, nel momento giudiziario. Una tale verifica non rappresenta mai, in concreto, un’operazione sussuntiva priva di contrasti interpretativi e sistematici e la sua natura casistica ha così alimentato, inevitabilmente, la proliferazione di orientamenti confliggenti, risolti, talvolta, con grande difficoltà5. La dir. 99/70/CE muoveva del resto dall’idea che il lavoro a tempo determinato, per i rischi di precarizzazione insiti nei contratti di durata, non dovesse essere considerato come uno strumento di flessibilità da promuovere6, e che, per contemperare flessibilità e sicurezza, la stipula di un contratto a termine dovesse rappresentare, nei limiti del possibile, una scelta del lavoratore e non un’imposizione. È per questo motivo che la direttiva ha poi stabilito che il contratto a tempo indeterminato resta sempre, in linea di principio, la forma comune dei rapporti di lavoro. Anche se privo di portata precettiva, questo principio enunciato così solennemente ha rappresentato un parametro di riferimento per valutare la conformità al diritto dell’Unione europea degli ordinamenti nazionali7, tanto che identica affermazione è stata poi inserita dal legislatore nazionale in apice alla regolamentazione legislativa (v. ora art. 1 d.lgs. n. 81/2015). Per combattere la precarizzazione dei rapporti lavorativi, la clausola 5 dell’accordo quadro ha poi previsto, oltre al principio antidiscriminatorio, specifiche misure antiabusive – indicate nella previsione di ragioni oggettive in grado di giustificare il rinnovo del contratto, della durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro o infine nella previsione di un limite massimo inderogabile ai rinnovi contrattuali – ed esigendo «l’adozione effettiva e vincolante» almeno di una di esse, qualora l’ordinamento nazionale non preveda già misure equivalenti8. Non molto chiara, in realtà, è la discrezionalità degli Stati a tal riguardo, visto che la stessa Corte di giustizia, se da un lato ha affermato che questa clausola non ha un contenuto minimo immediatamente applicabile e «non comporta alcun obbligo incondizionato e sufficientemente preciso che possa essere invocato, in assenza di misure di trasposizione, da un singolo dinanzi ad un giudice nazionale»9, ha tuttavia ribadito in altre occasioni il disfavore dell’ordinamento comunitario nei confronti della reiterazione di contratti a termine per soddisfare fabbisogni permanenti e durevoli del datore di lavoro, che, dunque, «in base al principio di ‘normalità’ del contratto a tempo indeterminato, dovrebbero essere soddisfatti ricorrendo a relazioni contrattuali stabili»10. Va rammentato poi che la Corte di giustizia ha ritenuto la “conversione” in contratto a tempo indeterminato lo standard di tutela più efficace per sanzionare l’utilizzo illegittimo di contratti a termine, che nel nostro ordinamento è la regola in caso di violazione di legge, salvo le esclusioni espressamente previste11. Anche in questo caso occorre tuttavia tener presente che la direttiva lascia agli stati nazionali la possibilità di optare per sanzioni di diversa natura, purché le stesse rispettino il principio di effettività (ovvero siano effettive adeguate e dissuasive) e di equivalenza (non dissimili da quelle adottate dallo Stato in situazioni analoghe)12. Il d.lgs. n. 368/2001 ha dunque dato attuazione alla dir. n. 99/70/CE con una normativa che può dirsi, in linea generale, conforme agli scopi dell’accordo quadro ed ispirata dal modello teorico della flexicurity13. Tuttavia nell’ambito del progetto di riforma del mercato del lavoro elaborato nella XVII legislatura questo importante corpus normativo è stato oggetto di una rivisitazione piuttosto radicale, che si è concretizzata nella sua abrogazione, ridefinendo completamente la disciplina applicabile – peraltro con effetti dubbi ed in modo, secondo alcuni studiosi, contrastante con la direttiva europea, i cui contenuti sono stati qui succintamente ricordati14.
Il “decreto dignità”, approvato con d.l. n. 87/2018, ha cambiato nettamente il modello normativo del contratto di lavoro a tempo determinato con una più incisiva definizione degli spazi e dei poteri negoziali attribuiti alle parti, stabilendo una regolamentazione basata su una sorta di doppio binario, vale a dire un regime di quasi completa liberalizzazione per rapporti di breve durata e un regime vincolistico in caso di reiterazione dei contratti, sottoponendo l’autonomia negoziale, in questo caso, ad una verifica nel “merito” delle ragioni addotte. Anche per altri aspetti la nuova disciplina ha introdotto delle novità, ma questa è certamente la più importante innovazione prodotta. I cambiamenti previsti sono stati attuati, tuttavia, attraverso una tecnica legislativa di integrazione e modifica, e non già di superamento o abrogazione in toto, del quadro legislativo preesistente, costituito, come si è già evidenziato, dalle norme di cui agli artt. 19 e ss. del d.lgs. n. 81/2015, derivanti a loro volta dal d.l. n. 34/201415. Pertanto, per comprenderne bene la portata, occorrerà considerare congiuntamente queste diverse fonti legislative, la cui lettura integrata è necessaria anche per definire le attuali, vigenti coordinate normative del lavoro a tempo determinato.
Con il “decreto Poletti” (d.l. n. 34/2014) il legislatore ha introdotto una regolamentazione ispirata dunque a nuovi criteri rispetto a quello previsti dalla precedente disciplina di legge, prevedendo un regime completamente “acausale” del contratto a tempo determinato in funzione di una sua maggiore ed ampia liberalizzazione16. Questo assetto ha avuto però vita breve, considerando che soltanto dopo quattro anni è stato ribaltato dal d.l. n. 87/2018, che ha nuovamente ricollocato la disciplina del lavoro a termine, seppure in parte, con esclusione del primo contratto, nel suo tradizionale alveo, costituito da un sistema incentrato su criteri generali ed astratti inderogabili. Le misure di contrasto all’abuso sono state individuate dal decreto Poletti soltanto nella durata massima del contratto in trentasei mesi, anche in via cumulativa e nella clausola di “contingentamento” (entrambe successivamente confermate dal “decreto dignità” del Governo Conte). Tuttavia, pur prevedendo questi criteri filtranti per la stipula dei contratti a termine, la derogabilità di tali limiti, liberamente modulabili ad opera del contratto collettivo, anche aziendale, ha reso la disciplina legislativa alquanto evanescente17. Va segnalato, fra l’altro, che alla violazione del limite numerico non segue (essendo espressamente esclusa) l’operatività del principio comune della trasformazione del rapporto, ma una mera e non temibile sanzione economica, che rappresenta dunque soltanto un costo aggiuntivo per il datore di lavoro. A rendere ancora più flessibili i pochi vincoli previsti dal d.l. n. 34/2014 contribuisce poi la possibilità di stipulare, dinanzi alla Direzione territoriale del lavoro, un ulteriore contratto a termine di dodici mesi, in deroga al limite di durata previsto dalla legge. Considerando la derogabilità così estesa, ad opera del contratto collettivo o anche del contratto individuale, riguardante anche l’unico limite sanzionato efficacemente, questo assetto normativo, che ha sostituito il precedente e collaudato sistema previsto dal d.lgs. 368/2001, non poteva non sollevare molte perplessità circa la sua congruenza sistematica18. In definitiva, con la riforma disegnata nella precedente legislatura, eliminando le causali giustificatrici per ridurre il contenzioso e l’incertezza per le imprese, si è realizzato uno schema che ha consentito una (quasi) completa liberalizzazione delle condizioni di utilizzo del contratto, giudicato da alcuni in “rotta di collisione” con la direttiva europea e con le acquisizioni del “dialogo” fra le alte Corti in Europa19. Oltre ad abbandonare la previsione di ragioni oggettive, la disciplina del contratto a termine si è caratterizzata per la cedevolezza o semiimperatività delle norme di tutela. Ma in questo modo essa è apparsa elusiva degli scopi della dir. 99/70/CE, che sono quelli di introdurre disposizioni «volte ad evitare la precarizzazione della situazione dei lavoratori dipendenti», privati del beneficio della stabilità del rapporto20.
Su questa normativa è intervenuto il “decreto dignità”21, destinato ad applicarsi anche alla somministrazione di lavoro, che ha modificato in alcuni punti le norme preesistenti e, in particolare, ha introdotto misure antiabusive maggiormente in linea con gli obiettivi della dir. 99/70/CE. Del quadro precedente (artt. da 19 a 29 del d.lgs. n. 81/2015) il legislatore ha toccato in realtà solo alcune disposizioni, ma le modifiche sono talmente importanti da cambiare strutturalmente il modello di disciplina. La ratio della riforma è di restringere le possibilità di reiterazione dei contratti a termine, nel tentativo di ottenere che dopo il primo contratto di lavoro l’eventuale prosecuzione del rapporto avvenga a tempo indeterminato (salvo alcune ipotesi in cui, ricorrendo specifiche condizioni, si ammettono ancora rapporti a breve termine). Il che è dimostrato anche dalla scelta di aumentare il contributo addizionale Inps dello 0,5% ad ogni rinnovo contrattuale. Modificando l’art. 19, co. 1, d.lgs. n. 81/2015, il “decreto dignità” ha dunque previsto la facoltà delle parti contraenti di stipulare un primo contratto a termine, purché di durata non superiore a 12 mesi, sempre totalmente “libero” e senza necessità di giustificazioni causali o altri vincoli, eccezion fatta per il già richiamato limite numerico e, ovviamente, per le formalità di stipula del contratto (forma scritta ad substantiam)22. In un’ottica critica questa scelta potrebbe ritenersi in contrasto con il principio contenuto nell’art. 1 d.lgs. n. 81/2015, secondo cui la forma comune del rapporto di lavoro è a tempo indeterminato23, ma bisogna ricordare, a tal proposito, che la stessa Corte di giustizia ha ritenuto che un corretto bilanciamento fra le esigenze di flessibilità delle imprese e la tutela dei lavoratori, può essere assicurato attraverso il diverso regime di disciplina del primo contratto a termine rispetto ai contratti successivi24. L’altro importante intervento di modifica della normativa preesistente riguarda la durata massima consentita, che diviene pari a 24 mesi in luogo del precedente limite fissato in 36 mesi (limite tuttavia sempre derogabile dalla contrattazione collettiva, mentre inderogabile è la durata del primo contratto, che non può superare mai i 12 mesi). Il termine massimo, determinato se necessario cumulando anche periodi diversi, vale tuttavia soltanto in caso di assunzioni a termine per lo stesso livello di inquadramento e le medesime mansioni ed è quindi esposto a possibili comportamenti elusivi del datore di lavoro. Del primo contratto di lavoro si ammettono proroghe anch’esse libere, se contenute all’interno del limite dei 12 mesi25. Il secondo comma dell’art. 21 consente in ogni caso un massimo di quattro proroghe contrattuali, all’interno dell’arco temporale massimo di 24 mesi, mentre meno chiara è la disciplina dei rinnovi. L’art. 21, co. 1, stabilisce infatti che i rinnovi, anche se contenuti nel limite dei 12 mesi, richiedono sempre la specificazione delle ragioni, che devono essere conformi alle causali autorizzative previste dall’art. 19. È però possibile che in via interpretativa prevalga in futuro una “lettura” differente, che consenta rinnovi contrattuali “liberi” come per le proroghe entro la soglia dei 12 mesi, non essendo forse del tutto giustificata una così diversa disciplina legale. In caso di superamento del limite di 12 mesi operano invece le limitazioni imposte all’autonomia negoziale mediante l’onere di specificazione delle “causali” stabilite dalla norma, in ciò inderogabile. Si tratta delle ipotesi previste dall’art. 19, co. 1, d.lgs. n. 81/2015, che rinviano: a) ad esigenze temporanee ed oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori; b) ad esigenze connesse ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria26. Salvo il caso delle sostituzioni viene dunque previsto un limite più stringente per i rapporti che superino il limite dei 12 mesi – periodo in cui vige una libertà contrattuale quasi incondizionata – basato, in estrema sintesi, sul duplice criterio della “straordinarietà” e “temporaneità” dell’assunzione a termine, oppure, in alternativa, sul criterio della “imprevedibilità” degli incrementi dell’attività ordinaria. In tal modo viene ripristinato il sistema regolativo previsto dal d.lgs. n. 368/2001 tornando al regime delle causali, ma non con la previsione di causali giustificatrici di carattere generale, in grado di “contenere esigenze molto variegate”27, bensì attraverso la rigida tipizzazione legale delle ipotesi ammesse (simile in questo al regime previsto dalla l. n. 230/1962). I quesiti applicativi sono molteplici ed è facile prevedere che la nuova disciplina darà luogo a discussioni e confronti in dottrina e in giurisprudenza, con ricadute e conseguenze al momento non prevedibili sul piano interpretativo. Da notare, fra l’altro, il ruolo per così dire defilato attribuito dal legislatore alla contrattazione collettiva, a cui non è consentito intervenire nella regolazione del contratto a termine in modo da prevedere apposite causali autorizzative per specifiche esigenze di settore, mentre è dato ad essa soltanto di operare come fattore di regolazione in chiave derogatoria del limite temporale e del contingente di personale ammissibile28. Restano inalterati invece sia l’elencazione dei divieti, già previsti dall’art. 20, per l’assunzione di lavoratori a termine, sia le esclusioni del regime vincolistico per le attività stagionali e per le startup (su cui si veda la disciplina speciale prevista dall’art. 21 del d.lgs. n. 81/2015). In definitiva, pare utile sottolineare che il “decreto dignità” ha conservato le disposizioni del precedente d.lgs. n. 81/2015, in particolare sia il carattere relativo e non assoluto del limite temporale (derogabile e non sempre applicabile) che la moderata sanzione prevista in caso di violazione della clausola di contingentamento (sanzione amministrativa di importo pari nel minimo al 20% e nel massimo al 50% della retribuzione). Allo stesso modo, è confermato integralmente l’art. 25, che detta il principio antidiscriminatorio, fattore di controllo dell’autonomia individuale e della regolamentazione da parte delle fonti collettive dei rapporti di lavoro a termine29. Quest’ultimo ha un’importanza particolare, che va qui sottolineata, per ridurre il rischio di precarizzazione derivante dall’utilizzo del contratto a termine, in modo che sia garantita, quanto meno, la parità di trattamento fra i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori comparabili a tempo indeterminato. La disposizione è stata introdotta già dal d.lgs. n. 368/2001, a seguito della dir. 99/70/CE. Ne consegue che il lavoratore assunto con contratto a termine non può essere destinatario di trattamenti economici e normativi in pejus rispetto a quelli corrisposti ad un lavoratore di pari livello, a parità di mansioni svolte, con obbligo in caso contrario di ricalcolare per tutti i periodi di svolgimento del contratto la retribuzione globale di fatto corrisposta al lavoratore e l’incidenza in relazione a tutti gli altri istituti previsti dalla legge e dal contratto collettivo. Una specifica tutela dei lavoratori a tempo determinato è data infine, ai sensi dell’art. 24, dal diritto di precedenza di cui essi godono, in caso di assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro nei successivi 12 mesi, decorrenti dalla cessazione del contratto di lavoro, ma a condizione che l’assunzione avvenga per le medesime mansioni e che il rapporto a termine (anche cumulando diversi periodi) abbia avuto una durata almeno di 6 mesi. Stesso diritto hanno i lavoratori stagionali per le successive assunzioni, anche a tempo determinato, per le medesime attività stagionali (quindi senza più riferimento alle mansioni specifiche del lavoratore: v. art. 24, co. 3). Presidiato dal potere del giudice di disporre la costituzione del rapporto di lavoro in via autoritativa, il diritto di precedenza è tuttavia opponibile al datore solo in caso di espressa sua menzione nel contratto di lavoro e sempre che il lavoratore dichiari, dopo la cessazione del rapporto a termine, di volersene avvalere, con atto scritto da trasmettere al datore di lavoro entro sei mesi al massimo dalla indicata cessazione dell’attività lavorativa. Quanto ai meccanismi sanzionatori, si ricorda che la violazione di tali condizioni determina, come espressamente sancito dalla legge (v. art. 19, co. 2), la trasformazione del contratto a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con le conseguenze economiche disposte dall’art. 28, co. 2, del d.lgs. n. 81/2015, che limita la responsabilità datoriale al pagamento di una indennità omnicomprensiva risarcitoria a favore del lavoratore precario in una misura ricompresa da un minimo di 2,5 ad un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione percepita. Dispone la norma che questa indennità deve ritenersi idonea a «ristora[re] per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro». Si tratta dunque di una disposizione derogatoria rispetto ai principi della responsabilità civile posti dal diritto comune in senso peggiorativo per la parte debole del rapporto di lavoro. Introdotta per la prima volta e in modo ancor più riduttivo dall’art. 32, co. 5, l. 4.11.2010, n. 183, questa limitazione dell’obbligo risarcitorio ha provocato non poche discussioni, sia in giurisprudenza che in dottrina, con denunce ripetute di incostituzionalità30. Per un’illustrazione completa delle nuove disposizioni, poste a tutela delle imprese, va ricordato infine l’obbligo per il lavoratore, in caso di impugnativa del contratto a tempo determinato, di rispettare il termine di decadenza di 180 giorni decorrenti dalla cessazione di ogni singolo contratto, a cui deve seguire entro altri 180 giorni la proposizione, a pena di inefficacia dell’impugnativa medesima, dell’azione giudiziaria (v. art. 28, co. 1, d.lgs. n. 81/2015, così come modificato dal d.l. n. 87/2018)31.
Rispetto alla precedente, originaria normativa risalente al d.lgs. n. 368/2001, il “decreto dignità” stabilisce una disciplina maggiormente articolata e opta per un diverso modello di intervento sull’autonomia negoziale delle parti, fondato sulla previsione di una libertà contrattuale ampia e quasi incondizionata per rapporti a breve termine (massimo 12 mesi) a cui fa da contrappeso la contestuale, significativa restrizione della medesima libertà in caso di reiterazione del contratto o superamento del termine breve32. Si è osservato criticamente che l’avvicendarsi, ad un primo contratto completamente libero, di contratti successivi sottoposti a stringenti controlli di legittimità, potrebbe costituire un fattore di possibile incremento di rapporti di breve durata, stante il prevedibile elevato turn-over di lavoratori precari nelle aziende onde eludere le causali previste dalla legge ed i relativi rischi di controversie giudiziarie dagli esiti molto incerti. Se così fosse, potrebbe essere necessaria una nuova modifica della regolamentazione legislativa, ritornando forse all’applicazione delle causali fin dal primo contratto, ovvero prevedendo altro meccanismo diverso dalle causali, ma fermo il principio del rispetto delle “ragioni oggettive” per la stipula del contratto. Qualche perplessità si potrebbe nutrire poi sulla chiarezza semantica delle previsioni contenute nelle lett. a) e b) dell’art. 19, che lasciano troppi margini di incertezza e certamente daranno luogo ad un necessario impegno interpretativo della giurisprudenza. Il ruolo in verità riduttivo assegnato alla contrattazione collettiva rappresenta un altro aspetto critico della normativa in rassegna, non consentendo in questo modo che il sistema di regolazione del contratto a termine possa essere maggiormente calibrato in funzione delle situazioni contingenti di mercato e dei bisogni dei singoli settori produttivi. Ciò appare non pienamente comprensibile considerando che in passato la contrattazione collettiva, nel contesto del vecchio regime di tipizzazione legale, aveva svolto una funzione di articolazione “periferica” dei meccanismi di regolazione. In conclusione, nella disciplina del lavoro a tempo determinato si assiste da tempo a continue modifiche, a impostazioni ed orientamenti di diverso segno, tendenti ad obiettivi ora di apertura e liberalizzazione del mercato del lavoro, ora di tutela dell’interesse del lavoratore alla stabilità dell’impiego. L’equilibrio disegnato dal legislatore con il “decreto dignità” sembra maggiormente attento al problema della precarizzazione dei rapporti di lavoro rispetto all’utilizzo della flessibilità in funzione di incentivo e stimolo occupazionale, ma non assicura la definizione di un assetto stabile della materia, che appare di difficile realizzazione essendo il contratto a termine l’epicentro di un conflitto endemico nelle società contemporanee post-fordiste.
1 Per un’analisi recente dei flussi del mercato del lavoro v. Seghezzi, F., Il lavoro temporaneo (e a tempo determinato) in Italia, in Ferro, V.Menegotto, M.Seghezzi, F., a cura di, Il lavoro temporaneo tra contratti a termine e somministrazione, Modena, 2018. Per un commento a caldo v. Scarpelli, F., Convertito in legge il “decreto dignità”: al via il dibattito sui problemi interpretativi e applicativi, in www.giustizia civile.com, 2018, 9.
2 Per una discussione a più voci su questi temi v. Mariucci, L., a cura di, Dopo la flessibilità, cosa?, Bologna, 2006, e qui fra gli altri Roccella, M., Lavori flessibili o lavori precari?, 55 ss.
3 È quasi impossibile tenerne il conto. Per una ricognizione si veda De Michele, V., Il d.lgs. n. 81/2015 e la (in)compatibilità con il diritto dell’Unione europea, in Ghera, E.Garofalo, D., Contratti di lavoro, mansioni e misure di conciliazione vita-lavoro nel Jobs Act 2, Bari, 2015, 38.
4 Sul d.lgs. n. 368/2001 si veda il commentario a cura di Biagi, M., Il nuovo lavoro a termine. Commentario al d.lgs. 6 settembre 2001 n. 368, Milano, 2002.
5 Per le maggiori problematiche applicative si veda, fra gli altri, Speziale, V., La riforma del contratto a termine dopo la legge n. 247/2007, in Riv. it. dir. lav., 2008, 181; Ferraro, G., Il contratto a termine rivisitato, in Argomenti dir. lav., 2008, 659.
6 Zappalà, L., I lavori flessibili, in Sciarra, S.Caruso, B., a cura di, Il lavoro subordinato, in Trattato di diritto privato dell’Unione europea, Torino, 2009, 359.
7 v. C. giust., 4.7.2006, C212/04, Adeneler, p. 73; v. ancora Zappalà, L., Abuse of fixedterm contracts and sancions in the recent ECJ’s jurisprudence, in Industrial Law Journal, 2006, 439 ss.
8 Come affermato dalla C. giust., 15.4.2008, C268/06, Impact (p. 70).
9 V. la sent. Impact, cit., p. 74.
10 V. C. giust., C212/04, cit., pp. 90105. Si veda a tal riguardo Adeneler, cit. Cfr. Zappalà, L., op. loc. ultt. citt., 370-371.
11 Nella C. giust., 26.11.2014, C22/13, Mascolo, la Corte aveva valutato come misura adeguata, definita “energica”, per reprimere gli abusi, la conversione del rapporto. Sulla conversione v. pure C. giust., 3.7.2014, C362/13, Flamingo. Il principio generale espresso dalla Corte di cassazione in modo assolutamente pacifico è che «in caso di insussistenza delle ragioni giustificative del termine, e pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza delle dette ragioni, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonché alla stregua dell’interpretazione dello stesso art. 1 citato nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE, e nel sistema generale dei profili sanzionatori nel rapporto di lavoro subordinato, tracciato dalla Corte cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del 2005, all’illegittimità del termine ed alla nullità della clausola di apposizione dello stesso consegue l’invalidità parziale relativa alla sola clausola e l’instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato» (così ad es. Cass., 21.5.2008, n. 12985).
12 Sul problema delle sanzioni v. oltre ad Adeneler, la C. giust., 6.9.2006, cause riunite C53/04 Marrosu-Sardino e C180 Vassallo per il settore pubblico.
13 Sulla flexicurity si veda recentemente, con un’ottica critica, Giubboni, S., Flexi-insecurity all’italiana, in Riv. crit. dir. priv., 2018, 207 ss.; per una rilettura dei paradigmi di fondo di questo apparente ossimoro si veda Wilthagen, T.Tros, E., The concept of “flexicurity: a new approach to regulating employment and labour markets, in Transfer 2004, 10, 166 ss., a cui può darsi la paternità di questo possibile compromesso fra esigenze di tutela della persona del lavoratore e contrapposte esigenze di flessibilità dell’impresa. Per un’esposizione molto chiara della ratio delle causali, si veda invece, fra le altre, Cass. n. 12985/2008.
14 cfr. De Michele, V., Il d.lgs. n. 81/2015 e la (in)compatibilità con il diritto dell’Unione europea, op. cit., 25 ss., che richiama la sentenza C. giust., 26.2.2015, C238/14, Commissione c. Lussemburgo. Sulla compatibilità del d.l. n. 34/2014 con la normativa europea v. pure Speziale, V., Totale liberalizzazione del contratto a termine, in Lavoro welfare, 2014, 4, 33 ss., e Vallauri, M.L., Sulla conformità della disciplina del contratto a termine alla direttiva europea (prima e dopo il d.l. n. 34/2014 convertito con l. n. 78/2014), in Riv. it. dir. lav., 2014, II, 951 ss.
15 Su queste disposizioni che hanno ridisegnato completamente il sistema dei rapporti di lavoro atipici, v. Fiorillo, L.Perulli, A., Tipologie contrattuali e disciplina delle mansioni. Decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81, Torino, 2015, e qui il commento di Fiorillo, L., Il contratto di lavoro a tempo determinato.
16 Fra gli altri Gragnoli, E., La nuova regolazione del contratto a tempo determinato e la stabilità del rapporto di lavoro, in Riv. giur. lav., 2014, 288.
17 Si ricorda che l’art. 23, co. 1, d.lgs. n. 81/2015, contempla una serie piuttosto ampia di deroghe anche al di fuori del contratto collettivo.
18 Fra gli altri Fontana, G., Inderogabilità, derogabilità e crisi dell’uguaglianza, in Scritti in onore di Raffaele De Luca Tamajo, Napoli, 2017.
19 De Michele, V., Il d. lgs. n. 81/2015 e la (in)compatibilità con il diritto dell’Unione europea, op. cit., 40.
20 Impact, C. giusti, 15.4.2008, p. 87 ss.; ma v. pure Mangold, C. giust., 22.11.2005, punto 73. Si potrebbe in tal senso sospettare la violazione, nella fattispecie, della clausola di non regresso, stante l’ingiustificata recessione rispetto ad una normativa (il d.lgs. n. 368/2001) attuativa della direttiva europea in materia di lavoro a tempo determinato (sulla clausola di non regresso e la sua portata applicativa v. C. giust., 23.4.2009, C378/07, C379/07 e C380/07, Angelidaki, e sul punto la nt. di commento di Menghini, L., in Riv. giur. lav., 2009, 3, 475 ss.).
21 Per un commento analitico si veda Menegotto, E.Seghezzi, F.Spattini, S., Misure per il contrasto al precariato: primo commento al decreto legge n. 87/2018 (c.d. decreto dignità), Modena, 2018, n. 73.
22 Si precisa che il requisito della forma scritta è escluso soltanto per i rapporti di durata inferiore ai dodici giorni, di carattere occasionale (v. Cass., se. lav., 21.9.2016, n. 18512).
23 Così, fra gli altri, Costa, D.Tiraboschi, M., La riforma del contratto a tempo determinato, in Magnani, M.Tiraboschi, M., La nuova riforma del lavoro, Milano, 2012, 97 ss.
24 In tema si veda la sentenza Mangold e per la giurisprudenza nazionale, fra le altre, la sentenza della C. cost., 4.3.2008, n. 44. Sulla questione della liberalizzazione del primo contratto a termine, in termini critici, v. Perulli, A., Interessi e tecniche nella disciplina del lavoro flessibile, in Dir. lav. rel. ind., 2002, 374.
25 Sulle proroghe la Cassazione ha statuito, riferendosi al regime previgente, che non occorre necessariamente la forma scritta, «fermo ovviamente l’obbligo del datore di provare le ragioni obiettive che giustifichino la proroga» (Cass., 21.1.2016, n. 1058).
26 È stato dunque recepito il principio, già affermato dalla giurisprudenza, secondo cui le ragioni tecniche, produttive, organizzative che consentono la stipula di un contratto a termine devono essere caratterizzate in ogni caso dal requisito della temporaneità (v. fra le altre Cass., sez. lav., 11.5.2011, n. 10346), principio che del resto poteva essere dedotto anche dalla disposizione secondo cui la forma comune del rapporto di lavoro è a tempo indeterminato (v. art. 1 d.lgs. n. 81/2015). Sull’onere di specificazione, invece, si veda fra le altre Cass., 1.2.2010, n. 2279 (secondo cui è da intendersi nel senso «dell’indicazione sufficientemente dettagliata della causale nelle sue componenti identificative essenziali, sia quanto al contenuto, che con riguardo alla sua portata spaziotemporale e più in generale circostanziale»). Sul punto si è espressa la Corte costituzionale, che si è pronunciata con sentenza 8.7.2009, n. 214 anche su altre questioni. Sulla specificazione delle ragioni sostitutive Cass., 30.5.2012, n. 8647.
27 V. Ferraro, G., Tipologie di lavoro flessibile, Torino, 2004, 7.
28 Sulla contrattazione collettiva pende il problema riguardante l’ultrattività (o la caducazione) dei contratti collettivi stipulati prima dell’entrata in vigore del “decreto dignità”.
29 V. la clausola 4 della dir. 99/70/CE, su cui la sentenza Impact, cit. e sui trattamenti retributivi la quasi coeva sentenza della C. giust., 13.9.2007, C307/05, Del Cerro Alonso. Per un’applicazione del principio antidiscriminatorio da parte della nostra giurisprudenza di legittimità, si veda Cass., 11.1.2016, n. 196, riguardante una differenza di trattamento retributivo ritenuta ingiustificata fra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori a termine.
30 Sulle modifiche apportate dalla l. n. 183/2010 alla disciplina del contratto a termine si v. Giubboni, S., Il contratto di lavoro a tempo determinato nella legge n. 183 del 2010, in Riv. it. dir. lav., 2011, II, 227 ss. La Corte costituzionale si è pronunciata una prima volta con la sent. 11.11.2011, n. 303, affermando la non irragionevolezza della disciplina ivi prevista, se interpretata, in modo costituzionalmente orientato, nel senso di coprire soltanto il periodo intermedio fra la scadenza del termine e la sentenza che accerta la sua nullità. La Corte è poi nuovamente intervenuta con la sent. 25.7.2014, n. 226, in cui ha sancito l’infondatezza della denunciata violazione della clausola di non regresso. I giudici della Consulta hanno precisato che la clausola 8.3 dell’accordo quadro del 18.3.1999, nell’interpretazione fornita dal giudice europeo (v. ordinanza Vino, p. 44), non preclude, al di fuori di tale ipotesi, «modifiche che possano essere ritenute peggiorative del trattamento dei lavoratori a tempo determinato, allorché attraverso di esse il legislatore persegua obiettivi diversi dalla attuazione dell’accordo quadro». Su tali questioni v. Zappalà, L., La Consulta e la ponderazione degli interessi nel contratto a termine: stabilizzazione versus indennità risarcitoria forfettizzata, in Riv. it. dir. lav., 2012, I, 274.
31 Questa disciplina restrittiva dell’impugnazione del contratto, che prevede un doppio onere a pena di decadenza entro termini più brevi da quelli previsti dall’ordinaria prescrizione, è stata introdotta dalla l.28.6.2012,n.92 e successivamente confermata. Sul punto v. Costa, D.Tiraboschi, M., La riforma del contratto a tempo determinato, op. cit., 105 ss.
32 Riprende, in questo senso, le modifiche introdotte dalla l. n. 92/2012 (legge “Fornero”) che aveva previsto la possibilità, in precedenza esclusa, di un primo contratto della durata di un anno anche senza ragione giustificatrice. Su questa riforma v. Costa, D.Tiraboschi, M., La riforma del contratto a tempo determinato, op. cit.