La nuova disciplina della colpa medica
La l. 8.3.2017, n. 24 (cd. legge GelliBianco), accolta con grande entusiasmo dalla classe medica, ridisegna, a meno di cinque anni dalla legge Balduzzi, lo statuto della colpa penale in ambito sanitario.
La nuova fisionomia della responsabilità colposa del medico si fonda ora su una dettagliata disciplina delle linee guida all’interno delle quali individuare le raccomandazioni tendenzialmente vincolanti per gli esercenti le professioni sanitarie e sull’introduzione, nel codice penale, di un nuovo articolo, concernente la «responsabilità colposa per morte o per lesioni personali in ambito sanitario» (art. 590 sexies c.p.), improntato all’eliminazione della gradazione della colpa e alla limitazione alla sola condotta imperita, rispettosa di adeguate linee guida, della non punibilità.
Con l’entrata in vigore della l. 8.3.2017, n. 24, recante «Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie», giunge a compimento, a poco più di quattro anni dal precedente intervento legislativo, il percorso di (ulteriore) riforma della responsabilità penale degli operatori sanitari. Si tratta di un provvedimento di estrema importanza, che affronta vari temi, tra i quali la sicurezza delle cure e del rischio sanitario, la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria e della struttura sanitaria pubblica o privata, le modalità e caratteristiche dei procedimenti giudiziari aventi ad oggetto la responsabilità medica, l’obbligo di assicurazione e l’istituzione del Fondo di garanzia per i soggetti danneggiati. Tra i molti spunti che, in termini generali, la nuova legge offre, e che spaziano dal fronte civilistico a quello amministrativo-contabile, l’attenzione, nell’economia delle presenti riflessioni, sarà focalizzata sul versante penalistico e dunque sugli artt. 5 e 6, rispettivamente dedicati alle «buone pratiche clinico-assistenziali e raccomandazioni previste dalle linee guida» e alla «responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria»1. Senza peraltro tralasciare l’importanza rivestita, quantomeno sul piano simbolico, dall’art. 1, che espressamente richiama la «sicurezza delle cure in sanità» quale «parte costitutiva del diritto alla salute», «perseguita nell’interesse dell’individuo e della collettività» anche attraverso tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie e l’impiego appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative.
Per comprendere e valutare a pieno portata e conseguenze dell’intervento normativo, occorre inevitabilmente richiamare il contesto nel quale esso si colloca e in particolare i più significativi risvolti problematici palesati dalla legge Balduzzi; ciò, in considerazione del fatto che l’istanza riformistica nasce col precipuo obiettivo di realizzare ciò che non è riuscito nel 2012, e cioè arginare il fenomeno della cd. medicina difensiva offrendo punti di riferimento in grado, ex ante, di tranquillizzare i medici nella quotidiana pratica clinica e di orientare, ex post, i giudici nella valutazione dei loro comportamenti. In quest’ottica, ricordato come, ai sensi dell’art. 3, co. 1, della l. 8.11.2012, n. 189, la responsabilità del medico che si fosse attenuto a linee guida e buone pratiche poteva essere affermata solo per colpa grave, quando cioè fosse stata disattesa la necessità di discostarsi da tali fonti, nonostante essa, in ragione della peculiare situazione clinica del malato, fosse macroscopica, immediatamente riconoscibile da qualunque altro sanitario al posto dell’imputato2, è dai fattori critici emersi nell’applicazione che si deve partire. Questi, in estrema sintesi, sono riconducibili:
a) ai limiti delle fonti individuate (linee guida e buone pratiche accreditate) rispetto alla valutazione del comportamento del medico, con riferimento al grado di vincolatività da poter attribuire loro, in considerazione della natura, del livello di affidabilità, dell’idoneità cautelare e della capacità di poter contemplare le molteplici peculiarità e sfumature del caso concreto;
b) alla difficile definizione di un concetto penalmente rilevante di colpa grave;
c) alle oscillazioni in merito all’applicabilità del canone della colpa grave esclusivamente a condotte mediche connotate, pur nel rispetto di linee guida e buone pratiche, da imperizia ovvero anche da negligenza e imprudenza;
d) ai dubbi di legittimità costituzionale di un’esclusione di responsabilità per colpa lieve per il solo settore sanitario, al cospetto di molte altre attività socialmente utili, particolarmente complesse e potenzialmente pericolose (dubbi fatti propri dal Tribunale di Milano con l’ordinanza 21.3.20133 ed elusi dalla Corte costituzionale nell’ordinanza 6.12.2013, n. 2954).
Su tali premesse, si è animata l’istanza riformista, tradottasi, in sede parlamentare, in un intervento fondato su una dettagliata disciplina delle linee guida all’interno delle quali individuare le raccomandazioni tendenzialmente vincolanti per gli esercenti le professioni sanitarie e sull’introduzione, nel codice penale, di un nuovo articolo, concernente la «responsabilità colposa per morte o per lesioni personali in ambito sanitario» (art. 590 sexies c.p.).
Nel dettaglio, all’art. 5 si prevede che «gli esercenti le professioni sanitarie, nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 ed elaborate da enti ed istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnicoscientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco, istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge e da aggiornare con cadenza biennale. In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali». Con la precisazione, contenuta al terzo comma, che tali linee guida devono essere integrate nel sistema nazionale per le linee guida e pubblicate nel sito internet dell’Istituto superiore di sanità, previa verifica sia della conformità della metodologia adottata a standard definiti e resi pubblici dallo stesso Istituto sia della rilevanza delle evidenze scientifiche dichiarate a supporto delle raccomandazioni. In sostanza, è stata contemplata un’analitica disciplina dei requisiti formali delle linee guida – integrate nel sistema nazionale per le linee guida e pubblicate nel sito internet dell’Istituto superiore di sanità – all’interno delle quali enucleare raccomandazioni tendenzialmente vincolanti, ed è stato attribuito il compito di elaborarle ad enti e istituzioni di natura pubblica e privata, nonché alle società scientifiche e alle associazioni tecnicoscientifiche delle professioni sanitarie, iscritte in un apposito elenco. Sul punto, tra gli aspetti da valutare con favore, va annoverato lo sforzo di tipizzare le fonti di riferimento per gli esercenti le professioni sanitarie (ma anche, di riflesso, per i giudici): ci si dovrà di conseguenza conformare solo alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi della legge e soprattutto elaborate da soggetti, per così dire, “accreditati”. Avere sottratto al singolo medico (ma anche al giudice) il vaglio preventivo di credibilità e affidabilità delle fonti cui doversi attenere rappresenta uno sforzo apprezzabile, tenuto conto delle ben note obiezioni relative al numero elevato di linee guida elaborate dalle svariate società scientifiche che intervengono, sovente su posizioni contrapposte, nei singoli ambiti di competenza, alimentando il timore di scelte postume, e cioè di una selezione ex post delle fonti per giustificare, anzitutto in sede processuale, la condotta medica. Per tale via potrà pure ridimensionarsi il timore che, da un lato, le stesse – in assenza di rigidi e formalizzati criteri selettivi – promanino da associazioni o società scientifiche la cui affidabilità non è sempre dimostrabile in termini di certezza e coerenza, e, dall’altro, che le distorsioni legate ai frequenti e irriducibili contrasti tra scuole e società scientifiche nei medesimi settori di competenza si traducano nel proliferare di linee guida disomogenee, ambivalenti e talvolta persino antitetiche. Si potrà poi attenuare la risalente disputa sui possibili conflitti di interesse che legano ricercatori, editori e industrie (farmaceutiche in particolare) e l’incertezza di fondo circa le basi nosografiche in relazione alle quali vengono prodotte. Sul versante strettamente penalistico, la scelta agevola la conoscenza, prima che la condotta venga tenuta, del discrimine tra lecito e illecito e la fattispecie colposa ne guadagna in termini di determinatezza. Per giunta, trasmigrando tali fonti nell’ambito dell’eteronormazione (seppure non originaria, ma mediata dal procedimento di validazione ministeriale), si offrono argomenti per superare quel pregiudizio latente nella giurisprudenza, ricollegato all’originale coincidenza tra produttore e destinatario finale della regola, che porta il giudice a guardare con elevato tasso di scetticismo la loro (reale o potenziale) idoneità rispetto allo scopo di garantire la migliore cura per il paziente, in maniera non dissimile da quanto avviene, in altro ambito e su altri presupposti, con riferimento alla valutazione della portata esimente dei modelli organizzativi ai sensi del d.lgs. 8.6.2001, n. 231. A fronte di questi indubbi passi avanti, permangono tuttavia seri motivi di perplessità, legati ai criteri in base ai quali si perverrà – a livello amministrativo – all’accreditamento delle linee guida, al cui interno saranno contenute le raccomandazioni di riferimento, accompagnato al timore di una semplice traslazione dalla sede penale a quella amministrativa del contenzioso legato all’affidabilità scientifica di tali fonti. Permangono altresì intatte le riserve sulla reale adeguatezza di strumenti generali e astratti – come tali non in grado di calarsi nel quadro patologico e nelle molteplici sfumature del singolo paziente – a ergersi a paradigma d’imputazione colposa in sede penale, così come non può dirsi superato lo scoglio dell’effettiva natura cautelare delle regole ricavabili dalle buone pratiche e dalle raccomandazioni contenute nelle linee guida. Le ragioni dello scetticismo sono legate all’ontologica impossibilità di formalizzare cautele (che così divengono doverose) in settori – un caso emblematico è quello psichiatrico – insofferenti a forme di standardizzazione. L’effetto paradossale che un’implementazione acritica e formalistica della tipizzazione delle cautele sul “terreno minato” della medicina rischia di ingenerare è quello di garantire maggiormente il medico di fronte al rischio penale a discapito delle esigenze di migliore cura del paziente, che richiedono, invece, un fisiologico adattamento alle caratteristiche personali, alle circostanze del caso e a una valutazione clinica quanto più possibile individualizzata. Su tale profilo, va detto, il riferimento alle «specificità del caso concreto» – richiamate all’art. 5 e al secondo comma dell’art. 6 – può, almeno in parte, attenuare i timori. Non si può infatti non convenire con la scelta di “cristallizzare” il riferimento alle «specificità del caso concreto» e il relativo peso rispetto all’esigenza di discostarsi da regole predate. Si tratta, evidentemente, di quelle peculiarità del quadro clinico del singolo paziente – la cui imprescindibile considerazione era in qualche modo già emersa nell’applicazione della legge Balduzzi – che devono essere attentamente indagate dal sanitario e che, adeguatamente ponderate, possono indurlo a discostarsi dalle linee guida. L’effetto, pur a fronte degli aneliti a traghettare la responsabilità medica verso un modello di cd. colpa specifica, è quello di tenere aperta la porta ai tradizionali canoni di accertamento della colpa generica, riequilibrando il modello di medicina basata sulle evidenze, di cui le linee guida rappresentano il portato, valorizzando al contempo le peculiarità del paziente, sulla scia del percorso intrapreso dapprima dalla giurisprudenza pre-Balduzzi e quindi dal legislatore del 2012. La clausola di salvaguardia della necessaria ponderazione delle specificità del caso concreto consacra quanto ampiamente riconosciuto, e cioè che il rispetto di linee guida, raccomandazioni e buone pratiche non esime il medico dall’onere di fare di più: calare nel concreto l’asettica indicazione, vagliarne l’attendibilità e la rispondenza alle esigenze della specifica situazione patologica da fronteggiare, unitamente alle ulteriori istanze personalistiche del paziente5. V’è tuttavia da chiedersi se la scelta sia sufficiente a bilanciare il rafforzamento del peso delle fonti scritte e della limitazione alla sola imperizia nella fisionomia del nuovo art. 590 sexies c.p., e se, addirittura, non esponga al rischio opposto di ipervalorizzare il requisito, facendo ricadere su di esso l’intero peso del discrimine tra condotta medica – formalmente rispettosa delle linee guida – punibile o meno.
La novità più rilevante sul fronte penalistico è contenuta all’art. 6 della l. n. 24/2017 e consiste nell’introduzione nel codice penale di un nuovo articolo (590 sexies), a tenore del quale – al di là del richiamo del primo comma all’applicazione delle pene previste per i delitti di cui agli artt. 589 e 590 c.p. se i fatti ivi previsti sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria6 – «qualora l’evento si è verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto». Nella ridisegnata cornice della responsabilità, dunque, la punibilità è esclusa, senza più alcun riferimento testuale al fatto che si versi in colpa grave o lieve, qualora, nell’esercizio della professione sanitaria:
a) l’evento si sia verificato a causa d’imperizia;
b) siano state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida, come definite e pubblicate ai sensi di legge, ovvero, in mancanza, le buone pratiche clinicoassistenziali (le quali, dunque, assumono una posizione suppletiva nei confronti delle linee guida);
c) le raccomandazioni contenute nelle linee guida predette risultino adeguate alle specificità del caso concreto. Provando, in via preliminare, a sciogliere taluni nodi in merito al perimetro applicativo del nuovo art. 590 sexies, va subito notato come vada esclusa la punibilità anzitutto rispetto a quelle ipotesi di condotte imperite del medico nelle quali sia stata correttamente diagnosticata la patologia, altrettanto correttamente siano state selezionate linee guida (accreditate) riferibili alla terapia per quella patologia e il caso concreto non presenti peculiarità tali da costituire un’eccezione alla regola data. Si risponderà, invece, se le linee guida non erano adeguate al caso, potendo residuare, in questi termini, uno spazio di possibile rimprovero per imperizia, da commisurare all’errata valutazione delle specifiche condizioni cliniche del paziente, che avrebbero dovuto portare il medico a ritenere inadeguate le linee guida e dunque a non applicarle. Qualora l’evento sia riconducibile a una condotta connotata da negligenza o imprudenza, la norma non troverà applicazione e il medico sarà punibile sulla base dei tradizionali canoni di accertamento della colpa.
La quarta sezione penale della Cassazione7, muovendo dalla necessità di risolvere i primi problemi di diritto intertemporale innescati dalla novella, ha offerto in tempi rapidi un primo contributo chiarificatore su taluni punti “oscuri” della rinnovata colpa medica. Approfondendo i contorni applicativi della fattispecie, i giudici rilevano tratti di «ovvietà» accompagnati da una «incompatibilità logica»: da un lato, «non si comprende come potrebbe essere chiamato a rispondere di un evento lesivo l’autore che, avendo rispettato le raccomandazioni espresse da linee guida qualificate e pertinenti ed avendole in concreto attualizzate in un modo che «risulti adeguato» in rapporto alle contingenze del caso concreto, è evidentemente immune da colpa»; dall’altro, si coglie una «marcata incompatibilità logica» nel riferimento all’esclusione della punibilità nelle sole ipotesi in cui l’evento si sia verificato a causa di imperizia, giacché, a stretto rigore, «si è in colpa per imperizia ed al contempo non lo si è, visto che le codificate leges artis sono state rispettate ed applicate in modo pertinente ed appropriato … all’esito di un giudizio maturato alla stregua di tutte le contingenze fattuali rilevanti in ciascuna fattispecie» (§ 7).
Per uscire dall’impasse, una prima soluzione potrebbe essere quella di un’interpretazione letterale della fattispecie, che porti all’esclusione della punibilità del sanitario «che, pur avendo cagionato un evento lesivo a causa di comportamento rimproverabile per imperizia, in qualche momento della relazione terapeutica abbia comunque fatto applicazione di direttive qualificate; pure quando esse siano estranee al momento topico in cui l’imperizia lesiva si sia realizzata». Il riferimento sembra essere alla fase esecutiva dell’intervento terapeutico; il che trova conferma nell’esempio, proposto in sentenza, di un chirurgo che «imposta ed esegue l’atto di asportazione di una neoplasia addominale nel rispetto delle linee guida e, tuttavia, nel momento esecutivo, per un errore tanto enorme quanto drammatico, invece di recidere il peduncolo della neoformazione, taglia un’arteria con effetto letale» (§ 7). Senonché, secondo la Cassazione, in casi del genere «non può ritenersi che la condotta del sanitario sia non punibile per il solo fatto che le linee guida di fondo siano state rispettate». Una soluzione siffatta, oltre che vulnerare il diritto alla salute (art. 32 Cost.) e palesare seri dubbi di legittimità costituzionale, si porrebbe in contrasto con i principi che governano la responsabilità penale, a partire da quello di colpevolezza, declinato nelle ineludibili coordinate dell’accertamento colposo (prevedibilità ed evitabilità dell’evento e causalità della colpa) che non consentono «l’utilizzazione di direttive non pertinenti rispetto alla causazione dell’evento, non solo per affermare la responsabilità colpevole, ma neppure per escluderla» (§ 7.1). L’interpretazione letterale, «implicando un radicale esonero da responsabilità», rischierebbe di compromettere – anche sul versante civilistico, per le ricadute in termini di quantificazione del danno (§ 7.4) – il diritto alla salute tutelato all’art. 32 Cost., stabilendo un regime normativo «irrazionalmente diverso rispetto a quello di altre professioni altrettanto rischiose e difficili» (§ 7.3) e fortemente a rischio d’incostituzionalità. Preso atto dell’impraticabilità di tale soluzione, i giudici tracciano un itinerario alternativo, partendo dalle coordinate normative (in particolare dall’art. 5) e dalle finalità della legge GelliBianco in tema di linee guida. Richiamando le acquisizioni maturate con riferimento a queste ultime nell’ambito della legge Balduzzi, e ribadita la loro natura di «direttive di massima, che devono confrontarsi con le peculiarità di ciascuna situazione concreta, adattandovisi», si evidenzia la volontà del legislatore del 2017 «di costruire un sistema istituzionale, pubblicistico, di regolazione dell’attività sanitaria, che ne assicuri lo svolgimento in modo uniforme, appropriato, conforme ad evidenze scientifiche controllate», finalizzato a «superare le incertezze manifestatesi dopo l’introduzione della legge n. 189/2012 a proposito dei criteri per l’individuazione delle direttive scientificamente qualificate» (§ 7.5). Tutto ciò fa sorgere nel medico, tenuto ad attenersi alle raccomandazioni (sia pure con gli adattamenti propri di ciascuna fattispecie concreta), la coerente «pretesa a vedere giudicato il proprio comportamento alla stregua delle medesime direttive impostegli»; al contempo, contribuisce a chiarire il significato della nuova fattispecie incriminatrice, fornendo «un inedito inquadramento precettivo, focalizzato sulle modalità di svolgimento dell’attività sanitaria e di accertamento della colpa», che offre al giudice «precise indicazioni in ordine all’esercizio del giudizio di responsabilità» (§ 7.5). Dunque secondo i giudici di legittimità, ai fini del nuovo art. 590 sexies: a) occorrerà riferirsi ad eventi che costituiscono espressione di condotte governate da linee guida accreditate sulla base di quanto stabilito all’art. 5 ed appropriate rispetto al caso concreto, in assenza di plausibili ragioni che suggeriscano di discostarsene radicalmente (§ 8.1); b) le raccomandazioni generali dovranno essere «pertinenti alla fattispecie concreta», previo vaglio di adeguatezza, e cioè della loro corretta attualizzazione nello sviluppo della relazione terapeutica, con particolare riguardo alle contingenze del caso concreto (§ 8.2); c) non assumeranno rilevo condotte che, «sebbene poste in essere nell’ambito di relazione terapeutica governata da linee guida pertinenti ed appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo» (§ 8.3) ovvero siano connotate da negligenza o imprudenza e non da imperizia (§ 9). Il discorso è accompagnato dalla consapevolezza che «il catalogo delle linee guida non può esaurire del tutto i parametri di valutazione», ben potendo il terapeuta «invocare in qualche caso particolare quale metro di giudizio anche raccomandazioni, approdi scientifici che, sebbene non formalizzati nei modi previsti dalla legge, risultino di elevata qualificazione nella comunità scientifica, magari per effetto di studi non ancora recepiti dal sistema normativo di evidenza pubblica delle linee guida di cui al richiamato art. 5» (§ 10). Ribadendosi come la lettura proposta sia «l’unica possibile» – in grado di cogliere «il virtuoso impulso innovatore focalizzato sulla selezione e codificazione di raccomandazioni volte a regolare in modo aggiornato, uniforme, affidabile, l’esercizio dell’ars medica» e, al contempo, di «ancorare il giudizio di responsabilità penale e civile a costituti regolativi precostituiti, con indubbi vantaggi in termini di determinatezza delle regole e prevedibilità dei giudizi» (§ 10.1) – si precisa infine come essa non sia messa in discussione dal riferimento testuale all’osservanza delle linee guida quale «causa di esclusione della punibilità»; si ricorda anzi – attraverso un puntuale richiamo esemplificativo agli artt. 85 e 388 c.p. – come nel codice penale (e nella legislazione complementare) la medesima espressione sia riscontrabile «con significati diversi e non di rado atecnici, cioè non riconducibili alla sfera dell’esclusione della pena pur in presenza di un reato, per ragioni istituzionali, personali, di opportunità». E proprio nel caso della responsabilità medica «l’evocazione della punibilità va intesa come un atecnico riferimento al giudizio di responsabilità con riguardo alla parametrazione della colpa» (§ 10.1).
Compendiando gli approdi interpretativi, si esclude così che la nuova disciplina trovi applicazione:
i) negli ambiti che, per qualunque ragione, non siano governati da linee guida;
ii) nelle situazioni concrete nelle quali tali raccomandazioni debbano essere radicalmente disattese per via delle peculiarità della condizione del paziente o per qualunque altra ragione imposta da esigenze scientificamente qualificate;
iii) in relazione a quelle condotte che, sebbene poste in essere nell’ambito di approccio terapeutico regolato da linee guida pertinenti ed appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo. Quanto ai profili di diritto intertemporale, da un raffronto strutturale la legge Balduzzi – nell’elaborazione maturata nei pochi anni di vigenza – appare alla Cassazione di maggiore favore rispetto al nuovo art. 590 sexies c.p., quantomeno riguardo alla limitazione di responsabilità ai soli casi di colpa grave; di talché, la precedente disciplina, ove pertinente, troverà ancora applicazione, ex art. 2 c.p., rispetto ai fatti anteriori all’entrata in vigore della l. n. 24/2017 (1.4.2017), quale norma più favorevole (§ 11).
Ripercorsi i confini della fattispecie, occorre mettere in luce taluni fronti problematici che rimangono aperti. In primo luogo, non riconoscendosi alcuna presunzione assoluta d’irresponsabilità connessa all’applicazione delle linee guida, residua, per il giudice, un’ampia finestra discrezionale in ordine all’adeguatezza delle linee guida rispetto al caso concreto: il fulcro della punibilità, ancor più che in passato, finisce per essere affidato a una valutazione giudiziale autonoma, di “adeguatezza” delle raccomandazioni osservate alla specificità del caso concreto, con tutte le relative incertezze e in assenza di un esplicito binario gradualistico della colpa grave. Ancora, pur al cospetto della soppressione del riferimento al discusso grado della colpa, non è affatto certo che, nella sostanza, non sia comunque residuata – sul solo terreno dell’imperizia – un’implicita gradazione: si sia cioè ritagliato uno spazio di punibilità comunque legato a un’imperizia grave, con riferimento alle ipotesi di scelta inadeguata delle raccomandazioni contenute nelle linee guida accreditate ovvero addirittura alla mancata individuazione delle linee guida pertinenti, riservando, di contro, il beneficio della non punibilità alle ipotesi di imperizia non grave, invero residuali, nelle quali l’evento si sia verificato nonostante l’osservanza delle linee guida contenenti raccomandazioni ritenute in astratto adeguate al caso concreto. Risulta poi alquanto problematico il riferimento, nell’art. 590 sexies c.p., al rispetto, in via residuale, delle cd. buone pratiche clinico-assistenziali, a un parametro cioè che, a prima vista, sembra richiamare a pieno i tradizionali canoni della colpa generica per imperizia, vale a dire le regole cautelari desumibili dalle leges artis cui il medico-modello deve attenersi nell’esercizio della sua attività. Infine, circoscritta la limitazione di responsabilità alle sole condotte rispettose delle linee guida contenenti regole di perizia, in controtendenza rispetto alle aperture della più recente giurisprudenza di legittimità in relazione ai margini applicativi della legge Balduzzi8, è forte il rischio che, in virtù dell’estrema labilità del confine tra le varie ipotesi di colpa, si tendano a trasformare in chiave accusatoria casi di imperizia in imputazioni per negligenza e imprudenza, rispetto alle quali non valgono i profili di esenzione della responsabilità nelle ipotesi di ossequio alle linee guida. Per quanto riguarda nello specifico la valutazione sull’adeguatezza al caso concreto, va segnalato il timore che essa, anziché essere effettuata ex ante, finisca per essere attratta in un giudizio ex post, visto che il presupposto applicativo generale è che l’evento si sia verificato a causa di imperizia e dunque, dal punto di vista diagnostico-terapeutico, non si sia trattato di una scelta corretta (salvifica o curativa). La giurisprudenza, di fronte alla verificazione di un evento morte o lesioni “a causa di imperizia”, potrebbe infatti essere tentata di concludere sempre per l’inadeguatezza della scelta operata e dunque per la rimproverabilità della condotta. Per ristabilire le corrette coordinate della colpevolezza colposa, si dovrà sensibilizzare l’interprete a operare il giudizio di adeguatezza in una prospettiva rigorosamente ex ante, tenendo conto delle specifiche circostanze del caso concreto, conosciute o conoscibili dal medico curante all’atto della presa in carico del paziente, sulla base delle quali ha ritenuto la rispondenza delle linee guida. Resta il rischio, tuttavia, che si rievochi l’orientamento giurisprudenziale antecedente al 2012, nel quale il ruolo delle linee guida nella valutazione della responsabilità colposa appariva improntato a una cauta diffidenza, sul presupposto che è indubbio che esse contengano attendibili indicazioni riferibili al caso astratto, ma il medico è sempre tenuto a esercitare liberamente le proprie prerogative di scelta, vagliando le peculiari circostanze della vicenda concreta e discostandosi, se necessario, da regole cristallizzate in linee guida e protocolli. Pur superate attraverso la procedura di accreditamento e validazione riconosciuta dalla stessa legge le perplessità sull’affidabilità delle linee guida, spetta in ogni caso al giudice l’ultima parola, residuando a suo carico il compito di vagliarne l’adeguatezza, in concreto, alle esigenze e alle peculiarità del singolo paziente. Il che – seppure può apparire da un certo punto di vista convincente – vanifica (o quantomeno ridimensiona sensibilmente) lo sforzo di attribuire centralità (attraverso la validazione) alle linee guida e per tale via garantire maggiormente la classe medica.
Nel complesso, nonostante l’iniziale entusiasmo degli operatori sanitari, si fa strada l’impressione che il legislatore del 2017, troppo preoccupato di scongiurare interpretazioni giurisprudenziali discordanti e di superare, almeno sul piano formale, i punti critici della previgente disciplina, abbia creato più problemi di quanti ne abbia risolti. Tale giudizio è avvalorato dall’atteggiamento mostrato dalla Cassazione, la quale, forse condizionata dall’ansia di “salvare” la nuova fattispecie dai dubbi di legittimità costituzionale alimentati, sotto vari profili, da un’interpretazione letterale che depotenzierebbe il diritto alla salute, ha sposato una lettura “alternativa” talmente restrittiva da rendere problematica l’individuazione di un margine di applicabilità del nuovo articolo. Una volta esclusa l’ipotesi dell’errore esecutivo, è inevitabile chiedersi quali siano i residui ed effettivi spazi d’imperizia non punibile per il medico che si sia attenuto a linee guida “qualificate” e “adeguate” al caso concreto, prospettandosi una poco rassicurante alternativa tra un’interpretazione dell’art. 590 sexies c.p. costituzionalmente conforme ma sostanzialmente sterilizzante e un’interpretazione fedele al tenore letterale della norma e alla volontà di favore per la classe medica del legislatore (dunque estensibile alle ipotesi di errore esecutivo lieve) ma fortemente indiziata di incostituzionalità. Richiamando le righe conclusive della sentenza, una possibile strada per provare a «ricomporre i frammenti della disciplina» è quella dell’applicabilità, in ambito penale, dell’art. 2236 c.c., con particolare riferimento a quelle «situazioni tecnico scientifiche nuove, complesse o influenzate e rese più difficoltose dall’urgenza», che «implicano un diverso e più favorevole metro di valutazione» (§ 11.1). In queste circostanze, si precisa, il principio civilistico, che assegna rilevanza solo alla colpa grave, può continuare a trovare applicazione come «regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia, qualora il caso concreto imponga la soluzione di problemi di speciale difficoltà» (§ 11.1). Provando a dare concretezza all’assunto, va ribadito che ancora oggi l’osservanza delle raccomandazioni contenute nelle linee guida non basta, in termini generali, a rendere lecita una prassi medica e a escludere ogni possibile addebito per colpa, a fronte dell’esigenza di fare i conti col caso concreto, indagando l’attendibilità e la rispondenza di tali fonti predate alle esigenze della specifica situazione patologica da fronteggiare. Proprio in ciò, a ben vedere, risiede il giudizio di adeguatezza delle raccomandazioni contenute nelle linee guida accreditate rispetto al caso concreto; requisito che non potrà prescindere dal ricorso all’armamentario per l’accertamento della colpa generica. In questa prospettiva si può inquadrare anche l’esigenza di valorizzare quei contesti che per la loro difficoltà possono giustificare una valutazione “benevola” del comportamento del sanitario; se pure è innegabile che, in situazioni di particolare impellenza, il ricorso a linee guida già pronte possa essere di ausilio al sanitario chiamato a intervenire, è altresì inevitabile che la medesima condizione emergenziale possa incidere sulla capacità di valutazione dell’adeguatezza delle raccomandazioni contenute nelle linee guida rispetto alle peculiarità del caso concreto. Si tratta di un passaggio logico significativo, che torna a misurare la colpa medica sul “contesto”, al quale nell’interpretazione della nuova normativa va assegnato un ruolo oltre che sul versante della misura soggettiva della colpa (comunque da preferire rispetto al richiamo alla disciplina civilistica dell’art. 2236 c.c.) su un diverso piano: si apre la via a riconsiderare le ragioni di contesto/emergenza quale parametro di misurazione (anche) oggettiva della colpa sul fronte della valutazione della perizia del medico nel caso concreto oggetto di giudizio e su quello, altrettanto cruciale e collegato, del giudizio di rispondenza delle fonti predate alle peculiarità del caso concreto. Non v’è dubbio che anche questa soluzione, in definitiva, finisca per affidarsi alla giurisprudenza; alla discrezionalità del giudice è infatti rimessa – oltre alla qualificazione della condotta medica come imperita e al giudizio di adeguatezza delle linee guida – la prognosi sulla complessità del caso, potendo questi stabilire se applicare o no il criterio di razionalità di cui all’art. 2236 c.c., limitando la responsabilità del sanitario alle sole ipotesi di colpa grave. Ciò nonostante, a fronte delle perduranti difficoltà interpretative, proprio questa potrebbe essere la strada per attenuare la diffusa sensazione che il legislatore, nel delineare una presunzione relativa di non punibilità, abbia mancato l’obiettivo di garantire più certezze d’irresponsabilità, persino arretrando rispetto alle ultime acquisizioni della giurisprudenza maturate con riguardo alla legge Balduzzi, in termini di garanzia della classe medica e conseguentemente di effettiva e piena attuazione del diritto alla salute e di contrasto alla medicina difensiva; sensazione corroborata ancora una volta dalla giurisprudenza, che, riconoscendo la normativa previgente come più favorevole, ha già sancito, di fatto, il fallimento della riforma, con l’effetto che i medici, per essere “tranquillizzati”, potranno solo sperare di avere commesso i fatti prima dell’entrata in vigore della legge Gelli-Bianco.
1 Sulla novità legislativa, con differenti sfumature critiche, si vedano Poli, P.F., Il d.d.l. Gelli-Bianco: verso un’ennesima occasione persa di adeguamento della responsabilità penale del medico ai principi costituzionali?, in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 2; Piras, P., Imperitia sine culpa non datur. A proposito del nuovo art. 590 sexies c.p., in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 1.3.2017; Id., Il discreto invito della giurisprudenza a fare noi la riforma della colpa medica, in ivi, 4.7.2017; Caletti, G.M.Mattheudakis, M.L., Una prima lettura della legge “Gelli-Bianco” nella prospettiva del diritto penale, ivi, 9.3.2017; Iadecola, G., Qualche riflessione sulla nuova disciplina della colpa medica per imperizia nella legge 8 marzo 2017 n. 24 (legge cd Gelli-Bianco), ivi, 13.6.2017; Cupelli, C., La responsabilità penale degli operatori sanitari e le incerte novità della legge Gelli-Bianco, in Cass. pen., 2017, 1765 ss.; Centonze, F.Caputo, M., La risposta penale alla malpractice: il dedalo di interpretazioni disegnato dalla riforma Gelli-Bianco, in Riv. it. med. leg., 2016, 1361 ss.; De Francesco, G., In tema di dovere terapeutico, colpa medica, e recenti riforme, in www.legislazionepenale.eu, 2.5.2017; Risicato, L., Il nuovo statuto penale della colpa medica: un discutibile progresso nella valutazione della responsabilità del personale sanitario, ivi, 5.6.2017; D’Alessandro, F., La responsabilità penale del sanitario alla luce della riforma “Gelli-Bianco”, in Dir. pen. e processo, 2017, 573 ss.; Roiati, A., La colpa medica dopo la legge “Gelli-Bianco”: contraddizioni irrisolte, nuove prospettive ed eterni ritorni, in Arch. pen., 2017, fasc. 2; Salcuni, G., La colpa medica tra metonimia e sineddoche. La continuità tra il decreto Balduzzi e l’art. 590 sexies c.p., ibidem; Massaro, A., L’art. 590 sexies c.p., la colpa per imperizia del medico e la camicia di nesso dell’art. 2236 c.c., ivi, 3/2017; Caputo, M., La responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria dopo la l. n. 24 del 2017…”quo vadit”? Primi dubbi, prime risposte, secondi dubbi, in Danno e resp., 2017, 293 ss.; Di Giovine, O., Mondi veri e Mondi immaginari di Sanità, modelli epistemologici di medicina e sistemi penali, in Cass. pen., 2017, 2151 ss.; Pavich, G., La responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria: cosa cambia con la legge Gelli-Bianco, ibidem, 2961 ss.; Palma, A., Molto rumore per nulla: la legge Gelli-Bianco di riforma della responsabilità penale del medico, in Riv. it. med. leg., 2017, 523 ss.; Cembrani, F., Su alcuni snodi critici della legge ‘Gelli-Bianco’, ibidem, 873 ss.
2 Un aggiornato compendio su tale norma, da ultimo e per tutti, in Basile, F., Un itinerario giurisprudenziale sulla responsabilità medica colposa tra art. 2236 cod. civ. e legge Balduzzi (aspettando la riforma della riforma), in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 2; Blaiotta, R., voce Colpa grave e responsabilità penale del medico, in Libro dell’anno del Diritto 2016, Roma, 2016, 127 ss. e Cupelli, C., Colpa medica, in Libro dell’anno del Diritto 2017, Roma, 2017, 114 ss.
3 Trib. Milano, ord. 21.3.2013, in www.penalecontemporaneo.it, 29.3.2013.
4 C. cost., ord. 6.12.2013, n. 295, in www.penalecontemporaneo.it, 9.12.2013.
5 In giurisprudenza, è sufficiente richiamare le puntualizzazioni svolte in Cass. pen., sez. IV, 9.4.2013, n. 16237, in Cass. pen., 2013, 2984 ss.
6 Con riferimento all’ambito soggettivo di applicazione della riforma – e in particolare all’estensione della disciplina speciale a professionisti sanitari diversi dal medico – cfr. Caletti, G.M.Mattheudakis, M.L., Una prima lettura della legge “Gelli-Bianco” nella prospettiva del diritto penale, cit., 37 ss.
7 Cass. pen., sez. IV, 7.6.2017, n. 28187, in Riv. it. med. leg., 2017, 713 ss., con nota di Caputo, M., ‘Promossa con riserva’. La legge Gelli-Bianco passa l’esame della Cassazione e viene ‘rimandata a settembre’ per i decreti attuativi.
8 Tra le quali, in particolare, Cass. pen., sez. IV, 6.6.2016, n. 23283, in www.penalecontemporaneo.it, 26.6.2016, con nota di Cupelli, C., La colpa lieve del medico tra imprudenza, imperizia e negligenza: il passo avanti della Cassazione (e i rischi della riforma alle porte).